Tag Archivio per: Crepet

Gli esperti: macché patriarcato. Inascoltati

Stavolta il mantra «ce lo dice la scienza» non vale. Sembrava un dogma, tassativo e inconfutabile, avendoci accompagnato nelle ultime campagne comportamentali, nelle recenti ubriacature collettive, dalla pandemia al riscaldamento globale. Del resto, la scienza, medica o ecologica che sia, ha il compito di «supportare» il magistero del momento, si tratti della vaccinazione e delle restrizioni planetarie, dell’invasione buona delle auto elettriche o di «efficientare» le abitazioni. E invece no. Per la violenza contro le donne e i femminicidi il dogma si è sgretolato. Eppure, c’era da abbattere il patriarcato e con esso la famiglia tradizionale, composta da un padre e da una madre. Retaggi medievali incrollabili. Totem delle destre di tutte le latitudini. E dunque l’arsenale andava schierato al completo. Invece, tocca registrare la defezione dei competenti, gli esperti della materia, non solo restii ad allinearsi, ma fautori di un’interpretazione alternativa: le ragioni della violenza di genere risiedono nella solitudine, nel disagio giovanile, o adulto che sia, spesso intriso di narcisismo patologico. Torre di controllo, abbiamo un problema: che si fa? Niente; se psicanalisti, psicologi e psicoterapeuti smentiscono la narrazione preordinata, si fa finta di niente e si avanza imperterriti.

Da quando si scandagliano i fondali socio-psicologici dell’atroce assassinio della povera Giulia Cecchettin, i competenti della materia si esprimono a una sola voce: «Il patriarcato non c’entra». Proprio questo era il titolo dell’intervento di Massimo Ammaniti, uno dei maggiori psicoanalisti italiani, ospitato venerdì con qualche imbarazzo da Repubblica. Le violenze e le sopraffazioni maschili «non nascono oggi dal potere patriarcale, che le usava per legittimare la sua supremazia», scrive nascosto nelle pagine interne Ammaniti, «originano piuttosto dalla debolezza e dalla fragilità degli uomini, che sentendosi impotenti e impauriti per essere sopravanzati affettivamente e socialmente dalle donne, reagiscono con rabbia e odio». Stessa sorte capita due giorni dopo al più cool degli psicanalisti, Massimo Recalcati che alla giornalista di Repubblica che gli chiede se il crimine di Filippo Turetta sia «retaggio del patriarcato» o se sia più corretto parlare di «ferita narcisistica», risponde: «Il mito del nostro tempo è quello del successo individuale. Si tratta di un nuovo imperativo che rende impossibile l’esperienza del fallimento. Subire il rifiuto di una ragazza significa riconoscere i propri limiti (…) Per questo a volte il ricorso alla violenza sostituisce la dolorosa constatazione della propria insufficienza». Concetti chiari, quelli espressi da «uno dei più lucidi e autorevoli indagatori dell’animo umano», come recita la presentazione della collana di opere che il quotidiano sta testé pubblicando, ma che forse avrebbero cromaticamente stonato sotto l’«Onda fucsia», il titolo d’apertura del giornale che illustrava la manifestazione anti-patriarcato di sabato. Bel paradosso per un luminare, la scarsa visibilità. Non l’unico, nelle interpretazioni che si dibattono su questa tragica vicenda. Basta citare quello «nordico», così chiamato dal rapporto dell’Onu che non si capacita di come «nonostante siano leader mondiali in termini di uguaglianza di genere», i Paesi del Nord Europa presentano «tassi di violenza da partner intimo contro le donne sostanzialmente più alti della media Ue». Impossibile rassegnarsi, per le vestali turbofemministe di casa nostra. Impossibile accettare anche lo scenario prospettato dal filosofo Massimo Cacciari sulla Stampa: «La famiglia patriarcale è già defunta con la famiglia borghese, dove proprio la “patriarcalità” si sfascia in mille forme di incomunicabilità».

Tornando nell’alveo della psicologia, la materia che aiuta a riconoscere il pericolo di far coincidere il vivere con un rapporto amoroso, intervistato dal Corriere della Sera, il terapeuta dell’età giovanile Gustavo Pietropolli Charmet osserva che questo sortilegio trasforma il compagno in uno stalker. Quando si concretizza l’abbandono, «viene fuori non solo rabbia o malinconia, ma la disperazione di chi si sente definitivamente perduto. E, ai suoi occhi, la responsabile di ciò è la persona che aveva fatto il sortilegio e poi l’ha rotto». Pietropolli Charmet è solo l’ultima delle voci che contesta il ritornello sul patriarcato. Al Sussidiario.net Paolo Crepet, autore di Prendetevi la luna (Mondadori), aveva detto: «La teoria per cui non c’è da fidarsi perché noi maschi, siamo dei precursori delle violenze, se non degli assassini, mi sembra una teoria nazista: i nazisti ragionavano così, ovvero secondo genetica». Ancora più definitivo, lo psicanalista Claudio Risé sul nostro giornale: «Come si fa a vedere il patriarcato in un poveretto che fa un delitto confuso e pieno di errori, e finisce in un’autostrada senza benzina? Lui è un povero assassino, ma le autorità e i comunicatori che lo scambiano per un esempio di patriarcato non sanno di cosa parlano».

Già, le autorità e i comunicatori. Può succedere che, a volte, l’ideologia li renda sordi ai contributi della scienza. A volte.

«L’ansia degli studenti e la fine dei voti? Una furbata»

L’ultimo libro di Paolo Crepet, psichiatra e scrittore, s’intitola Prendetevi la luna (Mondadori). È un ponte gettato da un uomo di cultura, che ha vissuto decenni di sconvolgimenti e rivoluzioni, alle giovani generazioni in un momento in cui mostrano profondi segni di smarrimento.

Per prendersi la luna bisogna alzare lo sguardo: è preoccupato dal fatto che oggi i giovani guardano in basso o in orizzontale?

«Per prendersi la luna bisogna salire le scale, ma non con la scala mobile. Qualsiasi metodo accomodante è sbagliato. Nella ricerca della luna c’è la differenza di ognuno, ma alla fine dobbiamo metterci d’accordo su come fare le cose, su che mondo costruire».

I giovani guardano in basso allo smartphone o in orizzontale al pc, bacchette magiche moderne?

«Non vorrei dar loro troppa importanza. Per me sono elettrodomestici come un frigorifero. Si attaccano alla rete elettrica altrimenti si scaricano, e si usano quando c’è bisogno. Poi se si mette la dinamite nel frigorifero è un problema».

Quella che invita a prendere è la luna del Canto del pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi? «Spesso quand’io ti miro… dico fra me pensando… che vuol dire questa solitudine immensa? Ed io che sono?».

«È quella, naturalmente. Poi c’è anche uno sguardo collettivo alla luna. Invito a rispettare lo sguardo dell’uomo solo e anche lo sguardo di un popolo che cerca la sua verità. Ci sono entrambe».

Ritiene ci sia poco dialogo tra gli adulti e gli adolescenti di oggi?

«Da un certo punto di vista ce n’è troppo. Ciò che fa la differenza è la qualità del dialogo, basato su quali ruoli. Non c’è meno dialogo di una volta, parliamo di tutto e di tutti…».

Questi giovani sono più soli di quanto lo erano quelli degli anni Settanta e Ottanta?

«È quello che sto dicendo. Cosa vuol dire dialogo? Se è mettersi intorno a un tavolo, imbastire un discorso, una dialettica con una provocazione… sono contento. Invece sento un mucchio di parole banali».

In quei decenni i genitori erano autorevoli, i padri parlavano poco ma erano rispettati.

«Anche contestati. Non mi riferisco solo al Sessantotto e a quel mese di maggio… È una contestazione più ampia e coerente, con l’idea di cambiamento e di nuova vita che si voleva e si vuole affermare».

Scrive che il nuovo albero non si pianta vicino alla quercia.

«Soprattutto se si vuole che faccia frutti».

Uno degli obiettivi della società moderna è evitare il dolore e la fatica ai giovani?

«Intendiamoci su cosa significa dolore: la malattia va combattuta, e il dolore che comporta, lenito. Ma non c’è una morfina che possa eliminare i dolori dell’anima».

Ci sono gli psicofarmaci.

«Infatti. Ma certe questioni vanno affrontate e non spente nemmeno con uno psicofarmaco che ti riduce a un’ameba».

Il fatto che si parli molto di condivisione è un passo avanti tra giovani e adulti?

«La condivisione di per sé è una cosa giusta. Ma condividere non significa essere d’accordo tout court. Condivido una notizia, un sapere, poi ognuno ha la propria opinione. Se condividiamo una paura, un timore, per esempio sull’ambiente, condividiamo un problema, non necessariamente le soluzioni».

Una certa condivisione può essere livellatrice?

«Condividere un tema non significa condividerne lo svolgimento. Questa seconda parte l’abbiamo tagliata».

Spianando l’autorevolezza?

«Anche la complessità del pensiero. Condivido un argomento, ma quando ne parlo diventa complicato».

L’incomunicabilità fra generazioni è un fossato scavato dalla rivoluzione digitale?

«L’incomunicabilità c’è da decenni. Già negli anni Cinquanta si cominciò a dire che c’era qualcosa nel progresso che erodeva le nostre capacità di espressione emotiva. Si ricorda Deserto rosso di Michelangelo Antonioni? I social hanno registrato 40 anni dopo questo fenomeno».

La rivoluzione digitale l’ha acuito?

«L’ha acuito, non inventato. Non diamo medaglie a chi non se le merita».

Adolf Huxley da lei citato prevedeva una prigione nella quale «grazie al consumismo e al divertimento i prigionieri amano la loro schiavitù»: è lo scenario di dipendenza dagli smartphone, protesi dei nostri desideri e sentimenti?

«La stessa alienazione la produce l’ideologia. Jean-Paul Sartre aveva un pensiero sulle ideologie come galere convergente con le distopie di Huxley. È vero, i social dominano e sono ovunque, ma la ruota non l’hanno inventata loro».

A differenza delle ideologie coercitive, il divertimento dei social è un sedativo per tenerci nella prigione?

«Ho citato quell’espressione perché è attuale e intelligente. Ma oltre la demonizzazione cosa possiamo fare? Una battaglia ideologica contro i social? Le vere galere sono le ideologie. Se sei pro social appartieni a un’ideologia se sei contro a un’altra. Dobbiamo capire qual è il senso della vita che vogliamo costruire. Anch’io quando smetterò di parlare con lei guarderò i messaggi sul cellulare. Più che contrapporci ideologicamente, dobbiamo trovare una pragmatica esistenziale».

C’è una app a pagamento che contingenta il tempo giornaliero in Rete.

«Una app da terapia comportamentale. Ma il principio è la mia logica di vita. Se sto studiando una materia attraverso quello strumento devo poter continuare oltre. Se invece domani vado in montagna a camminare, utilizzo un centesimo del bonus».

Concorda con la proposta di regolamentare l’accesso alla Rete ai più giovani per impedire la visione dei siti porno maturata in seguito agli stupri in branco di minorenni?

«Da quando c’è la Rete, c’è il parental control ma nessuno lo attiva. Se i genitori non ci sono, chi controlla? Purtroppo non funziona il parental, non il control».

Da padre Maurizio Patriciello a Rocco Siffredi si vuole stringere la vite.

«A prescindere da chi lo propone, il problema è che l’accesso è sempre più precoce. Se avvenisse in gioventù me ne preoccuperei meno. La questione riguarda chi lo consente. Se ammetto che mia figlia di 13 anni esca vestita come se ne avesse 26 non esercito il mio ruolo di educatore. Da qui discende tutto il resto».

Perché nella scuola si è così preoccupati per l’ansia degli studenti?

«Secondo me si parla poco dell’ansia degli insegnanti e dei genitori. Parliamo dell’ultimo anello della catena, dovremmo parlare di quelli precedenti».

Rileva un difetto educativo?

«È evidente. Come mai tutta questa ansia nel 2023 e non nel 2018? Tutta colpa del Covid che oggi non c’è? Hanno l’ansia a scoppio ritardato?».

Si accusa la troppa pressione nelle università perché si è tornato a parlare di merito?

«Certo. Ce lo dicano gli studenti che protestano come fare. Togliamo i voti agli esami e diamo un giudizio? Non riesco a seguire questo discorso, mi sembra una furbata».

Cavalcata da grandi giornali che spingono per l’abolizione dei voti nei licei.

«Coerentemente quei grandi giornali dovrebbero mandare tutti a casa e assumere persone a caso. Dietro questa battaglia c’è l’uno uguale uno».

La dipendenza dalla Rete instaura processi di soddisfazione istantanei che disabituano all’impegno e alla concentrazione dello studio?

«La risposta è sì, ma il problema è un altro: questa roba tira e il mercato ha sempre ragione. Se la stoffa di un certo colore vende, anche se dico che è brutto a un certo punto mi arrendo. Nei miei libri e nelle mie conferenze continuo a mettere in guardia dall’invadenza della tecnologia. Se il mercato fosse succube del pensiero unico, i miei libri rimarrebbero invenduti e le mie conferenze andrebbero deserte».

Che cosa pensa del fatto che ragazzi che guadagnano milioni di euro giocando a calcio rischiano di rovinarsi con le scommesse?

«Penso che ci sia tanta ipocrisia. Che un calciatore guadagni mille volte più di un chirurgo l’abbiamo deciso noi. Ora non va più bene? Il campionato del mondo si è fatto nei Paesi arabi che hanno investito trilioni di dollari. Chi ha i soldi consuma. Pensavamo che i calciatori comprassero le opere di Italo Calvino? Sappiamo che macchina si comprano Ronaldo e Messi e dove vanno in vacanza d’estate. Idem degli attori di Hollywood. Noi veneriamo questo sistema perché ci guadagnano tutti, anche i giornali che ne scrivono».

Si pensava che la ludopatia fosse una patologia da sfigati.

«Macché. Vittorio De Sica ci ha lasciato delle fortune. Gascoigne era un alcolista. Stropicciamo gli occhi perché un calciatore del Milan ha giocato usando le società di betting le cui pubblicità riempiono gli intervalli delle partite. Mi si dica qual è la differenza tra una piattaforma che ha sede nei Paesi dove si pagano meno tasse, e come fa anche la Fiat, e una che si definisce legale».

Sono ragazzi che hanno realizzato il sogno del bambino, eppure…

«Non sono arrivati a niente. Sono bravissimi calciatori non ancora consacrati, che vivono nell’insicurezza».

Hanno bisogno di dosi sempre maggiori di adrenalina?

«Certo. Sono persone insicure che subiscono il mercato e che possono passare da una società all’altra. È un mondo precario. Con un valore, una classifica in evoluzione e manager spregiudicati…».

Ragazzi che possiedono tutto, ma non hanno il senso di questo tutto?

«Certo che gli manca il senso. Solo chi non li ha, pensa che i soldi diano la felicità. Quando cominci ad averne tanti capisci che non viene da lì. Si cerca di accumularli in tutti i modi possibili. Il ciabattino che non accumulava giocava la schedina».

Tornando a quei ragazzi siamo a ciò di cui parla Gesù nel Vangelo di Marco: «Che giova all’uomo conquistare il mondo se poi perde la propria anima?».

«Certo. Ma è una domanda che si poneva anche mio bisnonno. Da sempre c’è la ricerca di senso, non ce n’è una maggiore oggi. Chi ha vissuto con il comunismo o il nazismo si faceva questa domanda. È una domanda senza età».

Questi ragazzi rischiavano di perdersi pur avendo apparentemente tutto.

«È sul tutto che non siamo d’accordo. I soldi non sono tutto. È un moralismo al contrario. Siccome si hanno i miliardi non si deve temere nulla. Invece, chi ha i miliardi va al casinò, sniffa cocaina».

Per questi giovani l’età del narcisismo si sta rivoltando nell’età della solitudine?

«Il narcisismo è un fenomeno complesso. Spesso i suoi detrattori sono a loro volta narcisi. Nicolò Paganini era un grande narciso però… Poi sì, c’è anche il narcisismo distruttivo».

E può cangiare in solitudine?

«La solitudine fa compagnia all’uomo da quando è nato».

 

La Verità, 21 ottobre 2023

 

«L’Italia è un Paese in coma farmacologico»

Avete presente quel signore che indossa sempre maglioni sgargianti? «Sono nato tra i colori, avevo nonni pittori e artisti. E poi detesto le uniformi». Con Paolo Crepet, 69 anni, psichiatra e sociologo, misurato ospite di talk show, autore di Vulnerabili (Mondadori) e La fragilità del bene (Einaudi) viene tutto facile. Ci si saluta al telefono e ti inonda. «Io e l’università ci siamo lasciati consensualmente, sono un uomo libero, non subordinato. Non lo ero nemmeno con Franco Basaglia. Sempre stato inquieto, ma mia madre, anche se è morta giovane, ha potuto intuire che non tutto sarebbe andato male».

C’era il rischio?

«Ho sfiorato la droga e il terrorismo. Negli anni Settanta, bastava andare a una festa, ho visto come sono finiti alcuni amici. Con mio padre ho visto anche l’invasione dei carri armati sovietici a Praga. Sempre stato progressista e antifascista, ma per me quella violenza è uguale a quella praticata dal nazismo. Non c’è alcuna differenza, mentre per buona parte degli intellettuali italiani non è così. E si vede».

Chi è stato per lei Basaglia?

«Un eroe dei diritti dell’uomo, molto più che un luminare della psichiatria. Quando iniziai a lavorare c’era il dibattito per l’abolizione delle classi differenziali, poi quello per la chiusura dei manicomi. Oggi m’indigno quando vedo che l’indifferenza e il cinismo che giustificavano quelle situazioni non sono stati estirpati».

Dove li vede?

«La lunga reclusione domestica dei bambini avrà conseguenze pesanti. Tenerli davanti alla tv dieci ore al giorno è una tortura. Un bambino ha bisogno di giocare a pallone, di litigare con gli amici, di complicità. Maria Montessori o don Lorenzo Milani cosa direbbero del lockdown? Se si toglie la voce isolata di qualche psichiatra infantile c’è un silenzio preoccupante».

Lei è stato invitato a parlarne al Senato.

«Sì, qualche settimana fa, c’era anche Matteo Salvini. Ma è come se avessi parlato della Juventus che non vince il campionato. Sembravano tutti sponsorizzati da Acquascutum».

Cioè?

«Impermeabili. Ai politici, agli imprenditori, agli intellettuali non importa niente dei nostri ragazzi».

Anche agli intellettuali?

«A loro interessano i 12 che concorrono al Premio Strega. Capisce? Fossi stato l’organizzatore avrei dato un segnale di discontinuità. Invece si continua come in un anno qualsiasi. Accorarsi per lo Strega ora è come lucidare l’argenteria sotto i bombardamenti».

La responsabilità maggiore è della politica?

«Lei ha sentito qualcuno scusarsi con il popolo italiano come ha fatto la Merkel in Germania? Io ho chiesto le dimissioni del ministro Speranza che invece va avanti come se avesse sconfitto il Covid. Un anno fa vedendo i dati dei decessi nelle Rsa mi vergognavo di essere italiano. Adesso continuiamo a dare i vaccini ai trentenni o alle categorie professionali influenti».

Ha scritto un libro intitolato Vulnerabili: la vulnerabilità è la conseguenza della fragilità?

«No. La vulnerabilità è un talento. Ogni grande artista o genio è stato vulnerabile. Gli invulnerabili sono stati Hitler, Stalin e Mussolini».

Perché abbiamo bisogno di eventi tragici per riconoscere i nostri limiti?

«Siamo fisiologicamente egoisti, solo quando ci manca il pane ci svegliamo. È un bene che ci siano i dirupi, altrimenti non ci accorgiamo di niente».

I periodi di opulenza e progresso ci fanno sentire invincibili?

«Onnipotenti, immortali. Guardiamo i giovanotti che prendono lo spritz fregandosene di mascherine e distanze, sono imbecilli nati dal boom economico in poi. Ma la colpa non è tutta loro».

Non sanno cosa sia la sofferenza?

«Non l’hanno mai vissuta. I loro genitori pensano che educare sia togliere dolore».

Riduzione della mobilità, lavoro da remoto, diminuzione dei consumi sono formule della decrescita. L’uomo ne trae felicità o malinconia?

«Per me sono motivo di tristezza. Lo smart working è la più grande fregatura che la Silicon valley poteva regalarci. Credo che quello che ci può salvare, la via d’uscita, sia una maggiore sobrietà».

Come definirebbe la società del lockdown?

«È una via crucis che produce due tipi di comportamento. Da una parte la rabbia, anche sociale, che chi governa dovrebbe studiare in modo approfondito, dall’altra l’immobilità. Perché la paura può produrre una creatività straordinaria, ma può anche paralizzare come il veleno di un serpente».

Qual è il sentimento che ha sostituito i balconi canterini e gli slogan ottimisti?

«L’angoscia. Quando finirà la battaglia dei vaccini – siamo i più lenti d’Europa –  si concretizzerà l’angoscia per la situazione economica. Ora siamo in coma farmacologico: ci somministrano le elemosine, i sostegni, la cassa integrazione, sospendono i mutui. Ma tutto questo finirà. Non so se a settembre Unicredit sarà ancora compassionevole».

Che cosa prevede?

«Dovremo fare i conti con 10 milioni di non dipendenti statali. Si rischierà la guerra civile tra i garantiti, gli insegnanti, gli impiegati dei ministeri e dei comuni, e tutti gli altri».

La pandemia ha creato nuove patologie?

«In generale no. Sono aumentate quelle che c’erano già, depressione, diminuzione dell’autostima, ansia, stati di panico, insonnia, calo della libido».

E nello specifico?

«Sono patologie derivate dall’enorme quantità di ore che passiamo davanti allo schermo per la didattica a distanza, lo smart working, le esigenze private. Ci sono ragazzi che trascorrono anche 10 ore davanti al pc. Già prima del Covid abbiamo conosciuto il fenomeno degli hikikomori. Oggi questa sindrome si chiama online brain e definisce il cervello che funziona in rapporto a uno schermo».

Che sintomi ha?

«Simili alla demenza: perdita di memoria breve, incapacità a concentrarsi, mal di testa, irritabilità, difficoltà a relazionarsi. È una patologia che durerà più della pandemia. Con i vaccini i sintomi del Covid finiranno, invece queste sindromi non cesseranno se non cambieremo il sistema di funzionamento della scuola e del mondo del lavoro».

Perché scrive che dove non è arrivato il virus arriva un male peggiore come la paura?

«Ci sono persone che non escono di casa anche se non hanno il virus. È uno stato d’ansia collettivo, la paura di ciò che si potrebbe subire. Riducendo la nostra vita si riducono enormemente gli stimoli cerebrali. Questo spiega meglio anche la demenza da eccesso di tecnologia».

Dando informazioni non stimola il nostro cervello?

«A chi produce tecnologia non interessa ciò che facciamo dopo che riceviamo le informazioni».

Però ci profila con gli algoritmi.

«E la nostra creatività è morta. Non a caso quando è nato il pc si chiamava terminale. Per i giganti dell’hi-tech il computer è il capolinea, il fine corsa».

Perché in una recente intervista al Mattino di Padova dopo il raid di una baby gang in una multisala ha preconizzato un’estate di scorribande?

«Se si apre il recinto delle pecore non succede niente perché sono mansuete e il cane pastore le tiene in fila. Speriamo tutti di poter andare a mangiare un piatto di spaghetti al mare, ma è evidente che una parte della popolazione da mesi è schiacciata come una molla e ora è pronta a scattare. L’abbiamo già visto l’anno scorso, temo che sarà peggio».

Un autorevole studio di epidemiologi, biologi e statistici prova che la scuola in presenza non trasmette contagi, eppure si continua ad adottare la dad. Con quali conseguenze?

«Devastanti anche a livello affettivo e relazionale, oltre che cognitivo. Un bambino che da un anno non può abbracciare o fare la lotta con gli amici subisce un danno grave. La notizia di quella ricerca produce sgomento in chi, come me e altri studiosi, ha dato l’allarme da mesi. Purtroppo non solo il ministro della Salute, ma anche la comunità scientifica ha dimostrato tutti i suoi limiti».

Virologi ed epidemiologi sono i nuovi oracoli.

«Commentano i bollettini quotidiani analizzando le cellule. Come se non esistessero le emozioni. Nel Comitato tecnico scientifico non sono presenti studiosi della mente e dell’anima».

Un amico mi ha raccontato che suo figlio iscritto alla prima liceo dove si studia in dad prende tutti 2, mentre alle medie aveva la media del 9.

«Non mi sorprende, è un caso che vale come esperimento sociale. Pensi, in proposito, al capolavoro di uno dei maggiori editori italiani che ha avviato un’iniziativa per regalare un tablet a tutti i bambini italiani».

Perché è un errore concentrarsi sugli eccessi dei giovani?

«Perché sono cuccioli di gorilla. Mal educati o non educati».

Deficit di educazione, responsabilità degli adulti?

«Lo segnalo da 30 anni, ho anche creato una Scuola per genitori che ha 36 sedi in tutta Italia. Il deficit di educazione ha ricadute economiche devastanti».

Per esempio?

«Giovani che non studiano come potranno prendere sulle spalle le aziende create dai padri e dai nonni? O le venderanno o le chiuderanno. È una generazione di mantenuti che vivrà grazie all’eredità».

O ai sussidi.

«Com’era quota cento che Mario Draghi ha deciso di togliere e Salvini ha potuto solo incassare. Presto toglieranno anche il reddito di cittadinanza. Credo non ci sia provvedimento più diseducativo che dare del denaro a chi non fa niente».

Cosa pensa delle risse organizzate via social?

«Sono sintomo d’impotenza. Non potendo pensare un progetto di vita, si sfoga la propria aggressività contro il mondo dando botte da orbi, come si diceva una volta. L’orbo è il miope che non vede il futuro».

La stranezza è che sono organizzate.

«È consolatorio sapere che ci sono tanti orbi. Chi ha un’idea, una passione, è da un’altra parte. Un ragazzo che studia per laurearsi non va ad ammazzarsi di botte in piazza».

Come sarà la nostra vita dopo la pandemia?

«Ne scriverò nel prossimo libro che uscirà il 18 maggio da Mondadori e s’intitolerà Oltre la tempesta. Non si potrà fare il copia incolla del 2019, ma non ce lo dicono perché altrimenti cresce l’ansia. Resteranno quote consistenti di vita digitale, mi auguro non eccessive. Provi a immaginare uno scenario che sommi smart working, intelligenza artificiale e robotizzazione e mi dica cosa vede».

Oltre a lavarci le mani e indossare le mascherine, tutti abbiamo un antivirus personale: qual è il suo?

«Scrivo».

 

La Verità, 27 marzo 2021