«L’ansia degli studenti e la fine dei voti? Una furbata»

L’ultimo libro di Paolo Crepet, psichiatra e scrittore, s’intitola Prendetevi la luna (Mondadori). È un ponte gettato da un uomo di cultura, che ha vissuto decenni di sconvolgimenti e rivoluzioni, alle giovani generazioni in un momento in cui mostrano profondi segni di smarrimento.

Per prendersi la luna bisogna alzare lo sguardo: è preoccupato dal fatto che oggi i giovani guardano in basso o in orizzontale?

«Per prendersi la luna bisogna salire le scale, ma non con la scala mobile. Qualsiasi metodo accomodante è sbagliato. Nella ricerca della luna c’è la differenza di ognuno, ma alla fine dobbiamo metterci d’accordo su come fare le cose, su che mondo costruire».

I giovani guardano in basso allo smartphone o in orizzontale al pc, bacchette magiche moderne?

«Non vorrei dar loro troppa importanza. Per me sono elettrodomestici come un frigorifero. Si attaccano alla rete elettrica altrimenti si scaricano, e si usano quando c’è bisogno. Poi se si mette la dinamite nel frigorifero è un problema».

Quella che invita a prendere è la luna del Canto del pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi? «Spesso quand’io ti miro… dico fra me pensando… che vuol dire questa solitudine immensa? Ed io che sono?».

«È quella, naturalmente. Poi c’è anche uno sguardo collettivo alla luna. Invito a rispettare lo sguardo dell’uomo solo e anche lo sguardo di un popolo che cerca la sua verità. Ci sono entrambe».

Ritiene ci sia poco dialogo tra gli adulti e gli adolescenti di oggi?

«Da un certo punto di vista ce n’è troppo. Ciò che fa la differenza è la qualità del dialogo, basato su quali ruoli. Non c’è meno dialogo di una volta, parliamo di tutto e di tutti…».

Questi giovani sono più soli di quanto lo erano quelli degli anni Settanta e Ottanta?

«È quello che sto dicendo. Cosa vuol dire dialogo? Se è mettersi intorno a un tavolo, imbastire un discorso, una dialettica con una provocazione… sono contento. Invece sento un mucchio di parole banali».

In quei decenni i genitori erano autorevoli, i padri parlavano poco ma erano rispettati.

«Anche contestati. Non mi riferisco solo al Sessantotto e a quel mese di maggio… È una contestazione più ampia e coerente, con l’idea di cambiamento e di nuova vita che si voleva e si vuole affermare».

Scrive che il nuovo albero non si pianta vicino alla quercia.

«Soprattutto se si vuole che faccia frutti».

Uno degli obiettivi della società moderna è evitare il dolore e la fatica ai giovani?

«Intendiamoci su cosa significa dolore: la malattia va combattuta, e il dolore che comporta, lenito. Ma non c’è una morfina che possa eliminare i dolori dell’anima».

Ci sono gli psicofarmaci.

«Infatti. Ma certe questioni vanno affrontate e non spente nemmeno con uno psicofarmaco che ti riduce a un’ameba».

Il fatto che si parli molto di condivisione è un passo avanti tra giovani e adulti?

«La condivisione di per sé è una cosa giusta. Ma condividere non significa essere d’accordo tout court. Condivido una notizia, un sapere, poi ognuno ha la propria opinione. Se condividiamo una paura, un timore, per esempio sull’ambiente, condividiamo un problema, non necessariamente le soluzioni».

Una certa condivisione può essere livellatrice?

«Condividere un tema non significa condividerne lo svolgimento. Questa seconda parte l’abbiamo tagliata».

Spianando l’autorevolezza?

«Anche la complessità del pensiero. Condivido un argomento, ma quando ne parlo diventa complicato».

L’incomunicabilità fra generazioni è un fossato scavato dalla rivoluzione digitale?

«L’incomunicabilità c’è da decenni. Già negli anni Cinquanta si cominciò a dire che c’era qualcosa nel progresso che erodeva le nostre capacità di espressione emotiva. Si ricorda Deserto rosso di Michelangelo Antonioni? I social hanno registrato 40 anni dopo questo fenomeno».

La rivoluzione digitale l’ha acuito?

«L’ha acuito, non inventato. Non diamo medaglie a chi non se le merita».

Adolf Huxley da lei citato prevedeva una prigione nella quale «grazie al consumismo e al divertimento i prigionieri amano la loro schiavitù»: è lo scenario di dipendenza dagli smartphone, protesi dei nostri desideri e sentimenti?

«La stessa alienazione la produce l’ideologia. Jean-Paul Sartre aveva un pensiero sulle ideologie come galere convergente con le distopie di Huxley. È vero, i social dominano e sono ovunque, ma la ruota non l’hanno inventata loro».

A differenza delle ideologie coercitive, il divertimento dei social è un sedativo per tenerci nella prigione?

«Ho citato quell’espressione perché è attuale e intelligente. Ma oltre la demonizzazione cosa possiamo fare? Una battaglia ideologica contro i social? Le vere galere sono le ideologie. Se sei pro social appartieni a un’ideologia se sei contro a un’altra. Dobbiamo capire qual è il senso della vita che vogliamo costruire. Anch’io quando smetterò di parlare con lei guarderò i messaggi sul cellulare. Più che contrapporci ideologicamente, dobbiamo trovare una pragmatica esistenziale».

C’è una app a pagamento che contingenta il tempo giornaliero in Rete.

«Una app da terapia comportamentale. Ma il principio è la mia logica di vita. Se sto studiando una materia attraverso quello strumento devo poter continuare oltre. Se invece domani vado in montagna a camminare, utilizzo un centesimo del bonus».

Concorda con la proposta di regolamentare l’accesso alla Rete ai più giovani per impedire la visione dei siti porno maturata in seguito agli stupri in branco di minorenni?

«Da quando c’è la Rete, c’è il parental control ma nessuno lo attiva. Se i genitori non ci sono, chi controlla? Purtroppo non funziona il parental, non il control».

Da padre Maurizio Patriciello a Rocco Siffredi si vuole stringere la vite.

«A prescindere da chi lo propone, il problema è che l’accesso è sempre più precoce. Se avvenisse in gioventù me ne preoccuperei meno. La questione riguarda chi lo consente. Se ammetto che mia figlia di 13 anni esca vestita come se ne avesse 26 non esercito il mio ruolo di educatore. Da qui discende tutto il resto».

Perché nella scuola si è così preoccupati per l’ansia degli studenti?

«Secondo me si parla poco dell’ansia degli insegnanti e dei genitori. Parliamo dell’ultimo anello della catena, dovremmo parlare di quelli precedenti».

Rileva un difetto educativo?

«È evidente. Come mai tutta questa ansia nel 2023 e non nel 2018? Tutta colpa del Covid che oggi non c’è? Hanno l’ansia a scoppio ritardato?».

Si accusa la troppa pressione nelle università perché si è tornato a parlare di merito?

«Certo. Ce lo dicano gli studenti che protestano come fare. Togliamo i voti agli esami e diamo un giudizio? Non riesco a seguire questo discorso, mi sembra una furbata».

Cavalcata da grandi giornali che spingono per l’abolizione dei voti nei licei.

«Coerentemente quei grandi giornali dovrebbero mandare tutti a casa e assumere persone a caso. Dietro questa battaglia c’è l’uno uguale uno».

La dipendenza dalla Rete instaura processi di soddisfazione istantanei che disabituano all’impegno e alla concentrazione dello studio?

«La risposta è sì, ma il problema è un altro: questa roba tira e il mercato ha sempre ragione. Se la stoffa di un certo colore vende, anche se dico che è brutto a un certo punto mi arrendo. Nei miei libri e nelle mie conferenze continuo a mettere in guardia dall’invadenza della tecnologia. Se il mercato fosse succube del pensiero unico, i miei libri rimarrebbero invenduti e le mie conferenze andrebbero deserte».

Che cosa pensa del fatto che ragazzi che guadagnano milioni di euro giocando a calcio rischiano di rovinarsi con le scommesse?

«Penso che ci sia tanta ipocrisia. Che un calciatore guadagni mille volte più di un chirurgo l’abbiamo deciso noi. Ora non va più bene? Il campionato del mondo si è fatto nei Paesi arabi che hanno investito trilioni di dollari. Chi ha i soldi consuma. Pensavamo che i calciatori comprassero le opere di Italo Calvino? Sappiamo che macchina si comprano Ronaldo e Messi e dove vanno in vacanza d’estate. Idem degli attori di Hollywood. Noi veneriamo questo sistema perché ci guadagnano tutti, anche i giornali che ne scrivono».

Si pensava che la ludopatia fosse una patologia da sfigati.

«Macché. Vittorio De Sica ci ha lasciato delle fortune. Gascoigne era un alcolista. Stropicciamo gli occhi perché un calciatore del Milan ha giocato usando le società di betting le cui pubblicità riempiono gli intervalli delle partite. Mi si dica qual è la differenza tra una piattaforma che ha sede nei Paesi dove si pagano meno tasse, e come fa anche la Fiat, e una che si definisce legale».

Sono ragazzi che hanno realizzato il sogno del bambino, eppure…

«Non sono arrivati a niente. Sono bravissimi calciatori non ancora consacrati, che vivono nell’insicurezza».

Hanno bisogno di dosi sempre maggiori di adrenalina?

«Certo. Sono persone insicure che subiscono il mercato e che possono passare da una società all’altra. È un mondo precario. Con un valore, una classifica in evoluzione e manager spregiudicati…».

Ragazzi che possiedono tutto, ma non hanno il senso di questo tutto?

«Certo che gli manca il senso. Solo chi non li ha, pensa che i soldi diano la felicità. Quando cominci ad averne tanti capisci che non viene da lì. Si cerca di accumularli in tutti i modi possibili. Il ciabattino che non accumulava giocava la schedina».

Tornando a quei ragazzi siamo a ciò di cui parla Gesù nel Vangelo di Marco: «Che giova all’uomo conquistare il mondo se poi perde la propria anima?».

«Certo. Ma è una domanda che si poneva anche mio bisnonno. Da sempre c’è la ricerca di senso, non ce n’è una maggiore oggi. Chi ha vissuto con il comunismo o il nazismo si faceva questa domanda. È una domanda senza età».

Questi ragazzi rischiavano di perdersi pur avendo apparentemente tutto.

«È sul tutto che non siamo d’accordo. I soldi non sono tutto. È un moralismo al contrario. Siccome si hanno i miliardi non si deve temere nulla. Invece, chi ha i miliardi va al casinò, sniffa cocaina».

Per questi giovani l’età del narcisismo si sta rivoltando nell’età della solitudine?

«Il narcisismo è un fenomeno complesso. Spesso i suoi detrattori sono a loro volta narcisi. Nicolò Paganini era un grande narciso però… Poi sì, c’è anche il narcisismo distruttivo».

E può cangiare in solitudine?

«La solitudine fa compagnia all’uomo da quando è nato».

 

La Verità, 21 ottobre 2023