Tag Archivio per: D’Agostino

Verdone nel vortice dei folli senza centro di gravità

La terza stagione di Vita da Carlo, da qualche giorno disponibile su Paramount+, radicalizza le scelte migliori delle due precedenti. Stavolta, dopo aver rinunciato a fare il sindaco di Roma e a dirigere finalmente un film d’autore, Carlo Verdone accetta di dirigere e condurre il Festival di Sanremo. Idea che paga lo scotto alla prevedibilità e all’overdose di promozione dell’evento reale cosicché ci vogliono un paio di episodi per superare l’iniziale scetticismo. I tentativi di Roberto D’Agostino e del super manager Thomas (Giovanni Esposito) di dissuadere Carlo dall’accettare una sfida tanto impervia s’infrangono con la sua voglia di mettersi in gioco e soprattuto con la sua incapacità a dire di no. Anche in famiglia sono perplessi, ma sebbene tutti gli vogliano bene, un po’ se n’approfittano, come si dice. E allora il nostro eroe antieroe, il motore immobile della giostra, il centro del frullatore, assediato da improbabili richieste, precipita nel vortice delle fissazioni della varia umanità che lo circonda.

La genialità della sitcom è mettere in scena le perversioni quotidiane del nostro tempo, la ludopatia, il complottismo, la mercificazione del sesso, la militanza ambientalista, il politicamente corretto: circostanze che assolutizzano un particolare dimenticando il tutto, rappresentate da un campionario di sciroccati privo di centro di gravità nel quale c’è posto anche per la presa in giro degli autori e dei giornalisti tv. Ma lo fa con mano leggera e sguardo privo di moralismi, volto a evidenziare la vera vittima della situazione, quel buon senso che, a fatica e senza risparmiare in generosità, Carlo tenta di ripristinare, non sempre riuscendoci. Perché, alla fine, insieme al buon senso, la vera vittima è lui stesso, prigioniero della sua bonarietà. La trama è così ben definita che, nei dieci episodi di venti minuti l’uno, c’è spazio anche per il racconto per sole immagini o per dialoghi efficaci grazie alla scrittura e alle molte partecipazioni di star nel ruolo di loro stessi, da Maccio Capatonda a Ema Stokholma, da Gianna Nannini a Gianni Morandi a Zucchero. In fondo, «la vita, per buona parte, è tutta una commedia».

***

Sarà pure uno spot di due ore, un santino o una grande operazione di marketing cinematografico, ma intanto domenica scorsa Ennio Doris – C’è anche domani tratto dall’autobiografia del banchiere fondatore di Mediolanum che nel 2011 rimborsò di tasca propria 11.000 risparmiatori che avevano investito in titoli Lehman Brothers, ha conquistato il 14% di share con 2,4 milioni di telespettatori vincendo la gara degli ascolti.

 

La Verità, 29 novembre 2024

Da Augias a Serra, chi sono i nuovi guru d’opposizione

L’altra sera ce n’erano due, comodamente adagiati sulle poltroncine di La torre di Babele, nuovo caminetto antigovernativo di La7. Corrado Augias e Michele Serra, categoria guru d’opposizione. Il primo, con l’aria del vecchio saggio richiamato in servizio, transfuga dal servizio pubblico, causa emergenza democratica. Il secondo, costretto ad alzarsi dall’Amaca per gli improrogabili straordinari, motivati dalla medesima emergenza e, va detto, da una certa evanescenza di coloro che l’opposizione dovrebbero farla di professione.

Il dovere chiama; dunque, ai posti di combattimento. Augias e Serra, entrambi repubblicaner, sono i capifila delle due principali scuole di pensiero della nuova genia. La scuola romana e la scuola emiliana. L’altra sera si confrontavano sui «giovani». Capirete. Non hanno più fiducia nel futuro. Hanno paura del clima impazzito, della crisi economico sociale e degli attacchi terroristici. I giovani, dicevano un ottantottenne e un quasi settantenne, considerano l’Italia un «Paese in declino». La tesi è stata plasticamente rappresentata dalla cover dell’ultimo libro firmato da Serra con Francesco Tullio Altan (toujours Repubblica) intitolato Ballate dei tempi che corrono (Feltrinelli), «in cui si vede un popolo che va all’indietro», ha sintetizzato il capofila emiliano. Mentre invece bisogna cercare di uscire in avanti, «buttandola in politica», per esempio come si è fatto nelle bellissime manifestazioni del 25 novembre contro i femminicidi. Insomma, i «giovani, ai quali dobbiamo rivolgerci senza paternalismi», si è detto senza ridere, dovrebbero impegnarsi a scalzare chi comanda in quest’Italia retrograda.

È la summa ideologica del lavorio che di questi tempi agita le redazioni dei talk show, dei grandi giornali, delle tv militanti. Cercasi guru d’opposizione disperatamente. Meglio ancora, se dotato di muscoli demolitori. Detto degli straordinari di Serra, che dall’abituale sermoncino a Che tempo che fa ora è ovunque, e del richiamo in prima linea di Augias, da un po’ tutto questo gran daffare rimbalza tra La7 e il Corrierone, tra Repubblica e il Nove. Poi ci pensano siti e piattaforme a rilanciare ultimatum e invettive, implementando e viralizzando l’apocalisse imminente. Autori, cantautori, scrittori, opinionisti, comici, grandi firme, satiri e saltimbanchi sono in trincea mai come ora. L’operazione ha accelerato dopo lo scollinamento del primo anno di governo Meloni perché una serie di nefaste previsioni date per ineluttabili sono state puntualmente smentite. La correzione del Pnrr? Sicuramente bocciata e le rate rinviate sine die (come conferma l’arrivo della quarta tranche all’Italia, primo Paese dell’Ue). Le agenzie di rating? Ci avrebbero di sicuro declassato, innescando la procedura di default (come certifica il mantenimento degli standard e in un caso il miglioramento dell’outlook). Le alleanze internazionali? Godendo di zero autorevolezza, l’Italia si sarebbe rapidamente isolata (come mostrano le missioni con Ursula von der Leyen, il patto con l’Albania sui migranti e le classifiche di popolarità del premier di Politico e Forbes). Poi il Pil sarebbe sprofondato, l’occupazione crollata, l’inflazione avrebbe divorato i nostri risparmi e la popolazione assaltato i centri commerciali mettendo a ferro e fuoco città e campagne.

Pur al netto di alcune gaffe soprattutto a livello di comunicazione e immagine, dai corsi di «educazione alle relazioni» del ministro per l’Istruzione e il merito Giuseppe Valditara alle imprudenze del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, senza tralasciare la gestione di alcune situazioni in Rai, le cose non sembrano esser andate così. I fatti sono testardi e, purtroppo per i professionisti del campo largo, stretto, giusto o ingiusto, il problema della tenuta governativa sussiste. Perciò, saggiamente preoccupate, le migliori menti left oriented stanno producendo il massimo sforzo per chiamare a raccolta la crème. Il pontefice emerito della scuola emiliana Pierluigi Bersani, sempre in vena di metafore contro «le destre» («tra la Meloni e Salvini è in atto la gara del gambero a chi si allontana di più dalla lettera della Costituzione»), si è praticamente trasformato in un arredo degli studi di Otto e mezzo e DiMartedì. Complice un album di Canzoni da osteria, per compattare la squadra, ultimamente è sceso a valle anche Francesco Guccini. Il quale, prima ha guadagnato il salotto di Fabio Fazio, poi è rimbalzato sul Corrierone per confidare ad Aldo Cazzullo che lui non è convinto che Mussolini fosse un genio e che a rovinare tutto fossero quelli che lo circondavano… No e poi no: «Il Duce un genio non era; e temo non lo sia neppure la Meloni». Tiè.

Però, in fondo, gli emiliani sono dei simpatici gigioni. Lambrusco, tigelle, proverbi e una partita a rubamazzo.

Un pizzico di astio in più aleggia invece nella covata romana. La borgatara di Colle Oppio è un’usurpatrice. Mica ha studiato nei licei di Prati. Non ha l’erre francese e neppure l’armocromista. Stia manza, anche se è donna. Più dell’azionista Augias, la demolizione cafonal di Roberto D’Agostino partorisce tre o quattro necrologi governativi al dì, si dice ben visti dal sommo Sergio Mattarella. Per poi tracimare nei talk e nei giornaloni magisteriali. Quelli che, pure, sono già altamente rappresentati dall’attacco a tre punte, di solito composto da Massimo Giannini, editorialista di Repubblica, Annalisa Cuzzocrea, vicedirettrice della Stampa e Cazzullo, vicedirettore e firma principe del Corsera. Ubiqui e inflessibili. Spietati ed eleganti. Ma loro, più che veri e propri guru d’opposizione, sono alti funzionari in servizio h 24.

 

La Verità, 13 dicembre 2023

Mughini: «Il design? Meglio degli uomini»

Quante vite ha Giampiero Mughini. Scrittore, giornalista, commentatore televisivo, analista di costume, appassionato di sport, tifoso juventino. Meno noto è come cultore di design, collezionista, accumulatore di oggetti di pregio. Ecco, dunque, Il Muggenheim – Quel che resta di una vita (Bompiani). Godibilissimo vagabondaggio tra cultura dell’immagine, bibliofilia, riviste e rivolte giovanili, Quartiere Latino, arredi d’autore, fumetti, cesure generazionali, rock progressivo, prime edizioni prestigiose, fotografia e iconografia erotica, divorzi professionali. «È inaudito che in Italia non esista un museo dedicato ai Settanta e dintorni», si legge nell’introduzione. «O forse no, forse quel museo in Italia esiste. A casa mia. Scarno, povero, da riempire nove o dieci stanze in tutto. Ma c’è». Eppure, prosegue adagiato nella poltrona prediletta, opera di Gaetano Pesce, «Il Muggenheim è nient’altro che un libro».

Un’autobiografia artistico-esistenziale?

Assolutamente questo.

Com’è nata la passione per il design?

Al liceo o all’università nessun professore aveva mai pronunziato la parola design. Ventenne nei primi anni Sessanta, furibondi di creatività italiana, ho iniziato a incuriosirmi delle cose che mi erano vicine. Il cinema, il fumetto, il rock, le avanguardie culturali… Quanto al design ho imparato a preferire una lampada a un’altra, una sedia a un’altra.

Poi vennero gli anni parigini?

Nelle vie del Quartiere Latino c’era una libreria una porta sì e una porta no. Lì è esploso l’amore per i libri come oggetto, la carta, la copertina, la grafica…

Il design è un’ossessione, una religione, una malattia?

Una religione no, perché gli dei non si vedono e non si toccato e invece la poltrona su cui sono seduto sì.

Si definisce «bibliofolle».

Sono pazzo dei libri. Soprattutto delle prime edizioni, perché quello è il momento in cui il libro sfida il mondo. E spesso quella prima sfida la perde. Talvolta vince le successive. Al momento della sua morte, nel 1928, Italo Svevo aveva venduto sì e no 300 copie. Oggi quando nel mondo si parla di letteratura del Novecento, Svevo compete con i grandi autori internazionali. Per me possedere una sua prima edizione è un’esperienza ai limiti dell’erotismo. Anzi, data la mia età, forse qualcosa di più.

Il gusto per l’estetica supera la passione per la politica?

Sì, se s’intende la competizione tra Pd e M5s o tra Lega e Fratelli d’Italia. Non quando si devono fare scelte decisive, come quelle guidate da Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, Ugo La Malfa, Bettino Craxi o suggerite da Matteo Renzi. Per il resto la politica la scruto da lontano. L’estetica la respiro a pieni polmoni tutti i giorni.

In quegli anni c’era una ricerca ideale diversa da quella che viene dalla politica?

Altroché. S’imparava dalle cose della vita, innanzitutto dalle sconfitte. A 17 anni, avendo vinto quelli siciliani, partecipai ai campionati italiani di ginnastica artistica a Novara e mi accorsi che i ragazzi che s’erano addestrati nelle palestre del Nord erano di tanto più forti di me. Dieci anni dopo scappai dal Mezzogiorno arretrato con seimila lire in tasca. Fu il mio primo gesto «rivoluzionario», senza protezioni di partiti o di logge di alcun tipo. L’altro grande evento della mia vita è stato uscire dall’extraparlamentarismo di sinistra. Raschiarne via la cultura mi costò altri anni, fino al Compagni, addio del 1987. Ecco perché oggi non concedo più nulla alle fesserie ideologiche.

Per esempio?

Sono allibito dinanzi al fatto che il populismo sia così duro a morire. In Francia il 21% ha votato per la sinistra di Jean-Luc Mélenchon. Incredibile.

Include Mélenchon tra i populisti?

Il socialismo di cui parla non significa nulla. Nelle democrazie industriali avanzate su 100 euro percepiti da ciascuno di noi 50 vanno allo Stato. Il socialismo esiste già. Le diseguaglianze? Sono inevitabili: uno non vale uno.

Gli anni Settanta sono generalmente disprezzati per il soffocamento ideologico, lei ne decanta la creatività e il fuoco artistico.

Nelle strade della Bologna del 1977 c’era il rock non la classe operaia. Non era vero che tutto nascesse nella fabbrica. I germi del cambiamento possono attecchire in un’industria come la Ferrari o in una band come gli Skiantos.

La stanza alla quale è più affezionato è quella dei Cinquanta?

Il design non è come la tua donna, si possono amare più epoche. I Cinquanta pulsano del rapporto con l’estetica di Ico Parisi che, quando lo conobbi, tutti lo avevano dimenticato. Ora i suoi mobili sono all’apice delle quotazioni internazionali.

Nel libro omette la vendita della collezione di libri futuristi: capitolo troppo privato o troppo doloroso?

Certamente un lutto. Era la seconda o terza collezione d’Italia. Erano libri che non leggevo più. Pur a malincuore, decisi di venderli per iniziare nuove avventure dell’anima.

Non l’avrà venduta perché una giornalista le disse che aveva una biblioteca di destra?

Quella giornalista sosteneva che fossi di destra perché possedevo un centinaio di volumi di Filippo Tommaso Marinetti e solo cinque o sei di Eugenio Scalfari. Le risposi che il numero di quelli di Scalfari era più che sufficiente

Scrive che gli arredi e i libri sono più affidabili degli esseri umani: bilancio amaro.

L’amarezza più dolorosa. A volte la solitudine l’ho cercata, difesa e proclamata orgogliosamente. Altre volte è stata eccessiva. In buona parte è derivata dall’andare  in contrasto con la mia generazione. Avevo fondato Il Manifesto e me n’ero andato pochi mesi dopo. Per due anni il telefono non ha squillato. Lunghi silenzi anche dopo che mi dimisi da Panorama nel 2005 perché non c’era sintonia con il nuovo gruppo dirigente del settimanale. E tanto più dopo gli anni trascorsi con un grandissimo direttore com’è stato Claudio Rinaldi. Non andavamo d’amore e d’accordo su tutto, ma avevo una stima totale per lui. Quando gli proponevo un pezzo su qualcosa che lui non conosceva di prima mano, mi rispondeva: «Di quante pagine hai bisogno?».

Si avverte una certa estraneità anche verso il presente.

Non penso sia colpa del presente. C’è che non sono adatto alla comunicazione via social e alla continua esibizione del proprio sé stesso da cui è dominata.

È un’estraneità colmata da pochi amici: Roberto D’Agostino, Francesco De Gregori, Oliviero Diliberto. Cosa glieli rende tali?

D’Agostino lo conosco da 40 anni e quando creò Dagospia, mentre molti alzavano il sopracciglio, il primo giorno gli mandai una lettera d’affettuoso incoraggiamento. Non è un amico, è un fratello.

De Gregori?

L’ho conosciuto nel momento giusto, una ventina d’anni fa. La nostra è un’empatia sentimentale e intellettuale.

Diliberto?

Condividiamo la bibliofollia, amicizia totale. Da capo di Rifondazione comunista non mi piaceva proprio, forse quello che frequento adesso è suo fratello gemello.

Antonio Ricci, invece, è un bibliofilo rivale?

E molto più potente di me, guadagna 20 volte quello che guadagno io. Credo sia il maggiore collezionista d’Europa della produzione lettrista e situazionista francese.

C’è un Mario Draghi prima e dopo le elezioni per il Quirinale?

Capisco il ragionamento, ma lo respingo. Più che altro la situazione del governo non induce all’ottimismo perché ciascuna delle sue componenti fa di tutto per farsi notare. Se uno vale uno, nutro crescenti riserve sulla democrazia di massa. Mi lascia esterrefatto che in Francia la distanza tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen sia solo di 4 punti.

Che cosa le fa pensare che mentre in tutti i sondaggi la maggioranza degli interpellati è contraria all’aumento della spesa per le armi, governo e grandi media marciano nella direzione opposta?

Nel rapporto tra Pil e spesa militare l’Italia è solo al 102esimo posto della classifica mondiale. Non possiamo essere i pezzenti dell’esercito europeo di cui tanto si parla. La Russia ha 10.000 carri armati, la Francia 400, noi 120. Non credo sia una buona idea aumentare la presenza di truppe della Nato a Est. Ma nel caso, l’Italia dovrebbe fare la sua parte. Detto questo, non voglio affatto una nuova guerra fredda.

Quella in corso è molto calda.

Lì è caldissima. Penso che Silvio Berlusconi faceva benissimo a dialogare con Vladimir Putin. La Russia ha accanto la Cina e l’India e andiamo verso un mondo in cui l’Occidente non sarà più maggioranza.

Sembra anche a lei che con la pandemia e la guerra nei media si è affermato un conformismo intollerante?

Sulla guerra sono in parte d’accordo. Seguo e rispetto le riflessioni del professor Alessandro Orsini o quello che scrive il generale Fabio Mini sul Fatto quotidiano. Sulla pandemia invece la questione è semplice: essere vaccinati è una condizione di gran lunga migliore che non esserlo.

Gli ospiti in Rai dovranno essere giustificati da comprovata competenza.

E chi la decide se non il conduttore? Il professor Orsini ha una competenza comprovatissima. Sono rimasto allibito quando ho saputo che è scattata la riprovazione nei confronti di una persona di assoluta levatura intellettuale e morale come Lucio Caracciolo.

 

Panorama, 20 aprile 2022

«Si voterà nel ’23, quando tutto sarà cambiato»

Nonostante il pizzo mefistofelico i tatuaggi e gli anelli, Roberto D’Agostino, visionario titolare del sito Dagospia (3,5 milioni di pagine visualizzate al giorno), sa interpretare il ruolo del saggio, del politologo, dell’analista attaccato alla realtà e ai problemi della gente. «Davvero», dice, «pensiamo che un padre di famiglia quando torna a casa dica a sua moglie: hai visto che hanno segato l’uomo di Giorgia Meloni nel Cda della Rai? Oppure che l’operaio che si alza alle sette del mattino per andare in fabbrica abbia come primo pensiero cosa si son detti Beppe Grillo e Giuseppe Conte al ristorante? Io penso di no, penso che il distacco tra la vita dei cittadini e la narrazione dei media sia ormai abissale».

Un po’ l’ha colmata la sbornia degli Europei?

«Un po’ sì, ma non parliamo di sbornia. La politica è anche un fatto emotivo».

La politica?

«Anche lei vive di emozioni. Il Covid ci ha sconvolto anche perché è venuta a mancare la fiducia negli altri. La vittoria agli Europei rimette in circolo energie nuove».

Si parla di Rinascimento italiano.

«Più che altro una Rinascente cheap. Quello che lei chiama sbornia è un’onda emotiva che arriva dopo un anno e mezzo di afflizione, i 120.000 morti, i camion di Bergamo, le bare ammassate. La Nazionale ha fatto gridare “Viva l’Italia” a tutti, facendo tornare il senso di appartenenza e dello Stato».

Addirittura.

«Di solito quando si parla di senso dello Stato viene l’orticaria perché si pensa alle tasse. Ma dopo la pandemia si pensa anche che con le tasse si costruisce un ospedale che serve quando stai male. La vittoria degli Europei è come un integratore per affrontare il post Covid».

Tutti patrioti? Qualcuno ha scritto che è tornato il piacere abbracciarci…

«Stato vuol dire fiducia, come la Galbani della pubblicità di una volta. Si ricomincia a fidarsi degli altri anche se sappiamo di correre un rischio. Infatti, tanti portano ancora le mascherine nonostante si possa stare senza. Questa vittoria è come un tiramisù. Al contrario, i no-vax pensano solo alla loro libertà e non che può danneggiare gli altri. Io sto con Macron: la mia libertà finisce quando mette a rischio quella di un altro».

Per la Nazionale abbiamo fatto due giorni di rave e adesso ci vuole il green pass per andare al bar?

«I festeggiamenti di domenica sera erano difficilmente gestibili, anche le forze dell’ordine guardavano la partita. L’errore è ciò che è accaduto il giorno dopo, con la gente assiepata attorno al pullman e senza mascherina. La trattativa Stato-Bonucci è qualcosa d’insostenibile. Si sa che il pullman era già stato preparato, Bonucci stia tranquillo. Ma Draghi non può gestire tutto, ci sono i ministeri competenti. Toccava alla Lamorgese gestire la grana, ma non l’ha fatto».

Non l’ha infastidita un certo eccesso di retorica: la Nazionale simbolo di concordia, Mancini gemello di Draghi?

«Ognuno scrive quello che vuole. L’editoriale di un quotidiano non è le Tavole della legge».

È bastato rimettere all’ordine del giorno il ddl Zan per vedere la concordia andare in frantumi?

«Da una parte c’è la politica politicante, dall’altra 60 milioni di cittadini che dopo due anni come questi hanno ricevuto un’iniezione di fiducia e positività. Non credo che le sorti del ddl Zan incidano sulla quotidianità dei cittadini. In periferia o in un paesino nessuno s’interroga sull’identità di genere. Sono pippe dei giornali. Le persone comuni hanno altre priorità. Mio figlio troverà un lavoro? Riuscirò ad arrivare a fine mese? Sarò licenziato dopo la fine del blocco?».

Chi esce meglio dalla curva?

«I cittadini. Molto meglio della politica, che si balocca con questioni superflue. Immagino tanti lettori che aprono i giornali e mandano affanculo politici e giornalisti. La pace tra Conte e Grillo, i consiglieri del Cda Rai: chi si alza alle sette del mattino per andare a lavorare guarda a questi mondi come agli animali dentro le gabbie di uno zoo. Col mio sito lavoro in un altro modo».

Cioè?

«Il direttore è un algoritmo che mi dà in tempo reale il traffico degli articoli più letti. Così capisco gli interessi prioritari. Se il pubblico mi chiede la ricotta prendo la ricotta e la metto in vetrina. Il cliente ha sempre ragione, questo è il barometro. Ho 3,5 milioni di pagine visitate al giorno. I giornali raccontano le correnti del M5s o del Pd, mentre i cittadini si chiedono perché non si affronta il problema del debito pubblico che viaggia verso i 3.000 miliardi».

Il distacco tra popolazione e narrazione è colmabile?

«A questo punto non lo so. Fossi direttore di un grande quotidiano mi chiederei perché i lettori rifiutano il mio prodotto. Qualche anno fa Repubblica e Corriere vendevano 6/700.000 copie ora sono a 100.000. Il Fatto quotidiano era sopra le 100.000 ora è a 25.000».

Ci si informa anche in altri modi?

«In parte sì. L’edicola sta diventando un residuato bellico come la cabina del telefono. Però i giornali cartacei hanno stravenduto il giorno dopo la vittoria dell’Italia. Vuol dire che i lettori volevano avere un  ricordo del trionfo acquistando il giornale con il poster della squadra vincitrice. Se dai, in cambio ricevi».

Responsabilità dei giornali ma anche dei vari Enrico Letta, Matteo Salvini eccetera?

«Purtroppo i nostri leader non hanno un’idea seria della politica, di come sono cambiati gli equilibri geopolitici dopo l’arrivo di Joe Biden alla Casa bianca, dopo l’avvento della Brexit, dopo la crescita del ruolo della Cina che sta sostituendo gli Stati uniti e ha in mano tutta la produzione strategica, dalle auto alla telefonia. Con tutto questo, noi continuiamo a parlare del consigliere di Fratelli d’Italia in Rai».

E Draghi?

«Non pensa al Quirinale. Punta a diventare il successore di Charles Michel alla presidenza del Consiglio europeo. Invece sul piano del carisma, prenderà il testimone da Angela Merkel. Già adesso Biden parla solo con lui, anche per la debolezza di Macron.

Con questi nuovi scenari hanno ragione Meloni e Salvini a credere che dopo Draghi toccherà a loro?

«Da qui al 2023, quando si andrà a votare, vedremo cambiamenti copernicani. Già ne abbiamo le avvisaglie. Il più draghiano dei leader è Salvini, che è una sorta di pontiere del centrodestra nel governo. Quando di recente Forza Italia si è incazzata per la mediazione della Cartabia con i 5 stelle è stato Salvini a fare da pontiere. Tutto cambia. Basta guardare il patto tra i due Matteo che, con la regia di Denis Verdini, vecchia volpe democristiana, stanno lavorando a una federazione centrista con Berlusconi e Forza Italia».

Quindi l’idea della federazione resiste?

«È l’approdo futuro. Salvini non parla più di migranti e ong, ma di giustizia. La politica in Italia sta vivendo una trasmutazione, a destra nascerà un centro con Salvini, Renzi, Calenda e Berlusconi. Questo dispiacere dato alla Meloni è un segnale: tu resta a destra, al centro stiamo noi».

Conviene lasciar fuori il partito più in crescita dell’area?

«Se l’ideologo della Meloni è Guido Crosetto che è presidente dell’Aiad (Aziende italiane per l’aerospazio e la difesa ndr), apparato di Stato da Fincantieri a Leonardo, che opposizione può fare».

Al di là dell’opposizione è conveniente per il centrodestra escludere il partito più in salute?

«Questo riguarda l’ego dei leader. Non si può parlare di alleanze e poi ci si comporta da ducetti. Il problema di Salvini era che prima twittava e poi ragionava. Ora ha capito che bisogna capovolgere il processo e che la politica è mediazione. Con i fondi del Recovery in arrivo non possiamo permetterci di mandare il Paese al macero. Bisogna mediare gli obiettivi di parte con il bene del Paese. E poi c’è un altro discorso…».

Prego.

«Oltre allo Stato c’è il Deep State, lo Stato profondo. Burocrazia, magistratura, servizi segreti, macchina dei ministeri: tutte realtà che sia Renzi che Salvini in passato hanno trascurato. Pagandone il conto».

Nel centrosinistra niente rivoluzioni copernicane?

«L’idea di Goffredo Bettini che vedeva Conte punto di riferimento dei progressisti è entrata in crisi».

Infatti Bettini sta tornando in Thailandia.

«Per Letta il governo Draghi è il governo del Pd. Ma Conte è contrario alla riforma Cartabia mentre il Pd è a favore. Perciò anche quest’asse è in discussione. Cosa siano oggi i 5 stelle nessuno lo sa».

Quanto crede alla pace di Bibbona?

«Ah, saperlo…».

Conte è andato a Canossa?

«Non so. Se Conte piazza una persona sua in un posto di rilievo Grillo potrà sfiduciarla. Mi sembra una diarchia che non ha grande futuro».

Invece Letta ce l’ha?

«Con il 18% come fa a tornare a Palazzo Chigi? Tanti gli consigliano di aprire a Salvini, così che in futuro ci possa essere un’alleanza con la federazione di centro. Che nel Pd potrà essere appoggiata dalla corrente maggioritaria, formata da ex renziani».

Letta è la persona giusta per aprire a Salvini?

«Credo che le amministrative del 20 ottobre daranno una botta a tante posizioni ideologiche. Si capirà se l’alleanza con i 5 stelle ha un futuro. E se ce l’ha Letta. Nei grandi Paesi europei governano le grosse coalizioni. In Germania i socialdemocratici con i democristiani, in Francia i gaullisti con Macron. In Italia potrà nascere un governo di centrosinistra con la federazione di Verdini, Salvini e Berlusconi alleata al Pd: un governo fattuale, che toglie di mezzo troppe battaglie di bandiera».

Chi è messo meglio in vista delle amministrative di ottobre?

«Credo che il risultato lascerà molti a bocca aperta. Dopo due anni di Covid non sappiamo come si orienteranno gli elettori. Molti sondaggi sono apertamente taroccati e io vorrei avere la palla di vetro per capire cosa ci aspetta. Abbiamo ancora un Parlamento con il 32% di grillini eletti…».

E tra poco inizia il semestre bianco in preparazione alla successione di Mattarella?

«Il copione del Quirinale è tale e quale a quello usato per Napolitano. Mentre Mattarella continuerà a dire di voler tornare a dedicarsi ai nipotini, dopo le prime fumate nere tutte le forze politiche andranno in fila indiana a dirgli di restare. E lui accetterà. Poi nel 2023, con il nuovo Parlamento, si deciderà in base al voto dei cittadini».

E i vari Casini, Veltroni, Franceschini, Berlusconi?

«No future».

 

La Verità, 17 luglio 2021

Arbore: «Non è una tv ad Alto gradimento»

Come una madeleine di gioventù, se ancora oggi, trascorso mezzo secolo, rimbalzano nell’aria le note del rock and roll che annunciava Alto gradimento, una scarica di euforia si propaga a tutto il corpo. Il programma che Renzo Arbore e Gianni Boncompagni condussero dal 7 luglio 1970 al 2 ottobre 1976 su Radio2 è stata la più dirompente, anticonformista ed eversiva trasmissione dei nostri migliori anni. Perciò, per estensione nient’affatto iperbolica, la più bella di ogni tempo e luogo. Eccoci al telefono con Arbore dalla sua casa romana, lo studio di Striminzitic show, il programma che conduce con Gegè Telesforo nella notte di Rai2.

Quale fu la scintilla di Alto gradimento fra lei e Boncompagni?

Lo vuole sapere? Ero appena stato caciato da Per voi giovani che avevo inventato io. Il direttore della radio, Giuseppe Antonelli, allargò le braccia, affranto: «È stata una scelta politica».

Di chi?

Dei cattocomunisti che allora sembravano dover dominare.

Nomi?

Non posso, alcuni sono morti.

La scintilla?

Boncompagni veniva da Chiamate Roma 3131, ideato da Luciano Rispoli. Per la prima volta, il telefono era a disposizione del pubblico, ma presto era diventata una radio del dolore…

Le rispettive cacciate vi accomunarono?

Dissi a Gianni: «Tu vieni dalla radio del dolore e io sono stato mandato via, ma il direttore ha promesso di aiutarmi». Così pensammo a un programma di risate. In quegli anni di ideologie e terrorismo ridere era vietato. Perciò, andammo da Antonelli e gli proponemmo Musica e puttanate.

E lui?

«Con questo titolo non può passare, inventatevene un altro».  Siccome io prediligo i titoli negativi, tipo Indietro tutta o Meno siamo meglio stiamo, pensai Basso gradimento, che Gianni corresse con Alto. C’erano Giorgio Bracardi e Mario Marenco, fuoriclasse assoluti. Il programma esplose.

Se dovesse sintetizzare con un episodio quella follia?

Ricorderei il colonnello Buttiglione, che diventò subito un simbolo. Il fatto è che Buttiglione esisteva davvero e non ne poteva più di essere apostrofato per strada. Ci chiamò il ministero dell’Interno per chiederci di modificare lo scherzo. Così nacque il generale Damigiani.

Un altro ricordo?

Andai dai segretari di partito per chiedere la licenza di sfottò: furbamente me la concessero tutti.

Nella sigla finale di Indietro tutta, con sapido doppiosenso cantava «vengo dopo il Tg»: ora Striminzitic show viene dopo che cosa?

Purtroppo viene durante. Ho constatato che la seconda serata è defunta in quanto la prima, cominciando tardi e prolungandosi per far lievitare lo share, salta direttamente alla terza. Qualche sera fa ho perso l’inizio di Striminzitic per vedere come finiva Fuga da Alcatraz.

E quando ha girato su Rai2 Telesforo e Arbore erano già avanti.

Esatto, ma mi consolo perché il nostro show è seguito dagli «arborigeni» ed è molto apprezzato sui social.

Il meglio arriva late?

Come in America, dove ci sono i Late night show. Senza snobismi, è un tipo di televisione che conta sul pubblico più acculturato perché non si deve svegliare alle 5 di mattina. L’importante è che non sia too late, troppo tardi.

L’amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini dice che vuole ripristinare la seconda serata.

Speriamo, ma se non si mettono d’accordo tutti, Rai, Mediaset, La7 eccetera, non se ne farà niente. Senza presunzione, la seconda serata l’abbiamo inventata nel 1985 io e Giovanni Minoli, allora capostruttura di Rai2. Alle 23 c’era il monoscopio, non a caso il programma s’intitolò Quelli della notte.

La seconda serata era la palestra dei nuovi autori.

Infatti, sono scomparsi. La carenza di oggi è proprio l’assenza di autori e talenti per la tv leggera.

Salini vuole anche ridurre l’influenza degli agenti esterni.

È una bella battaglia perché loro conoscono molto bene il cosiddetto prodotto.

Colgo una certa ironia.

Appartengo alla generazione che parlava di programmi più che di prodotti. Gli autori erano Antonello Falqui, Enzo Trapani, Corrado, Pippo Baudo… Ora si rincorrono i format stranieri.

Pochi autori bravi, agenti influenti e società di produzione esterne sono i lati della tv di oggi: la Rai è uno scheletro?

Se ci si affida alle produzioni esterne è difficile recuperare quelle interne. Anche perché, di grandi tecnici Rai ne sono rimasti pochi. E quei pochi se ne vanno, com’è accaduto con Eleonora Andreatta, per tanti anni capo della fiction. I veri inventori di programmi sono rari. L’intrattenimento è il genere che si è meno rinnovato e il pubblico ricorda ancora Raffaella Carrà, Mina e i grandi show della tv senza tempo. Il contrario della fast tv di oggi.

Per questo in Striminzitic show estrae dal suo archivio chicche da far invidia alle Teche Rai?

Non ho voluto se non qualche piccola citazione di Indietro tutta e Quelli della notte. In tanti anni ho creato parecchi format, perciò posso pescare dal repertorio meno sfruttato. Poi ci sono i filmati fatti con telecamere e telecamerine che mi sono sempre portato dietro quando m’invitavano come ospite o in certe incursioni stradaiole. Infine, c’è internet: con un click passi da un blues d’annata a Walter Chiari. È una miniera di cui solo Roberto D’Agostino ha colto le potenzialità.

Lei è stato il primo a raccogliere la provocazione di Pupi Avati a fare del lockdown un’occasione teleculturale: è un’intesa tra amanti di jazz?

Io e Pupi siamo amici, certo. Entrambi abbiamo constatato che i millennials non conoscono il nostro cinema migliore. Quello del neorealismo e della grande commedia che ebbe successo in tutto il mondo perché era pieno di idee.

Ci vorrebbe un Per voi giovani del cinema?

Se pensa che non conoscono Miracolo a Milano, La grande guerra, Umberto D., Le vacanze intelligenti di Alberto Sordi… Adesso per fortuna Cine 34 qualcosa ripropone.

Ha guardato molta tv durante il lockdown?

Moltissima. A Natale avevo avuto la bronco polmonite perciò sono entrato in clausura in anticipo. Ne ho approfittato per ordinare l’archivio e l’angolo della casa da dove con Gegè trasmettiamo lo show con due sole telecamere. Noi che abbiamo visto la guerra e il dopoguerra non ci scoraggiamo, ma quando leggo certi paragoni…

Cosa pensa?

Che allora c’erano il buio, la fame, il freddo, non c’era il riscaldamento. E manco la radio.

Chi le piacerebbe riportare in televisione?

Adriano Celentano, il protagonista dello spettacolo del Novecento e anche del Duemila.

L’ha visto su Canale 5? Anche lui ha bisogno di autori?

Sì, ma è sempre originale. Credo sia giusto si faccia conoscere dai giovani come artista, cantante, attore. Lui e Mina sono i più grandi, lui ha fatto anche film che andrebbero riletti, come Joan Lui

Puntualmente stroncato dalla critica.

Ma pieno di novità. E l’altro, Juppy Du: andrebbe studiato a scuola. Prisencolinensinanciusol è stato il primo rap al mondo.

Ha riproposto un Benigni ballerino sulle note di un brano di Elvis Presley. Le piace il Benigni esegeta e pedagogo?

Roberto ha arricchito il suo umorismo istintivo con la ricerca culturale. A me piaceva molto Tuttobenigni. È un talento straordinario, come abbiamo visto al cinema anche insieme a Massimo Troisi. Gli auguro di trovare un altro film di grande successo che ci faccia sorridere e pensare.

Chi può reggere il confronto con lui?

Forse Checco Zalone, passato anche lui dal cabaret al cinema.

Tra i giovani vede qualcuno che si avvicini a Marenco, Bracardi, Riccardo Pazzaglia, Nino Frassica, D’Agostino, Maurizio Ferrini?

Che improvvisi come loro no. Noi eravamo jazzisti della parola, oggi prevale il pop. Quella razza di improvvisatori è in estinzione.

È vero che era l’incubo di Baudo?

Sono malignità di Antonio Ricci. Siamo diversissimi, ma siamo amici e «conterroeni».

Lei era socialista e lui democristiano.

Simpatizzavo. Anche Craxi aveva simpatia per me. Una volta mi fermò e mi disse: «Non ho capito se mi vuoi bene o mi sfotti».

E lei si guardò dal risolvere il dubbio?

Votavo repubblicano, ma nella stagione della Milano da bere, con Craxi che era appassionato d’arte e di canzoni c’era un rapporto di cordialità.

Il presidente Mattarella è riuscito a procurarsi un televisore funzionante per vedere il suo show o è rimasto ostaggio di protocolli e gare d’appalto?

(Ride) Ha ancora il televisore di Pertini. È amabilissimo il presidente nell’accettare le nostre facezie…

Che cosa le dice il fatto che il portavoce di Palazzo Chigi sia un ex concorrente del Grande fratello?

Abbiamo visto tanti talenti cresciuti nei villaggi turistici, non mi pronuncio.

Tra migliaia di gadget possiede una statuetta di Abramo Lincoln: cosa pensa della profanazione del suo monumento a Washington come manifestazione di antirazzismo?

Sono profondamente antirazzista. Però profanare i monumenti, come quello di Montanelli che mi onorava della sua amicizia, o altri, è una deformazione di opinioni politiche momentanee che disapprovo.

Panorama, 1 luglio 2020

Dagospia on the road, outlet del villaggio globale

Vent’anni on the road, auguri Dagospia. Auguri e grazie per il divertimento e il lavoro, lo sberleffo e il servizio, lo spirito sulfureo e l’archivio. Il sito diretto da Roberto D’Agostino compie due decenni di vita e stappa lo champagne di una giovinezza sempre promettente. Un ventennio vissuto pericolosamente, ma con un grande avvenire davanti. Man mano che passano gli anni si fortifica e si allarga, irrobustisce la corteccia e ramifica su nuovi territori, lo sport, il food, tutto lo scibile. Vitale e vitalista, collettore senza tabù, preclusioni e pregiudizi, se non appena quella sacrosanta diffidenza verso i piedistalli dei moralisti e le cattedre dei pedagoghi. Assemblatore, catalizzatore, girone infernale di vizi e stravizi, devozione e pornosoft, sociologia e tifo ultrà, rock babilonia e diatribe teologiche, Rocco Siffredi e risiko di nomine. Da qualche tempo meno cafonal e più pensiero sottile. Soprattutto, più anticipazioni, quasi sempre confermate, «come Dago anticipato…». Sulle nomine alla Rai e nelle altre aziende partecipate, sui voti di sfiducia annunciati e non confermati, sulle richieste di prestiti dei colossi industriali controllati all’estero. Anche senza la gola profonda Francesco Cossiga, D’Agostino e la sua redazione (Giorgio Rutelli, Francesco Persili, Federica Macagnone, Riccardo Panzetta, Alessandro Berrettoni) se la cavano alla grande. Notizie e opinioni insieme. Come La versione di Mughini e L’America fatta a Maglie by Maria Giovanna. Gossip meno di un tempo, e sagaci rubriche di servizio (La quarantena dei Giusti: Guida tv per reclusi).

Fu Barbara Palombelli a fine anni Novanta a suggerire a D’Agostino in cerca dell’idea la strada del Web. Negli anni il portale è divenuto sismografo del palazzo, cannocchiale di scenari, sonda sociale, vetrina estetica, portineria del villaggio globale. Formule e linguaggi confluiti nello spin off televisivo Dago in the Sky. Se ne sono accorti anche all’estero se, giusto un anno fa, la University Italia Society ha chiamato il mefistofelico fondatore a sdottoreggiare a Oxford, e il prestigioso Politico.eu, la testata online più letta a Washington e a Bruxelles, ha dedicato un servizio a questo «disgraziato sito» definendolo «una lettura obbligata per le élite».

Blog ruspante con refusi incorporati e senza le leccature da new web design, se D’Agostino sbaglia qualcosa lo fa per eccesso mai per difetto. Come nel caso dell’estenuante tormentone sul matrimonio di Pamela Prati. Ma in politica niente innamoramenti: né per Matteo Renzi, né per Matteo Salvini e nemmeno per lo statista Giuseppe Conte che solo sei mesi fa qualcuno pronosticava a vele spiegate sul Quirinale. Ne ha viste troppe Dago dalla terrazza dell’attico con vista su Castel sant’Angelo da una parte e su Piazza Navona dall’altra. Laboratorio, atelier, museo d’arte, factory postmoderna: chi ci è stato e ha visto il trionfo del kitsch e il bazar del trash, le bambole gonfiabili vicino ai simboli religiosi, capisce questo calderone dove si rifinisce l’opinione degli opinionisti che lo usano come cassetta degli attrezzi, bussola nel palazzo, concentrato di fluidi e umori, retrobottega del potere, bettola postribolare dove pescare il calembour illuminante. Insomma, Dagospia è insieme outlet delle firme, centro commerciale e mercato per intenditori. Ci puoi trovare l’analisi sofisticata, lo spiffero vaticano, il tweet malandrino. Avanguardia dello spirito italiano: più vicino al cinismo antimoralista di Alberto Sordi e al gusto del paradosso di Alberto Arbasino che al bontonismo ideologizzato di Fabio Fazio e Roberto Saviano.

Cento di questi giorni, Dago.

 

La Verità, 23 maggio 2020

D’Agostino: «Le strade che portano a Conte»

La crisi italiana, l’elevazione di Giuseppe Conte a statista, la riabilitazione del nostro Paese. Sono novità derivate tutte dal contesto internazionale. «Me lo fece capire una volta Francesco Cossiga», racconta Roberto D’Agostino, fondatore proprietario e direttore di Dagospia, il sito di anticipazioni, inchieste e scenari che Politico.eu, la testata online di analisi politica più compulsata a Washington e Bruxelles, ritiene «una lettura obbligata per le élite». «Cossiga mi disse che contano gli equilibri internazionali. E che dobbiamo ricordarci di essere un Paese sconfitto della Seconda guerra mondiale. All’estero non si dimentica tanto in fretta. Invece la nostra stampa non sa guardare fuori dai confini. Alberto Arbasino suggeriva ironicamente di fare una gita oltre Chiasso. Magari potremmo riuscire a capire perché, nel giro di tre giorni, dal rischio di essere come la Grecia, improvvisamente siamo diventati la nuova Svizzera».

Con le dita cerchiate da anelli, i tatuaggi che ricoprono gran parte del corpo, la barba mefistofelica sebbene si dichiari credente, il sulfureo blogger autore dell’imprescindibile Dago in the Sky ora viene invitato a parlare nelle università, non solo italiane. Panorama gli ha chiesto di essere lo storyteller della crisi appena conclusa.

Quanto durerà il Conte bis?

«Quanto decideranno i poteri internazionali che lo hanno voluto. In Italia pochi hanno notato un fatto rilevante. Il 23 agosto scorso, davanti ai colleghi delle banche centrali, Jerome Powell, presidente della Federal reserve, portando le prove del rallentamento dell’economia globale, dopo aver citato la recessione in Germania, le difficoltà della Cina, le tensioni a Hong Kong e il rischio di una hard Brexit, ha parlato della dissoluzione del governo italiano. Perché, mi sono chiesto, con quello che accade in Iran e la guerra dei dazi, il più potente banchiere del mondo parla della crisi del governo italiano?».

E come si è risposto?

«Mi sono risposto che il caso italiano ha un’influenza notevole nello scacchiere globale con i suoi precari equilibri. La nostra stampa però, sempre ripiegata sui due Mattei, Di Maio e Zingaretti, non se n’è accorta. Ma il mondo non è su Rete4 e su La7».

Tutti hanno voluto Conte, Angela Merkel, Emmanuel Macron, Donald Trump: se l’aspettava?

«Anche Bill Gates».

Persino lui. E poi gli euroburocrati, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, le borse, la sinistra post-blairiana, i gesuiti, la Cei, la Cgil, senza parlare di Renzi e Beppe Grillo…

«Già, abbiamo trovato una sorta di Garibaldi che si chiama Giuseppe Conte».

Un salvatore, uno statista.

«Risulta un gigante perché si contrappone a uno che faceva il dj al Papeete di Milano Marittima. Negli ultimi tempi Salvini le ha sbagliate tutte».

Spicca per contrasto. Ma le sue doti personali quali sono?

«Conte non nasce per caso. La prima spia mi si è accesa quando da avvocato del popolo, formula inventata da Rocco Casalino, ha voluto tenersi le deleghe sui servizi segreti. Come mai? Perché voleva mantenere il collegamento con il Deep state e le burocrazie? La seconda spia si è illuminata quando ho visto che frequentava il cardinale Achille Silvestrini, pace all’anima sua, il segretario di Stato Pietro Parolin, ed è stato ricevuto in pompa magna da Bergoglio che invece non ha mai voluto vedere Salvini nonostante le richieste. E qui c’è un’altra scelta sbagliata del Capitone, come lo chiamo io: schierarsi con la curia romana in guerra con il Papa».

Anche il rapporto con Mattarella si dice sia contato parecchio.

«Fino a un certo punto Mattarella non sapeva nulla di Conte. Al Quirinale ha molta influenza Ugo Zampetti, colui che ha svezzato Di Maio quando, ignaro di tutto, è diventato presidente della Camera. Tra i due è sbocciato un gran rapporto. Già dopo il voto del 2018 Zampetti spingeva per il governo giallorosso. Era tutto fatto. Poi Maria Elena Boschi, sulla quale c’era il veto del M5s per le inchieste su Banca Etruria, s’impuntò: voleva esserci anche lei. E Renzi, ospite di Fabio Fazio, disse che mai si sarebbe alleato con i grillini».

Tutto per la Boschi?

«Certo, ha indotto Renzi a stracciare un accordo fatto. Voleva diventare ministro. Con Gentiloni aveva ottenuto la segreteria della presidenza del Consiglio alla quale ambiva anche nel governo Renzi. Solo che quella volta fu la moglie Agnese a opporsi. E lei accettò il ministero per i Rapporti con il Parlamento».

Tornando a Mattarella e Conte?

«È la filiera dei figli a spiegare al Capo dello Stato chi è questo sconosciuto avvocato e a garantire per lui. Suo figlio, Bernardo Giorgio Mattarella, docente di diritto amministrativo alla Luiss, e il figlio di Napolitano, Giulio, professore della stessa materia a Roma Tre, con il suo socio, il potente avvocato Andrea Zoppini. Oltre che dal Vaticano e dai figli professori, Conte è spinto dal mondo forense con il suo coté massonico. Il suo maestro Guido Alpa, nello studio del quale ha iniziato la carriera, sta ovunque. All’università di Firenze, dove insegna, Conte conosce anche la Boschi».

Ancora lei?

«Lavora nello studio dell’avvocato Tombari e fa da tramite per un incontro a tre: Alpa, Conte e Renzi. Ma il futuro premier non s’innamora dell’avvocaticchio. Allora, fallito il tentativo di entrare nel giglio magico, Conte incontra Alfonso Bonafede, anche lui con studio a Firenze, che lo porta da Di Maio. Il resto è storia dell’ultimo anno. Un avvocato anonimo, perciò manipolabile, diventa il possibile successore di Mattarella al Quirinale, come l’altro giorno ha ipotizzato un articolo della Stampa».

Sembra la trama di un film: tutto grazie solo ad alcune buone relazioni?

«E, come dice suo padre, a una straordinaria ambizione che trasforma “Giuseppi” in un abile tessitore di rapporti internazionali, il vero trampolino. A cosa sono serviti i viaggi in Europa e al G7? Agendo da regista del voto in favore di Ursula von der Leyen, l’avatar della Merkel, Conte ha superato l’esame di affidabilità. È diventato organico all’establishment. Ricordiamoci cos’era il movimento di Grillo un anno fa sull’euro e sull’Europa. Il voto pro-Ursula è stato il motivo dello scontro finale fra il M5s e la Lega».

Che invece ha sempre sottovalutato i rapporti con Bruxelles?

«Basta dire che non si era accorta che gli altri partiti sovranisti erano nel raggruppamento del Ppe della Merkel. Salvini invece è andato ad allearsi con Marine Le Pen, la spina nel fianco di Macron. A quel punto le perplessità si sono moltiplicate: questo Masaniello con il rosario minaccia di scassare l’euro. Missione compiuta: appena Salvini cade, lo spread rincula e la borsa decolla».

E adesso inizia la «ricompensa»?

«Certo. Non si parla più dei 40 miliardi necessari per l’aumento dell’Iva e la legge di bilancio. L’Italia che sembrava come la Grecia, diventa la nuova Svizzera. Ora che l’uomo nero non c’è più si può arrivare al 3% di rapporto Pil/deficit e magari anche oltre, come ha detto Von der Leyen, nel caso si facciano investimenti verdi».

Morale della favola?

«Non si può avere la siringa piena e la moglie drogata. L’Europa è come un club, un minimo di regole devi rispettarle. Altrimenti puoi solo uscire, come ha fatto la Gran Bretagna. Non puoi stare un po’ con la Russia, un po’ con l’America, un po’ con la Cina e fare la Via della seta. Le superpotenze non perdonano. Quando Putin ha incontrato a Roma Conte, Di Maio e Salvini chiedendo impegno contro le sanzioni gli è stato risposto di alleggerire la posizione sulla Crimea. Due giorni dopo è uscita la storia dell’hotel Metropol di Mosca e dei finanziamenti russi alla Lega».

Non sarà una lettura troppo complottarda?

«Ma no, i complotti escono dopo, soprattutto se cominci a fare i giochini tra Putin e Trump. Com’è possibile che il presidente americano sponsorizzi il governo più a sinistra della storia italiana? Sovranista grande mangia sovranista piccolo. La storia del Metropol è stata ferma cinque mesi prima di spuntare da un sito americano. Possibile che i servizi segreti, quelli su cui aveva le deleghe Conte non avvisino Salvini? Vuol dire che li aveva contro, era uno zombie che camminava. Siamo sempre lì, il Deep state è decisivo. Citofonare a Berlusconi: anche lui era anomalo, nemico dell’establishment e gliel’hanno fatta pagare. Lo hanno chiamato e gli hanno detto: con lo spread a 500 le tue aziende vanno al macero. E lui è andato a casa».

Così sono stati addomesticati anche i propositi e le promesse di Nicola Zingaretti di puntare al voto?

«La promessa c’era stata, ma le pressioni sono state più forti. Sarà arrivata la telefonata dell’ambasciatore americano o la spinta di qualche alto prelato».

Il Pd torna in campo, ma perde la faccia andando al governo ancora senza passare dalle elezioni.

«E chissà quando ci si ripasserà. Adesso devono tagliare 345 parlamentari, poi fare il referendum e la nuova legge elettorale. Si voterà nel 2022, con un nuovo Capo dello Stato».

Che sarà Romano Prodi?

«Non credo, troppo filocinese».

Il M5s che doveva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno è rimasto inscatolato?

«Il M5s è diventato il tonno, il movimento è diventato partito. Quella era la propaganda di Grillo. Ricordiamoci che Gianroberto Casaleggio andava alle convention di Cernobbio».

Conte è una figura doubleface? Quando ha detto che il 2019 sarebbe stato un anno bellissimo ha omesso di dire che si riferiva a sé stesso?

«Già, non ha finito la dichiarazione. Ma, tutto sommato, forse sarà un buon anno anche per noi. Meno tensioni, meno incubo migranti, meno social sobillatori».

Di sicuro più tasse. Grillo che propone ministri tecnici di alto profilo dà ragione a Salvini che vede nel Conte bis la riedizione del governo Monti deciso a Bruxelles?

«Dopo i Vaffa è arrivato il nuovo Coniglio mannaro di forlaniana memoria. È entrato in scena il giorno delle dimissioni al Senato. Casaleggio voleva conquistare il potere attraverso Grillo. Ma quando prendi il 33% devi metterti in una prospettiva governativa. Conte dà questa prospettiva. L’errore di Salvini è stato puntare sull’uomo solo al comando. È sempre andata così: Berlusconi, Renzi, adesso lui. La politica è fatta di relazioni. A Roma ci si “attovaglia” per fare le strategie. Magari la si pensa in modo diverso, ma a tavola si fanno le parti. E ce n’è un po’ per tutti».

 

Panorama, 4 settembre 2019

«La canzone napoletana? Materia per l’Unesco»

Vuole prima vedere la casa o fare l’intervista?». «Assolutamente prima la casa». Renzo Arbore abita in un attico a un quarto d’ora di taxi da Viale Mazzini, ma Guarda… stupisci (modesta e scombiccherata lezione sulla canzone umoristica napoletana), il programma dei record di Rai 2, va in onda dal Centro di produzione di Napoli. Anzi, esattamente da un’aula universitaria idealmente intitolata a Totò. Ma di questo parleremo tra poco. La casa, dunque. Inesauribile museo del kitsch e dell’effimero. Alberi di Natale stracarichi di addobbi, carillon, luminarie, statuette sue con e senza clarinetto, radio d’epoca di tutte le forge, targhe di Copacabana intestate a lui, presepi, un suo ritratto-installazione luminosa di Marco Lodola, orologi con pappagallini che ti fanno il verso, gazebi, bar tropicali, la bambolina della dea Yemanja di Bahia, ninnoli incomprensibili, statuine di jazzisti, di pin up, una finta finestra davanti al golfo di Napoli, il papiro della Laurea honoris causa post mortem a Totò («nella Lectio magistralis lo dipinsi come il Grande consolatore del dopoguerra»).

Mentre al telefono amici, colleghi, dirigenti Rai applaudono al boom di ascolti della sera prima (14.5% di share, la media di Rai 2 è del 6%), la visita prosegue al piano superiore, «che io chiamo pomposamente gli Studios, perché qui abbiamo registrato sketch, programmi e programmini». Ecco il divano rosso, poi adottato da Parla con me, realizzato da Alida Cappellini e Giovanni Licheri, scenografi e designer dei programmi tv e dell’abitazione arboriana. La collezione di vinili e di cd, una libreria, scrivanie, pianoforti, cuscini commemorativi dei film, Stanlio e Ollio in porcellana, strumenti vari, armadi stipati con i gilet di Quelli della notte e la divisa da ammiraglio di Indietro tutta!, la stanza delle madonne dipinte, scolpite o in plastica. «Mancano parecchie cose che ho usato per la mostra di due anni fa al Testaccio», si duole Arbore. «La collezione di juke box, flipper e pianoforti antichi invece è in un’altra casa, dove mio nipote ha allestito uno studio discografico. Lo so, la fantasia può diventare patologica. Ma quando vedo qualcosa che mi attira mi dico che non posso non averlo».

È più kitsch casa sua o quella di Roberto D’Agostino?

«Roberto è un grandissimo rivale. Però lui possiede opere d’arte, io ho tante stronzate».

Cos’è questa smania di accumulo?

«Malgrado sia nato in una famiglia benestante, mio padre ci educava all’austerità e io non possedevo giocattoli. Ora, da adulto, me li posso comprare. Questo è il mio giocattolume, un regno di gioco e affetti. Camuffo questi acquisti inconsulti con il fatto che non ho vizi costosi, gioco, alcol, donne…».

Da qui non si può non avere una visione scanzonata della vita?

«La più grande soddisfazione me la diede Vittorio Gassman quando un giorno venne a trovarmi: “Se dovesse tornarmi la depressione”, disse, “devi promettermi che mi ospiterai perché in questa casa non si può essere depressi”. Sono nato con la positività di mio padre che, da dentista, curava il sorriso dei pazienti raccontando le barzellette: quando si aprivano alla risata gli staccava il dente. I medici che stanno in mezzo ai dolori della gente amano l’allegria».

Perché, con tutti quelli che ci sono stati, ha pensato di dedicare un programma alla canzone napoletana?

«I compositori napoletani da metà Ottocento fino a Pino Daniele hanno scritto pagine sublimi, imparagonabili per melodiosità e per poeticità dei testi a qualsiasi altra produzione musicale, non solo italiana».

Addirittura?

«Certamente. Bisogna adoperarsi perché l’Unesco la elegga patrimonio dell’umanità. Se ne conoscono una trentina… sono centinaia. S’incazzeranno certi sedicenti storici, ma sono canzoni scritte da poeti, avvocati, professori. Tutte persone di estrazione borghese, salvo qualche rara eccezione, come Salvatore Gambardella che era calzolaio. Poi fu interpretata da intellettuali finissimi: Nino Taranto, Roberto Murolo, Renato Carosone. Oggi è apprezzata dai musicofili di tutto il mondo. Riccardo Muti si toglie il cappello davanti a Marechiare. Molti dei nostri intellettuali invece l’hanno snobbata per motivi ideologici».

Perché la consideravano troppo popolare?

«Il fatto è che molti critici di cultura veterocomunista disprezzavano queste canzoni che erano farina della borghesia. Autori come Ernesto Murolo, il padre di Roberto, Libero Bovio, Edoardo Nicolardi, E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta, che ha scritto anche La canzone del Piave oltre a Tammurriata nera e tante altre. Per questo motivo, quei critici ritenevano che queste canzoni che gli americani chiamerebbero evergreen, fossero da punire. Calò un silenzio tombale».

Lei ne è diventato ambasciatore anche all’estero.

«Da 27 anni mantengo questa casa con i proventi dei 1500 concerti tenuti con L’Orchestra italiana in tutto il mondo. Per sdoganare ’O sole mio ci è voluta una pazienza straordinaria. Ora è più popolare di Summertime di George Gershwin e di Let it be dei Beatles. Con Ray Charles ne abbiamo fatto una versione meravigliosa».

Ha definito Guarda… stupisci un programma antico perché dall’antico si può trarre qualcosa di buono mentre dal vecchio no?

«È così. Io vengo dal jazz e bisogna sapere che persino il rap di oggi deriva dal blues. Se non conosci l’antico e non mastichi il blues, non puoi fare bene il rock e nemmeno il rap. È una regola».

Con lei, Nino Frassica e Andrea Delogu ci sono i giovani: un programma intergenerazionale?

«Io e Ugo Porcelli ci siamo chiesti: possibile che i ragazzi di oggi che sono sempre connessi con il cellulare non sappiano chi è Alberto Sordi? Non dico Aldo Fabrizi… Non hanno visto i capolavori del nostro cinema, la tv artistica – io la definisco così – degli anni Sessanta e Settanta. Quella di Antonello Falqui e Enzo Trapani, poi Massimo Troisi e il trio Lopez Solenghi e Marchesini. Era una tv piena di sketch indimenticabili, scritti da autori che emulavano la fantasia dei grandi sceneggiatori del cinema, Age e Scarpelli, Rodolfo Sonego, Sergio Donati».

Avrete fatto una selezione mirata dei ragazzi, perché in gran parte oggi si accalcano nelle discoteche di Sfera Ebbasta…

«Come primo e vecchio dj ho sempre distinto due pubblici: quello di Lucio Battisti e quello di Pupo, lo dico con grande simpatia… Alla mia età mi spiace constatare che in maggioranza i giovani sono interessati al gossip, alla volgarità, alla battuta corriva».

Apposta parla di educational show: c’è spazio per educare al bello?

«Naturalmente educational show è una provocazione. Questo programma è nato all’università Federico II, quando ho mostrato agli studenti brani dell’Altra domenica e fatto ascoltare Bandiera gialla e vedevo che questi ragazzi scoprivano mondi ignoti».

Cosa può dare la canzone napoletana al tempo degli haters?

«Agli haters dobbiamo opporre la cultura del sorriso, l’umorismo della nostra musica, la goliardia sapiente. La canzone napoletana dev’essere insegnata nei conservatori perché ha la stessa nobiltà del melodramma. Ma qui serve anche l’impegno della politica. Esportiamo nel mondo la moda, la Ferrari, la gastronomia, il design, l’unica cosa che non esportiamo è la canzone di qualità che può diffondere anche la nostra splendida lingua. Il ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli dovrebbe farci un pensiero».

Lei è foggiano, ma canta Napoli, Modugno è barese, ma lo si considera siciliano. È un destino dei pugliesi?

«La tradizione napoletana è più forte. La mia famiglia benestante svernava a Napoli dopo il raccolto del Tavoliere perché il clima è più dolce. Mio padre si è laureato e ha iniziato a fare il dentista a Napoli. Mia madre è una Cafiero di origini napoletane. Così, io mi sono iscritto all’università di Napoli. Studiavo giurisprudenza e suonavo con gli americani, Murolo e Sergio Bruni fino a notte fonda».

Fabio Fazio l’ha chiamato padre della televisione italiana.

«Più che padre, considerata l’età, sono il nonno. La nonnità deriva da quello che ho fatto: tre format radiofonici come Bandiera gialla, Per voi giovani e Alto gradimento e 16 televisivi, da L’altra domenica a Speciale per voi, da Meno siamo meglio stiamo a Cari amici vicini e lontani che ha celebrato la radio in tv».

Quindi il monumento le è piaciuto?

«Il monumento ci può stare perché sulla Verità tale Celli Pier Luigi, il peggior direttore generale che la Rai abbia avuto, ha sparlato di me. L’unico fallimento della mia carriera è stata la direzione artistica di Rai International, un’idea straordinaria guidata dall’ottimo Roberto Morrione, che quel signore è riuscito inopinatamente a far chiudere non rinnovandoci il contratto e dandomi del venale. Un’accusa che ritengo la più lontana e infamante della mia personalità. Per questo abbiamo creato l’associazione Roberto Morrione e oggi tutti rimpiangono quella stagione come la migliore di Rai International».

Un mio ex compagno di scuola mi ha ricordato che alla fine delle lezioni andavamo a casa mia ad ascoltare Alto gradimento

«Nella storia della radio, Alto gradimento è stata la seconda trasmissione più seguita dopo I quattro moschettieri. La terza è stata Viva Radio 2 di Fiorello».

Che lei considera un suo erede, più di Fazio, Piero Chiambretti e Giorgio Faletti?

«Lo considero un po’ un figlioccio. Lui stesso lo dice, ricordando quando parodiava le mie canzoni nei villaggi turistici. Anche Chiambretti ha preso qualcosa. Faletti no, ha una storia autonoma, era un talento eclettico, faceva Vito Catozzo, ha scritto la meravigliosa Minchia, signor tenente, grandi thriller…».

Breve lista dei talenti scoperti con Gianni Boncompagni: Roberto Benigni, Andy Luotto, Michel Pergolani, Luciano De Crescenzo, Riccardo Pazzaglia, Simona Marchini, Massimo Catalano, Marisa Laurito, Francesco Paolantoni, Maria Grazia Cucinotta, Mario Marenco, Giorgio Bracardi, Maurizio Ferrini, Ilaria D’Amico, Roberto D’Agostino…

«Ilaria D’Amico la avvicinai per strada proponendole un provino proprio per Rai International. Pensai subito che potesse sfondare. Facemmo La Giostra del goal, trasmettendo le partite in diretta fuori dall’Italia. Lei conduceva e divenne esperta di calcio».

De Crescenzo?

«Rappresenta la Napoli aristocratica di Raffaele La Capria. Un ingegnere elettronico, il primo a usare il computer in Italia. Lo conobbi perché avevamo la stessa fidanzata a nostra insaputa. Lei mi diceva: “Sono amica di De Crescenzo”, e a lui: “Sono amica di Arbore”. Quando c’incontrammo tutti e tre capimmo che non era amicizia».

Troisi?

«Paladino di una Napoli di grande tradizione. Un erede di Eduardo e un grande amico».

Benigni?

«Un folletto intelligentissimo che dimostra come ci si può fare da sé. Anche Mariangela Melato e Gabriella Ferri si sono fatte da sé. Persone di estrazione proletaria che si sono acculturate lasciando il segno nella cultura italiana».

Dimentico qualcuno?

«Il Mago Forest era il maghetto di Indietro tutta. Poi le sorelle Bandiera, il primo trio di comici en travesti ma di grande eleganza. Il più forte di tutti però era Mario Marenco: una vena umoristica così surreale e moderna io e Gianni non l’abbiamo mai più trovata».

Che fine ha fatto Gegé Telesforo?

«È uno dei migliori cantanti jazz europei. Fa un piccolo programma su Rai 5, la grande televisione non segue il jazz».

D’Agostino come lo trovò?

«Era uno dei ragazzi di Bandiera gialla. Informatissimo, andava nei night a pescare mode e tendenze. Aveva curiosità per le cose che bisognava sapere, come dimostra il successo di Dagospia. Dago in the Sky è il programma più d’avanguardia della televisione italiana».

Il suo partner ufficiale è lo straordinario Nino Frassica: rischia forse d’inflazionarsi?

«Qualche volta glielo dico anch’io».

Pazzaglia?

«Un intellettuale borbonico, autore delle più belle canzoni di Domenico Modugno. Un compagno d’armi con il quale abbiamo fatto Cari amici vicini e lontani sui 60 anni della radio. Pensando a lui mi riprometto di campare fino al 2024 per festeggiare il secolo della radio».

Che l’ha svezzato.

«Eravamo la generazione beat, quella apprezzata da Edmondo Berselli, protagonista della vera rivoluzione prima del Sessantotto. Con Bandiera gialla e Per voi giovani si scoprirono i giovani. Fino al 1964 si parlava solo di ragazzi, le riviste erano L’Intrepido, Il Monello, Il Corriere dei ragazzi. Poi nacquero Big, Giovani e Ciao 2001. C’erano Barbara Palombelli, Dario Salvatori, Renato Zero, Loredana Bertè, Clemente Mimun. Avevamo rubato l’etichetta beat a Jack Kerouac e Lawrence Ferlinghetti. Creammo i cappelloni, i chitarroni, un modo di ballare, c’era Patty Pravo. Pochi giorni fa ho rivisto Shel Shapiro e Maurizio Vandelli…».

Poi arrivò la contestazione e in quell’atmosfera cupa sceglieste come sigla Rock around the clock che aveva l’argento vivo…

«Fu voluto, ovviamente. Il nostro successo venne dal fatto che facevamo divertire in un momento in cui il sorriso era criminalizzato. I contestatori dicevano: “Una risata vi seppellirà”. Sono rimasti sotto loro. Da filoamericano non potevo simpatizzare per i maoisti cinesi o i comunisti filosovietici perché i miei amici jazzisti erano già stati in Russia e mi raccontavano la tristezza di là».

Mai litigato con Boncompagni?

«Mai. Eravamo diversi, ma ben assortiti».

Lui era cinico?

«Ma molto intelligente e intraprendente, mentre io ero timidissimo. Mi ha tirato fuori da quel guscio di timidezza».

Era nichilista?

«Era comunista. Lo erano tutti tranne il sottoscritto e il mio amico Gerardo Gargiulo, gli unici liberali. Indossavamo i jeans che si compravano ai mercati americani. Poi suonavo all’Uso (United States Organizations) un club che assisteva i militari americani. Per Tu vuo’ fa’ l’americano Carosone s’ispirò a noi».

Le registrazioni di Alto gradimento sono state ritrovate?

«Una parte le ha Radio Rai, qualcuna qualche appassionato. Faccio un appello ai collezionisti che ne possedessero delle registrazioni di scrivere al suo giornale, così potremmo recuperare una pagina importante della storia della radio».

Perché il jazz e la canzone napoletana?

«Quand’ero bambino a Foggia di sera gli americani suonavano Glen Miller al Circolo ufficiali di fronte casa. Invece di giorno, mentre ricostruivano le case bombardate, i muratori cantavano le canzoni napoletane».

Cosa guarda in televisione?

«I talk show. Lo faccio per esaudire il pasqualismo di Totò. Un energumeno lo riempiva di ceffoni “Pasquale beccati questo; e quest’altro”, per vedere fino a che punto resisteva. Lui non reagiva: “Mica sono Pasquale”. Guardo i talk show per vedere fin dove vogliono arrivare i politici. I talk show sono televisione per eccellenza. E poi in me c’è una passione politica nascosta».

Possiamo circostanziare?

«Anche in questo sono filo americano. In camera da letto ho il busto di Abramo Lincoln e ho apprezzato John Fitzgerald Kennedy. Ho cercato il più americano dei partiti italiani senza riuscire mai a trovarlo».

Quindi non vota?

«Votavo per quelli che mi sembravano più vicini, poi ho abbandonato. Cerco il partito dell’affidabilità, quello che ti vende l’auto usata giusta. In America l’affidabilità è tutto, i politici che non tradiscono le promesse fatte agli elettori. Altro che Bill Clinton. Da giovane leggevo tutti i giornali di partito da La Discussione a La Voce repubblicana fino a Rinascita».

È rassegnato?

«Ho poca fiducia. Esportiamo il made in Italy, ma la politica e la questione sociale no perché sono il vero tallone d’Achille».

Il cambiamento delle ultime elezioni?

«Sto a guardare, ma fatico a vedere personalità che possano avvicinarsi al mio punto di vista da artista. Poi sono lincolniano… Mi piacerebbe trovare qualcuno che dice qualcosa che va contro i suoi interessi».

In un’isola deserta con soli tre dischi.

«West and blues di Louis Armstrong, Era de maggio di Roberto Murolo, Titanic di Francesco De Gregori».

Chi sono i maestri del venerato maestro Renzo Arbore?

«Armstrong, Totò, Murolo, Ray Charles, Riccardo Pazzaglia, Charlie Parker, Federico Fellini».

Il più grande di tutti?

«Louis Armstrong, che ha inventato la musica del nostro tempo».

Tra gli italiani?

«Enzo Jannacci per la fantasia straordinaria. Ha scritto Vincenzina e la fabbrica Vengo anch’io! No, tu no, Il palo dell’ortica».

Cosa farà a Natale?

«Me lo godo con la famiglia. Anche se non c’è più Mariangela… Con lei sono diventato credente».

Cosa intende dire?

«Che spero e credo che lei ci sia ancora. Quando si pensa alle persone care è importante credere in un’altra vita. Questo grandissimo dolore mi ha avvicinato a un sentimento religioso. La lotta che ha condotto contro quella malattia ingiusta… tutte le malattie lo sono. Ma io voglio sperare. Ecco: sono uno sperante».

 

La Verità, 16 dicembre 2018

Perché Palombelli vince il primo round con Gruber

Durerà tutta la stagione il duello tra le regine del talk show. E ci sarà dunque modo di aggiornarsi strada facendo. Per ora va registrato il successo alla prima uscita di Barbara Palombelli su Lilli Gruber: 5.2% di share (1,2 milioni di telespettatori) per Stasera Italia e 4.9% (1,1 milioni) per Otto e mezzo. Sui numeri dell’audience alchimie e programmazione dei canali concorrenti influiscono in modo diverso. Per esempio: il match della Nazionale con il Portogallo avrà portato via più telespettatori al programma di La7 o a quello di Rete 4 che ha un pubblico in prevalenza femminile? E l’assenza di break pubblicitari (se si eccettua quello di 30 secondi alle 21) quanto avrà favorito il talk della rete Mediaset? Ecco perché non vale la pena enfatizzare il risultato del primo duello. Le due sacerdotesse dell’access prime time continueranno a fronteggiarsi, diverse e speculari per stile giornalistico, antropologia ed estetica. Lilli: altoatesina e spigolosa, in uno studio asettico; Barbara: romana, senza più il microfono gelato, in un contesto un po’ incipriato. Lilli più seguita al nord, da un pubblico maturo e acculturato, di solito in maggioranza maschile (quello identificato con la doppia A dalle società di rilevamento); Barbara apprezzata in modo uniforme, ma con picchi nel centro Italia, da un pubblico più femminile e con livello d’istruzione basico.

Per ciò che si è visto nel primo round la differenza evidente è stata di vivacità e dinamismo. Rispetto alla lunga intervista con Alessandro Di Battista di Gruber, il talk di Palombelli è parso più dentro le notizie della giornata, affrontate con linguaggio semplice e diretto, non solo per la presenza di Pierluigi Bersani, Alessandro Sallusti e Ferruccio De Bortoli. La conduttrice di Otto e mezzo ha interrogato l’esponente grillino in Guatemala con l’idea di fargli prendere le distanze dal governo o almeno da Luigi Di Maio, alleato di Salvini che causa i controlli dell’Onu per razzismo e rispetto al quale il M5s è subalterno. Un’intervista molto politica, che persegue la strategia della divisione tra i partner di governo.

Più vivace il salotto di Rete 4, partito sull’ispezione dell’Onu e proseguito con il dibattito sulla chiusura domenicale dei negozi, temi introdotti da servizi ad hoc, come quello sul traffico di migranti a due passi dalla Stazione Termini di Roma. Nella seconda parte, con Vittorio Sgarbi e Roberto D’Agostino si sono affrontati temi più leggeri, cominciando dallo storico schiaffo in diretta del 1991, per finire con le pagelle ai politici. Stasera Italia è parso un talk show di approfondimento completo.

L’emozionante esperienza visiva di Dago in the Sky

S’intitolava «Homo robot» la prima puntata di Dago in the Sky, il programma di Roberto D’Agostino e Anna Cerofolini che per il terzo anno riflette su tendenze e avanguardie innescate dalla rivoluzione tecnologica (Sky Arte, martedì, ore 21.15). Più ancora delle stagioni precedenti quella appena iniziata è un’esperienza visiva, un viaggio estetico, un percorso visionario. Lo schermo non è più sezionato geometricamente in rettangoli e quadrati, ma le immagini sono fluide, evolvono, si sdoppiano, riflettono, accoppiano. Attraverso l’uso digitale della tv si va alla ricerca di un «Rinascimento hi-tech» capace di archiviare il «Medioevo analogico del secolo scorso». Su un angolo dello schermo, spunta e si rifrange il volto parlante di D’Agostino che segna i passaggi della riflessione o quello degli ospiti convocati per approfondirne alcuni segmenti specifici.

Oggi il sentimento più diffuso non è il timore del futuro, ma di ciò che avverrà domani mattina. Che ne sarà del lavoro con l’avvento dei robot? L’intelligenza artificiale cambierà anche il sesso? E influirà anche sull’identità degli esseri umani? Già oggi i computer ci battono a scacchi, fanno la pizza, guidano le auto. Ma «preparatevi», avverte D’Agostino, nella prossima società cibernetica «le macchine saranno più intelligenti degli esseri umani». La tecnologia è l’ideologia del ventunesimo secolo, solo che non ha come obiettivo il governo degli Stati, ma la creazione di un paradiso a misura dei robot più che degli esseri umani. Questo potrà passare per il governo dei cervelli, la sorveglianza delle menti, l’incanalamento delle pulsioni. Secondo Maurizio Molinari, la prima rivoluzione riguarderà il lavoro, l’automazione creerà disoccupazione e il tempo libero da residuale diventerà principale. Ma al momento nessuno sa come prenderla. Il punto di svolta sarà quando i robot avranno capacità creativa e inventiva. Per la master inventor Floriana Ferrara è un errore difendersi dalla tecnologia che è, invece, una grande opportunità. Grandi scrittori e registi del passato avevano immaginato che l’intelligenza artificiale avrebbe potuto influire sull’identità dell’essere. Quella che trent’anni fa era fantascienza ora è realtà. Ce n’è abbastanza per dividersi tra apocalittici e integrati. Scherzando, Albert Einstein osservava: «Il futuro non mi piace perché arriva troppo presto».

Nelle prossime puntate Dago in the Sky si occuperà di occulto, tendenze artistiche, celebrità digitali, vite stupefacenti, potere dei farmaci…

La Verità, 9 novembre 2017