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«L’Expo lo fanno in Arabia, qui c’è il patriarcato»

Il quarto libro di Federico Palmaroli, in arte #lepiubellefrasidiosho, s’intitola «Er pugno se fa co la destra o co la sinistra?» (Rizzoli). A chiederlo in copertina è un’amletica Elly Schlein, segretaria del Partito democratico. Sottotitolo: splendori (e miserie) di un anno italiano.

Insomma, lei proprio non lo vuole capire.

«Che cosa?».

Che in Italia c’è il patriarcato.

«Ero convinto di no, ma pian piano ci sto arrivando».

Alla buon’ora.

«Ero rimasto alla resilienza».

Non avrà qualcosa contro la resilienza?

«Io ho qualche problema solo con l’alcol» (ride).

Dopo quello con Giorgia Meloni, questo con la Schelin è il secondo libro consecutivo con una donna in copertina: è ora di finirla.

«Mi rendo conto. Ma questo dovrebbe dimostrare che non c’è il patriarcato. Oppure è la conferma che c’è? Ditemelo voi quello che devo fa’».

Si vede anche dalla pubblicità che in Italia comandano sempre gli uomini.

«I miei amici sposati dicono che in casa decide sempre la moglie».

Balle. Negli spot gli uomini scelgono l’anticalcare per la lavatrice, la merendina della colazione, il patriarcato è inarrestabile.

«La famiglia si è evoluta, in parte si è disgregata e i separati sono la maggioranza. Così gli uomini devono occuparsi di tutto. C’è l’interscambio di ruoli e pure l’indipendenza della donna».

È qui che la volevo. Le piace Elodie militante contro l’oggettificazione della donna?

«Non voglio certo fare il bacchettone. Ma se vuole battersi contro l’oggettificazione della donna, l’esibizione di Elodie ne è un gran bell’esempio. Ha duettato anche con trapper che cantano proprio quello che si vorrebbe condannare».

Con Elly Schlein in copertina la inviterà anche Fabio Fazio?

«Sicuramente. Forse mi ha già chiamato, ma non ho sentito lo squillo».

Perché ha scelto la vignetta in cui chiede se «er pugno se fa co la destra o co la sinistra»?

«Nei precedenti libri c’erano Giuseppe Conte, Mario Draghi e Giorgia Meloni, tutti premier, diversi ogni anno a dimostrazione di quanto poco durano i governi. Ora non mi sembrava il caso di rimettere la Meloni. Perciò ho scelto la Schlein, primo segretario pd donna».

Ma la domanda della vignetta?

«Per ricordare che, come retaggio, la Schlein non viene dal mondo operaio e ha qualche difficoltà a ricordare le basi di un partito di sinistra. Non a caso, i circoli non avevano scelto lei».

E anche per segnalare che è più interessata alla forma che alla sostanza?

«Che sia molto interessata all’estetica l’abbiamo visto con la faccenda dell’armocromista».

Il fatto di non essere una segretaria di apparato le sta giovando?

«Teoricamente potrebbe essere un vantaggio e portare nuove idee. In realtà, usando le sue parole, possiamo dire che non l’abbiamo ancora vista arrivare».

Non sta riuscendo ad aprire il partito alla società civile?

«Stando ai sondaggi, non mi sembra che abbia catturato quell’elettorato che la sinistra ha perso. Mentre Fdi continua a crescere e la luna di miele con il premier non è ancora finita, secondo i sondaggi il Pd è in discesa. Non fa presa sull’area che vuole riconquistare».

Che cosa pensa del casting in vista delle europee? Si parla di Chiara Valerio, Patrick Zaki…

«Persone che hanno una storia delicata alle spalle e che meritano rispetto come Zaki vengono usate come ariete per le elezioni».

Poi c’è la corte serrata, finora respinta, a Roberto Saviano.

«Da Saviano me l’aspetterei di più perché si contrappone sempre al governo. Però, insomma… Come quando hanno messo in giro la voce che mi sarei candidato anch’io con Fdi… Il motivo per cui personalmente non ci penso è lo stesso per cui critico questo tipo di candidature».

Candidare scrittori e intellettuali vuol dire essere sempre in modalità armocromista?

«Nel senso della prevalenza dell’immagine sulla sostanza? Un po’ sì. Magari funzionano come calamita di voti, hanno un loro seguito…».

Gli elettori abboccano ancora?

«È un meccanismo che c’è sempre stato. La notorietà e la visibilità possono pagare anche alle urne. Io contesto l’opportunità delle scelte individuali, soprattutto se si è consapevoli di finire in un territorio estraneo».

La rivelazione di avere l’armocromista è la gaffe più clamorosa dell’anno o ce ne sono state di peggiori?

«È stata un’imprudenza. La gaffe è concedere un’intervista a Vogue, rivolgendosi a un pubblico lontano dal proprio mondo di riferimento. Non sono tra quelli che credono che i comunisti debbano vestirsi da straccioni. Ma penso che la lacuna maggiore sia la mancanza di memoria, non ricordarsi delle cose dette. L’accusa sballata al governo Meloni di aver voluto il mercato libero delle bollette, mentre è un provvedimento deciso dal governo Draghi e votato dal Pd su invito dell’Europa, mi disturba più dell’armocromista».

Anche stare al telefono mezz’ora con due comici russi credendo di parlare con diplomatici africani non è male come infortunio.

«Altroché. Alla Meloni non è certo arrivata la chiamata sul cellulare con scritto “Sospetto Spam”. Avrà dato per scontato che sia stata filtrata prima dall’apparato della sicurezza. Però, certo, è un infortunio».

Il premier è troppo vittimista nel rapporto con i media?

«Vedo riflettori con lenti molto più sensibili rispetto a prima. Si aspetta solo che qualcuno sbagli, e il minimo errore ha un’eco enorme. Con Draghi c’era un altro ossequio, non questa attenzione su come venivano condotte le conferenze stampa, per dire… Sul centrodestra c’è più pressione e quindi anche maggiore suscettibilità».

Giorgia Meloni ha gestito bene la vicenda di Giambruno o, come dice Nichi Vendola, doveva esprimere solidarietà alle colleghe che il suo ex compagno ha importunato?

«Sono state pronunciate frasi infelici, certamente. Ma non credo fossero il preludio di chissà quali azioni malvagie. Il ruolo determina il clamore. Scusarsi lei? Non sappiamo nemmeno le dinamiche interne, magari erano battute che facevano parte del cameratismo della redazione… Per chiedere scusa bisogna conoscere le dinamiche relazionali, al di là del fatto che potessero essere espressioni fuori luogo».

Quanto a gaffe, anche il cognato Francesco Lollobrigida non si risparmia.

«In Italia l’etica non gode di buona salute. Era immaginabile quello che sarebbe successo: “Lollo, la prossima volta vacci col Falcon”».

Invece, dopo la scelta di Riad per l’Expo 2030, in una sua vignetta il sindaco Roberto Gualtieri è a colloquio con Bergoglio.

«Il Papa lo ha convocato per comunicargli di aver ricevuto un’offerta irrinunciabile per fare anche il prossimo Giubileo a Riad».

A proposito di Francesco, la Provvidenza sotto forma di una bronchite, gli ha evitato un viaggetto fino a Dubai per la Cop28.

«Fosse andato avrebbe potuto definire i dettagli del Giubileo arabo».

Ma secondo lei Roma non farà l’Expo a causa della spazzatura, dei cinghiali o di un altro motivo?

«Forse perché da noi c’è il patriarcato. Sarà per questo che l’hanno spuntata gli arabi…».

Il più furbo di tutti è Luca Casarini, l’ex leader delle Tute bianche che fa accoglienza con i soldi dei vescovi?

«Se confermate, sono situazioni che lasciano stupefatti. Tanto più dopo il caso di Soumahoro… fai il paladino dell’accoglienza e poi i migranti stanno in situazioni penose. Una cosa “troppo regalata”, come si dice a Roma. A sinistra nessuno si è sentito in dovere di condannare l’assalto alla sede di Pro Vita, un’associazione lontana dal mio sentire. Quando accadde per la Cgil la condanna fu bipartisan».

Speriamo che il caso Casarini non sia simile al caso Soumahoro.

«Non credo che i cattolici siano felici di vedere i loro soldi finire in mano a Casarini».

È contento che ci sia un grande ritorno di politici?

«Rientrano Nichi Vendola, Gianni Alemanno e Alessandro Di Battista. Spero che ci pensi anche Luigi Di Maio. Era il mio prediletto, la mia guest star».

Che cosa si potrebbe fare per convincere al gran (ri)passo anche gli incerti come Roberto Formigoni e Michele Santoro?

«Forse garantire loro di essere protagonisti delle mie vignette».

Basterà?

«Temo di no, ma potrebbe essere un piccolo incentivo».

Il generale Roberto Vannacci ha scritto anche cose buone?

«Non ho letto il suo libro, ma al di là di quello che ha scritto, se si rimane nella legalità ognuno dev’essere libero di esprimere ciò che pensa. Basta doversi allineare a un unico pensiero».

Se persino Mussolini ha fatto cose buone come si dice ironicamente, anche Vannacci…

«Al di là delle sue esagerazioni, mi disturba che ci sia un controllo delle opinioni per cui si cammina come elefanti in cristalleria. O la pensi come la maggioranza oppure, anche se fai un ragionamento strutturato e senza slogan, ma personale, passi per un estremista e vieni additato. Come sul cambiamento climatico, partono subito le accuse di negazionismo».

Ce la farà Giorgia a ribbartare l’eggemonia de sinistra?

«Non sono per l’egemonia né di sinistra né di destra, ma per l’integrazione e il dialogo. Se è vero che, in passato, in tanti ambiti è stata di sinistra, sarebbe un bene se si riequilibrasse un po’, portando competenze di segno diverso. Non è solo una questione di numeri, come se fossero quote rosa, posti assegnati per rappresentanza, ma di contenuti».

Intanto con Lorella Cuccarini co-conduttrice la destra si è già presa mezzo Festival di Sanremo.

«Beh sì… Ma poi chi la conosce ’sta Cuccarini? Vedrà che sarà un’amica della Meloni».

Dopo la Schlein, al Nazareno vede meglio Maurizio Landini, Filippo Gentiloni o Dario Franceschini?

«Stimo personalmente Gentiloni che, per altro, apprezzava la mia satira senza offendersi. Ma penso anche al beneficio politico del Pd perché lo ritengo una persona per bene».

E il fatto che le darebbe molte soddisfazioni non guasta…

«Me ne ha già date tante, è stato il mio primo amore vignettistico».

 

 

La Verità, 2 dicembre 2023

«A Peschiera erano alpini di seconda generazione?»

Giovedì scorso era il compleanno di Federico Palmaroli, in arte Le più belle frasi di Osho, 540.000 seguaci su Twitter e 1,2 milioni su Facebook, collaborazioni con Porta a Porta e Il Tempo.

Come ha festeggiato?

«Con gli amici. Poi, confidando nella clemenza del tempo, sono partito per un weekend in Puglia».

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«La pace nel mondo, come Miss Italia. Scherzi a parte, la pace è davvero auspicabile, per ovvie ragioni. Per me lo è anche perché tornerebbe finalmente in primo piano la politica vera. Con il governo Draghi, per chi fa satira è un periodo difficile. C’è poco dibattito, mancano gli scontri che sono il sale della satira».

E il Parlamento, chi l’ha visto?

«Draghi è diventato pallone d’oro di voto di fiducia… Il Parlamento di questi tempi ha un ruolo abbastanza marginale».

Mentre fuori si registra una certa vivacità, nascono partiti inediti come Forza Africa a Peschiera del Garda e Forza Russia sui giornali.

«La faccenda di Peschiera ha messo in luce le contraddizioni dei buonisti. Lo dico da umorista… Qualcuno potrebbe arrivare a dire che gli autori dei palpeggiamenti erano alpini di seconda generazione. Sui giornali il sensazionalismo riservato agli alpini di Rimini è scomparso nei confronti dei nordafricani di Peschiera».

Per le molestie al raduno di Rimini si è chiesto lo scioglimento del corpo degli alpini, per quelle sul treno Verona-Milano sono iniziati i distinguo.

«Mentre sono entrambi esecrabili. Non mi accontento di dire che quella degli alpini era goliardia. Erano comportamenti fastidiosi. Allo stesso modo condanno i fatti di Peschiera, con eccessi che manifestano un degrado radicato e alimentato dai tam tam dei social network».

Perché sui palpeggiamenti alle ragazze sul treno la voce delle femministe è stata così flebile?

«Dipende sempre da chi sono i violenti e chi sono le vittime. I ragazzi marocchini e nigeriani hanno minacciato: “Le donne bianche non salgono su questo treno”. A parti rovesciate avremmo sentito strillare e letto paginate per giorni e giorni».

Qualcuno ha incolpato i controllori che non hanno fatto rispettare l’uso delle mascherine.

«Pur di sgravare i veri responsabili… Mi sono meravigliato che non si sia scritto che sono state le ragazze a provocare… Se per caso si accenna alle conseguenze dell’immigrazione incontrollata apriti cielo. Il vero problema è che gli italiani non si sono integrati in Italia».

Accadrà quello che è successo nelle banlieue francesi?

«La tendenza mi sembra quella. Se non si inverte la crisi demografica, nel medio e lungo periodo la maggior parte della popolazione giovane sarà di origine africana».

Ci sono già adesso territori off limits alle forze dell’ordine?

«Questo riguarda anche certe realtà criminali italiane. La delinquenza portata dagli immigrati irregolari dovrebbe essere affrontata con la prevenzione prima che con la repressione».

Qual è la sua opinione sul ministro degli Interni Luciana Lamorgese?

«La definirei goffa. Ricorda quando durante l’audizione in Parlamento dell’ottobre scorso disse che l’agente infiltrato nella manifestazione no-vax a Roma stava verificando “la forza ondulatoria” di un blindato? Sull’immigrazione, a differenza di Salvini che ha sempre richiamato l’Europa alle sue responsabilità, l’attuale ministro mi sembra latitante».

Come nella gestione dei rave party?

«Più che un ministro tecnico sembra un ministro techno. Qualche abitante di Peschiera del Garda aveva avvertito la polizia del pericolo, ma non si è fatto niente. Lo stesso è successo l’anno scorso per il rave nel Viterbese. Grazie alle loro informazioni le questure potrebbero prevenire».

Secondo i grandi giornali sta nascendo anche Forza Russia.

«Premetto che per me la Russia è l’aggressore e l’Ucraina è il paese aggredito. Questo è un fatto incontrovertibile anche analizzando le responsabilità pregresse. Ma come da vaccinato non approvavo la campagna contro i no-vax, così ora contesto il tentativo di soffocamento di chi ha una opinione diversa sulla guerra. Anche se quella lista di cosiddetti filoputiniani non fosse stata fornita dai servizi segreti la sua pubblicazione è ugualmente grave. Non vedo come atleti, ballerini e artisti russi esclusi da competizioni, teatri e rassegne varie c’entrino con ciò che sta accadendo».

Il capo di Forza Russia sarebbe Michele Santoro tornato in prima linea?

«Lo vedrei bene il ritorno di Santoro in tv…. non con Anno Zero, stavolta con Anno Zeta».

Lei crede che in Italia esista una «complessa e variegata rete» che fa propaganda per Putin?

«Non vedo questo pericolo. Ci sono voci contrarie, sui social anche alcune becere. Ma sebbene Volodymyr Zelensky possa risultare una figura controversa, l’opinione pubblica mi sembra in maggioranza schierata dalla parte dell’Ucraina. Non mi sembra ci sia il pericolo di rovesciare i ruoli di carnefice e vittima».

Eppure quella lista additava persone che osavano criticare l’operato del governo come se fosse un reato.

«Per me non c’è alcuna necessità di compilare liste. Come sui temi politici l’opposizione è benvenuta anche sulla guerra e le questioni internazionali».

In questo momento Forza Ucraina è il partito che godrebbe di maggiori consensi?

«Certo. Dopo la vittoria pilotata della band ucraina all’Eurovision mi aspettavo che anche la nazionale di calcio si qualificasse per i Mondiali».

L’ha sorpresa la sconfitta con il Galles?

«Un po’. Ma far vincere i Mondiali di calcio all’Ucraina sarebbe stato un tantinello più difficile che farle vincere l’Eurovision».

Forza Ucraina è più in salute di Forza Italia?

«Sicuramente sì, ma attenzione al Cavaliere… Ha portato il Monza in serie A, potrebbe essere una nuova escalation».

Le sanzioni contro la Russia rischiano di essere un boomerang?

«Sono uno strumento da sempre utilizzato in queste situazioni. Se non si va in guerra, bisogna trovare altre forme di pressione. I danni principali rischiamo di pagarli noi, lo stiamo già vedendo. Le aspettative e i progetti di rinascita post-pandemia sono da rivedere».

Dipendiamo dalla Russia per il gas, ma sono cresciuti il costo della benzina e quello della pasta.

«Sono gli effetti collaterali. Draghi l’aveva anticipato quando aveva chiesto se preferiamo l’aria condizionata o la fine della guerra, ma il collegamento è risultato incerto. Non so se ci siano altre strade percorribili oltre alle sanzioni. Quello che è sicuro è che ci siamo autosanzionati. Non potremo più comprare la pasta? Poco male, tanto tra un po’ non avremo neanche più il gas per cuocerla».

Matteo Salvini è sempre pronto a partire per Mosca?

«Ma poi fa sempre marcia indietro. Non credo che un suo viaggio sarebbe risolutivo, gli consiglierei di rispettare le gerarchie. Nemmeno il Papa, che avrebbe sicuramente un’altra influenza, va a Mosca. E come umorista un po’ mi dispiace».

Perché?

«Sarebbe una grande fonte d’ispirazione. Il Papa e Putin: una prateria. Anche se ci andasse Salvini sarebbe una vena d’oro».

Luigi Di Maio che scrive bozze di negoziati di pace mostra che siamo naif?

«Affiora la nostra inclinazione alla macchietta. Come quando mostrando la sua biografia disse, compiaciuto, che il suo collega il ministro Sergej Lavrov avrebbe voluto farla tradurre in russo. È evidente che lo stava cojonando».

Andrà a votare per il referendum indossando la mascherina?

«Andrò senza indossarla, visto che non è più obbligatoria. Sono sempre stato disciplinato, perciò ora me la levo. Anche perché ho fatto da poco il Covid. Se un Paese tra i più prudenti al mondo dice che non è obbligatoria, me la evito. Tanto non penso che ai seggi domenica ci saranno tutti ’sti assembramenti».

Il vaiolo delle scimmie è già stato scongiurato?

«Da cittadino sono contento. Da vignettista mi rode un po’ perché sarebbe stato un filone interessante. Altro che bonus psicologo, con l’arrivo di un’altra catastrofe metà dei fondi del Pnrr servirebbero per un  trattamento sanitario collettivo».

Dopo il reddito di cittadinanza e il bonus psicologo speriamo nel reddito minimo?

«Vediamo se e come verrà applicato».

È più contento per il caricabatterie universale o per lo stop alle auto a benzina e diesel nel 2035?

«Il caricabatteria universale in sé è una cosa giusta. Ma nel momento in cui si aspettano tante risposte dall’Europa su questioni più drammatiche e stringenti mi ha fatto sorridere l’enfasi con cui anche Enrico Letta ha accolto il provvedimento. Lo stop alla benzina nel 2035? Spero de morì prima. Le auto elettriche costano un fottio, serviranno incentivi giganteschi e organizzare le città per le ricariche. Nutro qualche dubbio che saremo pronti».

Ringhio Gattuso si è fatto addomesticare da Walter Veltroni?

«È diventato un micetto. Magari lo avevamo interpretato male finora e presto lo vedremo su qualche carro del gay pride. Ma non credo».

Stanno peggio nel centrosinistra o nel centrodestra?

«Il centrosinistra mi sembra messo male rispetto al proprio elettorato. Concentrandosi sui diritti civili finisce per trascurare altre battaglie storiche della sinistra. Il centrodestra rischia di gestire male i consensi di cui sulla carta dispone per governare. Sbaglia spesso candidati, si presenta diviso in alcuni capoluoghi. È un’alleanza che si basa su fondamenta di plastilina. Insomma, chi ha il pane non ha i denti».

Litigano più Meloni e Salvini o Letta e Conte?

«In apparenza Salvini e Meloni. Le discussioni del centrodestra sono sotto gli occhi di tutti, ma non è detto che siano le più accese. Nel centrosinistra ci sono trame e dissidi sotterranei. Conte rivendica un ruolo nei 5stelle e spera di riacchiappare una fetta di elettorato. Non sono sicuro che ci riuscirà».

Il campo largo si è già ristretto?

«Più si va avanti più emergeranno questioni che sembravano superate».

Che fine ha fatto Nicola Zingaretti?

«Credo stia ancora cercando di recuperare i 14 milioni di euro sborsati dalla Regione per le mascherine fantasma. Magari ora, a emergenza finita, le consegnano».

Da Virginia Raggi a Roberto Gualtieri quanto è cambiata Roma?

«Ah perché c’è un nuovo sindaco?».

Dove lo vede Draghi tra un anno?

«Ritirato a vita privata perché secondo me si è rotto le scatole dei partiti. Dopo la guerra civile per la campagna vaccinale e la guerra militare per la campagna di Ucraina lo vedo a rifiatare a Città della Pieve. Non credo che voglia fare il segretario generale della Nato, anche se forse la richiesta di adesione da parte della finlandese Sanna Marin, potrebbe fargli cambiare idea…».

 

La Verità, 11 giugno 2022

«Processo all’Azov e Donbass chiavi della pace»

Ricalcolo. Come i navigatori quando si sbaglia strada, anche opinionisti e analisti di geopolitica sono costretti ad aggiornare il percorso. La mappa della guerra evolve inesausta e le cartografie con le sagome di carri armati e missili si arricchiscono ogni giorno di nuovi elementi. Di conseguenza pure il nostro scenario politico diventa scacchiere di fantasiose alleanze. Ne parliamo con Antonio Padellaro, giornalista politico di lungo corso, già al Corriere della Sera, L’Espresso, L’Unità, fondatore e direttore del Fatto quotidiano, spesso ospite di Piazzapulita su La7.

Quando sembra che si apra lo spiraglio per un dialogo subito ci si deve ricredere?

«Sicuramente sotto traccia persistono tentativi di negoziato per un cessate il fuoco, per aprire corridoi umanitari o marittimi al fine di sbloccare le forniture di grano. Ma per iniziare a parlare di pace a mio avviso servono due condizioni. La prima: che Vladimir Putin conquisti militarmente il Donbass entro il primo luglio. La seconda: il riconoscimento della denazificazione, con l’avvio del processo nel quale alcuni elementi del battaglione Azov confesseranno le loro colpe. Una volta che queste due condizioni si saranno realizzate, forse il signor Putin acconsentirà all’idea di cercare un accordo».

L’importanza per Putin del consolidamento del Donbass è evidente, perché è importante anche la vicenda del battaglione Azov?

«Perché dal processo, al quale potranno assistere gli osservatori occidentali, capiremo se il problema dei nazisti era una sua invenzione e se quelle milizie impedivano a Volodymyr Zelensky di trattare. L’impressione è che l’Ucraina non sia un monolite che combatte come un sol uomo per l’indipendenza, ma che convivano varie fazioni. Tolta di mezzo quella più intransigente, si può aprire qualche spiraglio. La resa del battaglione Azov serve a Putin, ma forse anche a Zelensky».

Le condizioni di Mosca andranno bene anche a Kiev e all’Occidente?

«Credo che vedremo due parti in commedia. Innanzitutto l’Europa, rappresentata da Francia, Germania, Italia e Spagna, non vedrà l’ora che l’Ucraina le accetti, malgrado sia stato aggredita. La seconda parte riguarda l’atteggiamento americano, che nessuno può prevedere. Biden potrebbe accodarsi alla posizione più morbida dell’Ue, oppure potrebbe spingere perché Zelensky vada avanti. Una buona merce di scambio potrebbe essere un ingresso veloce dell’Ucraina nell’Unione europea. Nel poker c’è un momento in cui tutti i giocatori dicono “parola”, e al giro successivo ognuno fa la propria puntata. Poi c’è un altro elemento che può avere un peso sui negoziati».

Quale?

«La ricostruzione dell’Ucraina è il più gigantesco affare internazionale dal dopoguerra a oggi. Quali Paesi saranno coinvolti e a che condizioni?».

Appena ipotizzato un colloquio tra Zelensky e Putin sono rispuntate le armi pesanti: quelle che invierà Joe Biden smentiscono l’idea della Nato alleanza difensiva?

«Mentre la Russia vuole chiudere la partita militare, la Nato, l’America e l’Ucraina tendono a rallentarla. Ora sembra che il pallino ce l’abbia in mano Putin. Questo nuovo invio di armi serve a evitare che realizzi il suo piano militare entro il primo luglio. Se così fosse, avrebbe meno forza per imporre le sue condizioni».

È ricomparsa anche Angela Merkel.

«Già, chi l’ha vista? Quello della Merkel è un mistero».

In che senso?

«In patria è accusata di aver favorito la stabilizzazione del regime putiniano, trasformando la Germania in un partner importante della Russia. Come l’Italia, la Germania dipende dal gas di Mosca. Al termine del suo mandato il cancelliere Gerhard Schroeder è entrato nel vertice di Gazprom. Sebbene la Merkel sia stata la migliore amica di Putin in Europa, quel genio di Matteo Renzi l’aveva proposta come mediatrice della crisi».

Con queste premesse, ora l’ex cancelliera denuncia l’aggressione della Russia.

«Senza togliere nulla al suo spessore politico, arriva con 100 giorni di ritardo».

Anche questa una fotografia degli impacci della diplomazia occidentale?

«L’esempio più clamoroso è il vertice del G7 di fine ottobre a Roma, quello delle monetine lanciate nella Fontana di Trevi. Nei documenti finali c’era un cenno molto generico alla situazione ucraina. Com’è stato possibile che nessuno tra i grandi della terra, che anche ora mentre si sparano addosso si telefonano con una certa frequenza, abbia ravvisato la gravità della situazione».

Cosa vuol dire?

«Osservo che tre mesi prima che scoppiasse l’ira di Dio un importante vertice tra i capi dei Paesi più importanti del pianeta non ha dato la sveglia. Se non è dolo, è colpa».

Rispetto ai primi giorni del conflitto è scemata la retorica sulla resistenza ucraina e si parla meno di esercito russo allo sbando?

«Dobbiamo stare ai racconti degli inviati dei giornali e delle televisioni, che però sono al seguito delle truppe ucraine o russe. È probabile che Putin pensasse di chiudere la partita in poco tempo. Ma da qui a dire che, essendo passati 100 giorni, ha perso la guerra, ne passa. Lo stesso discorso vale per Zelensky che oggi, forse a causa di ciò che avviene sul terreno militare, appare più morbido».

Come giudica il comportamento altalenante del presidente americano?

«Finora abbiamo visto tre Biden. Il primo è quello che offre a Zelensky un elicottero per mettersi in salvo e si sente rispondere che non gli servono passaggi, ma armi. Il secondo comincia a credere nella vittoria di Kiev e nella defenestrazione di Putin, salvo farsi correggere da fonti della Casa Bianca. Il terzo Biden forse ha capito che Zelensky non può vincere e si può frenare l’avanzata russa con armi più pesanti per cercare un compromesso più favorevole all’Ucraina».

I nostri media mainstream sono un po’ meno monolitici rispetto all’inizio del conflitto?

«Hanno meno certezze sulla vittoria dell’Ucraina e sul crollo del regime di Mosca. Nei nostri media pesa l’inquinamento del discorso pubblico avvenuto nelle prime settimane con l’accusa di filoputinismo a coloro che non sono subito saliti sul carro armato. Abbiamo visto le liste di proscrizione e la bullizzazione di chi si azzardava a porre domande. Il professor Alessandro Orsini descritto come quinta colonna della propaganda russa è una vergogna che parla da sola».

Introducendo l’etica nell’interpretazione bellica si è affermato il primato dei buoni?

«Il primo passo è stato equiparare Putin a Hitler. Fortunatamente il Papa ha detto che forse “la Nato ha abbaiato” ai confini della Russia. A lui non si può dire che è filoputiniano. Del resto, ha detto ciò che hanno provato a dire anche alcuni analisti americani, ovvero che alcune azioni della Nato hanno favorito la sensazione di accerchiamento del Cremlino. Questo non giustifica l’aggressione, ma smonta il paragone tra Putin e Hitler».

Come giudica l’azione del governo italiano?

«Come canta Lucio Battisti, andiamo a fari spenti nella notte. Verrà un momento di riflessione per valutare se è il caso di fermarci o di continuare ad armare Zelensky?».

Il 21 giugno in Parlamento?

«Ci auguriamo di capire di più. Dire che dev’essere Zelensky a stabilire quali debbano essere le condizioni della pace è un’arma a doppio taglio. È vero che l’Ucraina è uno Stato sovrano, ma è altrettanto vero che non possiamo essere a rimorchio di decisioni altrui. Dobbiamo definire una condotta e forse anche uno stop al sostegno militare, considerando le conseguenze economiche della guerra».

Salvini ha portato legna al fuoco del fronte bellicista?

«Non c’è dubbio. Impressiona che il segretario di un partito di governo avvii un’iniziativa diplomatica per incontrare ministri, politici e magari lo stesso Putin senza avvisare il premier. Lo stesso giudizio vale per il piano abbozzato da Luigi Di Maio: vuoi concordarlo con il governo di cui sei ministro degli Esteri? Questa improvvisazione toglie credibilità a un Paese che potrebbe avere un ruolo di mediazione».

Gli schieramenti attuali sull’Ucraina alimentano la suggestione di un governo Letta-Meloni.

«In tutta sincerità, mi sembra una barzelletta, un film di fantascienza. L’atlantismo di Enrico Letta e quello di Giorgia Meloni sono molto diversi. Mentre il Pd ha come riferimento Biden, Obama e i democratici americani, Fdi, proveniente dall’estrema destra, punta a trasformarsi in un partito conservatore e in grado di dare garanzie per governare l’Italia. Mi sembra lunare che il prossimo Parlamento, drasticamente ridotto in termini numerici, finisca per esprimere una maggioranza tanto stravagante. L’ipotesi più plausibile sarà un altro giro di valzer con Draghi e molti nuovi ballerini. Sarebbe sempre inquietante, ma meno incomprensibile».

Come giudica il fatto che anche la banca americana Goldman Sachs scongiuri un cambio di governo e un successo del centrodestra?

«È evidente che Draghi sia il garante del nostro gigantesco debito pubblico. E che sia il garante dell’applicazione del Pnrr, portato a casa da Giuseppe Conte, non dimentichiamolo. Tuttavia, Draghi appare un po’ logorato dalla gestione della pandemia e della guerra. Forse è il caso di chiederlo a lui se nella prossima legislatura vorrà restare a palazzo Chigi. Magari vorrà andare a fare il nonno o subentrare a Ursula von der Leyen o a Jens Stoltenberg, alla Nato. A quel punto chi garantirà i nostri soldi?».

Navighiamo nell’incertezza.

«Ci siamo abbastanza abituati. Ma senza fare le cassandre, qualche interrogativo in più sulle conseguenze economiche di questa guerra dovremmo porcelo. Sempre sperando che in autunno il Covid non torni a mordere. Crediamo nel ritorno alla normalità, pensiamo ai festeggiamenti delle nostre squadre e ai pullman scoperti per le strade di Milano e Roma…».

A proposito, visto il botta e risposta con Stefano Disegni, più facile una cena tra un laziale e un romanista o l’alleanza tra Letta e Meloni?

«Una cena tra un laziale e un romanista è possibile come lo sono stati gli incontri tra Letta e Meloni. Una fusione tra Roma e Lazio, quella è impossibile: ci sono i tifosi e gli elettori. Se, più che improbabile, Letta e Meloni riuscissero ad accordarsi, chi glielo racconta agli elettori di Fdi e del Pd?».

 

La Verità, 4 giugno 2022

«È scandaloso il silenzio dell’Italia sull’Armenia»

Geografo. Da qualche tempo camminatore. Le due cose non sono incompatibili». È il profilo Facebook di Pierpaolo Faggi, docente in pensione di Geografia umana all’università di Padova e autore di numerosi libri sui paesi della Mezzaluna fertile, attraversati camminando. Negli ultimi due anni ha provato ad andare a Istanbul a piedi, accompagnato da un cane. Ma l’anno scorso il cane si è ammalato, mentre quest’anno, giunto a Belgrado, è arrivato il lockdown: «Se la salute regge, ci riproverò». L’Armenia, invece, l’ha visitata tre volte e ne ha scritto ripetutamente (ultimo libro, pubblicato da Cleup: Un odàr a pranzo. Camminando tra le tavole d’Armenia; odàr sta per straniero, foresto). Quando gli propongo l’intervista su ciò che sta accadendo in Armenia, accetta. Ma precisa che su molti argomenti la pensa all’opposto della Verità. Di vederci a San Giorgio in Bosco, dove vive, non se ne parla: il figlio anestesista gli ha raccontato cose spaventose e quindi ha fatto un patto con la moglie di non incontrare nessuno finché l’emergenza sanitaria sarà finita. Infine, alla mia richiesta di una sua bella foto, risponde che non possiede la macchina fotografica: «Ho il telefonino e disegno».

Professore, che cos’è la geografia umana?

«È una disciplina debole rispetto alla storia, alla sociologia e alla scienza pura. Una disciplina che si è evoluta nel tempo».

Mi interessa l’aggettivo…

«Serve a distinguerla dalla geografia fisica che studia le forme della terra, dei fiumi e delle montagne. La geografia umana esamina il rapporto tra società e territorio. Personalmente, ho studiato la questione ambientale nei Paesi in via di sviluppo, dal Senegal all’Asia centrale, le zone aride, la desertificazione. Ora è un tema di attualità, con i miei colleghi ne parlavamo trent’anni fa».

Ha senso insegnare una materia così nell’era della globalizzazione?

«Direi che è fondamentale perché fa capire i legami tra territori e popolazioni. Paradossalmente, la globalizzazione ha rilanciato tematiche locali. Le popolazioni e i luoghi entrano in relazione con la globalizzazione in modo diverso. Ci sono fenomeni sia di omologazione che di diversificazione. È stato così in tutte le epoche: l’impero romano, l’impero ottomano e l’impero cinese sono state forme di globalizzazione. Alla fine del XIX° secolo la globalizzazione è avvenuta con i mezzi di trasporto, treni, navi, aerei. Oggi avviene con i mezzi di comunicazione».

E la geografia?

«Spiega come i vari luoghi entrano in rapporto con il globale. Oggi c’è l’illusione che con Google maps si possa conoscere tutto il mondo. Invece conosciamo le formule, non i processi. Il topografismo, come lo chiamiamo noi, riduce i processi del mondo alle loro forme esteriori».

Che rispetto c’è nei grandi media delle comunità e delle specificità locali?

«Ci sono linguaggi diversi. Nei social media e in rete si trova tutto: quelli che ragionano di geopolitica e chi rappresenta le piccole comunità. Ovviamente c’è un mainstream dominante, la voce del padrone, del vincitore della guerra, e anche le voci che vengono dal basso. Noi diciamo di ascoltare il territorio».

Espressione tremenda.

«Significa andare sul posto, per vedere gli effetti dei processi di sviluppo».

Oggi la parola più abusata è «pianeta» e le istituzioni che contano, come l’Oms, hanno l’aggettivo mondiale.

«Parlare in termini di pianeta ha senso sia dal punto di vista fisico che di collegamento delle reti. In geografia insistiamo sul concetto di multiscalarità. Ovvero, leggere un processo attraverso più scale dimensionali: globale, nazionale, regionale, locale. Ognuna offre una dimensione del fenomeno».

Quella comunitaria è un po’ sacrificata?

«Se una farfalla batte le ali nella pianura Padana ci sarà un uragano in Australia. Tutto è collegato, perciò è sbagliato considerare solo il globale o solo il locale».

La dimensione prevalente è quella globale?

«Perché è la novità. Le dinamiche climatiche, economiche, migratorie e di genere hanno una dimensione globale».

Perché scrive libri sull’Armenia?

«Scrivo libri sul mio camminare. Una decina d’anni fa ho avuto l’idea di ripercorrere a piedi i posti dove da giovane ero andato in auto. Camminando si vedono le cose in modo diverso. Il primo viaggio, con una Fiat 600, era stato in Turchia, poi Siria, Georgia e Armenia. 40 anni fa c’erano ancora l’Urss e la cortina di ferro, per andare in Russia bisognava anticipare l’itinerario all’ambasciata».

E l’Armenia?

«È stata un incontro particolare per due motivi. Il primo è che mi sono fatto degli amici là. Il secondo è che armeni ce ne sono anche in Italia, come in tutto il mondo. Ho anche conosciuto la Antonia Arslan e mi sono affezionato a questo Paese. Al punto che sto studiando la lingua».

Perché ha cominciato a girarla a piedi?

«L’ho attraversata tre volte, dal confine iraniano alla Georgia, dalla Turchia all’Azerbaijan. La conosco bene, senza essere uno specialista. Mi piace fare i collegamenti e le differenze dai territori vicini perché ha elementi propri ma anche comuni. Per esempio, appartiene al mondo del pane, dalla Spagna all’Asia centrale, dove inizia il mondo del riso».

Perché nei suoi libri scrive eppiauar e eppibertdei come si pronunciano in italiano?

«Riproduco una lingua di strada, l’inglese basico e sporco che si usa negli incontri tra persone di etnie diverse. Ognuno lo pronuncia a modo suo, l’ho riprodotto così».

Che cosa la colpisce di questo piccolo popolo?

«Hanno una tenacia di ferro e una storia tormentata. Quando mi trovo di fronte a queste comunità esigue durate nei secoli come gli israeliani, i curdi, i baschi, riconosco che sono popoli con grande spirito di comunità e regole forti. Non credo ai popoli eletti e agli scontri di civiltà, a prevalere sono sempre le motivazioni politiche. Gli armeni hanno rispetto totale per la tradizione e allo stesso tempo grande pragmatismo. Le figure più rappresentative sono il prete e il mercante. Poi l’Armenia affascina con le sue montagne e i suoi altopiani».

Che impressione ha avuto visitando il monastero di Dadivank, passato dopo la guerra in Nagorno Karabakh appena conclusa, sotto il controllo dell’Azerbaijan?

«Quando ci sono arrivato a piedi, di sera, mi si è presentato in modo molto affascinante. È un luogo articolato nelle sue strutture, costruito in epoche diverse, ricco di affreschi restaurati dalla cooperazione italiana. Questi monasteri fanno da cerniera tra le alte quote e il fondovalle. Vedendoli, capisci che i monasteri davano le regole e custodivano la cultura del popolo».

Ora in grave pericolo?

«È una fortuna che siano arrivate le forze di pace russe. Se fossero passati sotto il controllo esclusivo degli Azeri, non si sa che fine avrebbero fatto quelle opere d’arte. La Russia ha intuito il pericolo e ha mandato un gruppo di soldati di pace a presidiarli».

La foto dell’abate Hovhannes che, crocifisso su una mano e fucile sull’altra, ha annunciato che non si muoverà dal monastero ha fatto il giro del mondo.

«Se l’abate dice che non si muove ha un senso. Ma se rimangono anche i soldati russi a custodirlo ha ancora più senso».

La popolazione ha dovuto sloggiare.

«Si parla di 100.000 profughi. Sto dandomi da fare tramite il mio professore di armeno a raccogliere fondi per creare una struttura di sostegno psicopedagogico per i bambini. Questi esodi distruggono generazioni. Era successo in modo speculare agli azeri dopo la prima guerra del 1994. Allora i profughi erano meno».

Come giudica il silenzio attorno a questi fatti?

«È scandaloso, si sa bene che cosa c’è dietro».

Che cosa?

«L’Italia è il primo partner commerciale dell’Azerbaijan. C’è il petrolio, sta arrivando il gas… Non c’è nulla di provato, ma si parla di donazioni a parlamentari e giornalisti provenienti da un fondo di 3 miliardi dell’Azerbaijan che circolano nelle banche europee per orientare l’informazione o la non informazione».

Anche il silenzio dell’Europa colpisce.

«In politica estera non conta niente, ogni Stato va per conto proprio e Recep Tayyip Erdogan fa il suo gioco. Quando si è deboli all’interno si addita un nemico esterno. Istanbul e Ankara sono andate all’opposizione, così Erdogan rispolvera il panturchismo per tacitare la fronda».

Cavalca la rinascita islamica trasformando la basilica di Santa Sofia di Istanbul in moschea e facendone costruire una a Strasburgo?

«Non identificherei l’espansionismo di Erdogan con la presunta avanzata dell’islam. In Turchia hanno sempre convissuto nazionalismo e islamismo. Da furbo politico, Erdogan ha avuto la genialità di fonderli per cementare il suo potere».

Perché in Europa solo Emmanuel Macron lo contrasta?

«Perché tutti ci fanno affari, mentre in Francia c’è una grossa comunità armena. In città come Parigi, Lione, Marsiglia… E ricordiamoci di Charles Aznavour… Macron non fa affari con la Turchia e perciò forse è più libero».

Poi ci sono stati gli attentati di matrice islamica.

«Che però non sono di origine turca. I primi erano di natura magrebina, l’ultimo di provenienza balcanica».

Il governo italiano dà precedenza agli interessi commerciali.

«Come quello tedesco e quello inglese. Poche settimane fa Luigi Di Maio ha incontrato con una certa enfasi il suo collega turco Mevlüt Cavusoglu. Nella politica degli annunci vincono gli alti principi, nella pratica gli interessi di bottega. Lo si è visto con le sanzioni alla Russia o sul caso Regeni quando è stato ritirato l’ambasciatore in Egitto, ma poi si è cominciato a pensare al gas egiziano».

Tacciono anche i vertici della Chiesa.

«Non vedo una questione religiosa tra Turchia e Armenia. I motivi della guerra sono la costruzione di una bella pista verso l’Asia centrale per realizzare il progetto di Erdogan e l’Armenia è un ostacolo».

Che morale trae?

«Ai tempi del Vietnam, ero critico contro l’America. Oggi penso che se non tiene fede al suo ruolo, i cani piccoli cominciano a fare ciò che vogliono. Donald Trump si è ritirato e l’Europa non ha personalità internazionale. Invece Erdogan va bloccato».

 

La Verità, 21 novembre 2020

L’info emergenziale, nuovo format del Tg1

Belle le vacanze nei posti remoti. Ma se la tv riceve solo i tg Rai, insomma. Certo, si può resistere. Siamo passati per un inusitato confinamento fisico, che sarà mai un pizzico di libertà vigilata informativa? Di esclusiva del Tg1 – nel senso che si vede solo quello? Perché, anche se in qualche arcipelago sperduto o a un metro dal confine alpino il primo pensiero non è l’informazione, tuttavia il tambureggiamento giallorosso, con annessa campagna della paura, un tantino infastidisce. L’infodemia non si porta bene sulle infradito o sulle scarpe da trekking. Almeno in spiaggia o in rifugio si vorrebbe rilassarsi un filo e staccare dal tam tam emergenziale, nuovo format dei tg Rai.

Da giorni il coro dei media cavalcava la nuova intesa tra Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti per le elezioni comunali del 2021 (Virginia Raggi a parte). Alleanza strategica, accordo foriero di un futuro radioso per l’Italia tutta, era la ola delle redazioni. E pazienza se per il M5s trattasi di tradimento della ragione sociale anticasta battezzata col Vaffa. L’establishment e Virginio Bettini tifano per la saldatura e dunque: testa nella sabbia e avanti con la fanfara. L’altra inversione a u è la rottura del tabù dei due mandati. Ci pensa il Tg1 diretto da Giuseppe Carboni a condire l’apostasia come «evoluzione», il rinnegamento come «svolta di maturità». Così Di Maio e Zingaretti veleggiano verso un avvenire d’armonia e tutti contenti, o quasi. Alla coppia Conte Casalino a un certo punto devono essere girati i cabasisi per l’eccesso di miele sul capo della Farnesina e il segretario Pd proposti spesso in garrula abbinata, il primo dichiarante su Facebook il secondo mascherinato tra i collaboratori. Così quella sera, prendendo la rincorsa, Emma D’Aquino annunciava che il premier si era pronunciato su alleanze, economia, Covid, scuola, Libia, Libano e per dessert macedonia con panna. Mentre il giornalista distillava il Contepensiero, eccolo in persona personalmente avanzare spedito con lo staff, seduto alla scrivania, incedere con pochette nei saloni di Palazzo Chigi, intravisto nello studio dalla porta socchiusa, parlare a una convention con microfonino ad archetto, digitare sulla tastiera, dialogare con le folle e camminare sulle acque… Confrontati, i cinegiornali dell’Istituto Luce sono satira corrosiva. Oppure la fonte ispirativa potrebbe essere la tv del Fatto quotidiano. Il quale proprio quella mattina, aveva pubblicato, in versione cartacea, l’intervistona a Giuseppi bisfirmata da Marco Travaglio e Salvatore Cannavò. Non è una bella sintonia tra il tg ammiraglio e il foglio cacciatorpediniere?

Del resto, il Tg1 (meno di 4 milioni di spettatori, share attorno al 24%) è pronto scattante malleabile. Se i giornaloni sono i portali del pensiero unico, il telegiornalone va dritto sull’indottrinamento. La giusta stigmatizzazione dei furbetti dei 600 euro che siedono in Parlamento serve per lanciare la campagna per il referendum sul taglio di deputati e senatori. E, fatto che non guasta, ad assestare un colpetto alla Lega (non pervenute le inchieste sugli onorevoli d’Italia viva e Pd che hanno richiesto il bonus). Anche dell’avviso di garanzia al premier e ad altri sei ministri spiccato dalla Procura della Repubblica di Roma non si hanno notizie. Quel giorno cascano i due anni dal crollo del ponte Morandi e quindi spazio alla commemorazione della tragedia, impreziosita dalla passerella genovese del premier. In totale, sei servizi sei. Poi ci sono i già citati resoconti sulla «maturazione» e il «cambio di passo» del M5s. E quindi non c’è spazio per altre notizie. Né quella di mezzo governo indagato. Né quelle relative al caos scuole (disaccordi tra il ministro Lucia Azzolina e il Cts, presidi in rivolta, distanziamenti sì no ni, mascherine obbligatorie facoltative inutili) che già agitano famiglie e insegnanti. Siamo alla vigilia di Ferragosto, perdiana. È tempo di escursioni, alpinisti, vacanze ecologiche, maghi, diete… Il 16 agosto invece è il giorno della chiusura delle discoteche. Dal Manzanarre al Reno, dagli Appennini alle Ande, il virus impazza ovunque. La seconda ondata è imminente, colpa dei giovani indisciplinati, scoperti una volta doppiato il Ferragosto. Evidentemente, prima tutti immaginavano che nelle discoteche i ragazzi stessero distanziati. Nulla da dire invece sui sistemi di controllo al rientro dai Paesi a rischio e sui focolai creati dai centri di accoglienza immigrati. Non pervenuti servizi sulla caserma Serena fuori Treviso, 230 positivi al coronavirus.

L’innovazione del Tg1 giallorosso è l’informazione ibrida come le Toyota. Il notiziario va con la benzina dell’indottrinamento governativo e con l’alimentazione elettrica dell’evasione e dell’ambientalismo all’acqua di rose. Il comun denominatore è il verbo emergenziale che richiede uno o più salvatori: il premier in primis, e a ruota i nuovi sacerdoti della pandemia, gli ecoallarmisti, le Grete varie. Dal 15 al 25 agosto l’ossessione da Covid non conquista l’apertura del tg solo il giorno del ritrovamento dei resti del povero Gioele Parisi, il figlioletto della dj Viviana trovata morta in Sicilia, nell’anniversario del crollo del ponte di Genova e in quello del terremoto di Amatrice. Ma in questi ultimi due casi c’è di mezzo la sfilata del premier che va a rincuorare, confortare, massaggiare. Altrimenti domina la campagna della paura di cui la politica dell’emergenza è diretta emanazione. Come lo è la gestione delle scuole: quante volte abbiamo visto i due dirigenti che tendono il metro tra i banchi? La bionda Laura Chimenti tambureggia cifre e allarmi Covid con aria accigliata. La curva dei contagi non fa che impennarsi, le terapie intensive in calo o stabili vengono taciute. Potrebbero anche saltare le prossime elezioni regionali, ma per ora meglio non scoprire le carte. Se qualcuno osserva che l’indice del contagio diminuisce in rapporto ai tamponi «potrebbe essere un numero sottostimato perché calcolato solo sui sintomatici». Viviamo nell’incubo dell’imminente «bomba virale». Giusto il tempo per rifiatare con gli esteri, utili a mostrare che fuori dall’Italia felix imperversano loschi figuri da Donald Trump a Jair Bolsonaro da Vladimir Putin ad Aleksandr Lukashenko, e si torna a parlare di Covid nel mondo e, con la cronaca, nelle discoteche, negli aeroporti, nel porto di Civitavecchia, non in quello di Lampedusa però. Per «alleggerire» il terrore da contagio in molti servizi si sposa l’evasione con la nuova sensibilità green. Ma il risultato è tra il comico involontario e il pittoresco: il lago di Massaciuccoli è minacciato da una pericolosa pianta acquatica, ci sono due oranghi da curare nel Borneo, l’azienda avellinese che produce componenti per sonde spaziali non ha la connessione internet, rinasce la fattoria dei cavalli degli zar, ritorna Winnie the pooh, nelle acque dell’Alaska è ricomparsa l’orca bianca, l’orso M49 è scappato di nuovo, il parto del panda di una mamma anziana ha avuto un «boom di visualizzazioni», Laura e Marco sono «uragani paralleli». Nell’annunciarli, D’Aquino, Chimenti e Francesco Giorgino sono seri. Per il 2021 si consiglia agriturismo con tv satellitare.

 

La Verità, 26 agosto 2020

«E se la Gruber fosse la Papessa straniera del Pd?»

Provocazione, sberleffo, contropiede culturale. Pietrangelo Buttafuoco ha appena pubblicato Salvini e/o Mussolini (PaperFirst), sapido libello in forma di dizionario sulla scorta di Jefferson e/o Mussolini di Ezra Pound, anno 1936.

Prendere in parola i sapienti scandalizzati dagli eccessi salviniani è un divertissment?

Diciamo che provo a disinnescare i riflessi condizionati che gravano sia su Salvini che su Mussolini. Chi odia il leader leghista dice che è come il Duce, chi lo ama pure. Nel corto circuito si scorge tutta la pigrizia italiana.

Perché scavando si scopre che le presunte similitudini sono fasulle?

Esattamente. Come il «chi si ferma è perduto» pronunciato da Salvini e attribuito a Mussolini, che in realtà è di Dante Alighieri. O il «tanti nemici, tanto onore» che correttamente è «molti nemici, molto onore», e fu coniato dal condottiero tedesco Georg von Frundsberg davanti ai militi veneziani in una battaglia del 1513.

Senta, Buttafuoco, ma non era Bettino Craxi l’erede di Mussolini?

Disegnandolo con gli stivaloni, Giorgio Forattini faceva eco al sentimento del Craxi dei giorni migliori. Il quale, a sua volta, viveva una forma di attrazione affettuosa per la Buonanima. Tanto che si recò a Giulino di Mezzegra, sul Lago di Como, per far mettere una lapide nel posto dove fu ucciso. Il sentimento che dominava in lui era l’essere patriota, amante dell’Italia tutta, in tutte le sue epoche.

Anche a Bruno Vespa, che nel suo ultimo libro è ripartito dal Ventennio, tutti gli interpellati hanno smontato il parallelismo, salvo Dario Franceschini.

Solo lui ha evocato l’insopportabile fantasma dell’arco costituzionale che si trascina il sabba dell’intolleranza. Guarda caso, il nemico di quel dogma fu proprio Bettino Craxi.

L’antifascismo in assenza di fascismo è un boomerang della sinistra di piazza e di salotto?

Lo è perché il popolo ha sempre un fiuto laterale rispetto ai proclami e ai copioni glamour. Un po’ come quando la Chiesa cerca di distrarre i fedeli dai santi, ma le processioni e la devozione popolare riportano in auge il bisogno di celebrare il sacro.

Senza il fascismo, paragonare Salvini a Mussolini è fargli un regalo?

È un tentativo di esorcismo che può provocare la moltiplicazione di quelli che dicono «magari!».

Facendo scattare l’allarme per il ritorno dell’uomo forte?

Il fascismo non fu fascista per come lo intendiamo noi. In questo dizionario molti luoghi comuni cadono, a cominciare da quello sull’immigrazione.

Spieghi.

Faccetta nera è il tentativo di far diventare italiani gli africani. Tra le potenze coloniali eravamo l’unica che faceva dei territori d’oltremare delle province, con i prefetti e le moschee.

Salvini e Mussolini gemelli diversi e non solo per peso specifico?

Molto diversi. Il Capitano incarna il politico di destra e condivide il momento favorevole con Giorgia Meloni, a dimostrazione di una ricca offerta post ideologica. Mentre l’esperienza di Mussolini resta una pagina nell’album del socialismo. Eretico quanto si vuole, ma sempre socialista.

Nei primi anni della sua azione.

E anche alla fine, con la Rsi.

Per la classe politica attuale il confronto con il Novecento non può che essere impietoso.

Oggi il contesto è a-ideologico e perfino anti-ideologico. Il secolo scorso imponeva uno sforzo intellettuale molto superiore. Oggi domina la superficialità, che è transeunte ed evapora subito non avendo fondamento.

Per rimanere nel populismo, Beppe Grillo sta durando più di Guglielmo Giannini, l’uomo qualunque.

Perché, grazie a Carlo Freccero e Antonio Ricci, ha avuto la possibilità di irrobustirsi con il dadaismo.

La traversata dello Stretto di Messina aveva echi dannunziani: poi?

Sono spariti perché ha dovuto sgattaiolare nella buca della rispettabilità borghese. Mettendosi con il Pd si è consegnato mani e piedi al sistema.

Addio cambiamento.

Invece di proseguire l’impresa nella libera città di Fiume si è buttato tra le braccia del Cagoia, il triestino che disse «mi no penso ghe per paura», divenuto simbolo di viltà. L’unico che può essere uno strepitoso Guido Keller è Alessandro Di Battista.

Verrà il suo momento?

Quanto meno come Keller avrà la possibilità di alzarsi in volo e gettare un pitale su tutti gli anticasta che si stanno facendo salvare la poltrona proprio dalla casta.

Per il Cagoia Giuseppe Conte, che in un pomeriggio passa da un governo di centrodestra a quello più a sinistra dell’Occidente, ci sono precedenti?

Iscriverlo nel capitolo del trasformismo sarebbe persino nobilitante. Invece è proprio perfetto per la caricatura del «paglietta», il giurista sciuè sciuè, ampolloso dicitore.

Senza contenuto.

Buono per tutti gli usi. Prima si diceva che era il vice dei suoi vice, adesso è sicuramente vice del suo portavoce, Rocco Casalino. Con l’emergenza coronavirus, dal Conte 2 siamo passati al Casalino 1.

Restando tra spregiudicati volteggi, chi è l’antenato di Matteo Renzi?

Amintore Fanfani, «il Rieccolo».

Medesima provenienza.

E caratteraccio. Purtroppo per Renzi, invece che da Ettore Bernabei è affiancato da Marco Carrai.

Giorgia Meloni alleata di Salvini somiglia al Gianfranco Fini coccolato dai giornaloni in chiave anti Berlusconi?

Ci provano, ma non ci riusciranno perché lo spessore della Meloni è molto superiore a quello di Fini. Non è una comprimaria, ma una protagonista.

Come dice il sociologo Luca Ricolfi.

La Meloni ha l’imbarazzo dei destini. Può fare il sindaco di Roma, ritagliarsi una stagione da premiership o andare in Europa. O, infine, può far saltare il risiko dei poteri forti. In questa veste mi ricorda la Sposa interpretata da Uma Thurman in Kill Bill che, armata di katana, consuma la sua vendetta.

 E il fatto che sia donna…

È un vantaggio. Nel libro l’ho paragonata all’Italo Balbo della trasvolata atlantica che, pur con tutto il politically correct, ha ancora la strada intitolata a Chicago. Anche lei non deve temere la contraerea italiana.

Salvini la tollererà.

A destra è una ricchezza che siano in due o tre, hanno diversi potenziali premier.

Tipo?

Se serve un garante c’è Roberto Maroni; se serve chi ha esperienza ci sono Maurizio Gasparri e Roberto Calderoli; se serve qualcuno pronto alla battaglia frontale i nomi abbondano.

Invece la sinistra?

Ha l’establishment, i tecnici e le dinastie, ma non ha la politica. Infatti si fa sempre sedurre dal Papa straniero: Bergoglio, Roberto Saviano, Greta Thunberg, le Sardine, Carola Rackete…

Nicola Zingaretti?

È un socialdemocratico alla Mario Tanassi. Quanto al suo operato di amministratore è peggio di quello di Virginia Raggi. Ma nessuno lo dice.

Il gemello diverso di Massimo D’Alema è Enrico Berlinguer?

Il confronto giusto è con Palmiro Togliatti che, a sua volta, era il D’Alema dei suoi tempi.

Molto elogiativo.

Per i comunisti ho un debole perché non sono di sinistra.

Nel senso della sinistra da salotto di oggi?

Esatto. Il mio più caro amico è stato Stefano Di Michele, collega al Foglio, un contadino abruzzese che non si mischiava con i birignao. E destino vuole che lavori con un fior di comunista come Peppino Caldarola.

Luigi Di Maio?

Pinuccio Tatarella ne avrebbe fatto uno statista. Ne aveva le potenzialità, purtroppo è finito nella trappola di Grillo.

Che lo sta consumando.

Non potrò mai credere che sia contento di governare con il Pd.

Le Sardine le confrontiamo con i girotondi?

Eppure, oplà, sono loro la prosecuzione del qualunquismo sotto l’ala protettiva del conformismo. L’approdo nel mainstream lo dimostra.

Sinistra di piazza e di reality?

Non solo. Quando mai un antagonista è esposto nella vetrina del potere. Manca che siano ricevuti dal Papa e avranno percorso tutte le tappe del politicamente corretto.

Andranno prima da Antonio Spadaro che li ha già adottati.

Spadaro è un Andreotti capovolto, non devoto a Dio come il vecchio Giulio. Se potessi farne un romanzo, me lo vedo baciare Totò Riina piuttosto che Salvini.

Il cui avversario alle future elezioni sarà Giuseppe Sala?

Mi sembra un po’ troppo fighetto, tendenza Bignardi.

Nel suo talk show si è palesato potenziale leader.

Lui il Papa straniero? Mmmh… facile governare Milano, voglio vederlo a Scampia.

Ci sono precedenti da Palazzo Marino a Palazzo Chigi?

Governare l’Italia partendo da Milano ci sono riusciti solo Mussolini, Craxi e Berlusconi. Non credo che la compagnia gli piaccia.

Però siamo tornati all’inizio.

Già, ma il Papa straniero potrebbe essere una Papessa.

Lilli Gruber?

Se ne avesse voglia. Il sangue altoatesino potrebbe aiutarla.

Con lei la sinistra di salotto avrebbe vinto.

Sì. Solo che la Merkel all’italiana, anziché avere le radici nella gloriosa Germania est, ha l’asso nella manica di Urbano Cairo…

 

Panorama, 11 marzo 2020

«Salvini? Un bomber che viene tenuto in panchina»

Il primo preambolo dell’intervista a Bruno Vespa è composto da un paio di domande che lui rivolge a me e quando gli accenno alla rubrica degli Irregolari, «anche se», celio, «è difficile presentare Bruno Vespa come un irregolare», mi replica: «Eppure io sono un grande irregolare, unico giornalista moderato lungamente sopravvissuto in Rai». Questione risolta.

Il secondo preambolo riguarda il tassista che mi accompagna all’appuntamento. Quando vede Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare) (Rai Libri e Mondadori) mi dice: «Lei ha un bel libro…». E, dopo una pausa, «mi piace questa qui», indicando l’aquila romana che campeggia in copertina.

Perché questo libro?

«Sono da sempre un appassionato studioso del fascismo. Credo sia giusto chiedersi perché l’Italia si è consegnata a un regime come quello. È drammaticamente affascinante. Non il libro, ma quello che racconta: quando vedi che la crema dell’antifascismo ha invocato Benito Mussolini, qualche domanda è giusto farsela».

E la risposta è?

«La democrazia ha una vocazione al suicidio di cui non si rende conto. Quello che è successo dopo la Prima guerra mondiale ha dell’incredibile».

Parecchi autogol in serie.

«Bisognava capire che portare i soviet in Italia era una follia. E che era un grave errore mortificare i reduci già responsabilizzati da ruoli importanti mettendoli ai margini. Lo squadrismo fascista nacque anche da queste frustrazioni e dalla volontà degli agrari di proteggersi dalle prepotenze delle leghe rosse. Gli squadristi hanno fatto da brigante a brigante e mezzo e sappiamo com’è finita. Non cominciavano quasi mai per primi, ma le loro rappresaglie erano terribili».

Perché non c’è pericolo che torni il fascismo?

«Perché gli anticorpi sono molto forti. Però dobbiamo stare attenti che il desiderio di ordine e stabilità crescente non porti ad anestetizzare certi valori fondamentali. Quello che sta succedendo per esempio in alcuni Paesi dell’Est deve farci riflettere. I critici dei sistemi ungherese e polacco segnalano che l’ordine e il benessere conquistati hanno finito per autorizzare un lenimento di certe libertà democratiche».

I dati economici di quei Paesi posso avere una certa presa.

«Eccome. Ma questo in Italia non può accadere. A Matteo Salvini scappò quella frase sui pieni poteri che Mussolini pronunciò perché senza “non si farebbe una lira” e che ho messo in esergo al libro».

Ci credono davvero Franceschini e gli opinionisti di Repubblica quando paventano il ritorno del fascismo con Salvini?

«Fino in fondo no, anche perché tutti gli altri, da Nicola Zingaretti a Luigi Di Maio a Matteo Renzi, non ci credono. Insieme temono che un Parlamento salviniano possa portare a un presidente della Repubblica eletto per la prima volta da uno schieramento di centrodestra. Non è mai accaduto nonostante Silvio Berlusconi abbia governato per nove anni».

Il razzismo negli stadi, le cene con i fregi e i busti del Ventennio, le manifestazioni col saluto romano possono alimentare ombre sul futuro?

«Sono fatti gravi, ma marginali, e più se ne parla più si fa il gioco di queste realtà minuscole. Alle elezioni Forza nuova e Casapound raggiungono lo zero virgola. Per assolvere ai compiti della par condicio li devo invitare in trasmissione, ma la visibilità che così ottengono è enormemente superiore ai voti che prendono».

Se non ci sono reali pericoli di derive a cosa serve agitarne lo spauracchio?

«Non vedo elementi che giustifichino questi timori. Ciò che avviene in Germania, in Italia non sarebbe accettato. È vero, il malessere dei tedeschi orientali è qualcosa di molto serio. Penso siano pazzi a rimpiangere il muro visti i progressi che ha fatto il Paese nel suo complesso. Ma non essendo contenti, ottengono risultati elettorali importanti. Venendo all’Italia, credo che in tempi medi Salvini si staccherà sia da Marie Le Pen sia da Afd (la formazione di estrema destra Alternativa per la Germania ndr). Perché, se è certo che la Le Pen non è come il padre e che Afd ha dei settori che somigliano alla Csu bavarese, è altrettanto certo che, se Salvini vuol rientrare nei giochi europei deve avere altre alleanze. Giancarlo Giorgetti sta lavorando a questo. Un leader che ambisce a diventare premier non può avere quelle parentele europee».

La sinistra agita il pericolo del fascismo perché è a corto di argomenti?

«La storia insegna che tutti i sistemi in difficoltà o dichiarano una guerra o richiamano alle armi contro l’invasore. In democrazia l’invasore e Salvini. Se ci fosse un governo stabile, con un programma preciso e condiviso, tutto andrebbe in un altro modo. Il problema e che il M5s è dichiaratamente e orgogliosamente diverso sia dalla Lega che dal Pd».

È giustificata la creazione di una commissione speciale contro l’antisemitismo, il razzismo e l’odio?

«Sono un profondo ammiratore di Liliana Segre. L’ho incontrata a casa sua a Milano, l’ho intervistata per un mio documentario sul 1948. Solo per pudore non le ho chiesto di mostrarmi il braccio dove ha impresso il numero di matricola di Auschwitz. Liliana Segre ha dato prova della sua statura aprendo la porta della sua casa e dichiarandosi pronta a incontrare Salvini. Credo ci siano gli elementi perché le regole di quella commissione vengano scritte in modo da non prestarsi a equivoci».

Odio e razzismo sono monodirezionali? Si tace sul divieto di parlare a Fausto Biloslavo nella facoltà di sociologia di Trento e si dimenticano presto le liste di proscrizione di Gad Lerner. Parliamo di censori istruiti, non di anonimi haters.

«Quando alcuni anni fa bruciarono un mio libro a Genova nessuno si prese la briga di stigmatizzare quei comportamenti. Silenzio anche quando un odiatore di professione m’impedì di presentarlo urlando e spaventando il pubblico, fino a metterlo in fuga. Auspico che si concretizzi la ventilata iniziativa comune contro l’antisemitismo di Giorgia Meloni e Riccardo Pacifici, storica figura della comunità ebraica romana. Sarebbe un aiuto a mantenere la commissione entro confini non equivoci».

Quanto gli attacchi di Roberto Saviano, Lerner e Lilli Gruber giovano a Salvini?

«Molto».

Il peggior autogol di Salvini è stata la richiesta di pieni poteri o il Papeete prolungato?

«Nonostante Salvini l’abbia chiarita, la frase sui pieni poteri andava precisata meglio. Dopodiché questo Paese ha bisogno di un governo che governi davvero, altrimenti non si va da nessuna parte. Mi spingo a dire un governo di qualunque colore, purché sia operativo e non costretto a mediazioni paralizzanti».

L’errore del Papeete?

«Quando 45 anni fa, il giorno di Ferragosto, intervistai il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani durante una breve passeggiata su Via Nazionale, la deroga al protocollo fu considerata un evento. Il Papeete l’avrei limitato a piccole dosi».

Salvini è come certi calciatori promettenti che hanno ampio margine di miglioramento?

«Salvini è un goleador, quello che segna di più. Tant’è vero che si vuole evitare di fargli giocare la partita decisiva delle elezioni».

Dovrebbe darsi un profilo più istituzionale e accettabile da qualcuno dei poteri forti?

«Credo che questo periodo di opposizione lo aiuterà a migliorare il proprio profilo istituzionale in Italia e in Europa. Non a caso sta già cambiando linguaggio. La leadership dev’essere convincente, ma non gridata».

Che idea si è fatto dell’apertura al dialogo del cardinal Ruini nei suoi confronti?

«So che la mattina in cui è uscita l’intervista al Corriere della Sera a molta gente nei Sacri palazzi è venuto un colpo. Credo che la Chiesa debba dialogare. Così ha fatto con San Giovanni Paolo II che ha risolto la questione ebraica e si è aperto all’islam… I papi vanno nelle moschee e i cardinali non possono parlare con Salvini? Lo troverei singolare, considerando che nell’elettorato della Lega c’è qualche milione di cattolici».

Perché gli ambienti che si richiamano alla sinistra Dc demonizzano la Lega più della sinistra tradizionale?

«Succedeva anche con Berlusconi. Ricordo che una volta, quando lo seguii per Panorama durante la campagna elettorale del 1996, D’Alema mi disse: “Spiegami perché uno come te non può votare per noi”. Non feci in tempo a rispondere: “La sinistra democristiana? Ma io quelli li ammazzo”. Fece tutto lui, io non dissi una parola. Per onestà devo riconoscere che oggi la sinistra Dc è molto meno settaria di allora».

Se il Pd perde anche in Emilia Romagna che cosa accadrà?

«Non riesco a spingermi così avanti. Mancano quasi tre mesi che oggi, in Italia, sono quasi trent’anni».

Posto che Franceschini e Mattarella hanno ribadito che dopo il Conte bis c’è solo il voto, Renzi abbaierà senza mordere?

«Per Renzi è troppo presto per votare. Ha spinto per questo governo apposta, è all’inizio del guado».

Berlusconi è fuori dai giochi?

«Ho assistito a troppi funerali di Berlusconi per credere alla sua morte. Quando è uscita l’anticipazione del libro sulla creazione di Altra Italia, nel suo partito è scoppiato il putiferio perché in tanti temono la mossa del cavallo. Continuerei a non sottovalutarlo, anche Salvini, saggiamente, ha smesso di farlo».

Concorda con lo scenario delineato dal sociologo Luca Ricolfi di 1 più 4: la Lega oltre il 30% e altri 4 partiti, Pd, 5 stelle, Italia viva e Fratelli d’Italia tra il 10 e il 20?

«Il grande sinologo Edgar Snow diceva: “Più conosco la Cina e meno la capisco”. Più conosco la politica meno mi azzardo a fare previsioni numeriche. Sono un grande estimatore di Ricolfi, l’ultimo suo libro è illuminante. Ma un anno fa non c’era una persona che potesse prevedere che i rapporti di forza tra Lega e 5 stelle si sarebbero capovolti: dal 17 e 32 delle politiche al 34 a 17 delle europee».

Parlando di previsioni, che cosa le fa dire che dopo le prossime elezioni la coalizione degli italiani, nuovo nome del centrodestra, farà il governo con Renzi?

«È un paradosso non una previsione. La cosa divertente è che nel Pd hanno il sacro terrore che possa davvero avverarsi».

 

La Verità, 10 novembre 2019

 

«Vi racconto la vera storia della crisi di mezza estate»

Ladri di democrazia. S’intitola così, senza tanti giri di parole, il pamphlet nel quale Paolo Becchi, con Giuseppe Palma, racconta la vera storia della «crisi di governo più pazza del mondo» (Historica editore). Il professore di filosofia del diritto, già considerato l’ideologo del M5s per la vicinanza a Gianroberto Casaleggio, segue dalla sua casa di Genova i mutamenti della politica e l’evoluzione dei pentastellati, destinati, a suo avviso, a diventare «una piccola formazione di sinistra ecologista». Tutt’altro che periferico, Becchi è stato protagonista del disperato tentativo di mediazione agostano tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio che, per un attimo, aveva riaperto lo spiraglio per una riedizione del governo gialloblù con il capo grillino premier. «Doveva andare così, invece ora penso che il presidente Mattarella sarà pentito delle scelte che ha fatto quest’estate». Insomma, il professore la sa lunga e perciò conviene andare con ordine.

Cominciamo dalla fine, quella dei 5 stelle: davvero Grillo scioglierà il movimento come si sussurra?

«Mmmh… non credo. Secondo me lo lascerà così. Nemmeno lui ha la forza di scioglierlo. Lo renderà biodegradabile… O biodegradato».

In che senso?

«Diventerà una formazione marginale, un partitino di ecologisti di sinistra».

Il giocattolo è rotto e non si può aggiustare?

«Non vedo nessuno in grado di farlo. Il movimento aveva il suo Garibaldi, Grillo, che guidava le cariche, e il suo Giuseppe Mazzini, Casaleggio, il visionario che ci metteva il pensiero. Serviva un Cavour, ma non l’hanno mai avuto. Nel frattempo è morto proprio Mazzini».

Di Maio doveva essere il Cavour del M5s?

«Forse, ma ci voleva tempo per farne un grande pragmatico capace di gestire il potere».

La crisi attuale dipende dal personale politico, dai rapporti con la Casaleggio associati o da alleanze sbagliate?

«È venuto meno il principio unitario che teneva insieme l’organismo. L’originalità del movimento derivava dalla visione di Casaleggio che immaginava una società senza partiti, nella quale il cittadino avrebbe fatto politica senza intermediazioni, attraverso la Rete».

Utopia, sogno

«Non bisognava abbandonarlo, bensì integrarlo nella democrazia rappresentativa. Ora che si è perso l’elemento identitario qualificante è difficile trovarne un altro. La Lega nord si è trasformata in partito nazionale, ma l’idea autonomista è rimasta come elemento di fondo. Il M5s voleva abolire le poltrone e ora, per non sparire, i suoi uomini si attaccano proprio alle poltrone. Sono diventati il tonno dentro la scatoletta. Tra il 2013 e il 2018 hanno perso un’occasione storica. Dovevano cambiare la politica invece sono diventati un asse della partitocrazia. E poi c’è un altro fatto…».

Dica.

«I grillini rivendicano di aver riportato i cittadini alla politica. In realtà, se si guardano i numeri, nel lungo periodo l’astensionismo è aumentato».

Brusco risveglio in Umbria?

«Quando un partito ottiene un buon risultato alle politiche, poi lo dimezza alle europee e lo dimezza ancora alle regionali prendendo meno voti di Fratelli d’Italia, come si fa a non trarre le conseguenze. Quelle dell’Umbria sono state le prime elezioni dopo la nuova alleanza voluta da Grillo. Se si fosse andati a votare prima dell’accordo col Pd, il M5s poteva presentarsi ancora come forza antisistema. Ora ne è pienamente parte e la corrente di protesta si è spostata tutta sulla Lega. La verità è che la crisi di agosto non doveva finire così».

E come?

«Di Maio non voleva la rottura. E Salvini, quando ha visto l’uscita di Matteo Renzi, ha tentato in tutti i modi di fermare l’alleanza tra Pd e 5 stelle. Fino a telefonare al presidente Mattarella, proponendo Di Maio premier con un programma più articolato e una compagine diversa».

Tipo?

«Senza Danilo Toninelli e Giovanni Tria e con Conte commissario a Bruxelles. Glielo dico perché la mediazione l’ho fatta io, giorno per giorno».

Qualcosa ho letto in Ladri di democrazia

«Non ho potuto scrivere tutto… Quando ho capito che la faccenda si metteva male li ho chiamati. Io ero un sostenitore del governo gialloblù… Certo, mancava la sintesi, i leghisti ottenevano un risultato e i grillini un altro. Poi è cresciuto il ruolo di Giuseppe Conte».

Torniamo ad agosto.

«Dopo l’intervista di Renzi che seguiva le dichiarazioni di Grillo era chiaro che si sarebbe andati all’accordo col Pd. Di Maio non ne era per niente convinto, ma per fermare il treno ha posto come condizione di fare il premier».

Quindi non è stata un’idea solo di Salvini?

«Per garantirsi, Di Maio ha chiesto che fosse Salvini a parlarne a Mattarella. Domenica 25 agosto Salvini chiama il Quirinale, ma il presidente è fuori per impegni istituzionali. Quando nel pomeriggio Mattarella richiama e Salvini gli prospetta il governo con Di Maio premier, il presidente non si sbilancia. Non so se informi Di Maio o se avverta Zingaretti, fatto sta che il giorno dopo Zingaretti, fino a quel momento fermo sulla discontinuità, accetta Conte premier. Questa è la pura cronaca. Ora penso che Mattarella cominci a pentirsi delle scelte che ha fatto».

Prima c’era stata la conversione di Grillo che aveva deciso che il Pd non era più il nemico numero uno. Che cosa gli aveva fatto cambiare idea?

«Non so. So solo che in quei giorni viene informato del fatto che suo figlio è indagato per stupro».

Che cosa c’entra con il ribaltone sul Pd?

«Magari nulla, non so cosa sia avvenuto nella sua testa. Però c’è la contemporaneità, il giro sulla moto d’acqua del figlio di Salvini ha occupato le prime pagine per settimane, dell’accusa di stupro a suo figlio si è parlato mezza giornata. Fino a quel momento il Pd era il partito di Bibbiano. Poi, improvvisamente, Grillo dice che bisogna finirla con i barbari e allearsi con il Pd».

Tutto si è messo in moto da lì.

«Grillo ha sempre disprezzato Salvini, mentre considera Conte un elevato, lo ha anche scritto. Forse pensa che a lungo andare potrà sostituire Di Maio. Ma quel cambio di rotta è inspiegabile, anche perché c’era un accordo…».

Cioè?

«Una spartizione di ruoli: l’associazione Rousseau paga tutti i processi di quelli cacciati dal movimento e Grillo si ritira nel ruolo di padre nobile. Non a caso crea il suo blog mentre Di Maio, appoggiato da Davide Casaleggio, diventa il capo politico. Fino ad agosto, quando cambia tutto».

Il ritiro di Grillo non era causato dalla stanchezza…

«C’era un accordo, ricordiamoci sempre che è genovese… Di Maio è rimasto spiazzato perché non si aspettava che intervenisse in prima persona. Per far passare l’accordo, Grillo non voleva specificare il nome del Pd nel quesito sulla piattaforma. Adesso aspettiamo di vedere che cosa dirà sulle regionali in Emilia Romagna. Sappiamo solo che è contrario alla posizione di Di Maio».

Tornando a oggi, come hanno fatto a non prevedere il disorientamento degli elettori dopo un cambiamento così radicale?

«Non hanno più il contatto con la popolazione, vivono nel palazzo. Pensi alla trasformazione di una come Paola Taverna che non dava neanche la mano e adesso cerca benevolenza… Non spariranno del tutto, resteranno un partitino votato dagli elettori del Sud che hanno avuto il reddito di cittadinanza».

Previsione troppo nera?

«Non credo. Con Gianroberto Casaleggio c’era un’idea di futuro, c’erano i meet up e gli streaming. Casaleggio aveva detto che se ci si fosse alleati con il Pd sarebbe uscito dal movimento e invece sono gli italiani che hanno lasciato il M5s. Sono divisi su tutto, non riescono nemmeno a nominare i capi dei gruppi parlamentari».

Perché ha lasciato il movimento?

«Per dissensi sulla linea. Mi chiesero di scrivere un atto di accusa di Napolitano, ma poi cambiarono idea e il mio documento finì nel cassetto. Per le europee del 2014 avevo proposto di fare la campagna contro l’euro, allora non era come adesso. Dissi a Casaleggio che stava sbagliando e che Renzi avrebbe stravinto, sappiamo tutti come andò».

Una volta arrivati al governo era troppo difficile gestire l’ideologia della decrescita?

«Il governo gialloblù non ha saputo fare la sintesi tra sovranismo identitario leghista e sovranismo sociale dei 5 stelle. Ma l’Italia ha bisogno di questa sintesi».

C’erano i no alla Tav, all’Ilva, alla Gronda…

«È il motivo per cui Salvini ha staccato la spina. I poteri forti non aspettavano altro e appena si è aperto lo spiraglio si sono infilati per riprendersi tutto. Il M5s non ha saputo mantenere la carica ecologista adattando il messaggio a una strategia di sviluppo sostenibile».

Il futuro del M5s è quello di un partito verde e digitale su modello nordeuropeo?

«Trascuriamo gli eccessi alla Greta Thunberg, ma l’emergenza ecologica è reale. Non vedo altri approdi che quello di una sinistra ecologista, tipo i Grunen tedeschi. Ma in Italia non hanno mai attecchito, è un destino di marginalità».

Destino irreversibile? E Di Maio?

«Destino molto probabile. Di Maio non ha il carisma di Salvini o dello stesso Grillo che entusiasmano le folle. E prima o poi si andrà a votare».

Tra un paio d’anni?

«Non credo, si voterà già nel 2020. Alla fine capiranno che è meglio una morte rapida e dolce rispetto a un’agonia prolungata. Dopo l’Umbria ci saranno l’Emilia Romagna, la Calabria, la Puglia, il Veneto… Se Zingaretti avesse intelligenza politica sarebbe lui a voler votare. Certo, vincerebbe Salvini, ma si libererebbe di Renzi, metterebbe in Parlamento i suoi uomini e potrebbe dar vita a un’opposizione credibile».

Adesso però è al governo.

«In un governo che sta mettendo le tasse sulle cartine per le sigarette. Ma è una gag di Maurizio Crozza o una cosa vera? Un Paese come l’Italia, già settima potenza mondiale, sta decidendo di tassare le cartine per le sigarette: non ci si crede. Una manovra così dà ancora più potere a Salvini. Di Maio l’ha capito, Zingaretti ancora no».

Ha visto Di Maio cantare Pino Daniele al Costanzo show?

«No, come già Gianroberto Casaleggio, non guardo la televisione».

 

La Verità, 3 novembre 2019

«I due Matteo e la sindrome da padreterno»

Buongiorno Enrico Mentana, il 19 ottobre Matteo Salvini ha convocato in piazza del Popolo a Roma una manifestazione del centrodestra mentre a Firenze Matteo Renzi sarà protagonista della prima Leopolda di Italia viva. Sta nascendo un nuovo bipolarismo?

Assolutamente no. Aldilà delle omonimie, sta tornando qualcosa di diverso che è il sistema proporzionale. Come abbiamo visto in quest’anno e mezzo si passa con una certa facilità da un’alleanza all’altra, con poche concessioni alla politica profonda e molte alla tattica.

Un Matteo è di destra, arrogante, vendicativo, egocentrico, iper ambizioso…

L’altro è Salvini. Diciamo che sono entrambi egocentrici, ma il loro carattere mi interessa poco. Mi sembra più rilevante il fatto che, a tre anni di distanza, abbiano commesso lo stesso errore di sentirsi troppo uomini forti in grado di fare a meno di tutti gli altri.

Uno è molto a suo agio nelle manovre di palazzo, l’altro predilige spiagge e spianate della bergamasca.

Ognuno è figlio della propria storia e del proprio movimento. Non importa dove si muovano meglio. Conta la somiglianza delle parabole di due uomini fortissimi, sbalzati dopo elezioni europee stravinte. Anche il rottamatore si era imposto contro il palazzo.

Da quale dei due comprerebbe un’auto usata?

Ho la fortuna di non avere la patente.

Quanto conta in politica la credibilità?

Ovvio che conta e che qui non se ne veda molta. Uno ha scandito «mai con i 5 stelle» e poi ha proposto l’alleanza con loro, l’altro diceva «basta con i 5 stelle» ma, vista la mala parata, ha offerto a Luigi Di Maio il posto di premier. Sembrano giocatori di biliardo che annunciano un tiro, ma mandano la palla in buca con un altro. Più che sulla tattica, la credibilità andrebbe misurata su tempi lunghi e proposte sostanziali.

I due Matteo si scontrano per polarizzare lo scenario e far fuori Giuseppe Conte e Di Maio?

Uno però parte da un decimo di consensi dell’altro e quindi ha più convenienza.

Le elezioni aspettano almeno fino alla tornata di nomine di primavera?

Molto di più.

Di sicuro c’è che il duello in tv avverrà da Bruno Vespa.

Sarò contento di vederlo, non sono geloso… L’ultimo duello elettorale andò in onda proprio da Vespa nel 2006 tra Romano Prodi e Silvio Berlusconi. L’epoca e l’epica dei faccia a faccia è finita insieme al bipolarismo; quando non si svolgono sotto elezioni sono partite quasi amichevoli.

Reduce da un’estate di maratone vincenti, Enrico Mentana continua senza fiatone la narrazione della stagione più tellurica della politica italiana. L’adrenalina è il miglior allenamento e consiglia massimo disincanto. Niente previsioni, dunque: «Fossi matto, chi avrebbe potuto prevedere un filotto così? L’uomo un mese e mezzo fa più potente d’Italia è finito in fuorigioco, il fondatore dei 5 stelle sponsorizza il governo con il Pd, il più acerrimo nemico dei grillini fa un’inversione a U e caldeggia l’alleanza con loro, il M5s molla il partner più a destra dell’arco costituzionale e abbraccia quello più a sinistra, il premier del governo più a destra del mondo occidentale lo rimane con quello più a sinistra dello stesso mondo occidentale. Azzardare previsioni oltre che inutile sarebbe stupido».

Da storyteller della politica, che titolo darebbe all’estate appena finita?

L’estate dei tradimenti. Stagione propizia.

Dopo la nascita di Italia viva, quanto il Conte bis è più fragile?

Non lo so, magari Conte e Renzi diventeranno complici, oppure si odieranno. Renzi era già il plenipotenziario dei gruppi del Pd. Alcuni parlamentari hanno cambiato casacca, magari è un elemento chiarificatore.

È cambiata la composizione del governo.

Da ala del Pd Renzi lo appoggiava, dall’ala del suo partito continuerà a farlo. Credo sia stato più difficile per i 5 stelle passare dall’alleanza con la Lega a quella con Leu.

Quindi Conte sbaglia a preoccuparsi?

Se il governo riuscirà a fare riforme condivise andrà avanti bene, altrimenti no.

Tornando alla credibilità di Renzi, in ordine cronologico: #staisereno a Enrico Letta, se perdo il referendum lascio la politica, #senzadime l’alleanza con il M5s, necessaria l’alleanza con il M5s, lascio il Pd.

L’ultima non è stata un’incoerenza, mentre delle altre mosse abbiamo già parlato a dismisura. D’incoerenze tattiche ce n’è un campionario. Dall’offrire il posto di premier a Di Maio dopo aver detto mai più con il M5s, a proclamare «mai con il partito di Bibbiano» prima di andarci al governo. Le incoerenze gravi sarebbero altre: promettere di abbassare le tasse e poi alzarle o annunciare la difesa della scuola laica e poi promuovere quelle confessionali.

Più che Emmanuel Macron il modello di Renzi è Frank Underwood di House of Cards?

È House of Cards che imitava la politica non il contrario. Non a caso è stato scritto da un consigliere di Margaret Tatcher (Michael Dobbs ndr). Mi stupisci lo stupore: in Parlamento c’è stato chi ha detto che Ruby Rubacuori era la nipote di Mubarak.

Percentuali motivazionali di Italia viva: le nomine delle partecipate, il mercato del centro politico, la difficoltà a passare per la cruna dell’ego, copyright Francesco Rutelli.

Parliamoci chiaro, questo signore ha scalato da fuori il più strutturato partito italiano. Avrà un ego spiccato, ma di politici senza ego ipertrofici ne ho conosciuti pochi. I posti si disprezzano quando non sono i tuoi, mai visto nessuno che abbia detto: li lascio agli altri.

Ho chiesto delle percentuali.

La politica è un mix di ambizioni personali e opportunità strategiche. Credo che Renzi abbia intravisto l’enorme spazio che c’è tra l’attuale governo e il precedente.

Quali errori ha commesso Salvini?

Principalmente credere di essere onnipotente. Lo stesso di Renzi tre anni prima, si chiama sindrome del padreterno. Credeva di avere in mano il gioco mentre aveva solo molte fiches. Entrambi non hanno previsto che tutti gli altri si sarebbero coalizzati contro di loro.

L’ errore principale è stato non votare Ursula von der Leyen?

Quella è stata la conseguenza. Su questo ha ragione Salvini, se l’avesse votata gli avrebbero dato del paraculo. Probabilmente ha pagato il rapporto con Vladimir Putin. Ma adesso, siccome si sta tornando alla Prima repubblica, potrebbe tornare anche il «fattore k» che allora escludeva i comunisti e stavolta potrebbe escludere la Lega. In entrambi i casi c’è di mezzo il rapporto con Mosca.

La richiesta di pieni poteri è stato un altro sintomo della sindrome da padreterno?

È stato il segnale di un linguaggio a cui era slittata la frizione. Altre volte aveva usato espressioni che avevano l’eco del passato. Credo che stavolta volesse solo superare le resistenze che gli impedivano di governare. Ma i social portano all’incontinenza, all’escalation per la quale credi di poter dire tutto. È stato un difetto di padronanza comunicativa e c’era chi aspettava solo quello. Aveva ottenuto la Tav e il decreto sicurezza bis, che altro voleva in pieno agosto?

Il nemico era Conte che in Europa portava avanti un’altra politica?

I fuori-onda di Piazzapulita tra lui e Angela Merkel bisognava mostrarli allora non adesso. Scontrandosi con Conte, Salvini si è dimostrato ingenuo. Quando Grillo, l’artefice del ribaltone, l’ha messo tra gli elevati, Conte è divenuto intoccabile e anche Di Maio, che pure l’avrebbe sacrificato, ha potuto far poco.

Il 22 luglio in un’intervista a Pietrangelo Buttafuoco ha detto che «nel tramonto delle idee Salvini è Maradona». Sono tornate le idee?

No. Maradona è stato trovato positivo all’antidoping della politica.

Le idee che tornano sono il nuovo umanesimo?

Non vedo nessuno in grado di farle tornare. Quando i 5 stelle passano dall’alleanza con il partito più a destra a quella con il più a sinistra non ci sono idee, ma geometrie variabili.

La vista di Conte quale reazione suscita nell’uomo Enrico Mentana?

Mi sembra l’epigono di una genia di grandi tecnici passati sulla scena pubblica. Sta come un pesce nell’acqua. Lo osservavo con Macron, è di quella pasta, sicuramente della stessa sartoria. Un Gianni Letta giovane.

La parola voltagabbana è stata rimossa?

Cosa c’entra con Conte? Non ha un partito…

È premier di due maggioranze opposte.

Le alleanze le ha cambiate il M5s.

Da antisistema a establishment, da grimaldello della scatola di tonno a tonno?

Hanno esaurito il repertorio da apriscatole: il decreto dignità, il reddito di cittadinanza, il taglio dei parlamentari. Cosa resta, lo stile sobrio, il lavoro onesto? In questo momento il M5s è il perno della legislatura, infatti è l’unico partito che resta al governo. Come nella precedente legislatura accadde al Pd e in quella ancora precedente al centrodestra.

Zingaretti ha fatto retromarcia su tutto per le pressioni interne e internazionali?

Zingaretti si è trovato in minoranza perché Renzi e Franceschini insieme controllavano i gruppi e il partito.

Come andranno le regionali?

Aspettiamo di vedere, cominciando dall’Umbria, se l’accordo tra 5 stelle e Pd è uguale, inferiore o superiore alla somma degli addendi.

Dopo le piroette di Conte e Renzi c’è da stupirsi se cresce il disprezzo per il ceto politico?

L’alleanza è stata rotta da Salvini. Se il marito se ne va di casa, non può pretendere dalla moglie che non ci entri nessuno. Il più forte è stato trovato positivo all’antidoping, ma anziché fermarsi ad aspettarlo il calcio è andato avanti.

Si capisce perché la disaffezione dalla politica lievita?

Per noi novecenteschi la politica era sangue e passioni, le nuove generazioni sono più disincantate. Oggi i partiti sono involucri di consenso dei leader che si rivolgono direttamente al popolo con lo smartphone. Salvini lo ha fatto meglio di tutti e ha sbaraccato una certa idea di politica. Se non sapesse tradurre in diretta su Facebook le sue parole d’ordine avrebbe gli stessi consensi?

Ora che l’Italia si è allineata all’Europa i parametri diventano flessibili e favorevoli?

È governata da una forza che in passato ha avuto il presidente della Commissione europea, Prodi, che ora ha il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ed è alleata dei 5 stelle, i cui voti sono stati decisivi per l’elezione della Von der Leyen. Mi sembra ovvio che ci sia un’apertura di credito. Conte ha lavorato per questo. Se non hai più come vicino di casa uno che vuole sfasciare tutto, usi meno chiavistelli.

Non c’è qualcosa di artificioso in questi parametri e barriere, qualcosa di lontano dalla vita reale?

Adesso si avvicina anche l’accordo sulla ripartizione dei migranti. Ribadisco: Salvini non è stato rapito, ha provato a dare la spallata, ma non è riuscito a restare in sella.

Come andrà a finire?

Nel 1994 Berlusconi fu disarcionato da Mani pulite e ci fu chi si illuse che, prima con il governo Dini e poi con la vittoria del centrosinistra, l’anomalia fosse debellata. Salvini non è un accidente della storia, un virus passeggero, ma è portatore di istanze reali. Se l’Europa funzionerà saremo tutti contenti, altrimenti tutti diranno aridatece…

 

Panorama, 25 settembre 2019

«La Boldrini va al governo e noi cincischiamo»

Buongiorno Francesco Storace, è contento del governo che sta nascendo?

«Credo sia uno dei peggiori esempi di trasformismo della storia della Repubblica. Non ricordo un Presidente del consiglio di una maggioranza che lo rimane con quella opposta».

È scandalizzato?

«Sono colpito. Secondo me in politica le parole sono importanti. Si chiama Parlamento non Zittamento. Vuol dire che c’è il primato della parola. Invece, da una parte abbiamo Luigi Di Maio che fino a un mese fa parlava del “partito di Bibbiano”, dall’altra è facile rintracciare in rete un video in cui Nicola Zingaretti ribadiva “mai con i 5 stelle”».

Parlando di piroette c’è stata anche quella di Matteo Renzi.

«Renzi è quello che ha scardinato i giochi. Ci sta che chi è in minoranza in un partito scateni il casino. Ma chi li guida dovrebbe mantenere un senso di coerenza e affidabilità. Di Maio e Zingaretti mi hanno ricordato Gianfranco Fini quando disse: “Con Bossi mai più in caffè”. E poi invece tornarono insieme al governo».

Sessant’anni e una lunga militanza nella destra, dall’Msi fino a Fratelli d’Italia passando per An, già Presidente della regione Lazio e ministro della Salute nel terzo governo Berlusconi, Francesco Storace non è uomo da eufemismi. Da Capo d’Orlando, Sicilia, dove sta trascorrendo le ultime ore di riposo prima del rientro a Roma, scrive editoriali per Il Secolo d’Italia, il sito che dirige, vicino a Fratelli d’Italia e posta sui social anche foto un tantino hard. Come un dito medio indirizzato al governo nascente.

Conte ha detto che il suo sarà un governo «non contro, ma per»: che significa?

«Sono sciocchezze a uso dell’opinione pubblica e dei giornali. Conte e un concentrato di banalità. Purtroppo sono pochi i giornali che lo notano, l’inondazione di saliva prevale».

Un governo per i porti aperti, nuove tasse, il via libera alla magistratura e alle adozioni ai gay?

«E per gli inchini all’Europa».

Il governo stesso è partito da un inchino all’Europa?

«Potremmo chiamarlo governo Schettino, dal nome dell’ex capitano che fece naufragare la Concordia per fare l’inchino all’Isola del Giglio».

Ha ragione Matteo Salvini quando dice che il Conte bis è nato a Bruxelles?

«È nato fuori d’Italia. Abbiamo saputo che è stato Emmanuel Macron a suggerire il tweet di Trump in favore di “Giuseppi”. Il capo dei sovranisti mondiali sponsorizza un premier che si scopre antisovranista. È evidente che c’è un gioco globale: le fauci dei potenti della terra si aprono sull’Italia. Su questo Salvini ha sbagliato a giocare su due tavoli».

Russia e America. Infatti ora Conte parla di «multilateralismo che non rinneghi l’euroatlantismo».

«L’intervista la sta facendo a me o a Conte? Il suo peccato originale è che è un signore pescato dal nulla e portato a Palazzo Chigi senza aver mai preso un voto. Poi è diventato leader della coalizione opposta, sempre evitando elezioni. Se non è un oltraggio alla democrazia…».

È un premier doubleface?

«Non sappiamo che faccia ha e addirittura gliene diamo due. No, è semplicemente uno spregiudicato amante del potere».

Dirà che è lì per spirito di servizio.

(Silenzio).

Com’è stato possibile che Zingaretti abbia ceduto su tutta la linea, dall’andare al voto alla discontinuità?

«Per una volta nella vita gli avevo dato fiducia. Credevo volesse davvero andare a votare. Poi gli è esplosa la bomba Renzi tra i piedi che è riuscito a recuperare un ruolo nel partito. Il secondo errore che imputo a Zingaretti è non aver avuto il coraggio di entrare personalmente nel governo. Si vede per lui conta di più la guida della regione Lazio. Ma se voleva davvero puntellare il governo, avrebbe dovuto esporsi, magari come vicepremier. Nessuno potrebbe giocare con il segretario in prima linea. La scelta di restare in regione fa sospettare che non creda pienamente in questa avventura».

Forse teme che entrando nel governo gli sfilino del tutto partito?

«Da vicepremier sarebbe più difficile disarcionarlo. Non vorrei che oltre a non far votare gli italiani non si vogliano far votare nemmeno i cittadini del Lazio».

Anche Zingaretti ha subito pressioni per cambiare le sue posizioni?

«Tutti hanno detto dei no che sono diventati dei sì. Voglio vedere come finisce il film per capire quanto ha perso. Per come lo conosco, Zingaretti non è uno che molla facile. Ho la certezza che ci siano state pressioni, sia interne che esterne. La stessa nomina di Ursula von der Leyen è stata chiara in questa direzione. E il sorprendente ritorno in campo di Romano Prodi? In questa crisi se ne sono viste di tutti i colori…».

Sbagliando i tempi Salvini ha fatto un favore a Di Maio e Conte?

«Salvini ha ragione quando dice che tutti gli chiedevano di staccare la spina. Il problema è che se stacchi e non c’è la corrente alternativa si resta al buio. La corrente alternativa c’era la settimana dopo le europee, invece lui ripeteva che avrebbero governato insieme per cinque anni».

Voleva dimostrarsi un socio leale?

«Non mi permetto di giudicare il tasso di lealtà, ma mi pare abbia fatto male i conti. Personalmente non ci parlo da mesi… Dirigo un giornale online che per numero di visualizzazioni ha superato il Blog delle Stelle. In agosto siamo arrivati a 10milioni di pagine visualizzate. Eppure lui si ostina a non rilasciarci un’intervista, non riesco a capire perché».

Doveva darsi un profilo più istituzionale invece di stare al Papeete?

«Questo mi sembra un ritornello infantile. Tutti andiamo al mare, non può andarci un ministro?».

Magari non nei giorni in cui sta per aprire la crisi di governo.

«Lo aveva preannunciato a Conte che gli ha chiesto di aspettare. Comunque, questi sono formalismi che mi interessano poco. M’interessa di più la sostanza che ora la sinistra è al governo».

Anche la richiesta di pieni poteri è stato un errore: dopo le parabole di Berlusconi e di Renzi non s’impara che l’uomo solo al comando non dura?

«Sarebbe bastato dire che voleva usare pienamente le possibilità di potere che la Costituzione attribuisce a chi governa».

La richiesta di pieni poteri può spaventare l’opinione pubblica?

«Se sono quelli garantiti dalla Costituzione ai governanti non vedo che cosa ci sia da temere. C’è anche molto guasconismo in certe espressioni. Siamo figli di Twitter più che di Facebook».

Per l’area di centrodestra la prospettiva è di un lungo periodo di opposizione?

«Dipende da quanto durerà Conte. Ma un governo che nasce sul terrore di andare al voto, a naso non mi pare un modello di stabilità. Con dentro Liberi e uguali manca solo Roberto Saviano ministro».

La stabilità del governo la darà chi l’ha voluto, oltre all’Europa, la Cei, la Cgil, i gesuiti?

«Che la Cei possa accettare un governo con Monica Cirinnà mi pare complicato».

Il direttore di Civiltà cattolica Antonio Spadaro e il presidente della Cei Gualtiero Bassetti si sono pronunciati.

«E la cosa mi dispiace. Lo dico da credente e praticante: trovo indigesto che personalità rilevanti della Chiesa si siano schierate in questo modo».

Il centrodestra andrà in piazza in ordine sparso?

«Purtroppo sì. Fosse stato per me, i tre leader avrebbero dovuto salire insieme al Quirinale. Avrebbero mostrato chi rappresenta la maggioranza del popolo italiano. E sarebbe stato plasticamente visibile il fatto che si vuole far governare quelli che il centrodestra batte ogni giorno».

Berlusconi vuole tornare a essere il perno della coalizione?

«È una gara a chi ce l’ha più lungo, diciamo la verità».

Troveranno una sintesi?

«Metto la clessidra nell’attesa che comincino a riflettere. Ero dubbioso come Giorgia Meloni sull’alleanza con Forza Italia. Ma nel momento in cui Zingaretti e Di Maio prefigurano un’intesa di sistema, il centrodestra non può cincischiare. Loro portano Laura Boldrini al governo e noi ci mettiamo a misurare il tasso di rivoluzione dell’alleato?».

Berlusconi ha detto che il centrodestra dev’essere una coalizione moderata depurata dal sovranismo.

«Berlusconi preferisce il sovrano al sovranismo, a condizione che sia lui. Se si vuole escludere dalla coalizione è un conto, ma se si vuole farne a meno, rischia di essere controproducente. Io sono dell’idea di fare ogni sforzo per tenere unito il centrodestra affinché Zingaretti e Di Maio non vincano anche in futuro».

Per Forza Italia questa crisi dimostra che il sovranismo è perdente.

«Finora mi pare che il centrodestra a trazione sovranista abbia vinto in tutte le competizioni degli ultimi anni».

Se è stata Bruxelles a decidere questo governo come dice Salvini non conveniva una diplomazia diversa? Per esempio sul voto a Ursula von der Leyen?

«Per me hanno fatto bene a non votarla. Anche la discussione su chi dev’essere il nostro commissario europeo è incredibile. Se si dice che è legittima una nuova maggioranza in base agli equilibri usciti dalle elezioni del 2018, come si fa a sostenere il contrario a proposito del commissario europeo? Le elezioni del 26 maggio le hanno vinte la Lega e Fdi. Il commissario non è una casella da spartire tra Pd e M5s, non è un rappresentante del governo, ma di tutta l’Italia che ha votato alle europee».

Che cosa dovrebbe fare ora Salvini?

«Lo rivaluterei se chiamasse la Meloni e le chiedesse di aggregarsi alla manifestazione nel giorno della fiducia a Conte. Giorgia ha indetto una protesta senza simboli di partito, ma solo con il tricolore. La coalizione viene prima dei partiti. Mi pare che da qualche tempo il tricolore abbia cominciato a piacere anche alla Lega».

Come andranno le prossime elezioni regionali?

«Credo e spero che vincerà il centrodestra. Sarebbe un bel segnale dopo lo scandalo sulla sanità che ha colpito l’amministrazione di sinistra in Umbria».

Quanto durerà il Conte bis?

«Credo che a primavera la commedia finirà. A meno che non riescano a stringere alleanze sul territorio. Dobbiamo augurarci che Goffredo Bettini, il gran tessitore del Pd romano, torni in letargo».

 

La Verità, 1 settembre 2019