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Chissà perché non si fa Tutto chiede salvezza 3

Incuriosisce parecchio quale possa essere la motivazione della rinuncia a produrre la terza stagione di Tutto chiede salvezza, la serie di Netflix la cui prima edizione, era stata tratta nel 2022 dall’omonimo romanzo autobiografico (Premio Strega Giovani 2020) di Daniele Mencarelli. La notizia è arrivata da Francesco Bruni con un post sul suo profilo Instagram: «Rispondo alle vostre innumerevoli domande per dirvi che purtroppo non ci sarà una terza stagione di #tuttochiedesalvezza. Noi scivoliamo con discrezione dietro il sipario come Matilde, ringraziando voi, che ci avete accompagnato e sostenuto con continuo, incredibile affetto», scrive il regista e sceneggiatore, esprimendo gratitudine anche al produttore Picomedia e a Netflix Italia che ha diffuso le due stagioni. Insomma, un fulmine a cielo terso che ha colto di sorpresa tutti, non ultimo lo stesso Mencarelli. Dopo il successo di pubblico e di critica della prima stagione che narrava il ricovero nel reparto di psichiatria di un ospedale romano di Daniele (Federico Cesari), e l’intenso rapporto che s’instaurava tra lui, gli altri pazienti e il personale sanitario, anche la seconda stagione – realizzata con lo stesso cast tecnico e con l’innesto in quello artistico di Drusilla Foer (Matilde) e Valentina Romani (Angelica) – ha avuto ottimi riscontri, debuttando al secondo posto e permanendo a lungo nella top dieci della piattaforma. Anche questi nuovi episodi contenevano momenti poetici e di vera commozione. E, a far intendere che ci sarebbe stato un seguito, il finale lasciava aperti diversi interrogativi sul futuro dei protagonisti. Daniele sarebbe tornato con la compagna (Fotinì Peluso) o avrebbe proseguito la storia con Angelica? Matilde avrebbe trovato serenità o sarebbe stata risucchiata dalla disperazione. E Alessandro (Alessandro Pacioni) avrebbe finalmente ripreso a camminare? «Noi sceneggiatori lo sappiamo, e chissà che un domani non troveremo il modo di raccontarlo, speriamo non al bar», conclude Bruni, lasciando aperta la possibilità che qualche altro editore si faccia avanti.

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Dopo gli esigui ascolti anche di giovedì scorso (1,2% e 206.000 telespettatori), stasera andrà in onda l’ultima puntata dell’Altra Italia di Antonino Monteleone. È l’ennesima vittima del giovedì sera di Rai 2, una specie di Triangolo delle Bermude della tv, dove negli anni si sono inabissati Popolo sovrano di Alessandro Sortino, Seconda linea con Francesca Fagnani e Alessandro Giuli e Che c’è di nuovo con Ilaria D’Amico. Monteleone tornerà in primavera con un nuovo programma in seconda serata.

 

La Verità, 31 ottobre 2024

In prima serata le Belve di Fagnani graffiano di meno

L’ambizione, probabilmente. E anche le strategie di palinsesto. Solo che, a volte, le promozioni non si concretizzano e si viene rimandati. E le promozioni, di altro tipo, martellanti e pervasive, non bastano. Le Belve di Francesca Fagnani spostate in prima serata su Rai 2 non graffiano. Hanno le unghie spuntate. Anche perché a quell’ora non si può essere troppo selvatici.

C’era molta attesa per lo sbarco nel palinsesto nobile del programma di interviste condotto dalla giornalista già collaboratrice di Giovanni Minoli e Michele Santoro. Il lancio si era avvalso della massiccia potenza di fuoco delle maggiori testate cartacee e online. Per dire, nel giorno di programmazione Dagospia sfornava tre diverse anticipazioni. Partendo da lontano, il piano ordito da Stefano Coletta, direttore dell’Intrattenimento prime time, prevedeva la partecipazione di Fagnani al Festival di Sanremo come trampolino per la nuova collocazione. Invece, tanto rumore ha partorito un esito poco belluino: 4,5% di share e 839.000 telespettatori. Già l’anno scorso la stessa operazione non aveva funzionato per Drusilla Foer, applaudita all’Ariston, ma finita in penombra una volta incasellata nelle rubriche di Rai 2.

Fagnani è solo alla prima puntata e, oltre a innestare Ubaldo Pantani, con le sue esilaranti imitazioni, verosimilmente apporterà delle correzioni. Tuttavia, Belve appare più adatto alla seconda serata, orario di confidenze e confessioni. Anche perché, ormai, le interviste sono un genere inflazionato. Per reggere oltre due ore di programma bisogna farne parecchie. Chi ne guarda quattro di seguito, soprattutto se non particolarmente articolate e per giunta ampiamente anticipate da giornali e siti? Le domande-marchio sono la firma dell’intervistatore, ma all’ennesima richiesta di «una belvata di cui si è pentito» o di «chi vorrebbe riportare in vita per due minuti» lo sbadiglio è in agguato. Strappare rivelazioni per andare sui giornali è bersaglio centrato anche con la compiacenza delle redazioni. La difficile Anna Oxa ha svicolato, Wanda Nara ha ammiccato tra gossip e seduttività, Ignazio La Russa ha deposto i panni istituzionali e indossato l’ironia per evitare – non sempre riuscendoci – le trappole, su Naike Rivelli stendiamo un velo coprente. Per il resto, più per il contrappunto post risposta che per il ritmo dei quesiti, si vede che Fagnani ha studiato Minoli, maestro riconosciuto del Faccia a faccia. Lo spostamento in prima serata, con la necessità di ospiti di maggior impatto e costi più elevati, ha comportato un aumento di budget, ulteriormente incrementato dalla coproduzione esterna di Fremantle.

 

La Verità, 23 febbraio 2023

Pd, Lgbtq, agenti: ecco chi comanda davvero in Rai

In fondo la composizione dei palinsesti Rai è il grande gioco di società dell’establishment politico-mediatico romano. Dirigenti del servizio pubblico (vigilati dai commissari), agenti di spettacolo e artisti vari siedono attorno al grande tavolo della tv di Stato e piazzano le loro pedine, fanno le loro puntate, tirano i dadi. Niente di nuovo, è così tutti gli anni. Quest’anno con vista sulla stagione autunno-inverno 2022/2023 un po’ di più. Se manca una visione definita, un’idea forte di quale sia la mission del più grande broadcaster tv del Paese ai tempi del colera, i feudatari, i mandarini e i burattinai della Telerepubblica hanno gioco facile. Così i palinsesti diventano un grande puzzle con tasselli da colorare a piacimento, un Monopoli 2.0 con tante trattative per conquistare un posto al sole per sé o per i propri assistiti. E i telespettatori che pagano ancora il canone nella bolletta elettrica? Massì, se la faranno andare bene… Forse.

Rai 1 immobile

Il primo dato emergente spulciando i programmi dell’anno che verrà è la staticità della rete ammiraglia: i tutti i classici della prima serata sono confermati. Se di scelta si tratta, è evidente che sa di pigrizia soprattutto perché, in un contesto in continua evoluzione, la riproposta dei soliti format non potrà non appannare l’attrattiva della rete. Se proprio si vuole cercarla, l’unica novità è una bizzarria. Non a caso lo stesso Marco Giallini, protagonista di Rocco Schiavone, ha contestato il trasloco della serie da Rai 2, trattandosi di una fiction trasgressiva che mal si sposa con le preferenze del pubblico di Rai 1. L’altro elemento da segnalare, non in quanto novità, ma in quota consolidamento di potere, è il ruolo sempre più centrale di Amadeus che, oltre al Festival di Sanremo e ai Soliti ignoti, ritrova lo show in tre serate Arena ’60 ’70 ’80 ’90. Presenzialista quanto il Pippo Baudo anni Novanta, Ama è la punta di diamante della squadra di Lucio Presta, il superagente amico di Matteo Renzi, che annoverando tra i suoi artisti anche i confermatissimi Antonella Clerici a mezzogiorno, Eleonora Daniele al mattino e Marco Liorni nel preserale, controlla quasi tutta la programmazione di Rai 1.

Banksy della tv

Sugli altri due canali generalisti si concentra invece il lavoro mimetico di Beppe Caschetto. Cresciuto alla scuola dell’indimenticato Bibi Ballandi che, dalla regione Emilia Romagna, lo instradò nello showbiz «insegnandogli a volare bassi per schivare i sassi», Caschetto è probabilmente l’agente più potente della tv (ma qui parliamo solo di Rai). Come l’invisibile street artist, anche lui mette tutti davanti al fatto compiuto. I suoi però non sono graffiti mainstream, ma riempimento di caselle dei palinsesti attuato con mano di velluto. Ogni anno la sua rete si estende. Stavolta, alla già nutritissima rappresentanza in Rai (Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Geppi Cucciari, Massimo Gramellini, Enrico Brignano, Lucia Annunziata eccetera), ha aggiunto le new entry Alessia Marcuzzi, che condurrà il varietà generazionale Boomerissima, e Ilaria D’Amico, al timone di Che c’è di nuovo. Qualche tempo fa, invece, aveva strappato al rivale Presta, quello Stefano De Martino che, oltre a tornare con Bar Stella, sarà alla conduzione anche di un game show (Sing sing sing).

La rete gay friendly

Insieme con la riproposizione in seconda serata di Epcc, il late show di Alessando Cattelan, i programmi di Marcuzzi, D’Amico e De Martino saranno in controtendenza alla linea editoriale della nuova Rai 2 che godrà di un corposo incremento di budget (sarebbe interessante conoscerne l’entità a fronte delle nozze con le prugne secche cui furono costretti i precedenti direttori). La profonda trasformazione del secondo canale lo renderà molto gay friendly. Detto di Non sono una signora, show di drag queen, ovvero personaggi famosi che si addobberanno vistosamente da donne, il filone en travesti si avvale della conferma dell’Almanacco di Drusilla Foer, in onda dal 21 novembre, quando terminerà il quiz Una scatola al giorno condotto dal protettissimo Paolo Conticini, già vincitore a sorpresa della terza edizione del Cantante mascherato. Niente maschere, ma lo scambio di ruoli nei vari tipi di famiglie (tradizionali, allargate, arcobaleno…) animerà il pomeridiano Nei tuoi panni di Mia Ceran che prenderà il testimone da Pierluigi Diaco, conduttore di Bellama’, sorta di confronto tra boomer e influencer sui nuovi temi contemporanei. La svolta gaia di Rai 2 però non è opera di oscuri agenti, ma principalmente del neodirettore per l’intrattenimento Stefano Coletta che, non potendo arcobalenizzare Rai 1 ha concentrato i suoi sforzi sul secondo canale.

L’agente occulto

Com’è noto, dal 5 settembre Marco Damilano striscerà tutte le sere alle 20,35 su Rai 3 con Il cavallo e la torre. In automatico, ma poco convinta, è partita la protesta dell’Usigrai per la svalutazione della professionalità aziendale implicita nell’affidamento dello spazio a un esterno anziché a un giornalista Rai. In realtà, la vera contraddizione è la concorrenza fratricida che il nuovo programma farà a Tg2Post: due approfondimenti contemporanei su due reti generaliste evidenziano che lo scopo della nuova striscia è pilotare contenuti, oltre che dare una casella a Damilano. Sia lui che Giancarlo De Cataldo, in seconda serata su Rai 1 con Tempo e mistero, non hanno avuto bisogno dei buoni uffici di un agente professionista perché hanno quelli del Pd che, Michele Santoro dixit, «ha più sedi in Rai che nel resto del Paese».

Contentini e conflittini

Alcuni più evidenti, altri più felpati. Franco Di Mare, il direttore di Rai 3 appena andato in pensione continuerà a condurre il suo Frontiere, il sabato pomeriggio nella sua ex rete. Gratuitamente come da policy aziendale, e come capitò al pensionato Carlo Freccero che diresse Rai 2 gratuitamente per un anno, o no? Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere della Sera di proprietà di Urbano Cairo, editore di La7, sarà consulente e autore di editoriali in Storie della tv, programma in onda su Rai 4 dal 18 ottobre. Walter Veltroni, editorialista e grande firma del solito Corriere del solito editore, dirigerà invece il documentario Ora tocca a noi: storia di Pio La Torre, in onda su Rai 3.

Buona visione.

 

La Verità, 30 giugno 2022

Troppa farcitura rende indigesto l’almanacco

Poco o tanto le rivisitazioni sono sempre delle operazioni intellettuali. Alcune più azzeccate di altre. Da qualche giorno su Rai 2 va in onda Drusilla e l’almanacco del giorno dopo (ore 19,50, share tra il 4 e il 5%), nuova edizione di una storica rubrica di Rai 1 condotta da Paola Perissi e Ilaria Moscato, due delle annunciatrici più apprezzate della nostra televisione. Il fatto che nel titolo della nuova versione compaia il nome della conduttrice, Drusilla Foer, personaggio di complessa definizione – non trans, non drag queen, ma attore en travesti inventato e portato sulle scene da Gianluca Gori (presente tra i numerosi autori del programma) – fa intuire la differenza tra i due almanacchi. Quello trasmesso per 18 anni a partire dal 1976 era una rubrica che assemblava aneddoti storici, brevi biografie del santo del giorno, proverbi e tradizioni cucendo il passato e il presente per chi voleva avere una memoria storica utile. Nella versione drusilliana questa intenzione è conservata, come lo sono la sigla musicale (Chanson balladée, ispirata a una melodia francese trecentesca) e la grafica con caratteri antichi. Per il resto, tutto è diverso, dallo studio ai costi, ma soprattutto il linguaggio improntato alla leggerezza e alla fluidità, che sono la cifra della conduttrice già apprezzata all’ultimo Festival di Sanremo.

In genere le rivisitazioni consistono nel fatto che, mentre l’edizione originale di qualcosa, un programma, un quiz, una rubrica, inizia senza ambizioni particolari, è proprio la sua nuova edizione a trasformarlo in un format, in un modello che rende inevitabile il confronto. In questo caso siamo passati da una rubrica condotta da un’annunciatrice a uno show… en travesti di durata doppia, farcito di ospiti, finte telefonate, auguri di compleanno, inserti di varietà con accompagnamento al pianoforte, insegnanti di yoga, duetti con Topo Gigio, declamazioni poetiche, esperti di piante selvatiche, finti lamenti contro l’improvvisazione dell’editore, angolo della posta, digressioni di costume, consigli vari… Proprio la promozione da rubrica a show, con inevitabile allungamento dei tempi, sembra il virus che debilita il nuovo almanacco, troppo farcito come certi panini le cui salse traboccano quando provi ad addentarli. Una tantum ci può stare, tutti i giorni può influire sul colesterolo. Fate voi se affidare l’agenda televisiva quotidiana di una rete del servizio pubblico a una pur «eleganzissima» figura cross-dressing – oggi si chiamano così – sia un’operazione poco o tanto intellettuale.

 

La Verità, 12 giugno 2022

Finito il Festival dei record, anche di pianti e gender

Il senso di liberazione è forte. Dopo la settimana di reclusione con vista sul Quirinale, finalmente ci siamo messi alle spalle anche la galera dell’Ariston; fiorita e scintillante quanto quella del Colle era rituale e polverosa, ma pur sempre galera. Le due liturgie vanno abbinate, non solo per la telefonata tra il bis-presidente e il tris-conduttore. Ma soprattutto perché, per i telespettatori anarchici, individualisti e viziati dal ventaglio di scelte, hanno entrambi il carattere dell’obbligo e, dunque, della tortura. Ora ci si butterà sulle Olimpiadi invernali, ma qui di obblighi non ce ne sono.

Intanto, mentre l’amministratore delegato Rai Carlo Fuortes, il «dottor Carlo» di Sabrina Ferilli, minaccia «una statua equestre di Amadeus» in Viale Mazzini e si conciona di una sua edizione quater, proviamo ad archiviare il ter.

Per il conduttore e direttore artistico quello appena concluso con ottimi ascolti (64,9% di share e 13,3 milioni di telespettatori per la serata finale) è un triplo capolavoro (voto: 7,5). Nell’era della (quasi) unità nazionale, come da mission annunciata, il Sanremo tuttifrutti ha accontentato (quasi) tutti, anche se, come vedremo, soprattutto alcuni. Amadeus si è consacrato, emancipandosi da Fiorello, dimostrando che il suo lavoro sta in piedi da solo. C’era un filo di scetticismo, dopo la prima serata. Invece, azzeccando gli ospiti delle successive, gli ascolti sono rimasti in quota e lo spettacolo pure. Ultima, ma altrettanto importante quadratura è quella musicale: un mix di generi, gender e generazioni che ha soddisfatto tutti i gusti. Mescolando mondo rap e canzone melodica ha completato l’opera di ringiovanimento del pubblico già iniziata da Claudio Baglioni. Un punto in meno nella valutazione si deve alla scelta delle partner femminili, non tutte azzeccate, e al lassismo consentito ai direttori d’orchestra. Oltre a legittimare la presunzione dei millennial, concedere il podio a Francesca Michielin (4) ha mostrato che per dirigere l’orchestra del Festival della canzone italiana non serve il diploma del conservatorio. Una lacuna non certo compensata dai look eccentrici di alcuni più assidui colleghi, ma quanto lei sprovvisti dei titoli necessari. Caso da risolvere.

Chi non ha bisogno di esibire pass di autenticità è Fiorello (7,5 per la presenza risicata), improvvisatore sopraffino («da sex symbol a ex symbol il passo è breve») e resiliente, con il medley di ballate tristi trasformate in samba tropicali. Tutto il contrario del meticoloso Checco Zalone (8), in grado di lanciarsi a tutta velocità, sul ciglio tra volgarità e raffinatezza a colpi di calembour, rime e parodie fulminanti, ma più cerchiobottiste di un tempo.

Nell’assemblaggio dei brani in gara la formazione da dejaay di Amadeus ha pagato. Il carisma di Gianni Morandi (7,5) è stato riconosciuto anche dai giovanissimi (Blanco: «Da grande voglio essere come lui»): chiusura del cerchio di mondi che sembravano non toccarsi. Invece energia, freschezza, eleganza hanno bucato il muro di separazione tra le generazioni. L’energia del Gianni nazionale, con o senza Jovanotti, la schiettezza  dell’ultra ottantenne Iva Zanicchi, il controllo espressivo di Elisa hanno finito per evidenziare le paturnie gender e le pennellate di smalto di Achille Lauro, Michele Bravi, Måneskin, Rappresentante di lista e di tutto il carrozzone fluido in trasferta all’Ariston (4 per il déjà vu). Terreno sul quale la distanza generazionale è tornata profonda.

Il Festival contrappuntato di gaiezza ha confermato i vincitori ampiamente annunciati (5) alla vigilia dalla critica (5), monoliticamente schierata. Blanco sarà anche una delle voci migliori della scena musicale contemporanea, ma la tonalità di Mahmood incarna il vittimismo lamentoso, per altro condensato nel ritornello della canzone: «Nudo con i brividi/ A volte non so esprimermi/ E vorrei amarti ma sbaglio sempre». Non a caso lo stesso impaccio espressivo ritorna in Ti amo non lo so dire di Noemi, l’altro brano firmato da Mahmood. Sull’emisfero opposto si trovano le due canzoni migliori del Festival (7 a entrambi) che sembrano dialogare tra loro, Forse sei tu di Elisa e Sei tu di Fabrizio Moro («La distanza fra un uomo che ha vinto ed un uomo sconfitto/ Sei tu/ Che attraversi il mio ossigeno quando mi tocchi/ Sei tu»), giustamente premiate come miglior arrangiamento e miglior testo della kermesse. Complessivamente, sulla modestia di gran parte degli interpreti in gara, è svettata l’esibizione di Cesare Cremonini (9) che ha inondato l’Ariston di canzoni ispirate e vitalità sorridente. Simile a quella trasmessa la sera dopo da Jovanotti (8), nella doppia veste – qualcuno ha cavillato – di partner di Morandi e di superospite. Anzi, di «superamico» capace di far sedere a disegnare l’ex compare di Radio Deejay, mentre lui recitava Bello mondo di Mariangela Gualtieri, riportandoci per un attimo sui banchi di scuola.

Si è dovuto invece aspettare la serata finale per avere sul palco una donna sia bella che intelligente: Sabrina Ferilli (8,5), testimonial della categoria Unodinoi per tanti motivi. L’ironia, la leggerezza, la veracità luminosa, il non metterla giù dura, grazie a Dio, scegliendo l’informalità di quel «vieni, sediamoci qui» sul gradino dell’Ariston, come sul muretto dell’adolescenza. Soprattutto per il suo geniale anti-monologo. Avrebbe potuto toccare tanti temi, le donne, il femminismo, il potere degli uomini, il riscaldamento globale, la disparità salariale… «Ma perché la presenza mia deve per forza essere legata a un problema grosso? Ci sono tante cose da cambiare, ma sto nella mia linea, ho scelto la strada della leggerezza». Applausi. Senza di lei, avremmo dovuto accontentarci di presenze femminili per un motivo o per l’altro, problematiche. La vallettosa Ornella Muti (5); la piagnucolosa Lorena Cesarini (4), che dopo aver detto al settimanale Oggi che «parlare di odio razziale per un paio di post mi sembra una montatura», l’ha messa puntualmente in scena; la più charmante, ironica e colta Drusilla Foer (7,5 per «unicità» al posto di «diversità») che ha il solo difetto di essere un uomo… E per le donne, come qualcuno ha notato, non è una buona notizia.

Se le premesse sono queste, forse una conduttrice donna arriverà insieme a una presidentessa della Repubblica…

 

La Verità, 7 febbraio 2022