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«Se il premier punta al Colle, elezioni inevitabili»

Giulio Tremonti è stato ministro delle Finanze e dell’Economia nei governi Berlusconi. L’ultimo suo libro, edito da Solferino, s’intitola Le tre profezie – Appunti per il futuro dal profondo della storia.

Professor Tremonti, sul futuro del Paese si staglia l’elezione del presidente della Repubblica: come andrà a finire?

«Sulla elezione del Capo dello Stato si stanno moltiplicando articoli e memorie, libri e aneddoti, tutti comunque riferiti al passato, alla Prima e alla Seconda repubblica, ovvero riferiti a un passato felice o semi-felice che non c’è più. Oggi la realtà è diversa e drammatica ed è quella che è stata descritta con terribile lucidità da Rino Formica: “Un ciclo si è chiuso. Oggi c’è un Parlamento decomposto e incontrollabile”».

Insomma, finirà male?

«Bertolt Brecht scriveva: “Beato il Paese che non ha bisogno di eroi”. Oggi è pure peggio, data l’assenza di eroi. È per questo che pare diretta al naufragio la nave della “concordia” varata magicamente per notturno artificio nel febbraio scorso. Un naufragio nelle torbide acque della politica nazionale, e fra poco nelle tempestose acque di quella internazionale. Con una specifica: è un naufragio non per tragedia, quasi per commedia».

In che senso?

«Si sta ripetendo la storia dell’altra Concordia, la nave da crociera che naufraga dopo un lunghissimo inchino, con l’astuta discesa del suo comandante. Senza che ci sia un ufficiale che invita al rispetto del dovere, intimando di tornare a bordo, nel pieno di quello che era e che è ancora un possibile naufragio».

Dopo aver tentato di scendere, il comandante che tornasse a bordo godrebbe ancora di autorevolezza e di carisma?

«Non credo alla discesa, credo al senso di responsabilità».

In assenza di eroi e dentro un quadro così fosco, a cosa possiamo appellarci?

«Nella Repubblica di Platone la politica è definita come la forma superiore della tecnica perché per fare politica devi conoscere insieme la struttura della nave, l’equipaggio, i fondali, le correnti, i venti e le stelle. Semplificando, oggi la nave è il Palazzo, l’equipaggio è il popolo, il resto, i fondali, i venti, le correnti e le stelle sono il mondo circostante».

Cominciamo dal Palazzo.

«Ci sono tre palazzi: Montecitorio, Palazzo Chigi e Quirinale. Nel fare le elezioni del presidente della Repubblica, il primo palazzo, il Parlamento, che rappresenta la volontà popolare, è stato sempre centrale. Il secondo palazzo, il governo, è sempre stato quasi del tutto irrilevante e, comunque, mai in concorrenza alternativa con il terzo».

Come invece sembra accadere oggi?

«Speriamo di no».

Passiamo al popolo.

«Nella nostra storia repubblicana è stata sempre rispettata la centralità del popolo, ma in questa fase c’è l’impressione di una marginalizzazione del popolo da parte del palazzo. Si ha la sensazione che non sia sovrano, ma sovranizzato».

Può spiegare?

«Giorno dopo giorno aumenta l’evidenza, e non solo nei sondaggi, delle paure e delle sofferenze crescenti che investono sempre più larghi strati della popolazione. Contemporaneamente, c’è la sensazione di una sovrana indifferenza».

Dove la vede?

«Gli esempi non mancano e crescono di giorno in giorno. Da ultimo si riducono le tasse a chi ha di più e non ha chi ha di meno. Le mascherine sono un costo imposto a tutti, anche senza sgravi per chi ha di meno. I rincari non sono solo sulle bollette dell’energia, ma ormai su tutto il carrello della spesa. Così che emerge dal remoto passato la figura del “caro pane”. Si continua a parlare di scostamento di bilancio, ma la parola scostamento serve a occultare la realtà di un pubblico indebitamento sempre meno sostenibile».

Poi ci sono i condizionamenti esterni, i fondali e le correnti…

«Sullo scenario internazionale vediamo che la storia, che secondo i globalisti doveva essere finita, sta tornando con il carico degli interessi arretrati. E sta tornando, accompagnata dalla geografia lungo un arco di crisi che va dal Pacifico fino ai confini dell’Europa. Dalla pandemia che continua fino all’emersione dei nuovi conflitti. Nell’euforia della cosiddetta ripresa si evocano gli anni Venti, gli anni della Montagna incantata nella quale Thomas Mann prefigurava: “Il denaro sarà imperatore, ma solo fino alla completa demonizzazione della vita”. La Montagna è del 1924, la crisi finanziaria del ’29 è venuta subito dopo. Dopo quella del 2008 si è pensato che sono stati confusi la causa con gli effetti. Si è fatto girare l’helicopter money con il whatever it takes che non è stato un pronto soccorso, ma una lunga degenza. Si è creata e si sta ancora creando una massa infinita e incontrollabile di finanza».

A pagare le conseguenze sarà la nostra Italia?

«L’alternativa non è tra chi va al Quirinale e chi va al governo, ma tra questo governo e le elezioni».

Nessuno parla di elezioni.

«Ma nel caso in cui il comandante scendesse dalla nave, è fortemente improbabile che un governo composto da para-zombie possa subentrare all’attuale».

Che cosa intende per governo di para-zombie?

«È fortemente improbabile che, per quanto capaci, i ministri attuali possano sopravvivere in una Zombieland politica, interna ed esterna».

Qual è il suo giudizio sul governo attuale?

«Nel discorso sulla fiducia pronunciato in Senato il 17 febbraio scorso gli obiettivi erano tre: la vaccinazione come mezzo per l’uscita dalla pandemia, il Pnrr e soprattutto le grandi e necessarie riforme, per le quali si citava Cavour».

Il suo giudizio?

«Oggi è difficile sostenere che la pandemia è a termine. Mi pare particolarmente difficile sostenerlo osservando il labirintico, caotico, apparato dei quasi divieti e quasi permessi che si stanno sviluppando sulla Gazzetta ufficiale. La formula quasi era quella tipica di Bisanzio. La speranza è che anche il virus si metta a leggere la Gazzetta ufficiale».

Ma come? L’altro giorno il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta ha detto che l’Italia è il modello seguito da tutti, a cominciare dal green pass.

«Omissis».

Passando al Piano nazionale di ripresa e resilienza?

«I 51 punti del Pnrr sono attualmente e, per la verità, piuttosto confusamente, solo sulla carta. In questo contesto, oggi e domani, la forza del governo dovrà prevalere sulla triplice burocrazia: europea, nazionale e regionale. E se è difficile per questo governo, tanto più sarà difficile per un altro governo. Per quanto riguarda le riforme Cavour style vale lo stesso».

Il comandante vuole scendere anche perché ritiene insubordinato l’equipaggio?

«Nella Terza repubblica francese il pubblico si beava per il fatto che i leoni divoravano il domatore. In questa nostra repubblica lo scenario è meno cruento, ci sono modi diversi e per certi versi più subdoli per creare difficoltà al domatore».

Intanto c’è da risolvere il problema del terzo palazzo, il Quirinale.

«La sovranità appartiene al popolo. Come detto, dev’essere chiaro che l’alternativa è tra questo governo e le elezioni».

Il centrodestra sta rischiando di sprecare l’occasione di decidere il prossimo Capo dello Stato?

«Anche su questo omissis».

C’è chi si preoccupa che il futuro presidente sia una donna.

«Inviterei a rileggere La Repubblica di Platone dove le qualità politiche si valutano oggettivamente e non per gender. D’altra parte, nel G7 di Carbis Bay del maggio scorso, c’è ripetuto l’invito a superare lo status sessuale auspicandone la fluida mutevolezza come ai tempi di Eliogabalo: uomo di giorno, donna di notte. Naturalmente, sto scherzando».

È preoccupante lo scenario d’indifferenza che sottolinea tra la situazione della popolazione e le priorità dei palazzi.

«Le forze politiche – forze, si fa per dire –  sono concentrate sul Quirinale. Tuttavia, un vero grande problema rischia di essere sottovalutato. È l’emersione, più che prevedibile già prevista, di forme di protesta, che vanno ben oltre i no-vax, pronte a confluire in un movimento simile a quello che portò alla nascita dei Cinque stelle. Dal vaffa al vax, è una forza attorno al 5%, che si sta saldando con sofferenze e paure crescenti e che potrà erodere e spiazzare gli schemi politici convenzionali».

Se si andasse davvero a elezioni e il centrodestra le vincesse, dopo un governo come quello attuale pensa che riuscirà a prendere le redini del Paese e altri poteri interni o internazionali non lo impediranno?

«Credo che ci troviamo di fronte a un eccesso di retorica provinciale sulle cancellerie europee. Per l’esperienza che ho, sono stati più forti i traditori interni che le pressioni esterne. L’impegno per la chiamata dello straniero l’abbiamo già visto all’opera nel 2011. E non è stato per il bene dell’Italia. In quell’anno ero il presidente dei ministri del Tesoro del Ppe, la stragrande maggioranza. Il colpo non è venuto dall’Europa, ma dai “patrioti” italiani. È così, con la chiamata dello straniero, che arrivammo al governo Monti».

C’è da temere che l’Europa consenta sempre meno margini di autonomia alle nazioni come mostra il caso polacco?

«Dopo una lunga fase di errori, l’Europa si è messa dal lato giusto della storia fronteggiando con gli Eurobond la gestione della pandemia. Se posso, gli Eurobond sono stati una proposta italiana fatta nel 2003 e poi ancora nel 2010».

Qual è il lato giusto della storia?

«Gli Stati uniti d’America ci hanno messo due secoli, con in mezzo una tragica guerra, per arrivare a uno Stato federale. L’Europa ha solo 70 anni e può evolvere verso una unione federale solo passando attraverso una crescente confederazione degli Stati nazionali. Questo è nei Trattati europei che, diretti verso l’Unione, presuppongono ancora le identità e le costituzioni nazionali. Nella cerimonia per il cambio ai vertici della Bce nel 2019 i politici stavano in platea ad applaudire estasiati. Avrebbe visto Helmut Kohl, Charles de Gaulle, Francesco Cossiga, Alcide De Gasperi, Robert Schuman fare altrettanto? Il futuro per un’Europa politica è nella politica e non nella finanza».

 

 La Verità, 8 gennaio 20221

 

«Forza Italia impedirà che la destra sia legittimata»

No, Marco Tarchi, docente a Scienze politiche a Firenze, ideologo della Nuova destra vicino ad Alan de Benoist, non si è convertito al cellulare e ancor meno ai social network. Le conversazioni con lui avvengono per iscritto e sanno di pensatoio. Di riflessione lontana dalla schiuma mediatica. Lo abbiamo interpellato sulle ultime novità nello scacchiere italiano, in particolare nell’area del centrodestra e in vista della partita del Quirinale.

Professor Tarchi, che cosa pensa del fatto che alla recente convention di Fratelli d’Italia siano sfilati tutti i leader dell’arco costituzionale, da Giuseppe Conte a Enrico Letta fino a Matteo Renzi?

«È il riconoscimento del ruolo centrale che, grazie alla forte crescita dei consensi, il partito ha assunto all’interno del centrodestra, e di conseguenza nel sistema politico italiano. Un dato che nessuno può più ignorare».

Fino a ieri a Giorgia Meloni veniva chiesto di prendere le distanze dal fascismo e da gruppi come Forza nuova. Queste partecipazioni mostrano che è la pregiudiziale è caduta?

«Solo apparentemente. Quando si presenteranno occasioni di contrasto su temi importanti, l’accusa di criptofascismo verrà rispolverata da ambienti di centrosinistra. Del resto, questo compito continuano a svolgerlo, in tv, giornalisti e commentatori schierati su posizioni di sinistra radicale, che al momento opportuno torneranno utili anche al Pd».

Che eredità lasciano incontri apparentemente cordiali rapidamente contraddetti da prese di posizioni successive?

«Nessuna. Sono aspetti tattici di strategie che la politica conosce da sempre. Si dialoga pacatamente con l’avversario quando si ritiene conveniente esibire un volto moderato, salvo poi derubricarlo a nemico e attaccarlo duramente nelle situazioni in cui si vuole convincere l’elettorato dei “pericoli” che esso rappresenta».

Come valuta le critiche di Roberto Saviano che ha accusato la Meloni di usurpare la figura di Atreju, personaggio della Storia infinita di Michael Ende?

«È storia vecchia: riecheggia polemiche che si trascinano da quasi mezzo secolo sul diritto o meno dei giovani missini degli anni Settanta-Ottanta di sentirsi vicini alla visione che ispirava le opere di Tolkien, a partire dal Signore degli anelli. Accusarsi reciprocamente di appropriazioni indebite è un vezzo ideologico, nient’altro. Ben più preoccupante è l’apologia dell’odio per i “nemici politici” che Saviano ha recitato nella stessa occasione. Sembra di essere ritornati alla stagione che produsse l’orribile slogan “Uccidere un fascista non è un reato”, con le ben note conseguenze di quelle parole. Se a pronunciare quelle frasi fosse stato un esponente della destra, dal Quirinale fino alle piazze imperverserebbero le proteste più vigorose. Invece, tutto tace».

Esiste ed è credibile la svolta conservatrice di Fratelli d’Italia?

«Parzialmente. Molto più evidente, nel discorso di Giorgia Meloni e del suo partito, è il richiamo ad un nazionalismo che, pur declinato con la prudente etichetta di patriottismo, rischia di apparire – ed essere – anacronistico. La polemica antifrancese ne è un esempio. È difficile, poi, capire come questa visione possa sposarsi all’atlantismo e all’occidentalismo di cui Fdi si fa sempre più insistentemente alfiere. Può spiegarlo, ma non giustificarlo, solo il rapporto di collaborazione che il gruppo conservatore europeo che la Meloni presiede ha con i repubblicani statunitensi».

Che spazio c’è in positivo nel nostro Paese per una destra conservatrice che il più delle volte viene connotata solo in negativo come non sovranista e non populista?

«Ce ne sarebbe se quella destra scegliesse come suo obiettivo polemico principale quell’egemonia del politicamente corretto che si è abbattuta sul panorama culturale del cosiddetto Occidente e mette a repentaglio – come giustamente da più parti si sta facendo notare a cominciare, in Italia, dalle recenti critiche di Luca Ricolfi – la libertà di ricerca scientifica, di insegnamento e, ormai, anche di pensiero. Contrapporre, in questo campo, il conservatorismo al progressismo, con solidi argomenti e non solo con slogan, significherebbe anche dar voce a preoccupazioni diffuse negli strati popolari della società, dove mode intellettuali made in Usa come la teoria della fluidità di genere, l’attacco al presunto “privilegio bianco”, il separatismo etnico e così via sono tuttora viste come assurdità».

Giorgia Meloni è presidente del gruppo europeo conservatori e riformisti (Ecr) che risulta più moderato di quello cui aderisce Matteo Salvini. Questa contraddizione è risolvibile?

«È difficile dirlo, anche se in questa fase sia Fratelli d’Italia che la Lega sembrano prendere le distanze da quella mentalità populista che aveva fatto il successo del progetto di Salvini e che avrebbe potuto essere il terreno d’incontro dei due partiti. Convergere su temi più moderati li potrebbe però penalizzare, e non poco, dal punto di vista elettorale, specialmente se, una volta esaurita la pandemia, se ne dovranno pagare i costi economici e sociali».

Perché ritiene che sarà Silvio Berlusconi più ancora della sinistra a frenare il processo di legittimazione istituzionale di Meloni e Salvini?

«Perché Berlusconi non perdonerà mai né all’una né all’altro di averlo spodestato da quel ruolo di eterna leadership del centrodestra cui si riteneva predestinato. E anche perché, nel fondo, il presidente di Forza Italia non è e non è mai stato un uomo di destra. Lo ha rivendicato a più riprese, dicendosi sturziano e degasperiano».

Che cosa vuol dire esattamente che il nuovo capo dello Stato dev’essere un patriota?

«Mi pare una formula di comodo, un po’ improvvisata, e neanche troppo comprensibile per la pubblica opinione».

Patria è considerato un termine divisivo perché caro alla destra, in realtà dovrebbe essere inclusivo e richiamare un patrimonio comune?

«Le parole si trascinano dietro i significati che a esse vengono attribuiti in certi periodi. Il fascismo ha usato e abusato di questo termine, cercando di attribuirsene il monopolio, e le destre oggi ne pagano lo scotto. Non da oggi, la sinistra preferisce sostituirlo con “nazione”».

Per fissare subito dei paletti, Enrico Letta ha chiesto che il nuovo capo dello Stato sia europeista. I due elementi sono in contraddizione?

«Per come Giorgia Meloni aveva posto la questione, con l’attacco a Macron e alla Francia, sì. Letta sa che i rapporti con l’Unione europea sono una delle questioni che più chiaramente segnano, agli occhi dell’elettorato, la distinzione con il campo avverso, molto meno percettibile su altri terreni, e gioca su questo aspetto».

Quanto dobbiamo stare sereni se l’Europa a cui ci si richiama è quella che in nome dell’inclusività vorrebbe cancellare il Natale e i nomi della tradizione cristiana?

«Il problema è serio, e richiama in causa la questione del politicamente corretto, e quelle connesse dei pericoli della crescita dei caratteri multiculturali e multietnici delle società occidentali. Non è un caso che in Francia sia questo problema ad aver gonfiato le vele della candidatura alla presidenza dell’outsider Eric Zemmour».

Quanto è importante il pronunciamento di papa Francesco che ha sottolineato la necessità di salvaguardare le radici delle nazioni e messo in guardia dal dominio di entità sovranazionali?

«Non molto, visto che sono proprio quelle entità a promuovere fenomeni come l’immigrazione di massa extraeuropea, che il Papa instancabilmente difende dalle accuse dei suoi critici. È difficile salvaguardare le radici delle nazioni quando si contribuisce ad accrescerne l’eterogeneità sotto il profilo culturale e dei modi di vita».

Crede che il centrodestra riuscirà a essere determinante nella partita del Quirinale?

«Considerando l’insipienza strategica di cui i suoi leader hanno dato prova in passato, c’è da dubitarne».

Ha fatto bene Salvini a sollecitare per primo i leader di partito?

«È un modo come un altro per riguadagnare centralità mediatica, ma dubito che la mossa abbia effetti pratici. E difatti è già stata respinta al mittente».

Ritiene anche lei che la proroga dello stato di emergenza nasconda il tentativo di precludere a Mario Draghi la salita sul Colle più alto?

«Può essere, ma se l’interessato vorrà davvero raggiungere quel traguardo, non credo che questo sia un ostacolo insormontabile».

La candidatura di Berlusconi è davvero praticabile o rischia di riportare il Paese al clima di un decennio fa?

«Tutto può accadere, ma l’evento mi pare improbabile, e tutt’al più può risolversi in una sorta di omaggio formale degli alleati alla sua figura istituzionale».

Dopo il dibattito sul ddl Zan, ora il Pd sta alimentando il processo per l’approvazione della legge sull’eutanasia. Che scopo hanno queste campagne in questo momento politico?

«Attrarre le componenti più a sinistra dell’ipotizzato campo largo della coalizione anti destre, che nel recente passato hanno criticato duramente la svolta moderata del Pd, con Renzi e dopo. Ma non sarà un’impresa facile».

Al centro vede un’intesa possibile tra Forza Italia, Carlo Calenda, Italia Viva, Coraggio Italia e Noi con l’Italia?

«Possibile lo è certamente, ma perché si verifichi occorrerebbero circostanze adeguate, come un equilibrio, nei sondaggi pre-elettorali, del peso numerico delle due coalizioni maggiori, per tentare di fare da ago della bilancia».

Pensa che terminata l’esperienza del governo Draghi, se alle elezioni dovesse vincere il centrodestra sarà pronto per guidare il Paese? E i poteri forti glielo consentiranno?

«Se l’elettorato dovesse esprimersi nettamente a favore del centrodestra, le alchimie istituzionali per impedirgli di governare avrebbero poche possibilità di successo. A meno che il fuoco di sbarramento non provenisse dall’interno della coalizione. E questa è un’eventualità tutt’altro che peregrina: Forza Italia e centristi sono mine vaganti».

La pandemia come ha modificato lo scenario politico italiano?

«Lo ha ingessato, grazie al clima emergenziale e allo sfruttamento che ne è stato fatto, ma non ne ha cambiato i connotati. Quando la nevrosi da virus si attenuerà, ce ne renderemo conto».

Pensa anche lei che rischiamo di diventare un Paese in parte autistico?

«Il rischio c’è, visto il clima psicologico degli ultimi due anni».

 

La Verità, 18 dicembre 2021

«L’Italia sta con Padre Pio, ma comanda la Cirinnà»

È un bipolarismo culturale prima ancora che politico quello che Pietrangelo Buttafuoco tratteggia in questa intervista, fornendo una chiave di lettura tridimensionale allo stato delle cose. L’Italia degli anni Venti è scavata dalle dicotomie: uomini o caporali, Padre Pio e la Cirinnà, salesiani o gesuiti. Libero da acquartieramenti vincolanti, lo scrittore catanese non ha peli che ne ingombrino la parlata. Sono cose che passano, il romanzo in uscita da La nave di Teseo – «un divorzio all’italiana, ambientato nella Sicilia del dopoguerra, che si risolve in un Faust al femminile» – susciterà di certo polemiche e gridolini di sdegno nel bel mondo politicamente corretto. Ma lungi dal preoccuparsene, Buttafuoco se la ride. Come fa, in sottofondo, mentre chiacchieriamo da qui in avanti.

Caro Pietrangelo, la prima indicazione che le amministrative ci hanno consegnato è che non si voterà fino al 2023?

«Il dato più evidente è stato il non voto più che il voto. Il vero bipolarismo è quello di Esopo tra il topo di città e il topo di campagna».

Il quale non è andato alle urne.

«Ribadendo l’annoso problema che la maggioranza silenziosa non ha rappresentanza politica e culturale. Questo, salvo eccezioni. L’ultima delle quali è stato Silvio Berlusconi. Che, all’apice, veniva massacrato allo stesso modo in cui abbiamo visto svillaneggiati Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Con il grande svantaggio di non avere, loro due, la forza del Cav; non ultima quella di pagare gli avvocati».

Sta di fatto che lo schieramento che più voleva anticipare le politiche ha preso una batosta.

«Da quando chiedevano le elezioni è passato un lasso di tempo che ha svuotato l’entusiasmo. Queste amministrative sono state un secondo Papeete».

Addirittura?

«Si fosse votato quando toccava avrebbero stravinto. Invece, il patrimonio si è depauperato».

Anche il Pd non vuole affrettare i tempi perché il M5s è in crisi e la coalizione è fluida.

«Siamo di fronte a un groviglio di contraddizioni. La prima è che, da padrone del sistema, il Pd ha l’abilità di trarre vantaggi da ogni situazione. All’inizio Draghi era visto come fumo negli occhi. I suoi capi speravano nel Conte tris, poi erano vedove di Conte, infine si son fatti piacere Draghi, che ora sembra roba loro».

La seconda?

«All’esordio la Lega era il pilastro di Draghi. Giancarlo Giorgetti gli sedeva accanto come un fratello. Ma pure in questo caso, il vantaggio si è capovolto. E lo stesso Draghi ci ha messo del suo».

Cioé?

«Ha sentito il richiamo delle sirene della rispettabilità sociale, tanto che non ha fatto l’auspicato cambio di passo tenendosi Roberto Speranza, Luciana Lamorgese e perfino il reddito di cittadinanza. Anche l’abbraccio con Maurizio Landini si trasformerà nel suo contrario, sarà Draghi a dover abbracciare Landini. È l’antica regola italiana: nella difficoltà ci si butta a sinistra».

Anche se adesso sta rinascendo il centro?

«Vedremo. Temo che, seguendo il solito richiamo, Carlo Calenda possa replicare la parabola di Mario Segni. Quando Berlusconi gli offrì il ruolo di leader dei moderati, Mariotto rinunciò per non inimicarsi il sistema. Invece, se vuoi vincere devi intercettare la maggioranza degli italiani che è naturaliter antisistema. Nel senso che sono più uomini che caporali».

Chi sono i caporali oggi?

«Gli stessi di ieri. Quelli che si danno quest’aria di compostezza presto indosseranno le uniformi richieste dall’epoca. I trentenni meravigliosi della task force di Palazzo Chigi, si sarebbero scapicollati con Bettino Craxi e prima con Amintore Fanfani, Alcide De Gasperi e Giuseppe Bottai. Chi sosteneva il Borbone è già pronto per il Savoia, per la camicia nera, il fazzoletto rosso, lo scudocrociato, la falce e martello e ora per sventolare la bandiera dell’Europa. Il codice del potere è sempre lo stesso, cambia solo l’uniforme».

I burocrati più longevi dei ministri?

«L’originalità italiana è nel trasformismo del potere narrato da I Viceré di Federico De Roberto e Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa».

Anche il Pd ha interesse a mantenere Supermario dov’è sperando di piazzare uno dei suoi al Quirinale?

«Dipende dalla capacità di tenuta del centrodestra che, sulla carta, ha un vantaggio numerico. E questo anche considerando il fatto che, a dispetto di Berlusconi, i ministri di Forza Italia sono più affini al Pd che al resto del centrodestra e potrebbero, dunque, votare Paolo Gentiloni, il vero candidato dem. Tuttavia, i margini per giocarsela ci sono. Bisogna solo individuare una figura di pacificazione. E trarre insegnamenti dai due Papeete. In queste amministrative sono stati commessi diversi errori».

La crescita di Fratelli d’Italia ha bloccato la svolta moderata di Salvini?

«In politica c’è un momento in cui un leader dice: basta, voti non me ne servono più. Il caso di Meloni è particolare perché il successo è suo, non di Fdi. Ricordiamoci che parliamo di granai pieni, non di carestie. Ma il granaio pieno va distribuito, altrimenti marcisce. L’acutezza dell’establishment è stato far tenere il granaio chiuso e marcire il consenso».

Prendendo qualche grande città il centrodestra ne avrebbe messo a frutto una parte?

«La cagnara sul fascismo ha spaventato il popolino. È stato un gigantesco pizzino per dire: “Voi la coda non la muovete”. Sì, il candidato di Roma era debole, ma il dossieraggio cui si sono prestate autorevoli testate e la quasi totalità dell’informazione tv ha paralizzato i topi di campagna».

La batosta è stata determinata dalla campagna sul fascismo più che dai candidati sbagliati?

«Tutto insieme. Senza quella cagnara, a Torino il centrodestra avrebbe vinto. Il grande centro dei moderati lo faranno grazie a Forza nuova che fa il gioco del Pd».

Come ha evidenziato a suo modo @LefrasidiOsho. Che idea ti sei fatto della tempistica delle inchieste?

«Mi affido all’arguzia di Giulio Andreotti: a pensar male ci si azzecca».

Vince il centrodestra moderato: conseguenze?

«Resta attuale la strategia dell’armonia di Pinuccio Tatarella. Dare visibilità a tutte le sfumature, il consenso si costruisce in un caravanserraglio aperto. Se non ci si impegna a dare un destino politico e culturale alla maggioranza degli italiani si costringe il Pd a governare».

Il consenso si costruisce nel dibattito culturale, lontano dalle urne?

«Faccio un esempio. Non c’è dubbio che la stragrande maggioranza degli italiani ami Padre Pio e ciò che rappresenta. Invece, grazie a un’accorta regia, sembra che stia più a cuore la cultura della Cirinnà. Vuoi un altro esempio?»

Prego.

«Ogni volta che si deve nominare una persona autorevole per i destini del Paese tutti citano Emma Bonino, quando sappiamo bene che per i padri di famiglia e la gente semplice che lavora è una figura inesistente. Certi culti vivono solo nel racconto dei giornali e nei palinsesti tv».

La pandemia ha bocciato populismi e politica di pancia e promosso competenza e pragmatismo?

«La pandemia è un’occasione per mantenere lo status quo e neutralizzare dissenso e spirito critico. Il mondo occidentale è una grande sala d’attesa dove si passa da un’emergenza all’altra. Esco dalla metropolitana a Piazza del Popolo e vengo fermato da una volante che mi chiede il certificato verde: emergenza sanitaria. In Via del Corso m’imbatto nei blindati della polizia: emergenza terroristica. 100 metri dopo trovo uno che chiede l’elemosina, emergenza finanziaria. Quando penso che tre bastino, sullo smartphone mi vedo recapitare un video di Greta Thunberg con l’emergenza climatica».

Finirà come ha ipotizzato Paolo Mieli sul Corriere della Sera, cioè si faranno «i conti senza il voto» per adeguarsi alla «formula Ursula»?

«Conoscendo il senso dell’umorismo di Mieli, immagino che volesse rifarsi alla Modesta proposta di Jonhatan Swift: ingrassare i bambini denutriti per farli mangiare ai ricchi».

Fuor di metafora?

«Si toglie il voto ai “deplorevoli», come li ha chiamati Hillary Clinton, inadatti a gestire la cosa pubblica. Mieli è allievo di Renzo De Felice, studioso di Mussolini, per il quale le elezioni erano “ludi cartacei”».

Ha lanciato il sasso e nascosto la mano o no?

«Non dimenticare La dissimulazione onesta di Torquato Accetto, formula molto gesuitica. Un’altra dicotomia italiana è quella dei salesiani massacrati dai gesuiti. Ricordiamoci che Berlusconi è un allievo dei salesiani mentre Draghi lo è dei gesuiti».

La quadratura sarebbe il primo al Quirinale e l’altro a Palazzo Chigi?

«È dal 1641, anno in cui viene stampata La dissimulazione onesta, che i gesuiti orchestrano i giochi. Perciò, come diceva Ludwig Wittgenstein: “Di quel che non si può parlare si deve tacere”».

La terza indicazione rafforzata dalle amministrative è che per governare serve il benestare dell’Europa?

«In un’ottica provinciale sì. Oggi il gioco con la posta più alta si è trasferito nell’oceano Pacifico, dove Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia fronteggiano la Cina».

Come finirà il braccio di ferro con la Polonia?

«Sula Polonia non può gravare una pregiudiziale storica come sull’Italia o la Germania. I polacchi hanno fronteggiato i due moloch del Novecento. E hanno alle spalle il mito fondante di Karol Woytjla, mentre l’Unione europea segue la moda passeggera di Bergoglio».

Perché se siamo un Paese in prevalenza moderato il partito del sistema è il Pd?

«Perché ha avuto l’astuzia gesuitica d’innestarsi nella dissoluzione apparente delle due chiese del regime partitocratico, il Pci e la Dc. Per fare carriera i figli di buona famiglia devono bazzicare quelle stanze».

Perché la cultura è in mano alle élite di sinistra?

«Perché purtroppo la Chiesa è stata politicamente complice dei suoi persecutori».

Giudizio molto duro.

«Ma vero. Se chiacchieri con un alto prelato non ti parla di Dio, ma dell’etica. Se chiedi al cattolico medio il nome di un filosofo ti cita Norberto Bobbio e non l’unico grande filosofo che abbiamo avuto, Augusto Del Noce. Faccio quest’esempio apposta, perché avevano le aule confinanti all’università di Torino».

Finirà che il centrodestra resterà digiuno mentre la sinistra famelica «ha già il tovagliolo al collo e si papperà un’altra volta il Quirinale», come teme Maurizio Gasparri?

«Ma certo, si prenderanno tutto».

 

La Verità, 23 ottobre 2021

«Perché la svolta di Draghi risparmia Speranza»

«Per fare i conti sulla pandemia ci vuole un processo, il processo di Norimberga». Qualche giorno fa, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica su Rete 4, Stefano Zecchi ha scatenato un vespaio. Filosofo, scrittore, editorialista del Giornale, docente di filosofia teoretica a Padova e poi di estetica a Milano, con parentesi d’insegnamento in vari atenei esteri tra i quali l’università Tagore di Calcutta, Zecchi è anche consigliere comunale a Venezia, eletto nella lista indipendentista del Partito dei veneti.

Professore, è pentito di aver usato un’espressione così forte?

«Non sono pentito. Leonardo Sciascia diceva che i comunisti prendono una parola e la usano come un cappio per impiccarti. Ma io sfuggo a questo cappio perché credo che chi ha commesso gravi errori di natura amministrativa, se non ha la dignità di assumersene la responsabilità deve trovare qualcuno che gliele assegna».

Quali sono queste responsabilità per giustificare il ricorso a una Norimberga sulla pandemia?

«Che in Italia la diffusione del Covid sia stata gestita in modo criminale è fuor di dubbio. Mi riferisco in particolare al governo giallorosso, durante il quale c’erano ministri che, dall’alto delle loro competenze, dicevano che la mascherina non serviva. Poi asserivano che il Covid è poco più che un’influenza, che non c’erano timori di contagi. Qualche settimana dopo ci siamo messi le mani nei capelli vedendo i camion dell’esercito pieni di bare a Bergamo. Adesso ci sgraviamo la coscienza con il giorno del ricordo delle vittime, ma la coscienza ce la mettiamo a posto con un esame vero delle responsabilità dell’accaduto».

Quali responsabilità amministrative sono da imputare al Conte bis?

«Ci siamo dimenticati della secretazione dei verbali delle riunioni del Comitato tecnico scientifico? Su tutto c’era un’overdose di comunicazione, ma su quelle riunioni vigeva il segreto. E la mancata proclamazione della zona rossa della Val Seriana? Ora si è avuta anche conferma della gestione opaca, per usare un eufemismo, del piano antipandemico. Che era fermo al 2006. Adesso le vaccinazioni vanno a rilento, in particolare per gli ultra ottantenni. Il ministro della Salute Roberto Speranza è responsabile di tutto questo».

Qualcuno ha declinato la sua idea nella forma di una Norimberga politica.

«La mia espressione forte consegue a quella altrettanto forte di coloro che hanno paragonato la pandemia a una guerra. Nelle guerre ci sono soldati e generali capaci e incapaci, ci sono pusillanimi ed eroi. Conoscere le responsabilità di ciò che è stato fatto è un diritto dei cittadini. Un processo può anche assolvere gli imputati, a Norimberga ci sono state condanne graduali. Credo che chi ha visto morire in modo ignominioso i propri cari a causa di decisioni amministrative sbagliate debba poter sapere la verità».

Condivide la mozione di sfiducia al ministro Speranza annunciata da Fratelli d’Italia?

«Sì, la condivido. Anche se probabilmente non andrà in porto».

Il cambio di passo avviato da Mario Draghi con la sostituzione di Domenico Arcuri, la correzione del Cts e l’accelerazione sui vaccini si arresta davanti a Speranza?

«Non vorrei essere dissacrante: Draghi è un grande allenatore che gode di stima e attenzione internazionale. In squadra ha fuoriclasse come Giancarlo Giorgetti, ma con brocchi come Speranza difficilmente riuscirà a vincere o anche a pareggiare».

Avrà la forza di mandarlo in panchina?

«Questo governo vive su un equilibrio dettato dalla sinistra. Destituire Speranza significherebbe toccare un santuario delicato. A meno di suoi clamorosi errori dubito che il premier lo cambierà. Sarebbe un’umiliazione troppo forte, doveva pensarci per tempo. Credo che alla fine Draghi lo circonderà con le competenze di altri e lo depotenzierà».

La soluzione per accertare le responsabilità potrebbe essere una commissione parlamentare d’inchiesta?

«Non nutro molta fiducia nelle commissioni parlamentari, non ne ho mai vista una che arrivasse vicina alla verità. La soluzione sarebbe un passo indietro di coloro che riconoscessero le proprie responsabilità. Probabilmente è una pia illusione».

Per la sinistra la pandemia è un’occasione per un ricalcolo del sistema?

«Nel famoso libro di Speranza ho trovato riflessioni di politica economica nelle quali il Covid è visto come un’opportunità per instaurare una nuova egemonia della sinistra».

Cosa pensa del fatto che Nicola Zingaretti ha descritto gli esercenti della ristorazione e gli operatori di palestre e piscine come persone che «fanno i lavoretti»?

«In questa parola c’è tutto il senso della crisi della cosiddetta sinistra che ha completamente dimenticato la realtà del mondo del lavoro».

Complessivamente, come vede l’Italia di oggi? Mi regali un’immagine da filosofo, amante della bellezza.

«Vedo un’Italia che oscilla tra il disorientamento e il terrore. Forse l’immagine giusta è un’Italia allarmata, molto allarmata».

Il motivo principale?

«Oltre alle cose che abbiamo detto, un’altra causa d’insicurezza è dovuta all’informazione contraddittoria che tutti i giorni troviamo sui media. Mentre in altri paesi, gli Stati uniti per esempio, la comunicazione sul Covid è delegata a una sola persona competente, noi ascoltiamo tutte le sere in tv una ridda di opinioni di virologi ed epidemiologi che non hanno esperienza di comunicazione. Si parla della pandemia come fosse il derby di Milano, senza la consapevolezza che ogni parola può influenzare scelte e stati d’animo dei cittadini».

Ha mai avuto la tentazione di andare a vivere altrove?

«Sempre. Ho vissuto infanzia e adolescenza nella casa più bella del mondo, con la terrazza che guardava i Mori di San Marco a Venezia. Quando i miei genitori si sono separati, ho seguito mia madre. Poi a 18 anni sono venuto a Milano con una borsa di studio. Da allora sono sempre desideroso di cambiare, di girare…».

Di questi tempi invidia il welfare del Nordeuropa o la razionalità della Germania?

«Invidio gli inglesi. Hanno risolto tutta questa paura con grande razionalità e, dopo le precedenti, i tedeschi finiranno per perdere anche la guerra economica che hanno dichiarato loro sui vaccini. Se invece dovessi decidere a prescindere dal Covid andrei in India, il paese dove ho lasciato un pezzo di cuore quando ho insegnato tre anni a Calcutta».

L’Europa che immagine le suscita?

«È un’entità burocratica fatta per avvantaggiare la finanza e l’establishment internazionale, un sistema che non si preoccupa dei singoli cittadini. Lo si è visto nelle trattative con le grandi case farmaceutiche per i vaccini. Al contrario, la Gran Bretagna ha dimostrato quanto determinante sia il ruolo degli stati nazionali nella vita della popolazione».

Come giudica lo scontro geopolitico sui vaccini?

«Mi sembra che la parola decisiva non sia determinata dall’efficacia sanitaria, ma dal profitto delle Big pharma. Mentre negli Stati uniti Fauci parla per tutti, in Europa non c’è un’autorità riconosciuta. Così la Germania ha scelto Pfizer e osteggia l’anglo-svedese AstraZeneca. Inoltre, non si capisce il divieto a Sputnik. L’Europa ha palesato tutte le sue debolezze, coperte solo da una grande retorica ideologica. Ma se appena ne metti in discussione la funzione passi da reprobo».

Cosa pensa del fatto che, in un’intervista al Corriere della sera, il figlio di Beniamino Andreatta, Filippo, braccio destro di Enrico Letta, ha detto che «oggi essere di sinistra vuol dire essere europeisti»?

«È la solita ideologizzazione dell’Europa che nuoce anche all’Europa. Ed è anche la conferma che il Pd è il partito dell’establishment, per il quale votano la borghesia, i magistrati, i docenti universitari, i giornalisti che vogliono contare di più. Vorrei chiedere ai vertici del Pd cosa vuol dire esattamente oggi essere europeisti».

Che bilancio fa della sua esperienza di consigliere comunale nel Partito dei veneti?

«Volevo dimostrare che ci può essere un altro modo di far vivere Venezia. Questo partitino ha assecondato le mie idee. La prima: Venezia necessita dello statuto speciale che le dia autonomia amministrativa e fiscale di cui si giovano città europee come Berlino, Vienna, Amburgo e Madrid. La seconda: favorire in città il lavoro che comporti le defiscalizzazioni. La terza: ridare forza all’abitabilità di Venezia attraverso un nuovo piano di mobilità».

Riforme impegnative.

«Erano già nella testa di Gianni De Michelis, 35 anni fa. Da allora ha vinto la logica del non si può fare. Così continua a prevalere la lamentazione sullo spopolamento, sulla città invasa dai turisti e in mano alle grandi navi. I soliti piagnistei. Una volta si lamentava che Venezia era diventata una sorta di Disneyland. Ora è Pompei, morta».

Matteo Salvini ha messo in secondo piano il federalismo e l’autonomia?

«Sì, e secondo me sbaglia. Un Paese moderno deve avere, al contempo, una forte struttura statale e una forte struttura federale. L’Italia ha invece deboli istituzioni statali e deboli amministrazioni regionali. Il nostro regionalismo non è un vero federalismo. Per questo il Veneto ha votato al 90% per l’autonomia».

Quando si vaccinerà?

«Mi sono già vaccinato cinque giorni fa con AstraZeneca. Lo destinano a noi anziani perché ne abbiamo più benefici che costi. Finora è andato tutto bene, nessun sintomo. Ho avuto due embolie polmonari, ma il mio medico mi ha rassicurato».

È preoccupato?

«Diciamo che mi fido, gli effetti collaterali sono infinitesimali. L’embolia insorge nei primi 12 giorni dopo la somministrazione, ho ancora una settimana di tempo per morire. La tengo informato» (ride).

Le hanno fissato la data del richiamo?

«No. Una dottoressa carina mi ha promesso: “Le telefonerò”, come fosse una fidanzata. Aspetto».
Per chiudere, secondo lei Draghi ce la farà?
«Non sono particolarmente ottimista. La partita contemporanea dell’emergenza sanitaria ed economica è molto impegnativa. Bisogna razionalizzare le vaccinazioni partendo dalle fasce di età più fragili. E poi riaprire presto tutto quello che si può. Per far ricominciare la vita».

 

La Verità, 17 aprile 2021

 

«Serve un vero federalismo in un’Europa comunitaria»

Poi dici, gli imprenditori del Nord… Nella pedemontana vicentina, fra Thiene e Asiago, ha radici Roberto Brazzale, 59 anni, sposato con Luisa, padre di tre figli, comandante della più antica industria casearia del Veneto: 750 dipendenti, 220 milioni di fatturato, aziende in Moravia e in Brasile. Anima lunga e mimica da visionario, mostra le stanze degli avi prima di accompagnarmi nella nuova sede, vetrate e scale minimaliste. «I miei dipendenti devono aver voglia di venire a lavorare perché qui si sta bene», sottolinea mentre preme un pulsante che fa lievitare il tavolo al quale siamo seduti: «Se ci si vuole alleggerire la schiena si può lavorare stando in piedi, come al bar. Quando si è stanchi si schiaccia e ci si risiede».

Lei è l’uomo del colesterolo?

«Di quello buono. Il colesterolo è essenzialmente un fatto naturale».

E di burro e formaggio.

«Il settore ha sofferto quarant’anni di fake news. C’era cascata perfino la Food and drugs administration».

Invece?

«La scienza ha completamente riabilitato il burro. Al quale è stato restituito il ruolo che merita perché non solo non fa male, ma è indispensabile per una vita sana».

La liberazione è definitiva o la strada è ancora lunga?

«Il consumatore risente ancora delle campagne del passato. Nostro compito è realizzare prodotti straordinari per accompagnarne il rinascimento, tipo un burro Rolls Royce che, se lo assaggi, non riesci più a mangiarne un altro».

Mi fa un suo identikit in poche parole?

«Sono un tipico veneto nato negli anni Sessanta, felice di esserlo».

Studi?

«Liceo classico, laurea in legge e studi di organo e composizione organistica al conservatorio».

Genitori?

«Mia madre è stata organista della cattedrale di Padova, direttrice di conservatorio, concertista internazionale. Il papà era chimico industriale con sensibilità artistica, amico di Luigi Meneghello, in pratica uno dei bricconi di Libera nos a malo. Accompagnavo mia madre nelle tournée, eravamo europei ben prima che arrivasse l’Unione europea».

Tutto questo cosa c’entra con la gestione di un caseificio industriale?

«I miei mi hanno insegnato l’importanza di una preparazione più ampia possibile. Sono a mio agio come giurista che opera in campo economico».

Precisando il suo ritratto, quanto le piace andare controcorrente?

«A me sembra di pensare col buon senso e che siano gli altri controcorrente. Ha presente il tipo che guida nell’autostrada immersa nella nebbia e sente la notizia alla radio? “Attenzione, c’è un pazzo che sta andando contromano”. E lui: “Come uno? Saranno almeno cento”».

Appunto, tutti esaltano il consorzio del Grana padano: e lei?

«Pensi che i nostri nonni lo fondarono… Noi a un certo punto abbiamo scelto di superare i limiti delle Dop e andare dove poter produrre meglio ed ecosostenibile. Dopo lunghe ricerche, abbiamo scoperto la Moravia».

Quindi addio made in Italy?

«No, è solo più evoluto».

In che senso?

«Per noi è made in Italy un prodotto con una prevalente componente italiana in termini di territorio, fattore umano, cultura. Legarsi alla provenienza delle materie prime è autolesionistico, perché siamo limitati per carenza di territorio e perché il vero valore aggiunto del food italiano sta nella capacità di trasformazione, che può esprimersi ovunque. Abbiamo triplicato i dipendenti in Italia da quando abbiamo espanso la produzione in Moravia. Questa è la contraddizione».

Spieghi.

«La domanda di prodotti italiani nel mondo è altissima, ma non abbiamo materia prima per soddisfarla tutta. Così la copre l’italian sounding, prodotti totalmente esteri ispirati ai nostri, come il parmesan. Così i giovani rimangono disoccupati. È conseguenza della visione miope del principale sindacato agricolo».

La Coldiretti?

«Restando legati a quelle logiche perdiamo interi mercati. Lo sa che l’Italia esporta meno prodotti alimentari del Belgio?»

In compenso voi vi siete spinti fino in Brasile.

«Per regola facciamo le cose dove riescono meglio e dagli anni Novanta le opportunità si sono ampliate a dismisura. Per un allevamento da carne il posto migliore è il Mato Grosso do Sul dove si pascola 365 giorni all’anno. Lì abbiamo riforestato i pascoli piantando 1,5 milioni di alberi e raggiungendo la neutralità di carbonio dei nostri stabilimenti».

La riforestazione compensa le emissioni carboniche delle vostre aziende?

«Esatto. Per primi al mondo nel settore caseario».

Avete anche introdotto il baby bonus.

«Nel 2016 abbiamo scoperto che una nostra dipendente aveva paura di dirci che aspettava un bambino. Bisognava reagire. Abbiamo introdotto una mensilità premio per ogni nato o adottato, e la possibilità di allungare di un altro anno il congedo parentale, per la mamma o papà, retribuito al 30%».

Le piace la svolta europeista di Salvini?

«È Draghi che nove anni fa ha fatto una svolta sovranista, con la famosa frase “whatever it takes”: è stata una calamità».

Addirittura.

«Ha scelto di perseverare nell’errore del progetto dell’euro quando era palese che la convergenza dell’Italia non ci sarà mai. Invece di smontare l’illusione, Draghi ha promesso al mondo di sostenere i Btp all’infinito, iniziando a stampare montagne di moneta dal nulla, come chiedevano i sovranisti. L’Italia ha così potuto evitare di riformarsi e ha ingigantito il proprio debito pubblico. Ma gli squilibri continuano a crescere: il debito dell’Italia verso la Bce è salito a oltre 500 miliardi a fronte di un credito della Germania di mille miliardi. Chi regolerà queste posizioni?».

La next generation?

«Ci meriteremmo ci venisse revocata la patria potestà sulla prossima generazione come si fa con un tutore infedele».

Draghi ha difeso l’euro.

«Ma non gli europei. Ha monetizzato i deficit, come negli anni Settanta, in spregio ai trattati: anestesia, non terapia, contro un male che nel frattempo avanza indisturbato. Nel 1992 Draghi era direttore generale del Tesoro quando Ciampi per “difendere la lira” lanciò un mini “whatever it takes” che costò all’Italia 50.000 miliardi di lire per sostenere una quotazione irreale. Quello di Draghi ci costerà molto di più quando il castello di carte crollerà. Succederà, perché nessuna costruzione politica è <irreversibile>, tanto più se è sbagliata, guardi il comunismo».

Contromano in autostrada, boccia anche la presentazione in Parlamento per la fiducia?

«Draghi ha una visione statalista, da alto burocrate ministeriale. Vuole un forte ruolo dello Stato nell’economia e trasferire ulteriore sovranità alla Ue, per ovviare alle debolezze italiane, anziché progettare riforme efficaci. Non parla di autonomie regionali, praticamente assenti i temi della natalità e dell’insopportabile vessazione fiscale su famiglie e imprese. Draghi concorre da protagonista al governo dello Stato italiano da almeno trent’anni: ingenuo aspettarsi cambiamenti coraggiosi».

Si dice che la svolta di Salvini sia stata suggerita dagli imprenditori del Nord per sedersi al tavolo che gestirà i miliardi del Recovery fund.

«Sarebbe comprensibile, ma sbagliato. Il Recovery fund è nuovo debito, il 10% del Pil, che graverà sui nostri figli. Denari sottratti loro per essere spesi oggi dalla mano pubblica. Una bestialità. Quel che serve sono adeguati e veloci indennizzi a lavoratori e imprese penalizzati delle chiusure».

Non incrementano l’assistenzialismo al contrario degli investimenti che creano sviluppo?

«Abbiamo bisogno di meno spesa pubblica non di più spesa pubblica. Non esiste denaro dello Stato perché tutto ciò che spende lo stato lo toglie ai cittadini. E pensare che ne faccia uso migliore dei cittadini è insensato».

Bocciato sul nascere anche il nuovo governo: sta all’opposizione con Giorgia Meloni?

«Fratelli d’Italia è un partito centralista e statalista. Questo governo è meno peggio del precedente, ma ciò di cui abbiamo bisogno è ben altro».

Sentiamo.

«Riformare l’architettura istituzionale, restituendo ai territori responsabilità e libertà. Smontare il modello centralistico dei trasferimenti che ci ha portato in questa situazione. In tutto il mondo le realtà che funzionano meglio sono comunità di 5-10 milioni di abitanti, indipendenti come Austria o Singapore, o federate come Svizzera o Stati Uniti».

Quindi è anche contro l’Europa?

«Scherza? Nessuno è più europeista di me. Ma credo in un’Europa comunitaria, non unionista. L’unionismo è un’ideologia velleitaria e dannosa perché è lapalissiano che l’integrazione tra i Paesi europei non verrà mai».

Per chi vota?

«Ho cambiato spesso, a volte non voto».

Dove sbaglia Salvini?

«Doveva perseguire il federalismo che oggi, in Italia, è orfano».

Durante la pandemia le regioni non hanno dato grande prova.

«Perché sono dipendenti dal centro, una realtà incompiuta. Il regionalismo manca dei pezzi più importanti come l’autonomia fiscale. Tre anni fa 2,3 milioni di veneti hanno chiesto al governo di concedere più autonomia come previsto dalla Costituzione: ignorati. Anche da Salvini che ha fatto una svolta nazionalista e centralista».

Alla ricerca di consensi in tutto il Paese e per non abbandonare il Sud al suo destino?

«I consensi si devono conquistare in un’ottica federalista che è urgente soprattutto al sud dove può favorire una rinascita grazie alle straordinarie risorse umane che oggi sono depresse dallo statalismo».

Niente grandi opere al Sud?

«Cito la ricerca di Accetturo e De Blasio intitolata Morire di aiuti. I fallimenti delle politiche per il Sud (e come evitarli) pubblicata dall’Istituto Bruno Leoni. Il denaro pubblico ha fatto danni enormi al Sud».

Io cito due investimenti statali virtuosi in tempi di crisi: l’Autostrada del sole consegnata in anticipo e il ponte Morandi ricostruito in un anno.

«Quelli erano investimenti necessari. Perché prima di avviare una grande opera non s’interpella chi la paga, come in Svizzera?  Non è rilevante se lo Stato sia svelto a fare le opere, ma se queste opere siano più utili che lasciare i soldi in tasca ai cittadini perché investano loro. Lo Stato, che spende già oltre 900 miliardi, avvalora l’ideologia che fare investimenti e spesa pubblica sia utile all’economia perché innescherebbe un moltiplicatore. Frottole, l’unico moltiplicatore che innesca è quello dei debiti pubblici».

 

La Verità, 20 febbraio 2021

 

 

«Presto saremo di nuovo al capolinea, bisogna votare»

Buongiorno Paolo Mieli, siamo in crisi o no?

«Ne stiamo uscendo. La mia previsione è che martedì Giuseppe Conte avrà i numeri per andare avanti».

Niente elezioni come aveva auspicato in un editoriale sul Corriere della Sera?

«Suggerivo un governo di salute pubblica come ipotizzato dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Un governo di decantazione. Guidato, per esempio, da Carlo Cottarelli per gestire la normale amministrazione e andare alle urne appena possibile, compatibilmente con le priorità della pandemia e prima del semestre bianco».

I virologi sconsigliano di convocare elezioni.

«Darei retta a loro in primo luogo. Magari rimpolpando il Comitato tecnico scientifico con altri virologi, considerato che il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, ha scritto in un libro che ne sono stati esclusi alcuni tra i più eminenti, come Massimo Galli e Andrea Crisanti».

Per le amministrative si voterà in tante città italiane.

«Anche questo è da vedere. L’anno scorso le regionali sono state spostate a settembre».

Italia viva ha ritirato la delegazione, ma Conte non ha rimesso il mandato: inusuale?

«Le prassi istituzionali in Italia sono come il sacco della Befana, puoi trovarci qualsiasi cosa. Chiedere la fiducia alle camere è una delle strade percorribili. E comporta il fatto che l’attuale governo rimarrà in carica senza bisogno di varare un Conte ter».

Però cambia la maggioranza.

«Al posto di Italia viva entrerà un nuovo gruppo. È già accaduto, Denis Verdini formò Ala. In molte legislature si finge che nasca un nuovo partito mentre è un assemblaggio delle persone più diverse».

Puntando ai voti dei responsabili Conte disobbedisce a Mattarella?

«Non sappiamo come Mattarella gli abbia consigliato di non ricorrere ai responsabili. La sua azione sembra invece ispirarsi proprio alla definizione di costruttori del discorso di fine anno del presidente».

Definizione elegante e non ironica.

«Matteo Salvini lamenta che a lui non fu concesso questo tentativo mentre a Conte sì. In realtà, dopo il voto del 2018, il centrodestra aveva la maggioranza relativa e proponeva di andare in Parlamento a cercare i voti mancanti. Ora si vuole conoscere in anticipo la configurazione politica dei responsabili».

Quando c’era Silvio Berlusconi si chiamavano voltagabbana.

«Nella storia d’Italia ci sono dal 1876. Il fatto è che sono pessimi quelli della parte avversa, sono salvatori quelli della propria. Lo spartiacque è se li paghi o no. Se li fai ministri, se dai un incarico al figlio…».

Questi costruttori più che le cattedrali fanno venire in mente i compassi?

«Non vedo tracce di massoneria, ma mi rendo conto che dietro Conte c’è un magnete più forte di quanto si immagini. I vescovi per ben due volte si sono pronunciati in favore della tenuta del governo. Capisco l’allarme per la situazione del Paese, ma noto la singolarità del fatto».

Anche papa Francesco ha detto di «non rompere l’unità».

«Del Papa non so, ma non credo che i vescovi si siano mossi a sua insaputa».

L’Italia piegata dalla pandemia è ostaggio dell’ego di due rivali che gareggiano sul grado di virilità?

«Non la metterei così. In politica c’è sempre un elemento psicologico. I recenti fatti americani sono stati spiegati con la pazzia di Donald Trump. Il leader perdente viene sempre descritto come uno che va allo sbaraglio, sbaglia i calcoli e viene giustamente punito dal destino. Nel caso di Renzi, persino il suo barbiere ha detto di non capirlo».

Tra due mesi saremo di nuovo al capolinea?

«È possibile».

Si sente ripetere che il governo deve correre ma lo si vede solo rincorrere il virus?

«È un dubbio che ho iniziato ad avere lo scorso ottobre. Mentre in primavera mi era parso che si fossero presi provvedimenti chiari, in autunno, quando in Europa era partita la seconda ondata, l’Italia si è attardata con dpcm interlocutori. Qualcosa di simile sta accadendo ora. Germania, Francia e Gran Bretagna adottano misure drastiche, noi tergiversiamo. Commettere due volte lo stesso errore sarebbe grave».

Sarà perché Conte ha il problema del consenso?

«Tutti ce l’hanno. In rapporto alla lotta al virus si registrano oscillazioni sia nella maggioranza che nell’opposizione. Al governo si confrontano una linea intransigente e una più morbida».

Il più morbido è proprio Conte. Ripropongo la domanda: cerca consensi?

«È costitutivo di questo governo dover mediare tra le varie anime del Pd, Leu, M5s e Italia viva, che ora non c’è più. Dubito che i costruttori incoraggeranno il rigore nella lotta al Covid. Per questo sostengo che un giorno o l’altro si debba andare a votare. In Europa tutti i leader hanno il consenso degli elettori, noi abbiamo un premier che, quando si è votato l’ultima volta, era sconosciuto».

Ora è dipinto come un Andreotti di sinistra, un federatore alla Prodi…

«Tutte persone che s’incontrarono con gli elettori. Facciamo sì che siano loro a decidere chi è Conte».

Se per Nicola Zingaretti Conte è «dirimente» e Beppe Grillo e Luigi Di Maio lo blindano, è difficile che ciò avvenga.

«Né il governo composto da M5s e Lega né quello formato con il Pd erano stati annunciati in campagna elettorale. Può darsi che quest’ultima alleanza sia la migliore, ma senza la ratifica dell’elettorato manca un elemento fondamentale. Da studioso di storia constato che in Italia non è mai il momento buono per votare. C’è il terrorismo, la crisi economica, la presidenza europea, il G20, la crisi pandemica, quest’ultima emergenza particolarmente tragica. Dopo una legislatura così scombinata la svolta avverrà solo quando gli elettori potranno dire la propria».

Fino a quel momento prevarranno le alchimie di Palazzo.

«E se tra due mesi saremo nuovamente al capolinea spunterà un altro gruppo di super costruttori… Con un Parlamento composto da eletti che hanno come comun denominatore la probabilità di non esserlo di nuovo si potrà andare avanti a lungo. Un editoriale della Frankfurter Allgemaine Zeitung, non un pericoloso organo sovranista, ha scritto che purtroppo, oltre alla gestione del coronavirus, il governo Conte non ha prodotto alcunché riguardo al futuro e si accingeva a distribuire i fondi europei in base a logiche clientelari».

Il premier è riuscito a mettere d’accordo Giuliano Ferrara e Marco Travaglio.

«Sì. Anche se in questi giorni Il Foglio è stato generoso sia nei suoi confronti che verso Renzi».

Conte è un fuoriclasse del trasformismo, uno Zelig del Palazzo o possiede poteri speciali nascosti?

«Tralasciando visioni complottistiche, credo abbia dietro di sé un magnete che attrae il lavoro di personalità molto distanti tra loro come Gianni Letta, amico personale di Berlusconi, Goffredo Bettini, che viveva in Thailandia, Massimo D’Alema che si stava dedicando a centri studi internazionali, lo stesso Pierluigi Bersani. Forse sono coalizzati dall’obiettivo di liberarsi dei due Mattei…».

Questo lavorio favorisce la nascita del partito di Conte?

«Non saprei. Ho appena visto un sondaggio di Antonio Noto che lo dà al 12% e il Pd al 13%. Se queste persone lavorassero al travaso di voti dal Pd a Conte non capirei. Anche perché darebbe un notevole vantaggio al centrodestra».

Come giudica la mossa di Renzi?

«Non credo fosse finalizzata a ottenere incarichi. Per conto mio avrebbe potuto fermarsi dopo aver ottenuto la riscrittura del Recovery Plan. Gli esponenti di piccole formazioni hanno sempre avuto rapporti segreti con i partiti maggiori. Ugo La Malfa li aveva con il Pci. Renzi non ne ha con nessuno. L’unico clemente è stato Pier Ferdinando Casini».

Renzi è uno statista preoccupato del bene del Paese o uno sfasciacarrozze ingombrato dal suo ego?

«Di statisti che si preoccupano della prossima generazione si fatica a trovarne. Sfasciacarrozze, egolatra, vittima di delirio di onnipotenza sono categorie che non uso per nessuno, preferendo tentare di capire cosa succede. E non sempre ci riesco».

È rimasto solo con il cerino in mano?

«Lo è da quando perse il referendum del 2016. Se martedì la crisi avrà l’evoluzione che abbiamo prospettato cominceranno a bruciarsi i polpastrelli».

Il partito di Conte occuperebbe la stessa area elettorale di Italia viva?

«Come detto sarebbero guai anche per il Pd. Ma soprattutto diverrebbe impraticabile l’ipotesi di una concentrazione centrista tra +Europa, Italia viva e Azione di Carlo Calenda. Un’area nella quale sono già naufragati numerosi tentativi in passato. Le parole usate da Calenda nei confronti di Renzi rendono complicata la possibilità di un’alleanza tra loro. In quest’occasione solo Emma Bonino si è dimostrata comprensiva verso il leader di Iv».

Che cosa dimostra il fatto che si pensa di affrontare la pandemia raccogliendo voti da formazioni inedite?

«Francesco Cossiga andò in soccorso del governo D’Alema durante la guerra del Kosovo. Adesso i leader più noti tra i Responsabili sono Bruno Tabacci, che detiene il simbolo della Dc e Riccardo Nencini, che ha quello del Psi. Due personalità della politica, che però non sono Cossiga».

Per affrontare la pandemia servirebbe l’energia dell’investitura popolare?

«Conte risponderebbe che l’energia non viene da un alleato che lavora contro. Tuttavia, forse era più positiva l’energia che arrivava da un alleato che, anche se per ragioni sue, ha fatto migliorare il Recovery Plan».

Era così inimmaginabile che le incompatibilità strutturali tra Pd e 5 stelle sarebbero esplose?

«Non sono esplose, questa crisi le ha cementate».

Uno è il partito dell’establishment, l’altro è un movimento nato nelle piazze dei Vaffa.

«Esiste solo il Pd e ciò che c’è intorno, come LeU. I 5 stelle fanno solo resistenza, si oppongono al Mes, difendono il reddito di cittadinanza. L’ultimo successo è stato il taglio dei parlamentari, poco altro».

Il palazzo è mai stato così lontano dal Paese reale?

«Quanto sia lontano lo si misura solo con le elezioni e il grado di astensione al voto. Il resto sono sensazioni».

Si misura anche con le proteste giornaliere delle categorie?

«Non ho visto categorie in piazza a chiedere le dimissioni del governo. Gli studenti vogliono tornare a scuola, i ristoratori vogliono riaprire o più ristori. Sui social e nei sondaggi non c’è l’onda montante. Vuol dire che il Paese protesta, ma non contro il governo. Mi sembra che anche l’opposizione non abbia reso visibile un’alternativa concreta per mandare a casa Conte».

Forse, visto il momento, anche per una forma di responsabilità?

«Forse. Ma questo l’ha detto lei».

 

La Verità, 16 gennaio 2021

«È scandaloso il silenzio dell’Italia sull’Armenia»

Geografo. Da qualche tempo camminatore. Le due cose non sono incompatibili». È il profilo Facebook di Pierpaolo Faggi, docente in pensione di Geografia umana all’università di Padova e autore di numerosi libri sui paesi della Mezzaluna fertile, attraversati camminando. Negli ultimi due anni ha provato ad andare a Istanbul a piedi, accompagnato da un cane. Ma l’anno scorso il cane si è ammalato, mentre quest’anno, giunto a Belgrado, è arrivato il lockdown: «Se la salute regge, ci riproverò». L’Armenia, invece, l’ha visitata tre volte e ne ha scritto ripetutamente (ultimo libro, pubblicato da Cleup: Un odàr a pranzo. Camminando tra le tavole d’Armenia; odàr sta per straniero, foresto). Quando gli propongo l’intervista su ciò che sta accadendo in Armenia, accetta. Ma precisa che su molti argomenti la pensa all’opposto della Verità. Di vederci a San Giorgio in Bosco, dove vive, non se ne parla: il figlio anestesista gli ha raccontato cose spaventose e quindi ha fatto un patto con la moglie di non incontrare nessuno finché l’emergenza sanitaria sarà finita. Infine, alla mia richiesta di una sua bella foto, risponde che non possiede la macchina fotografica: «Ho il telefonino e disegno».

Professore, che cos’è la geografia umana?

«È una disciplina debole rispetto alla storia, alla sociologia e alla scienza pura. Una disciplina che si è evoluta nel tempo».

Mi interessa l’aggettivo…

«Serve a distinguerla dalla geografia fisica che studia le forme della terra, dei fiumi e delle montagne. La geografia umana esamina il rapporto tra società e territorio. Personalmente, ho studiato la questione ambientale nei Paesi in via di sviluppo, dal Senegal all’Asia centrale, le zone aride, la desertificazione. Ora è un tema di attualità, con i miei colleghi ne parlavamo trent’anni fa».

Ha senso insegnare una materia così nell’era della globalizzazione?

«Direi che è fondamentale perché fa capire i legami tra territori e popolazioni. Paradossalmente, la globalizzazione ha rilanciato tematiche locali. Le popolazioni e i luoghi entrano in relazione con la globalizzazione in modo diverso. Ci sono fenomeni sia di omologazione che di diversificazione. È stato così in tutte le epoche: l’impero romano, l’impero ottomano e l’impero cinese sono state forme di globalizzazione. Alla fine del XIX° secolo la globalizzazione è avvenuta con i mezzi di trasporto, treni, navi, aerei. Oggi avviene con i mezzi di comunicazione».

E la geografia?

«Spiega come i vari luoghi entrano in rapporto con il globale. Oggi c’è l’illusione che con Google maps si possa conoscere tutto il mondo. Invece conosciamo le formule, non i processi. Il topografismo, come lo chiamiamo noi, riduce i processi del mondo alle loro forme esteriori».

Che rispetto c’è nei grandi media delle comunità e delle specificità locali?

«Ci sono linguaggi diversi. Nei social media e in rete si trova tutto: quelli che ragionano di geopolitica e chi rappresenta le piccole comunità. Ovviamente c’è un mainstream dominante, la voce del padrone, del vincitore della guerra, e anche le voci che vengono dal basso. Noi diciamo di ascoltare il territorio».

Espressione tremenda.

«Significa andare sul posto, per vedere gli effetti dei processi di sviluppo».

Oggi la parola più abusata è «pianeta» e le istituzioni che contano, come l’Oms, hanno l’aggettivo mondiale.

«Parlare in termini di pianeta ha senso sia dal punto di vista fisico che di collegamento delle reti. In geografia insistiamo sul concetto di multiscalarità. Ovvero, leggere un processo attraverso più scale dimensionali: globale, nazionale, regionale, locale. Ognuna offre una dimensione del fenomeno».

Quella comunitaria è un po’ sacrificata?

«Se una farfalla batte le ali nella pianura Padana ci sarà un uragano in Australia. Tutto è collegato, perciò è sbagliato considerare solo il globale o solo il locale».

La dimensione prevalente è quella globale?

«Perché è la novità. Le dinamiche climatiche, economiche, migratorie e di genere hanno una dimensione globale».

Perché scrive libri sull’Armenia?

«Scrivo libri sul mio camminare. Una decina d’anni fa ho avuto l’idea di ripercorrere a piedi i posti dove da giovane ero andato in auto. Camminando si vedono le cose in modo diverso. Il primo viaggio, con una Fiat 600, era stato in Turchia, poi Siria, Georgia e Armenia. 40 anni fa c’erano ancora l’Urss e la cortina di ferro, per andare in Russia bisognava anticipare l’itinerario all’ambasciata».

E l’Armenia?

«È stata un incontro particolare per due motivi. Il primo è che mi sono fatto degli amici là. Il secondo è che armeni ce ne sono anche in Italia, come in tutto il mondo. Ho anche conosciuto la Antonia Arslan e mi sono affezionato a questo Paese. Al punto che sto studiando la lingua».

Perché ha cominciato a girarla a piedi?

«L’ho attraversata tre volte, dal confine iraniano alla Georgia, dalla Turchia all’Azerbaijan. La conosco bene, senza essere uno specialista. Mi piace fare i collegamenti e le differenze dai territori vicini perché ha elementi propri ma anche comuni. Per esempio, appartiene al mondo del pane, dalla Spagna all’Asia centrale, dove inizia il mondo del riso».

Perché nei suoi libri scrive eppiauar e eppibertdei come si pronunciano in italiano?

«Riproduco una lingua di strada, l’inglese basico e sporco che si usa negli incontri tra persone di etnie diverse. Ognuno lo pronuncia a modo suo, l’ho riprodotto così».

Che cosa la colpisce di questo piccolo popolo?

«Hanno una tenacia di ferro e una storia tormentata. Quando mi trovo di fronte a queste comunità esigue durate nei secoli come gli israeliani, i curdi, i baschi, riconosco che sono popoli con grande spirito di comunità e regole forti. Non credo ai popoli eletti e agli scontri di civiltà, a prevalere sono sempre le motivazioni politiche. Gli armeni hanno rispetto totale per la tradizione e allo stesso tempo grande pragmatismo. Le figure più rappresentative sono il prete e il mercante. Poi l’Armenia affascina con le sue montagne e i suoi altopiani».

Che impressione ha avuto visitando il monastero di Dadivank, passato dopo la guerra in Nagorno Karabakh appena conclusa, sotto il controllo dell’Azerbaijan?

«Quando ci sono arrivato a piedi, di sera, mi si è presentato in modo molto affascinante. È un luogo articolato nelle sue strutture, costruito in epoche diverse, ricco di affreschi restaurati dalla cooperazione italiana. Questi monasteri fanno da cerniera tra le alte quote e il fondovalle. Vedendoli, capisci che i monasteri davano le regole e custodivano la cultura del popolo».

Ora in grave pericolo?

«È una fortuna che siano arrivate le forze di pace russe. Se fossero passati sotto il controllo esclusivo degli Azeri, non si sa che fine avrebbero fatto quelle opere d’arte. La Russia ha intuito il pericolo e ha mandato un gruppo di soldati di pace a presidiarli».

La foto dell’abate Hovhannes che, crocifisso su una mano e fucile sull’altra, ha annunciato che non si muoverà dal monastero ha fatto il giro del mondo.

«Se l’abate dice che non si muove ha un senso. Ma se rimangono anche i soldati russi a custodirlo ha ancora più senso».

La popolazione ha dovuto sloggiare.

«Si parla di 100.000 profughi. Sto dandomi da fare tramite il mio professore di armeno a raccogliere fondi per creare una struttura di sostegno psicopedagogico per i bambini. Questi esodi distruggono generazioni. Era successo in modo speculare agli azeri dopo la prima guerra del 1994. Allora i profughi erano meno».

Come giudica il silenzio attorno a questi fatti?

«È scandaloso, si sa bene che cosa c’è dietro».

Che cosa?

«L’Italia è il primo partner commerciale dell’Azerbaijan. C’è il petrolio, sta arrivando il gas… Non c’è nulla di provato, ma si parla di donazioni a parlamentari e giornalisti provenienti da un fondo di 3 miliardi dell’Azerbaijan che circolano nelle banche europee per orientare l’informazione o la non informazione».

Anche il silenzio dell’Europa colpisce.

«In politica estera non conta niente, ogni Stato va per conto proprio e Recep Tayyip Erdogan fa il suo gioco. Quando si è deboli all’interno si addita un nemico esterno. Istanbul e Ankara sono andate all’opposizione, così Erdogan rispolvera il panturchismo per tacitare la fronda».

Cavalca la rinascita islamica trasformando la basilica di Santa Sofia di Istanbul in moschea e facendone costruire una a Strasburgo?

«Non identificherei l’espansionismo di Erdogan con la presunta avanzata dell’islam. In Turchia hanno sempre convissuto nazionalismo e islamismo. Da furbo politico, Erdogan ha avuto la genialità di fonderli per cementare il suo potere».

Perché in Europa solo Emmanuel Macron lo contrasta?

«Perché tutti ci fanno affari, mentre in Francia c’è una grossa comunità armena. In città come Parigi, Lione, Marsiglia… E ricordiamoci di Charles Aznavour… Macron non fa affari con la Turchia e perciò forse è più libero».

Poi ci sono stati gli attentati di matrice islamica.

«Che però non sono di origine turca. I primi erano di natura magrebina, l’ultimo di provenienza balcanica».

Il governo italiano dà precedenza agli interessi commerciali.

«Come quello tedesco e quello inglese. Poche settimane fa Luigi Di Maio ha incontrato con una certa enfasi il suo collega turco Mevlüt Cavusoglu. Nella politica degli annunci vincono gli alti principi, nella pratica gli interessi di bottega. Lo si è visto con le sanzioni alla Russia o sul caso Regeni quando è stato ritirato l’ambasciatore in Egitto, ma poi si è cominciato a pensare al gas egiziano».

Tacciono anche i vertici della Chiesa.

«Non vedo una questione religiosa tra Turchia e Armenia. I motivi della guerra sono la costruzione di una bella pista verso l’Asia centrale per realizzare il progetto di Erdogan e l’Armenia è un ostacolo».

Che morale trae?

«Ai tempi del Vietnam, ero critico contro l’America. Oggi penso che se non tiene fede al suo ruolo, i cani piccoli cominciano a fare ciò che vogliono. Donald Trump si è ritirato e l’Europa non ha personalità internazionale. Invece Erdogan va bloccato».

 

La Verità, 21 novembre 2020

«Con app e droni saremo come formicai cinesi»

Ha previsto il dominio della finanza e la crisi dei subprime (L’elenco telefonico di Atlantide, Sironi, 2003). Ha anticipato la dipendenza dalla tecnologia e dal Web (Lo stato dell’unione, Sironi, 2005). Ha preconizzato l’ascesa della destra (La ragazza di Vajont, Einaudi, 2008). Tra gli autori apocalittici, Tullio Avoledo è quello che ci prende di più quando ci sono da tratteggiare mondi futuri, minacciati da rigurgiti nazisti o soggiogati da dittature cupe. L’ultimo suo romanzo, Nero come la notte (Marsilio), è la storia di un ex poliziotto rozzo e fascista che rinasce in una comunità di accoglienza nella periferia di una città immaginaria del Nordest. Friulano, 63 anni, nel 2018 ha aderito al Patto per l’Autonomia, formazione nelle cui liste si è candidato al Consiglio regionale non risultando eletto per una manciata di voti. Vive e lavora a Pordenone. La critica lo definisce «scrittore di genere» perché si muove fra noir, thriller, horror e distopie varie. Stavolta però, come ha confessato a una recente presentazione online, la pandemia lo ha colto a metà del romanzo. Bel paradosso per uno abituato a prevedere il domani.

Impossibile tirare dritto e far finta di niente?

«Impossibile. Come si fa a scrivere una storia ambientata nel 2021 in una stazione balneare dell’alto Adriatico senza tener conto del Covid-19?».

Ha dovuto ricominciare da capo?

«Un po’ sì. Ho immaginato la nuova logistica facendomi venire delle idee, non le barriere in plexiglass di cui si parla. In questa situazione depressa è difficile immaginare la gente in vacanza».

Cos’è più facile immaginare?

«Una presenza invasiva della Cina, non lo dico necessariamente in senso negativo. I cinesi sono gli unici che hanno una politica estera con gli attributi».

Il morbo ci ha preso in contropiede nonostante gli allarmi di scrittori, di miliardari dell’hi tech, di alcuni scienziati?

«Siamo dentro un’epidemia annunciata. Bastava leggere Spillover di David Quammen, uscito nel 2012. Se fossimo stati preparati non sarebbe andata così. Non dico che ci sarebbe già il vaccino, ma non avremmo avuto tutti questi morti. Il vero virus è l’impreparazione».

Che deriva da?

«Dalla cultura manageriale sconfinata in politica. Il manager fa carriera perché sa ruffianarsi i potenti giusti, le chiamano pubbliche relazioni. In politica si diventa sottosegretari con 20 preferenze sul web».

Lei ha sempre anticipato le crisi, stavolta deve rincorrerla?

«È più scomodo, ma più divertente. Quando si anticipa si ha più libertà, anche se poi ti chiedono conto di qualcosa che non hai azzeccato. Spero che la pandemia non renda obsoleto il nuovo romanzo».

Nel quale andrà tutto bene?

«Mica tanto. Finita l’epidemia temo si affaccerà un governo di destra».

Previsione o pericolo?

«Entrambi. Non è difficile immaginare che, dopo questo governo che ha limitato la libertà individuale, gli elettori preferiranno chi promette la fine della prigionia».

La destra al potere per reazione alla reclusione?

«Credo di sì. Potrebbero farsi strada anche soluzioni autonomistiche che rimettano in discussione l’unità d’Italia. Lo dico da esponente del Patto per l’Autonomia».

Ma l’autonomia non era una battaglia di destra?

«E chi l’ha detto? Catalogna e Scozia dimostrano che non è così. Si cerca identità in un mondo che non ne ha più».

E la radiosa globalizzazione?

«Se siamo a questo punto è per causa sua. Fortuna che in queste settimane le regioni hanno fatto il controcanto al governo centrale. L’Europa, invece, non credo possa essere rifondata. È una burocrazia che si autoalimenta, come ci ha dimostrato Christine Lagarde. Americani, russi e cinesi sono quello che sono, ma almeno hanno l’orgoglio della madre patria e il senso del futuro».

E noi europei?

«Il testo più distopico che mi è capitato di leggere è stato una direttiva europea del 1991. Fissava le misure di un bullone di un trattore e contemporaneamente definiva l’Europa come un’unione di 300 milioni di consumatori. Come si fa a sperare in un modello così? Paradossalmente ci sono più motivi per sognare qualcosa di positivo adesso che allora».

La realtà supera l’immaginazione?

«Finora ognuno la interpretava a modo suo. La pandemia è una vicenda drammatica e condivisa come le trincee della Grande guerra. Ci sta costringendo a pensare insieme. Resta da vedere se riusciremo anche a sviluppare una visione condivisa del futuro. Una delle tante cose su cui concordo con Michel Houellebecq è la convinzione che questa disgrazia, per qualcuno, sia un’occasione ghiotta».

Per i colossi dell’economia digitale?

«Quando le risorse si esauriscono si possono fare le prove di controllo della popolazione. Per esempio, portandoci a votare per via telematica. Questo è il paradiso dei 5 stelle. Che le anime candide della sinistra da apericena avallano. Mentre gli Stati sono impreparati i big della new technology si fregano le mani. Amazon non è stata certo penalizzata. Nel terziario la modalità di lavoro a distanza era già in atto».

La vita è sempre più digitalizzata.

«Nell’Ombra dello scorpione, Stephen King narrava un mondo nel quale il virus si trasmetteva attraverso le banconote. Io pago tutto con il bancomat o la carta di credito e provo fastidio se dal panettiere devo usare i contanti perché non gli funziona il pos. I rapporti a distanza prevalgono sul contatto umano. Ci stiamo abituando al fatto che se il governo ci controlla che male c’è».

Piattaforme, droni e app facilitano la quotidianità e garantiscono sicurezza.

«Mi son venuti i brividi quando ho sentito un ministro dire che lo Stato è benevolo. Siccome alla nostra privacy abbiamo già rinunciato andando su Facebook, allora…».

Il futuro sarà questo tanto più se i pericoli per la sopravvivenza aumenteranno?

«Nel novembre scorso sono stato una settimana a Pechino, megalopoli di 36 milioni di abitanti in cui tutto bene o male funziona. Il prezzo è un controllo totale. A me pare un passo indietro, mimetizzato con l’illusione di entrare nel futuro. Il modello è il formicaio? So che molti risponderebbero affermativamente a un questionario che prospettasse questo scenario. Per me è spaventoso».

Anche lei come Houellebecq dubita che da questa esperienza nasceranno libri interessanti?

«Sì, totale sintonia. Per quanto mi sforzi non riesco a vedere qualcuno che abbia colto la straordinarietà della situazione. Sulla Sars non ricordo un titolo significativo, solo instant book e affini».

Come giudica il fatto che Stephen King ha retrodatato il nuovo romanzo?

«Mi sembra una furbata per aggirare l’ostacolo. È difficile immaginare il futuro dopo la pandemia, il binario è ostruito da una montagna. Non basta scrivere di auto elettriche dovunque e di cellulari portentosi. Penso che ci si rifugerà nel passato. Vedremo film e leggeremo libri ambientati negli anni Ottanta o Novanta, perderemo contemporaneità».

Oppure la pandemia potrebbe essere una fonte ispirativa.

«Dopo la pandemia la gente avrà voglia di leggere storie sulla pandemia?».

Preferirà evadere?

«Penso di sì. Anche perché sento sempre di più parlare di privilegi. Si dice che per gli scrittori, che hanno la casa grande, è facile esercitarsi sul lockdown».

Non è vero?

«Qualcosa di vero c’è. Ma ognuno pensa di soffrire più degli altri. O di avere la trovata più geniale degli altri».

Tipo?

«La giunta regionale del Friuli Venezia Giulia sta pensando di trasformare una nave da crociera in ricovero per gli anziani malati di Covid-19, dismettendola finita l’emergenza. Il modello è la nave ospedale ormeggiata davanti a New York. Solo che quella è nata come ospedale, la nostra no. È la mentalità dei manager».

Ancora lei.

«Ha presente I viaggiatori della sera di Umberto Simonetta? I figli li accompagnavano sulla nave da crociera che poi tornava vuota. Una società che ammette il sacrificio dei più deboli perché non più idonei al lavoro è mostruosa. Come chi dice: riprendiamo a lavorare tanto muoiono solo i vecchi».

Più che essere narrata in modo esplicito, la convivenza con il virus diventerà una sensibilità, un contesto?

«Sono pessimista. Tra un anno nella top ten ci sarà un romanzo con la storia di una coppia durante la pandemia: lei bloccata a New York e lui a Bergamo fanno sesso in chat. E uno su come si sopravvive in montagna al tempo del coronavirus».

Alcuni suoi colleghi hanno scritto che stanno imparando l’attenzione agli altri. Lei?

«Io tendo ad avere più paura degli altri. Voglio dire: non sei sicuro se gli altri non hanno la tua stessa cautela. La sicurezza è una catena di responsabilità, bastano gli aperitivi sui Navigli a rovinare tutto. Imparare a essere responsabili è positivo. Come anche che possiamo essere più che semplici consumatori».

Come?

«Ho imparato a fare il pane in casa e ne vado fiero. Oppure si possono leggere o rileggere i libri che abbiamo già, senza comprarne compulsivamente di nuovi».

In molti romanzi distopici incombe il ritorno del nazismo. È una minaccia reale o un artificio narrativo?

«Credo sia un pericolo reale. Credo ci siano in giro soldi che non sappiamo dove sono finiti. Il nazismo conserva un fascino iconico, come per altro l’ideologia sovietica. Sono miti fondativi forti, che potrebbero tornare anche in forme sincretiche, come auspicava quel pazzo di Eduard Limonov».

Enfatizzarne la possibilità è un modo per sentirsi dalla parte giusta?

«Mai pensato di essere dalla parte giusta. Qualche giorno fa ho visto in Parlamento il leader della Lega con una mascherina nera e il tricolore. I richiami ci sono. Fascismo e nazismo propongono formule che in tempi di carestia possono essere vincenti. Nel mondo animale quando la pozza dell’acqua si restringe, scatta la solidarietà tra gli animali feroci contro quelli più deboli».

Grazie a Dio siamo esseri umani.

«Ma dopo questa pandemia dobbiamo ripensare il mondo. Per la prima volta, dopo tanto tempo, abbiamo vissuto qualcosa che ci accomuna a livello mondiale».

 

La Verità, 9 maggio 2020

«Se ingoieremo il Mes saremo un protettorato»

Un sito che si chiama La Fionda. Un blog no global nell’era dei giganti del web, delle piattaforme, di Instagram. Fresco di nascita, il 31 marzo scorso, ma già ricco di interventi e approfondimenti di una trentina di autori, tra i quali Carlo Galli e Umberto Vincenti. Diretti da Geminello Preterossi, toscano, laureato alla Normale di Pisa, docente di filosofia del diritto e storia delle dottrine politiche a Salerno, autore di studi sulla democrazia, sul populismo, su Carl Schmitt e direttore dell’Istituto italiano per gli studi filosofici. Uno che si definisce «di sinistra», anche se, ormai, per l’evoluzione subita negli ultimi decenni, «dire sinistra è quasi dire una parolaccia».

Invece l’idea della Fionda è romantica. Ce la spiega?

«È un sito-rivista, espressione di una comunità di studiosi di politica e diritto, insegnanti, informatici, semplici appassionati. Persone sparse in tutta Italia, impegnate fuori dai partiti tradizionali. Dalla crisi del 2008, primo scossone alla globalizzazione, abbiamo approfondito le istanze di ciò che viene chiamato populismo. Ribellandoci all’espropriazione della sovranità democratica e riproponendo i diritti sociali e del lavoro».

Una comunità orientata a sinistra?

«Una comunità plurale, convinta che la sinergia tra neoliberismo e globalizzazione abbia effetti esiziali».

Chi è Davide e chi è Golia?

«Golia sono i giganti digitali e la grande finanza. Ciò che il sociologo Luciano Gallino chiamava “il finanzcapitalismo”. Se i colossi finanziari, che non rispondono alla comunità politica, impongono ovunque l’ordine mondiale neoliberale, il risultato è il caos con strati crescenti di popolazione inferiorizzata».

E Davide?

«Sono le comunità, i cittadini. Direi il popolo, se non sembrasse una provocazione. Davide è qualcuno che non ha paura di mirare dritto. Il popolo è fatto di tanti interessi e componenti, ma una cosa lo caratterizza, oggi: è tutto ciò che non è establishment. Sono gli esclusi, in aumento nel sud Europa e nel ceto medio».

Nell’editoriale d’esordio ha scritto che uno degli obiettivi è mostrare «l’inconsistenza della filosofia global-progressista»: come?

«Smentendo l’idea che globale è bello di per sé. E smontando l’illusione che, sulle ali della tecnologia, dalla famiglia e dalla tribù si arrivi direttamente alla dimensione planetaria. In mezzo ci sono le città, gli Stati e gli imperi, le strutture reali della convivenza».

L’esplosione della pandemia rafforza le visioni globaliste e l’universalismo politico?

«Ci sono forze che spingono verso questa omologazione. Una grande convergenza, svincolata dai popoli, ognuno con la propria storia. Credo che al posto di universo, si dovrebbe parlare di multiverso o pluriverso. Ci sono identità, tradizioni, interpretazioni. In passato c’erano la Nato e i Paesi del Patto di Varsavia. Poi c’è stata l’ondata neoliberista con Margaret Thatcher e Ronald Reagan. C’era comunque un grande dibattito. Dopo l’avvento di Tony Blair e Bill Clinton si è immaginata una prospettiva irenica universale, che appiattisce le differenze e cancella la mediazione dei conflitti. I quali, teoricamente, dovrebbero scomparire. Invece aumentano…».

Se il virus non conosce confini lo si può combattere solo in una prospettiva globale?

«Il virus è globalista, non sovranista. È l’inveramento della globalizzazione finanziaria. Il virus ha bloccato il motore della globalizzazione, riproponendo la necessità del ruolo dello Stato».

Il virus ha messo in evidenza anche la fragilità dell’Europa. Le scuse di Ursula von Der Leyen sono un’inversione di tendenza reale?

«Per carità, con quel profilo da visitor… Guardiamo ai fatti, non alla retorica. I fatti sono che ogni Paese guarda a sé stesso. A partire dalla Germania che si è fatta il bazooka di 550 miliardi fuori dal bilancio dello Stato. C’è una banca centrale senza uno Stato unitario. Si dovevano costruire gli Stati Uniti d’Europa, ognuno con la propria autonomia, ma non è andata così. La tecnocrazia non può sostituire la politica. Gli Stati del nord rifiutano la condivisione dei rischi. Lo si è visto durante la crisi della Grecia. Lo stiamo vedendo oggi. L’emissione degli eurobond sarebbe un inizio di condivisione del rischio. Ma non ci sarà».

Invece ci sarà il Meccanismo europeo di stabilità?

«Alla fine ce lo faranno ingoiare. Ci sono spinte forti, tutto l’establishment italiano – Pd, Italia viva, Forza Italia – è favorevole. Anche se accettassimo la parte che riguarda la sanità, il trattato di base ci porterà la Troika sull’uscio di casa. Ci sarebbero conseguenze nefaste sul welfare, le pensioni, l’occupazione. Non credo che i fautori del Mes non sappiano che su questa strada diventeremo un protettorato votato al vincolo esterno, imposto dall’economia tedesca che privilegia la lotta all’inflazione su quella alla disoccupazione».

E allora perché insistono?

«Per due motivi. Uno ideologico: l’illusione globalista contraria alle identità e fautrice dell’omologazione. L’altro strategico: il timore che l’unica alternativa sarebbe finire in mano ai populisti».

Di che cosa è sintomo la proliferazione in Italia di commissioni, comitati, task force a tutti i livelli?

«La sensazione di una delega ai tecnici è molto più di una sensazione. Personalmente sono convinto che il potere decisionale deve rimanere in capo alla politica, titolare di una visione complessa e dell’opera di bilanciamento fra le varie componenti».

Crede anche lei che siamo di fronte a una sorta di clonazione del governo?

«Di fronte a questo evento inedito la compagine governativa ha mostrato i suoi limiti. Ma c’è anche una tendenza che viene da lontano. Nel sistema neoliberista, lo Stato si funzionalizza e spoliticizza, mentre, al contrario, le tecnocrazie si politicizzano. Così, però, i cittadini non si ritrovano perché con il voto legittimano dei rappresentanti, ma le decisioni le prendono altri».

Si ricorre ai tecnici quando il gioco si fa duro?

«Sulla scorta dell’illusione che siano neutrali. L’abbiamo già visto con il governo di Mario Monti».

Arrivato come il salvatore…

«In realtà, si è comportato come un emissario straniero. Per caso ha ridotto il debito pubblico? Semmai ha ridotto il debito con l’estero e i salari. Per non parlare del disastro degli esodati. I tecnici non sono mai neutrali. Dietro l’aura dell’oggettività, fanno passare una visione».

Per esempio?

«Se ci si occupa solo di domanda estera significa che si privilegiano le grandi imprese a scapito di chi vive di domanda interna, piccole aziende, commercianti, partite Iva».

La soluzione?

«Dev’essere la politica a guidare».

Anche se è di tutta evidenza che i governanti attuali non siano all’altezza di questa situazione?

«Nella prima fase di fatto hanno governato i virologi. Ora avanzano priorità economiche, strategiche, psicologiche, di orientamento».

Per questo è nata la task force per la ricostruzione guidata da Vittorio Colao.

«Persona stimata, come lo sono gli altri esperti».

Forse un po’ tantini… La ricostruzione del dopoguerra la guidò Alcide De Gasperi, che non era un tecnico.

«Nemmeno Pietro Nenni e Palmiro Togliatti lo erano. Siamo in presenza dell’ennesima delega: dicci come dobbiamo fare».

Per il dopo si sente molto parlare di Mario Draghi.

«Lo vuole un bel pezzo di establishment, apparati dello Stato, il Pd, Italia viva. Non credo che Lega e Fratelli d’Italia approvino un governo tecnico. Forse potrebbe servire a liberarsi del premier attuale. Personalmente, auspicherei un governo di unità nazionale».

Ci sono le condizioni?

«Probabilmente no. Resta la via maestra del voto, il bagno di democrazia. Quando si devono affrontare sfide alte la legittimazione popolare è fondamentale. Se non c’è, il limite strutturale viene a galla. E poi dobbiamo tener conto di un altro fattore».

Quale?

«Che dopo ogni governo tecnico, come abbiamo visto con Monti, la divaricazione tra élite e popolo aumenta».

Anche il conflitto tra regioni e governo non fa ben sperare.

«La riforma del Titolo V della Costituzione fatta dal centrosinistra è venuta al pettine. È mancata una definizione delle competenze. Infatti, la Corte costituzionale non fa che occuparsi di questo. Dove ci sono regioni più organizzate come al nord, l’Emilia Romagna e la Toscana, ci si salva. Altrove la situazione è tragica. La sanità della Calabria e della Sicilia sono perennemente commissariate. L’attivismo del governatore della Campania serve a mascherare gravi responsabilità nella gestione del sistema ospedaliero».

L’ultima task force nata è quella delle Donne per il Nuovo Rinascimento. Serviva?

«Mi sembra un’operazione simbolica, piuttosto retorica. Se si vogliono dare segnali forti serve ben altro».

Per esempio?

«Sono favorevole alla riapertura di cinema e teatri. Ovviamente nel rispetto delle normative. Meno pubblico nelle sale e opere con pochi attori, ma sarebbe un segnale forte. Anche la riapertura di osterie e trattorie lo sarebbe, non siamo il Paese di McDonald. Ma se quelle attività resteranno chiuse un anno, potranno non riaprire più. Inoltre, la riapertura di scuole e università è fondamentale. Non bisogna trasmettere l’idea che far didattica online sia più figo. No, la cultura è un’esperienza incarnata, di relazioni reali. Paesi arrivati dopo di noi stanno già riaprendo».

La sinistra di governo sta pensando alla patrimoniale e alla regolarizzazione degli immigrati per l’agricoltura.

«Si comincia con la tassa sopra gli 80.000 euro e si arriva al prelievo nei conti conti correnti che sono il risparmio delle famiglie. Le vere ricchezze su cui intervenire sono nei paradisi fiscali. Questo è il momento di mettere denaro, non di toglierlo».

E la regolarizzazione degli immigrati?

«Per carità, buona cosa. Ma mi sembra il modo per buttare la palla in calcio d’angolo e parlar d’altro. Per regolarizzare gli immigrati servono vere politiche sociali. Che non si stanno facendo per nessuno. Altrimenti dopo averli regolarizzati li abbandoneremo nelle periferie e alimentando il degrado sociale».

 

La Verità, 19 aprile 2020

«Vi spiego perché Casalino va sostituito subito»

Uomo di pensiero, uomo di sinistra, uomo di giornali e riviste colte. Del resto, nella sua Bari, Giuseppe «Peppino» Caldarola è cresciuto nelle sale felpate della Editori Laterza. 73 anni, a lungo vicedirettore di Rinascita, mensile comunista fondato da Palmiro Togliatti, una breve direzione dell’Unità, una più lunga di ItalianiEuropei, la fondazione di Massimo D’Alema, ora a capo di Civiltà delle macchine, il trimestrale della fondazione Leonardo, Caldarola ha l’onestà dell’osservazione ponderata e di posizioni mai settarie. Qualche giorno fa ha scritto che per costruire il dopo pandemia bisogna ripartire da «scienza e umanesimo», stelle polari della rivista. Personalmente, penso che non basti.

Qual è la sua valutazione dell’operato del governo Conte nella crisi determinata dal coronavirus?

«Ci siamo trovati davanti a un problema inedito con un governo altrettanto inedito. Inevitabilmente, si è avuta un’azione a più facce. All’inizio una risposta titubante, poi una comunicazione incerta. Quando si è capito che le piccole misure erano insufficienti e, anche su stimolo dell’opposizione, si sono introdotte norme più rigide, il governo ha acquisito maggiore autorevolezza. Rimane il problema della comunicazione, ma sembra irrisolvibile».

Secondo lei Rocco Casalino va sostituito?

«Certamente sì. Non ho nulla da dire sulla persona. Ma a mio avviso siamo in presenza di una metodologia sbagliata, una scelta di spettacolarizzazione del premier che non gli giova. Credo servirebbe una figura più professionale, che sappia stare nell’ombra».

È solo un vizio di comunicazione quello che il 27 gennaio a Otto e mezzo ha fatto dire a Conte «siamo prontissimi» ad affrontare l’epidemia?

«Nell’epoca moderna si comunica in ore prestabilite e a quell’ora, caschi il mondo, l’uomo di governo parla. Il prolungarsi dell’attesa fa crescere i seguaci sui social ma anche l’inquietudine dei cittadini. La comunicazione rassicurante di Conte ha pagato il prezzo di centellinare la strategia della chiusura che, invece, andava decisa e comunicata subito».

Insisto: Conte diceva che il governo era «prontissimo».

«Si pensava di avere di fronte un virus curabile con la tachipirina e qualche posto letto. Sarebbe stato un linguaggio più veritiero dire: “Non siamo pronti, ma saremo pronti”».

Inseguivamo primati in Europa.

«La sottovalutazione ha coinvolto dal premier a Nicola Zingaretti a Matteo Salvini. Tutti pensavamo si trattasse di un’influenza un po’ più aggressiva. Solo i virologi più competenti hanno avuto l’esatta percezione del pericolo. Il mondo politico ha cominciato a capire quando si è visto che il contagio attaccava le zone forti del Paese».

Parlando di Europa, questa tragedia sancisce anche la fine della cosiddetta Unione?

«Sono stato europeista tutta una vita, l’ho difesa anche quando non lo meritava. Oggi quell’idea si è in poche settimane bruciata. È una sconfitta per la mia generazione, dobbiamo ripensare e trovare nuovi amici, nuove solidarietà nel mondo».

Che responsabilità ha chi ripeteva di essere in possesso delle contromisure?

«I componenti di tutta la classe politica attuale non hanno vissuto la guerra e il dopoguerra, non hanno visto il colera a Napoli e Bari, erano bambini durante il sequestro Moro, ragazzi durante il terremoto dell’Aquila. È una classe dirigente che, non per colpa sua, non si è confrontata con nessuno dei drammi italiani contemporanei».

È culturalmente impreparata a fronteggiare le emergenze?

«Lo è anche psicologicamente».

Questo deficit che forma prende nell’azione di governo?

«Prende la forma del giudizio ondivago. Si passa rapidamente da <non è niente> a <è gravissimo>».

E questo trasmette insicurezza?

«Una classe dirigente forte trasmette certezza di giudizio. Se lo sbaglia, lo corregge e trova quello giusto. Invece siamo appesi alle valutazioni di giornata di Roberto Burioni, di Ilaria Capua, di Massimo Galli».

Approva la cabina di regia aperta all’opposizione?

«Certo, a condizione che ci si entri disarmati».

Senza secondi fini politici?

«Questa battaglia si vince insieme o non la si vince. La guerra per decidere chi è stato più bravo comincia un minuto dopo la sconfitta del Covid-19. Fino a quel momento siamo tutti corresponsabili».

Le norme adottate contemplano limitazioni eccezionali della vita dei cittadini: può stabilirle un governo con un premier non eletto?

«Il governo ha una maggioranza parlamentare. Negli anni del terrorismo uno schieramento che faceva capo agli Stati uniti e l’altro all’Unione sovietica hanno introdotto e osservato norme molto borderline che violavano alcune regole costituzionali. Oggi si potrebbe firmare un patto che metta insieme maggioranza e opposizione. E venti giorni dopo l’ultimo contagio si potrebbe andare a votare».

L’attuale premier è in grado di guidare un governo del genere?

«Credo di sì. Un patto è un patto, ci dev’essere disarmo non solo dell’opposizione, ma anche della maggioranza. La solidità del patto deriva proprio dal fatto che è stipulato tra forze opposte e reciprocamente antipatizzanti. Non che arriva un terzo personaggio…».

Mario Draghi.

«Draghi può servire ad altro, se lo faccia dire da un comunista. Potrebbe essere il De Gasperi della situazione che arriva nel dopoguerra, si fa dare gli aiuti e tira in piedi l’Italia».

In questa situazione sarebbe servito un sistema operativo più snello e decisionista?

«Avrei preferito da subito la nomina di un commissario. Una figura che, su delega del governo, si assumesse tutta la responsabilità operativa necessaria. In Italia, oltre a quello di Guido Bertolaso, al quale vanno i miei auguri, abbiamo avuto l’esempio di Giuseppe Zamberletti che, con determinazione e violando all’occorrenza le regole, ricostruì il Friuli in tempi record. E, in anni più recenti, l’esempio di Gianni De Gennaro che, dopo il fallimento di altri commissari, risolse l’emergenza rifiuti a Napoli».

Conte ha temuto che un supercommissario gli facesse ombra?

«Tenere la prima linea è stato il secondo errore di Conte. In queste situazioni serve una figura che in nome del governo possa ordinare a una fabbrica di riconvertire la produzione, vigilando che lo faccia. O ritirare l’ambasciatore se un Paese rifiuta di venderci le mascherine. Ho massima fiducia in Domenico Arcuri, ma temo sia arrivato tardi».

C’è chi guarda alla Cina e alla Corea invidiando la tracciabilità dei cittadini tipica dei sistemi dittatoriali. Non le pare che anche le nostre norme abbiano caratteristiche da regime?

«Noi stiamo applicando norme borderline, manca poco che siamo fuori dalla Costituzione. Inoltre stiamo gestendo l’emergenza con la logica dell’apparato di forza. Io rovescio la prospettiva: ai cittadini va dato un servizio».

Esemplifichiamo?

«Invece di essere usato solo per controlli e sanzioni, l’esercito potrebbe diventare tramite fra i cittadini anziani o malati e la distribuzione alimentare. Si firma un’intesa tra il ministero della Difesa e i grandi distributori. Si studia il sistema di pagamento, i cittadini ordinano la spesa, i militari caricano i camion e le consegnano. Si fa la selezione dei nuclei familiari idonei al servizio: anziani soli, famiglie con ammalati, con disabili eccetera. Secondo esempio. Dove ci sono zone di resistenza alle regole si controlla il territorio con l’aiuto dell’esercito».

Non crede che si parli molto del «dopo» e che si tenda a sfuggire al «durante»?

«Parlare del dopo è un esercizio intellettuale di consolazione. Non credo alle teorie catastrofiche. Mi auguro che si cominci ad apprezzare l’obbligo dell’interscambio».

Cioè?

«La possibilità che rinasca un’idea popolare di coesistenza pacifica anche tra schieramenti opposti e tuttavia consapevoli di aver bisogno, da avversari, l’uno dell’altro. Questo non è buonismo, ma coscienza della necessità di una reciproca collaborazione».

Paradossalmente con questa situazione abbiamo risolto il problema dell’inquinamento, del traffico, dello spreco di cibo, stiamo recuperando la solidarietà, imparando le risorse della digitalizzazione… Ci servono decine di migliaia di morti per apprendere il senso del limite? L’esito finale sarà la decrescita felice?

«La decrescita non è mai felice. A quelli della mia parte politica dico di non illudersi che sia finita l’epoca del turbocapitalismo. Dobbiamo confrontarci con tutto quello che sta accadendo sapendo che non c’è nessuna teoria di destra o di sinistra che ci dà la ricetta del futuro. In quello che lei chiama durante vedo un conflitto aperto di soluzioni».

Si spieghi.

«Credo che il segreto del dopo sarà la collaborazione interculturale. Questa forma di guerra che è la pandemia ha messo in mora due figure. La prima è il cretino, ovvero colui che parla senza sapere, derivata dalla convinzione populistica del M5s che un click vale decenni di studi. La seconda bocciatura è della figura dell’egomostro. Questa battaglia non la vincono i superuomini, ma le reti di collaborazione».

Che garanzie abbiamo che scienza e umanesimo basteranno in futuro?

«Non bastano perché a entrambe manca ciò che i cattolici chiamano fede e per i credenti di altre religioni è una dimensione meno elitaria dell’umanità. Capace di più interrogativi e di più voglia di affidarsi».

Anche perché scienza e umanesimo, pilastri del Nuovo ordine mondiale, hanno prodotto prima la crisi di Wall Street e ora questa di Wuhan. Basterà registrare meglio la macchina per ripartire?

«Non basterà. La globalizzazione è diventata una forma di ubriachezza molesta. C’è la necessità di una interdipendenza, di una nuova concordia nelle decisioni da parte dei veri poteri mondiali che non sono necessariamente quelli politici».

Sta dicendo che Trump non va bene?

«Esatto. Quello che posso sperare è che ci sia una presa di coscienza basata sul primato del vero, e quindi della scienza, dell’umanità, e quindi della relazione, della persona, e quindi dell’umiltà».

 

La Verità, 29 marzo 2020