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«Vogliamo esportare in Europa il modello italiano»

Spalle larghe. E non solo perché Paolo Barelli, 68 anni, romano, capo dei deputati di Forza Italia, è stato un nuotatore di livello internazionale, con importanti vittorie nel delfino e nello stile libero. E nemmeno perché da presidente ha portato la Federazione italiana nuoto a essere la più vincente della nostra storia sportiva. Spalle larghe perché fronteggia l’opposizione interna al partito capeggiata da Licia Ronzulli che, per un breve intervallo, era riuscita a sostituirlo con Alessandro Cattaneo alla guida dei deputati azzurri. Ci ha pensato un mese fa Silvio Berlusconi a restituirgli il ruolo. L’altro ieri, però, è finito anche lui sotto accusa per il mancato raggiungimento della maggioranza alla Camera nel voto sullo scostamento di bilancio da inserire nel Documento di economia e finanza (Def) per aumentare di un punto il taglio del cuneo fiscale.

Perché la votazione sul Def è andata male? La maggioranza di centrodestra è già in crisi?

«Ma quale crisi! Sottolineo che non doveva accadere e che occorrerà essere più attenti a particolari votazioni nelle quali sono previste maggioranze dei presenti che non tengono conto dei colleghi in missione, cioè impegnati in ambito istituzionale. Non doveva succedere. Detto ciò, 12 ore dopo è stato colmato l’errore e il Def è stato votato con una maggioranza netta. Tutti i partiti di maggioranza sostengono il Documento di economia e finanza varato dal governo con il contributo del Parlamento. Questo documento definisce le azioni in ambito economico e sociale per il 2023, ma ben più per i prossimi anni, in ossequio alla volontà di Forza Italia e del governo di imprimere una svolta allo sviluppo del nostro Paese dopo le crisi drammatiche quali la pandemia, la guerra in Ucraina, il costo dell’energia e delle materie prime».

Che strascichi potrà lasciare nella maggioranza questo «brutto scivolone»?

«Assolutamente nessuno, in quanto, tutti i partiti della maggioranza lavorano per lo stesso obiettivo che è quello di far uscire il Paese dalla crisi nel più breve tempo possibile. Ognuno dei tre partiti su cui poggia la maggioranza ha la propria storia e le proprie peculiarità, ma la forza di questa coalizione sta proprio nel saper sommare le caratteristiche positive di ciascuno, concretizzate in un programma comune e indiscutibilmente premiate dagli elettori il 25 settembre».

Forza Italia sta superando il momento di difficoltà legato allo stato di salute di Silvio Berlusconi. Si avvicina il giorno del suo completo ristabilimento?

«I medici sono cauti e noi rispettiamo il loro giudizio. Detto questo l’ho sentito più volte in questi giorni, è attento a tutte le questioni, quelle del nostro partito così come quelle parlamentari, fornendo suggerimenti e indicazioni utili per le nostre attività. Quindi con immenso piacere lo sentiamo, come sempre, vicino e sul pezzo».

Nel momento di massima crisi qualcuno nel partito ha cominciato a fare progetti sul futuro?

«È normale sentirsi in apprensione per la temporanea indisponibilità del proprio leader. Mai però ci siamo sentiti in crisi. Che Berlusconi sia Forza Italia e Forza Italia sia Berlusconi non è una novità, e nessuno può pensare di sostituirlo. Berlusconi è un leader che da trent’anni domina la scena politica italiana e internazionale, è unico e anche gli avversari più agguerriti in questi giorni hanno lo hanno ammesso. Un protagonista ineguagliabile della vita del nostro Paese».

Quanto è opportuno parlare di una Forza Italia senza Berlusconi?

«Berlusconi c’è, questa è la realtà. È lui che detta la strada a noi di Forza Italia ed è lui che guarda al futuro indicando e discutendo con noi su come affrontare le sfide che abbiamo davanti in un periodo storico, politico e sociale molto complicato».

Carlo Calenda ha parlato anche di fine della Seconda repubblica e di una Forza Italia in fase di scioglimento.

«Calenda con quelle dichiarazioni pare abbia portato sfortuna a sé stesso. Da settimane ormai i due galli del pollaio, Calenda e Renzi, si beccano e, come sembra, non possono coesistere decretando nei fatti il fallimento del “loro” terzo polo».

Un altro passaggio chiave è stato il ritrovamento dell’unità attorno alla linea governista del partito?

«Berlusconi ha inventato il centrodestra di governo. Giorgia Meloni è stata ministro di un governo presieduto da Silvio Berlusconi. Oggi un governo di centrodestra guida il nostro Paese. Come si può pensare che Forza Italia non sia un partito governista. Lo è stato quando il presidente Mattarella ha promosso un governo di unità nazionale a causa del dramma dovuto dalla pandemia. Lo è ancor di più ora che grazie anche a Forza Italia ha vinto le elezioni lo scorso 25 settembre».

Lei è stato capogruppo alla Camera per un anno dall’ottobre 2021: che cosa ha portato alla sospensione dell’incarico dell’ottobre scorso? 

«Il mio incarico nei fatti è terminato con la fine della legislatura, quindi non c’è stata alcuna sospensione».

Le motivazioni vanno individuate negli equilibri interni a Forza Italia o c’entrano, in qualche modo, anche le vicende collegate alla sospensione da presidente della Fin?

«Gli equilibri interni li definisce Berlusconi nell’interesse del partito. E per nulla può entrarci la mia seconda passione, oltre la politica, di dirigente sportivo, perché se fosse per lo sport dovrei essere un “Superman della politica”. Basta andare sul sito della Federazione italiana nuoto per vedere il numero di medaglie e di successi organizzativi che in vent’anni sono stati conseguiti sotto la mia presidenza».

Considerando che il Coni dovrebbe esserle riconoscente per i risultati della Fin da lei presieduta, che speranze ha che le accuse sulla ristrutturazione della piscina del Foro Italico vengano definitivamente fugate?

«Le ribadisco che non esiste nessuna accusa in tal senso. È vero che nel gennaio 2014 fu avanzata dal Coni un’accusa nei riguardi della Federazione nuoto ed è inconfutabile che, pubblici ministeri e giudici seppur nella sola fase preliminare, si sono dovuti interessare al caso. Ma è altrettanto certo che ben sei magistrati hanno con chiarezza determinato “in fatto e in diritto” che la federazione ha avuto comportamenti corretti e rispettosi delle leggi. Quindi abbiamo solamente ricevuto complimenti».

Berlusconi l’ha voluta nuovamente a capo dei deputati del partito nell’ottica di un avvicinamento alla linea di Giorgia Meloni?

«Conosco Giorgia Meloni da oltre venti anni. Giovane consigliere della provincia di Roma eletta nel 1998; brava, “secchiona”, dotata di forte volontà, di evidente capacità e determinazione. La stima che ci lega proviene da quegli anni di governo di centrodestra locale romano che rappresentò la prova generale dei governi nazionali di centrodestra poi susseguitisi. Io sono un militante di Forza Italia che rappresenta un pilastro del governo Meloni, per la vocazione che il mio partito ha nel popolarismo europeo, nell’atlantismo, nel liberismo e nella cultura cristiana. È scontato che anche il mio contributo di capogruppo in Parlamento sia utile a valorizzare la coesione della coalizione che sostiene Giorgia nel cammino di governo in un periodo non semplice per l’Italia, per l’Europa e per l’intero pianeta. E le elezioni europee del 2024 già si vedono all’orizzonte».

Il coordinatore del partito Antonio Tajani ha annunciato una convention a Milano per il 5 e 6 maggio prossimi: con quale obiettivo?

«È la prima convention da quando il centrodestra è tornato al governo. I nostri ministri, viceministri, sottosegretari, parlamentari hanno grandi responsabilità ed è giusto che incontrino dirigenti e militanti per discutere su quanto fatto e su ciò che ci attende nel prossimo futuro. Oltre alle elezioni amministrative quelle europee dovranno vedere Forza Italia protagonista».

C’è il pericolo che in quell’occasione si cristallizzino le correnti, governisti da una parte e ronzulliani dall’altra?

«Ma che dice. In Forza Italia c’è un solo indiscusso leader, Silvio Berlusconi. E Berlusconi è governista. Vuole un governo forte e risoluto su ogni tema che favorisca la ripresa economica, la competitività delle aziende, il lavoro, specialmente quello giovanile, e le famiglie. Vuole un governo che porti a 1000 euro entro fine legislatura le pensioni minime. E vuole che l’Europa diventi un continente che possa competere con i mercati internazionali per favorire il futuro delle nuove generazioni».

Nei giorni scorsi si è registrato l’ingresso in Forza Italia dell’ex M5s Giancarlo Cancellieri e Tajani ha parlato di nuovi arrivi dal Pd.

«È vero, Forza Italia è molto attrattiva, se è vero come è vero che un deputato europeo del Pd importante come Caterina Chinnici ha espresso il desiderio di entrare nel nostro gruppo parlamentare a Bruxelles. Ma altri ne giungeranno».

Perché a suo avviso non riusciamo a liberarci di questo dibattito su fascismo e antifascismo?

«È davvero stucchevole. Ogni anno il 25 di aprile c’è chi vuole misurare il grado di “libertà e democrazia” del prossimo. L’opposizione, o chi per essa, facendo così dimostra di non aver argomenti seri da trattare e si perde in polemiche di altri tempi. Può essere mai possibile che Forza Italia stia al governo con chi non professa sentimenti di democrazia, comprensione e tolleranza nei confronti di chi ha idee diverse dalle nostre?».

Che problemi pone alla nascita del nuovo partito repubblicano su modello americano il fatto che Fratelli d’Italia sia nel gruppo dei conservatori e riformisti e Forza Italia nel Ppe?

«Le elezioni europee rappresenteranno uno spartiacque. Il centrodestra di governo, modello Italia, vorrà, secondo la mia opinione, esportarlo anche in ambito europeo. Non so in quale forma possa accadere, ma sono sicuro che avverrà una svolta. Forza Italia è già parte della maggioranza in Europa in quanto parte del Partito popolare europeo e un governo con conservatori e liberali sarebbe auspicabile».

Se il voto del 2024 premiasse i partiti europei moderati, una maggioranza composta da Ecr e Ppe consentirebbe una più facile gestione del patto di stabilità e dell’immigrazione?

L’immigrazione è un problema molto più complesso della valutazione dei singoli paesi e partiti. Se l’Europa non vara un piano globale e comune, che eviti di lasciare soli i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, in futuro sarà una vera tragedia. Occorrono subito politiche, in particolare riguardo all’Africa, di cui tutta la comunità internazionale deve farsi carico».

 

La Verità, 29 aprile 2023

«Come fermare l’ondata di migranti dalla Tunisia»

Un uomo di sinistra figlio di un generale dell’Aeronautica militare. Calabrese, ex Lothar dalemiano, esperto di intelligence apprezzato da Francesco Cossiga. Dopo alcuni ruoli di vertice nei governi precedenti, Marco Minniti ha lasciato il segno come ministro dell’Interno dell’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni che lo nominò nel dicembre 2016. Cinque anni dopo, nel febbraio 2021, si è dimesso da deputato del Pd. Da due anni presiede Med-Or, fondazione che, voluta dal cda di Leonardo, promuove le relazioni nell’area del Mediterraneo, del Medio ed Estremo Oriente.

La tragedia di Cutro e il naufragio con 30 dispersi sulla costa libica indicano che siamo di fronte a un nuovo aggravamento dell’emergenza migranti?

«Siamo innanzitutto di fronte a due tragedie che ci riportano al fatto che le migrazioni non sono un’emergenza. Questo può sembrare una contraddizione. Ma se vogliamo evitare nuovi eventi drammatici dobbiamo pensare all’emigrazione come a un dato strutturale che ha accompagnato l’umanità nel passato e l’accompagnerà nel futuro. Anzi, è lecito prevedere che nei prossimi anni avremo un incremento dei movimenti delle persone nel mondo».

Per quali motivi?

«Innanzitutto per le ragioni classiche: guerre, carestie e bisogno di migliorare le proprie condizioni di vita. A queste si aggiungeranno i cambiamenti climatici che potrebbero causare spostamenti consistenti. Infine, c’è una parte di popolazione, quella più giovane che, indipendentemente dal Paese di nascita, si ritiene cittadina del mondo. Se le migrazioni sono un dato strutturale significa che le politiche emergenziali non sono adeguate ad affrontarlo».

Qual è il suo pensiero sulla tragedia di Cutro?

«Nel momento in cui ci sono più di 80 morti in mare, oltre ad attendere gli esiti dell’inchiesta giudiziaria, considerato il coinvolgimento di più ministeri, il governo avrebbe dovuto promuovere un’indagine interna guidata dalla presidenza del Consiglio».

A quale scopo?

«Arrivare al consiglio dei ministri di Cutro, 13 giorni dopo i fatti, con la ricostruzione di ciò che era avvenuto. E, in secondo luogo, avendo stabilito nuove regole d’ingaggio per evitare che una tragedia simile possa ripetersi».

Non è ciò che ha tentato di fare con il decreto flussi?

«Mi scuso per il ruolo da Grillo parlante. La tragedia si è consumata sulla rotta del Mediterraneo orientale: la stragrande maggioranza dei morti aveva diritto alla protezione internazionale provenendo dall’Afghanistan, dalla Siria e da altri territori drammaticamente in crisi. Per spostarci sullo scenario più vicino, nel Mediterraneo non è più procrastinabile un piano dell’Europa per i paesi nordafricani più esposti agli effetti della guerra in Ucraina. Alcuni di questi dipendevano per l’80% dal grano russo o ucraino. Egitto e Tunisia stanno pagando il prezzo di una drammatica crisi alimentare».

Perché attualmente la Tunisia è il primo fronte dei flussi migratori nel Mediterraneo?

«Perché viveva di turismo, azzerato dalla pandemia. Si stava appena riprendendo quando la guerra ha provocato la nuova, gravissima, crisi alimentare. Non può farcela da sola».

Dalla Libia si attende una nuova ondata di migranti. Che fine ha fatto l’accordo che da ministro dell’Interno aveva firmato con quel Paese coinvolgendo i sindaci e i capi delle potenti tribù locali?

«La Libia si è ulteriormente e drammaticamente spaccata. C’è stata una guerra civile e oggi abbiamo i Russi in Cirenaica e i Turchi in Tripolitania. Per la prima volta nella storia moderna un solo Paese, la Turchia, controlla entrambe le rotte d’ingresso in Europa, quella del Mediterraneo centrale e quella del Mediterraneo orientale e dei Balcani. Un capolavoro a rovescio dell’Europa».

Roberto Saviano l’accusa di aver operato per la creazione dell’«inesistente zona Sar libica».

«Temo non sappia di cosa sta parlando. Gli accordi per le zone Sar sono negoziati con l’intera comunità internazionale, non sono attività di un singolo ministro o di un singolo Paese. Fino alla fine del mio mandato, la Guardia costiera italiana ha compiuto numerosi interventi di salvataggio in acque libiche. In quei 16 mesi abbiamo avuto una riduzione di arrivi in Italia di circa 120.000 persone, non abbiamo chiuso nessun porto ed è drasticamente diminuito il numero di morti in mare. Inoltre, le Nazioni unite, tornate in Libia grazie all’Italia, hanno fatto 27.000 rimpatri volontari assistiti da quel Paese».

Quale ruolo deve avere oggi l’Europa nel Mediterraneo?

«Avrebbe già dovuto aver pronto un piano d’investimenti per la stabilizzazione economico-sociale, la crescita e la prosperità del Nordafrica. Auspico che al prossimo Consiglio europeo Bruxelles metta a disposizione un fondo immediatamente spendibile di 3 miliardi di euro. Sarebbe il primo passo per siglare un accordo strategico sui flussi migratori».

Cosa la fa essere così ottimista sui tempi di reazione dell’Unione europea?

«Nel 2015, per frenare i flussi balcanici e stringere un accordo con la Turchia, l’Ue stanziò subito 3 miliardi, la cifra di cui parlo adesso, più altri 3 in una seconda tranche».

Quella volta c’era l’interesse diretto della Germania.

«La Germania era in prima linea e i soldi li mise l’intera Europa. Ricordiamo l’immagine di Angela Merkel che fece piangere la bambina rifugiata palestinese spiegandole che non avrebbe potuto entrare. Questo patto andrebbe siglato subito, sapendo che è in atto una straordinaria campagna di penetrazione in Africa della Russia, che si aggiunge all’influenza già molto forte della Cina».

Ha ragione il ministro della Difesa Guido Crosetto a segnalare il ruolo della brigata Wagner?

«Non è che la brigata Wagner gestisca i flussi migratori del Nordafrica. Tuttavia, come si deduce dal discorso di Vladimir Putin del 24 febbraio scorso, la Russia ha fatto una scelta nell’orizzonte di una guerra lunga o lunghissima decidendo di rendere l’Africa il fronte secondario di una guerra asimmetrica».

Cosa vuol dire?

«Che nonostante il drenaggio di uomini che il conflitto in Ucraina comporta per l’esercito russo, la Wagner non ha mai abbandonato i territori africani, dalla Cirenaica al Mali, dal Burkina Faso al Sudan».

Come si sviluppa questa guerra asimmetrica?

«Anche attraverso i grandi movimenti demografici. Con l’inizio del conflitto, sul fianco Nord Est dell’Europa si è verificato un movimento di 10 milioni di profughi, una parte dei quali sono rientrati mentre circa 4,5 milioni sono ancora in Europa. Se a questi movimenti a Nord Est si aggiunge il flusso migratorio proveniente dal Mediterraneo centrale, si vede che l’Europa è schiacciata in una tenaglia umanitaria. Per questo il patto per il governo legale delle migrazioni deve comprendere anche il Sahel, che è il vero confine meridionale dell’Europa».

Come dovrebbe realizzarsi?

«Prendiamo l’esempio dell’India con la quale la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha di recente avviato un nuovo e importantissimo dialogo. Nel 2022 l’India, appena diventata prima potenza demografica del mondo, superando la Cina, ha incassato rimesse legali per 100 miliardi di dollari dai propri migranti. Questo ci suggerisce come operare. I Paesi africani possono aiutarci a governare gli ingressi legali traendone immediato beneficio con le rimesse dei loro migranti. La forza demografica dell’Africa sarebbe una risorsa per loro e non sarebbe più una minaccia per noi».

In caso di reale integrazione.

«Infatti, parliamo di canali legali. Se si fugge da guerre, carestie o terremoti, si arriva in Europa attraverso i corridoi umanitari».

Non è quello che si prefigge il decreto flussi?

«È giusto controllare gli ingressi in Italia, ma va cambiata la prospettiva. Facciamo l’esempio della Tunisia. L’Italia potrebbe consentire 20.000 ingressi legali l’anno, gestendoli attraverso i consolati. Si compilano delle liste. In attesa che la pratica venga definita, queste persone frequentano corsi di italiano, di cultura generale e di formazione professionale finalizzati al mercato del lavoro italiano. Un progetto così consentirebbe anche l’impiego di giovani italiani all’estero in qualità d’insegnanti. A percorso completato, chi arriva sarebbe già in possesso di un background di integrazione».

Integrazione e sicurezza servono a sconfiggere la criminalità e il terrorismo prodotti dagli ingressi illegali?

«Gli attentati di matrice islamica nelle città europee degli anni scorsi non provenivano dalla Siria o dall’Iraq, ma da cittadini della nostra Europa, cioè figli di un’integrazione sbagliata o mancata. Il corrispettivo della gestione comune degli ingressi legali è l’impegno a contrastare i traffici illegali e a favorire il rimpatrio immediato degli irregolari».

La minaccia del terrorismo islamico in Europa è debellata?

«In questo momento l’Africa è con l’Afghanistan il principale incubatore di terrorismo internazionale. Nei giorni scorsi uno dei leader di Al Qaeda Maghreb ha pubblicato un video in cui si vedevano due capi Tuareg che giuravano fedeltà ad Al Qaeda, fatto inusuale e allarmante. Il Sahel, il Corno d’Africa e la Libia sono potenziali basi operative di nuovo terrorismo alle porte dell’Europa. Qualche anno fa Sirte, la moderna capitale libica, era controllata dai miliziani dello Stato islamico. La Russia conosce lo scenario: per Mosca tutto ciò che può destabilizzare l’Europa e l’Occidente va nella giusta direzione».

Quadro apocalittico.

«Ma reale. L’Occidente e l’Europa non devono mai smarrire questa consapevolezza: ogni giorno che passa senza un intervento europeo è drammaticamente perduto».

Come dovrebbe connettersi questa iniziativa con il protrarsi della guerra in Ucraina?

«C’è un filo rosso che la lega al Mediterraneo e all’Africa. L’onda d’urto energetica, quella umanitaria e quella della sicurezza globale partono dall’Ucraina e si riverberano in Africa e nel Mediterraneo. Dicendolo in una parola, per costruire una pace stabile e duratura in Ucraina c’è bisogno di un nuovo ordine mondiale, impossibile da costruire senza il Sud del mondo».

Per chiudere le chiedo un pensiero sul Pd che ha una nuova segretaria. Nel dicembre 2018 lei ritirò la candidatura favorendo Nicola Zingaretti «per salvare il partito». Le sembra si stia salvando?

«Nella mia precedente vita mi occupavo di filologia classica. Il mio rapporto con il Pd è lo stesso che ebbe Catullo con Lesbia. Dopo averle dedicato struggenti poesie da innamorato, si rese conto che era un amore impossibile e scrisse il Carme VIII: “Disperato Catullo, falla finita con le tue follie; ciò che vedi perduto, come perduto consideralo”».

 

La Verità, 18 marzo 2023

 

«Costruiamo il futuro, no alla società del controllo»

Caro Giordano Bruno Guerri, per cominciare le chiedo un piccolo sforzo di fantasia: oggi che consiglio darebbe Gabriele d’Annunzio a Giorgia Meloni?

«Se parlasse ai suoi tempi direbbe di rifare grande l’Italia. Ma non credo che oggi D’Annunzio spingerebbe il nazionalismo, semmai l’innovazione: perché è questo il modo per difendere la nazione».

Invece lei, uomo contemporaneo, come valuta i primi due mesi del nuovo governo?

«Due mesi sono pochi, eppure leggo già molti giudizi taglienti. All’inizio un governo, per di più nato nelle condizioni che sappiamo, si deve organizzare com’è capitato a tutti gli esecutivi. La mia prima sensazione è positiva, Giorgia Meloni mi sembra solida ed essenziale. D’altra parte ravviso la tendenza a un conservatorismo che non mi piace».

Dove lo vede?

«Per esempio, sulla scuola. Il merito è certamente un criterio da valorizzare, ma non vedo ancora gli strumenti per farlo. Oppure la legge sui rave party, intendiamoci, una legge necessaria, ma all’inizio stesa molto male. Gli esempi non mancano».

Se non ho capito male, è contento di non essere diventato ministro.

«Ha capito bene. L’avrei fatto per senso del dovere e gusto della sfida. Sarei entrato in un mondo che non ho mai frequentato se non marginalmente. Ma la mia vita ne sarebbe stata devastata, soprattutto perché avrei dovuto lasciare il Vittoriale».

Presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani dal 2008, Giordano Bruno Guerri, scrittore, storico eminente e già direttore editoriale di marchi prestigiosi, è impegnato a rendere sempre più attraente e moderna la casa museo più visitata al mondo. Nell’anno che si sta chiudendo il Vittoriale ha superato i 260.000 visitatori, 19.000 in meno del 2019, anno record, ma 100.000 in più del 2021. Perciò si può dire che «si è messo alle spalle la crisi del Covid e la guerra e ora prepara nuove iniziative in occasione delle manifestazioni per Bergamo e Brescia Capitale italiana della cultura per il 2023 come GardaLo!, il primo festival culturale della sponda lombarda del lago di Garda».å

Oltre alla cura del Vittoriale, qual è la vita che da ministro sarebbe stata compromessa?

«Adesso, per fare un esempio concreto, sono all’estero con la mia famiglia…».

Come trascorrerà il Natale?

«Visiterò il Marocco. Ritengo sia un bene che i miei figli conoscano il mondo arabo. E poi mi depurerò dall’assalto di luci, presepi e babbi natale».

È una presa di distanza dal cristianesimo o dal consumismo?

«È un allontanamento dai riti e dalle abitudini di questo periodo, dalla finzione di armonia e dai pranzi eccessivi».

Tornando al governo, trova conferma l’idea che Meloni e il suo partito non dispongano di una valida classe dirigente?

«Credo che la classe dirigente la stiano preparando, ma non si forma né in un anno né in dieci. È un lavoro lungo e complesso, nel frattempo si opera con quello che c’è».

L’esecutivo ha perso compattezza sulla legge contro i rave party e sui temi economici?

«Credo ci sia una visione diversa fra i partiti della maggioranza che crea conflitti che si spera restino piccoli. Non vedo un difetto nel correggere alcune decisioni, ma la capacità di riconoscere gli errori e di porvi rimedio».

Un’altra obiezione della campagna elettorale riguardava il ritorno al potere del fascismo in caso di vittoria di Giorgia Meloni.

«Il fascismo è un fenomeno storico morto e sepolto. Credo che nessuno ai vertici di Fratelli d’Italia lo rimpianga. Piuttosto, ci potrebbe essere un ritorno al conservatorismo di Dio, patria e famiglia che non è una formula propria del fascismo, ma tipica anche dei governi democristiani. Personalmente penso che converrebbe puntare energie e risorse in altre direzioni».

Quali?

«Vigilerei sul dominio degli algoritmi e dell’economia digitale sulle persone. A questo proposito apprezzo il comportamento di Giorgia Meloni nei confronti dell’Europa. Che non è una chiusura pregiudiziale, ma la difesa del controllo nazionale di fronte alla pressione economica europea che spesso si configura come un secondo governo, potenzialmente schiacciante».

Con il movimento «Italiani liberi» fondato con l’antropologa Ida Magli avevate messo in guardia da questi pericoli.

«A metà anni Novanta denunciavamo la possibilità di una sopraffazione dei popoli in favore di un’omogeneità non realizzabile in tempi così brevi. Mi sembra che il governo Meloni stia muovendosi nella direzione giusta, collaborando con l’Unione europea ma, quando occorre, mantenendo una politica distinta come sulla gestione degli sbarchi e l’arrivo degli extracomunitari».

O come sull’adesione al Mes: si è detta pronta a firmare con il sangue la decisione di non prenderlo.

«Concordo nel merito della decisione, ma forse certe battute a effetto andrebbero evitate perché l’Europa non è spiritosa».

La cultura del politicamente corretto e l’avvento della pandemia hanno rafforzato la tendenza all’omologazione?

«La pandemia ha aperto un varco terribile all’estensione del controllo degli individui. La possibilità di chiudere tutti in casa, di dire a che ora uscire e a che ora rientrare è un precedente di gestione delle masse molto pericoloso. Se si verificasse una crisi economica di gravi proporzioni, chissà cosa potrebbe fare un governo per limitare l’indipendenza dei cittadini».

È il capitalismo della sorveglianza.

«Possiamo chiamarlo così ed è sempre più pressante. Non solo nella sorveglianza, ma anche nell’indirizzo del pensiero e dei comportamenti. Il politicamente corretto è già una componente e un risultato di questo indirizzo che non si limita al divieto di pronunciare la parola “negro”, ma tende a promuovere una forma di pensiero unico».

Qualcosa si è visto negli annunci di alcuni politici di vertice europei che si sono auto-investiti del compito di vigilare sul comportamento del governo italiano.

«Il pensiero unico avanza e si estende. Mi ha molto confortato sapere che in America alcuni intellettuali come Noam Chomsky stanno fondando nuove università per rompere questo accerchiamento».

L’emergenza sanitaria giustificava la richiesta di maggiore disciplina ai cittadini?

«Io non sono no vax e penso che la salute venga prima di tutto. Ma si è visto che si sono commessi degli errori e che la stretta dei governi italiani, al plurale, è stata inferiore solo a quella del governo cinese. Che ci siano stati eccessi è comunemente riconosciuto. È particolarmente grave che per proteggerci dal Covid si sia danneggiata la salute riguardo ad altre malattie più gravi, per esempio rinviando o cancellando gli esami preventivi per il cancro. Sembra sia stata un’esercitazione generale per un controllo strettissimo. Lo si vede anche oggi… La difesa a oltranza del pos e il rifiuto di alzare il tetto al contante potrebbero preludere a nuove forme di controllo».

Viviamo in una specie di distopia?

«Il timore è che questo sia l’inizio, non un episodio estemporaneo».

Ci vorrebbe un volo sopra Bruxelles come quello di D’Annunzio su Trieste?

«Non credo basterebbe. Probabilmente lo abbatterebbero».

L’accusa di ritorno al potere del fascismo è un’intimidazione preventiva prima che Meloni muova le sue pedine?

«Certamente. Il pericolo fascista viene usato come un manganello dalle sinistre. Che deve fare quella povera donna più che piangere durante la visita al museo ebraico di Roma?».

È stato un pianto un po’ tardivo?

«E quando doveva farlo, appena nata? Non mi sembra che abbia mai manifestato amore per il fascismo. C’è quella sua intervista a 16 anni… Ma lei si riconoscerebbe in ciò che pensava a 16 anni? È politicamente scorrettissimo rinfacciargliela, per altro da parte dei più strenui militanti del politicamente corretto».

È giusto che il nuovo governo estenda la sua influenza nei posti di comando o dovrebbe mostrarsi più liberale?

«A me sembra sia una cosa normale, sempre avvenuta e sia giusto che avvenga. L’esempio americano di spoil system è limpido e nessuno si scandalizza. Piuttosto dev’esserci attenzione affinché vengano scelti uomini di qualità perché se sostituisci un bravo avversario con un amico inetto ti giochi una fetta di credibilità».

Dopo decenni di egemonia culturale della sinistra è giusto puntare a una nuova mappa?

«Ho paura delle egemonie di sinistra come di quelle di destra. La cultura è un unicum in movimento e non ha colore… Non auspico che si passi dal rosso al nero, ma che si realizzi un processo di maturazione attraverso la scuola e nelle istituzioni, senza preoccuparsi di instaurare nuove egemonie».

Qualcuno osserva che Meloni è troppo timida, per esempio sulla Rai.

«Il governo è in carica da due mesi e sta affrontando la legge di bilancio e il Pnrr. Buttarsi sulla Rai sarebbe una mossa goffa e sbagliata. Credo sia una necessità da affrontare in un secondo momento, sempre se ci saranno gli uomini giusti per farlo».

Concorda con la decisione del ministro Giuseppe Valditara di vietare l’uso dei cellulari in classe?

«Certamente, il cellulare è uno strumento privato che permette attività che non c’entrano con il lavoro scolastico. Spero che verrà un momento in cui le classi saranno dotate di computer per favorire una didattica più adeguata e moderna. Una cosa è aiutare la ricerca, un’altra andare su TikTok. Finché non si potrà fornire tutti di i-pad è corretto proibire il cellulare. I miei figli li mando a scuola senza telefono senza che me lo dica il ministro».

Non legge Tolkien né Roger Scruton: che autore consiglierebbe a Meloni?

«Premetto che non detesto Tolkien, ma non ho interesse per Il Signore degli anelli. Personalmente trovo affascinante Yuval Noah Harari, l’autore di Homo Deus. Breve storia del futuro e 21 lezioni per il XXI secolo».

Vorrebbe maggiore attenzione alla contemporaneità?

«Auspico una classe dirigente più vigile e progettuale sul futuro. Per esempio, il problema della denatalità è gravissimo perché si rischia la scomparsa di un popolo e di una cultura. Giustamente ci vantiamo del made in Italy, ma quando non ci saranno più persone in grado di realizzarlo sparirà. Servono misure energiche per favorire la natalità, uno dei problemi principali del nostro Paese».

Il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo dice che nel 2070 ci saranno 11 milioni d’italiani in meno.

«Il cittadino comune se ne frega del 2070, ma è giusto che gli uomini di Stato si pongano questo problema come priorità assoluta. Progettare il futuro è il massimo compito della politica».

 

La Verità, 24 dicembre 2022

«L’Occidente ha perso cancellando le sue radici»

Ferdinando Camon fa l’autostop. «Non guido più e qui i mezzi pubblici sono sporadici», confida. L’ho raggiunto in un paesino della Val Zoldana, dove ha una casa che guarda il Pelmo, per parlare di Occidente, il romanzo-saggio sul terrorismo pubblicato la prima volta nel 1975 da Garzanti e ora riproposto in una nuova versione dalla vivace Apogeo di Adria. Ma il racconto della vita quotidiana di questo scrittore appartato, dallo sguardo lucido ma non cinico, che la moglie Gabriella Imperatori chiama Dino, è anch’esso interessante.

A 86 anni è pieno di risorse.

«Mi metto sul ciglio della strada e agito la mano. Qualcuno lo scambia per un saluto e tira dritto, qualcun altro capisce e si ferma».

Starà qui tutta l’estate?

«Finché Padova sarà torrida. Con il caldo non riesco a scrivere bene, qui mi ossigeno e recupero la lingua».

Cosa sta scrivendo?

«Ho appena risistemato Occidente ed è abbastanza per un po’, non crede? Scrivo per i giornali. L’altro giorno quelli del Mattino di Padova si sono rivolti alla Questura perché il cellulare era irraggiungibile e si erano preoccupati… L’isolamento telefonico di una vallata è inammissibile. Per fortuna il bar del paese ha un buon wifi».

Comunicazione e trasporti ridotti a parte, ci sta bene?

«Sono le mie montagne. Adesso mi vede vecchio e malandato, ma ho fatto il militare da ufficiale degli alpini lì, sul Pelmo. Per salire in vetta bisogna percorrere una cengia larga 35 centimetri, esposta su uno strapiombo. Bisogna strisciare sulla pancia, infatti si chiama Passo del gatto. L’ho fatto guardando la parete della montagna che è costellata di foto di ragazzini che non guardavano la parete ma l’abisso e sono caduti. Passavi la cengia con il naso su quei volti… Ricordo la foto del primo, con le parole dei genitori disperati… Da un paio d’anni le foto non ci sono più, il presidente del Cai le ha fatte togliere perché pareva un cimitero. Perciò mi chiedo che senso aveva per me e i miei soldati rischiare la vita in quel passaggio. Ora l’hanno chiuso, dopo che tre anni fa tre turisti tedeschi sono caduti e sono morti».

Cosa pensa del crollo della Marmolada?

«Che non doveva essere accessibile, su quel costone si rischia, andava chiuso. La natura è insensibile, fa stragi nella più totale imperturbabilità».

Il riscaldamento globale non c’entra?

«Con l’aumento della temperatura media le fessurazioni dei ghiacciai sono più frequenti. Perciò bisogna prevenire. I morti erano nel canalone dove scendeva quella massa di ghiaccio e detriti. La montagna è bella, però va rispettata. Mio figlio ha trovato una frase di Friedrich Nietzsche: “Se tu guardi a lungo dentro l’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te”».

L’abisso è anche quello che ha raccontato in questo libro?

«La Padova degli anni Settanta era una città violenta, avevano incendiato lo studio del rettore, dato l’assalto alla stazione… La violenza mi riguardava, trovavo piccole bare col mio nome nella cassetta della posta, mi arrivavano telefonate alle tre di notte. Perciò è un libro autobiografico, che racconta lo scontro tra terrorismo rosso e terrorismo nero».

La minacciavano prima che lo scrivesse?

«Davo interviste, si sapeva che lo stavo facendo, volevano paralizzarmi. Insegnavo, ho chiesto aiuto alla polizia. Mi hanno detto che l’autrice delle minacce era una ragazza “perché scrive le elle con una grande pancia”».

Una sua allieva?

«Non ho voluto saperlo. Una volta per una conferenza a Piove di sacco trovai la scuola circondata dalla polizia: “Siamo qui per lei, sono arrivate delle minacce”. C’erano i seguaci di Toni Negri e i seguaci di Franco Freda».

Terrorismo rosso e terrorismo nero.

«In Occidente si vede che sono stato più sedotto dalla violenza nera. I militanti dell’estrema destra che teorizzavano il diritto di uccidere, il diritto alla strage, mi avevano molto allarmato. Franco Freda fu condannato all’ergastolo come colpevole della strage di Piazza Fontana. Quando venne assolto e andò agli arresti domiciliari a Brindisi chiese un incontro con me, da pubblicare».

E lei ci andò.

«Prenotai una cuccetta, arrivai a Brindisi al mattino, parlammo tutta la giornata, in piedi, senza mangiare un panino. Gli dissi che ero uno scrittore, non un giudice che emetteva sentenze. Avevo letto i suoi scritti trovandoli coerenti con la strage. Perciò, come ultima domanda, gli ho chiesto se era colpevole o innocente. Mi ha risposto: “È innocente non colui che è incapace di peccare, ma colui che pecca senza rimorsi”. Voleva dire che l’aveva fatta, ma non aveva rimorso? Mi è parso di sì».

Riteneva di avere «diritto alla strage» per una presunta superiorità morale?

«Una superiorità di specie in quanto portatore di un’idea di vita superiore. Insomma, era un superuomo».

Ancora Nietzsche?

«Torniamo sempre lì. Questi militanti non avevano un Dio che è l’unico che potrebbe fermarti e giudicarti. Non erano fascisti, erano nazisti. Avevano un’idea razziale e superomistica della lotta politica. Di Freda ho perso le tracce».

Di recente ha pubblicato per l’editore Ar Scontro con Ferdinando Camon.

«Lo scontro è nella sua logica. Mi procurerò il libro e lo leggerò con attenzione e rispetto. Ma non più con paura».

Perché ripubblicare Occidente quasi 50 anni dopo?

«Ci sono ancora gruppi di persone che si attribuiscono questo diritto di strage in nome di una superiorità morale. Allora l’armamentario era ideologico, ora è mistico-religioso. Pensano di aver diritto di eliminare un’umanità inferiore, indegna di vivere. Sono stato tre volte ad Auschwitz e ho capito che quello che avevano in mente di fare lì era correggere la creazione e riformare l’umanità, eliminando le razze inferiori».

Perché lo intitolò Occidente?

«In quegli anni queste stragi erano frequenti in Italia, in Spagna… Adesso lo sono in altre civiltà, soprattutto quella islamica».

Pensavo a figure come Anders Breivik o a certi sterminatori americani.

«Breivik è un pazzo. Nietzsche non lo era. Leggendo Così parlò Zarathustra si trema dalla prima riga all’ultima. È vero, entrava e usciva dagli ospedali psichiatrici, ma non era un pazzo. Nel primo incontro che Hitler ebbe con Mussolini gli regalò le opere di Nietzsche e disse che creava le figure delle SS come incarnazione del superuomo».

Dove vede che il «diritto alla strage spiega buona parte della storia mondiale che stiamo attraversando»?

«Nelle frasi che urlano quelli che si fanno saltare in aria, i kamikaze, gli islamisti, quelli che vanno volentieri in carcere perché si ritengono portatori di una verità superiore».

Che cosa la colpisce?

«Questa fuga nella morale superiore è in realtà una fuga nella barbarie. Si credono uomini divini, sono assassini. Ho apprezzato il nazista di Occidente che cattura un militante espulso dalle formazioni di sinistra perché quando sta per ammazzarlo non lo fa in quanto lo considera poca cosa. È un fatto realmente accaduto».

Quel nazista ha un’umanità che gli islamisti non hanno?

«Voleva realizzare un’acropoli abitata da superuomini di cui essere il leader. Era amato dai suoi seguaci. Agli occhi degli islamisti noi siamo sotto-esseri umani perché non capiamo il loro Dio. La strage del Bataclan l’hanno fatta per questo».

Come giudica la decadenza dell’Occidente?

«L’Occidente non ha il senso della dignità dell’uomo. Il suo scopo è l’affare, cioè se un’azione porta denaro e arricchimento. Questa è decadenza. Siamo in una fase a-umana. Questa educazione comincia presto: in prima media la madre va dall’insegnante non per sapere se il figlio capisce e impara, ma se sarà promosso. Consideriamo riuscito un film o un libro se incassa. Noi occidentali non produciamo più fanatismo, non produciamo più nulla».

Bilancio amaro?

«Mi piacerebbe che avessimo dei valori, ma non li abbiamo. L’arte, le religioni, la civiltà. Lo dico da perdente, essendo un intellettuale, uno che fa libri».

La globalizzazione è un valore?

«È una fusione di economie, tutte interne alla civiltà borghese. Che è una grande civiltà, ma non è la mia».

Il mondialismo, la finanza e l’ecologia sono in decadenza?

«Di queste l’unica idea vitale potrebbe essere l’ecologia. Però noi non abbiamo un interesse ecologico per consegnare una natura perfetta ai nostri figli, ma perché l’inquinamento produce danni economici. Anch’io sono un borghese, se mi danno un sacchetto di plastica lo uso ben sapendo che ci vogliono decenni per degradarlo. Del resto, se la civiltà è questa o ne usciamo tutti o nessuno».

Il declino è iniziato dalla cancellazione delle radici cristiane nella Costituzione europea?

«Confermo, sono rimasto basito. I padri costituenti hanno dimostrato di non avere a cuore la morale e l’etica della civiltà europea, ma una costruzione edificata sull’interesse. Al bivio tra una strada che porta al bene e un’altra che porta alla ricchezza, la nostra civiltà sceglie la seconda. A lungo andare la pagheremo».

La responsabilità è della politica, della Chiesa, degli intellettuali?

«Della politica senz’altro. Stabilisce i programmi, le priorità, il tipo di scuola, la formazione delle giovani generazioni. La Chiesa può predicare, ma non condizionare o imporre. Francesco possiede una visione, ma non gli strumenti, neanche nelle strutture interne vaticane. Il famoso palazzo di Londra è stato venduto per la metà del prezzo d’acquisto. Questo significa che qualcuno che lavora con il Vaticano ha fatto l’affare e il Vaticano ci ha perso. Anche nelle alte gerarchie il principio borghese è ben radicato».

E gli intellettuali?

«Contano poco. Un legislatore non tiene conto di quello che scrivono gli intellettuali sui giornali. Gli ultimi che hanno avuto un peso sono stati Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Leonardo Sciascia».

Contano di più gli influencer?

«Nel costume sì, ma è un livello fatuo. Mi ha stupito che Liliana Segre si sia fatta fotografare al Binario 21, da dove partivano i treni per i campi di concentramento. Fai una foto e richiami l’attenzione, ma non capisco a cosa serva veramente. Forse è un limite mio».

Si usa uno strumento di moda per divulgare un’idea?

«L’intellettuale è marginale perché usa la parola in un tempo in cui scrittura e lettura non sono più influenti. Un messaggio diffuso in tv viene visto estesamente, ma rimane effimero. Ho scritto libri etici come Un altare per la madre, un romanzo che racconta una vita povera e nascosta eppure degna di essere vissuta. Ora lo tradurranno anche in persiano, ma verrà letto come un’opera meritoria, nessuno lo prenderà mai come modello».

 

 La Verità, 9 luglio 2022

«Il Papa boccia il riarmo non il diritto alla difesa»

Monsignor Massimo Camisasca è tornato a vivere in riva al lago Maggiore. Avendo compiuto 75 anni lo scorso novembre, ora è vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, l’ultima diocesi da lui presieduta. «Sto organizzandomi una nuova vita», rivela fiducioso. Autore di numerosi saggi di materia religiosa e non solo, monsignor Camisasca è superiore generale oltre che fondatore della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo. Ha accettato di rispondere alle domande della Verità sulla possibilità di un negoziato della Santa Sede nella crisi in atto e sull’atto di consacrazione della Russia e dell’Ucraina al Cuore immacolato di Maria pronunciato ieri in San Pietro da papa Francesco.

Eccellenza, con che occhi dobbiamo guardare a questa azione del Santo Padre?

«Con gli occhi realistici di chi sa che la guerra trova la sua origine nel cuore degli uomini, talvolta anche di un uomo solo, e che Dio soltanto può convertire i cuori. La storia umana non è costruita da puri determinismi, è un intreccio di libertà. La preghiera mira ad ottenere che la libertà dell’uomo si indirizzi verso il bene e non verso il male».

Da che cosa nasce precisamente questo atto di papa Francesco?

«Dalla percezione che il mondo sta correndo un gravissimo rischio. Che migliaia di persone stanno morendo, che decine di migliaia stanno cercando fuori del loro paese il futuro. Gli occhi disperati delle madri, i volti terrorizzati dei bambini rimarranno come l’icona di questi giorni spaventosi».

Quali sono a suo avviso i passaggi fondamentali della consacrazione pronunciata da papa Francesco?

«Il Papa sa che i popoli russo ed ucraino riconoscono in Maria la Madre di Dio e la loro madre. Perciò si rivolge a Maria per dirle: “Questi popoli sono consacrati a Te, sono tuoi, difendili, aiutali, sorreggili, fa che si incontrino nella pace del tuo volto”. Nello stesso tempo si rivolge alle singole persone, soprattutto ai capi dei popoli e, in questo caso, agli aggressori perché si rendano conto del male che stanno compiendo, della responsabilità che portano di fronte alla storia, delle onde concentriche di distruzione che la guerra comporta».

Come va letto il fatto che il Papa abbia fatto riferimento esplicito alla «minaccia nucleare»?

«La minaccia nucleare è sempre un’opzione possibile e naturalmente terribile perché probabilmente comporterebbe una distruzione di gran parte della terra. Bisogna dire anche che la stessa minaccia costituisce forse il deterrente più serio di fronte al suo uso».

In che modo il fatto che questa consacrazione sia avvenuta contemporaneamente in San Pietro e a Fatima con il cardinale Konrad Krajewski la mette in relazione ai segreti affidati alle apparizioni di oltre un secolo fa?

«Più che ai segreti penserei all’evento stesso di Fatima, alle distruzioni provocate dalla Prima guerra mondiale, alle lotte tra popoli cristiani, alla dissoluzione dell’Europa che la guerra portò con sé, alla finta pacificazione, prodromo della Seconda guerra mondiale. La Madonna interviene nei campi di guerra. Questo mi sembra il collegamento storico tra Fatima e Kiev. Anche allora la Madonna chiese preghiere e digiuno, come ha continuato a chiedere in questi anni Duemila anche dalla martoriata Bosnia, da Medjugorje».

Come dobbiamo considerare il fatto che in questa occasione anche Benedetto XVI, papa emerito, si è unito in preghiera a papa Francesco?

«Benedetto XVI è, soprattutto in questi ultimi anni, una figura orante. Assieme al Papa supplica Dio come Mosè sul monte».

È significativo il fatto che lo sguardo di Francesco dalla Russia e l’Ucraina si allarghi a «tutti i popoli falcidiati dalla guerra, dalla fame, dall’ingiustizia e dalla miseria»?

«Il mondo contemporaneo conosce un numero significativo di guerre locali, più o meno grandi, quelle che papa Francesco ha chiamato “la terza guerra mondiale a pezzi”. La fine del bipolarismo ha accentuato il sorgere di questi conflitti, per lo più dimenticati. Francesco, come i suoi predecessori, continua a metterci davanti questa mappa del dolore affinché abbiamo a sentire l’urgenza del cambiamento».

Parlando di cambiamento, l’ultima invocazione è una preghiera che invita i cristiani a essere «artigiani della comunione» e a individuare «i sentieri della pace»?

«La ragione per cui esiste la Chiesa, Corpo di Cristo fatto di peccatori e perciò segnata da mille macchie di infedeltà, divisioni e colpe dei suoi membri, è di portare nel mondo la comunione che Cristo ha definitivamente inaugurato con la sua morte e resurrezione. Il cristiano è artigiano della comunione vivendo la vita della Chiesa e chiamando a essa gli uomini che possono trovare nell’abbraccio di Cristo il fondamento e la forza di una fraternità ritrovata».

In altre occasioni la consacrazione al cuore immacolato di Maria aveva riguardato solo la Russia.

«Suor Lucia aveva trasmesso ai papi questa richiesta insistente della Madonna: consacrare la Russia al Cuore Immacolato di Maria. Questa consacrazione è avvenuta più volte da Pio XII ad oggi, con maggiore o minore esplicitezza. Oggi non c’è più nessuna ragione per cui il nome della Russia non possa essere accostato a quello di Maria».

Dicendo che la spesa per le armi «è scandalosa», papa Francesco ha corretto il segretario di Stato Pietro Parolin?

«Non penso proprio. Come ha rivelato Zelensky il Papa sa che accanto a mille guerre ingiuste vi può essere il diritto di difesa. Il mercato delle armi, incrementato dopo la fine del bipolarismo, è una delle cause principali delle guerre. Altra cosa è fornire un aiuto, anche militare, a chi sta combattendo un’occupazione del proprio territorio nazionale».

L’altro giorno, parlando a braccio, Francesco ha detto di essersi «vergognato» quando ha letto che un «gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2% del Pil nell’acquisto di armi come risposta a quello che sta succedendo… Pazzi». A qualcuno nel nostro governo saranno fischiate le orecchie: è indispensabile questo aumento di spese militari?

«Penso che il Papa sia preoccupato di una possibile corsa al riarmo, di una escalation che porti da una e dall’altra parte a tempi lontani quando ci si confrontava tra Unione Sovietica e Nato e con fatica si arrivò poi a degli accordi sul disarmo. Certo, una potenza che ha occupato ingiustamente la mia terra esige una difesa da parte mia. Occorre bilanciare il diritto alla difesa con una diplomazia saggia che sappia lavorare per evitare le guerre».

Perché secondo lei oltre alla condanna della guerra «ripugnante» e la denuncia della spesa in armi che «non è un gesto neutrale», Francesco non ha pronunciato una condanna esplicita dell’azione di Vladimir Putin?

«Un’autorità mondiale come il Papa deve essere attenta a ciò che dice. La sua condanna dell’aggressione russa è inequivocabile. Nello stesso tempo, deve sempre salvare la possibilità di un negoziato. La Santa Sede rimane oggi tra le poche istituzioni in grado di essere protagoniste in una trattativa di pace».

Che ruolo possono avere i capi delle diverse confessioni religiose?

«La più importante confessione religiosa di Russia e Ucraina è quella ortodossa. Le sue divisioni interne rendono ininfluente la sua possibilità di mediazione».

Alcuni osservatori ritengono che l’aggressione della Russia vada compresa all’interno di un attacco al mondo occidentale. Va interpretata così l’omelia di qualche giorno fa del primate ortodosso Kirill?

«Non so se l’aggressione di Putin riguardi il mondo occidentale. Penso che egli sappia benissimo che dal punto di vista militare la Russia non può competere con l’Occidente. Per conoscere con esattezza le ragioni dell’aggressione bisognerebbe poter entrare nella mente di Putin. Penso che in lui vi siano una serie di paure: l’adesione dell’Ucraina alla Nato, più ancora la democrazia che stava nascendo a Kiev, l’adesione all’Unione Europea… L’Europa ha avuto interlocutori interessati verso Putin, ma non interlocutori sufficientemente intelligenti per capire le sue intenzioni ed eventualmente aiutare le autorità europee nelle decisioni da prendere. L’Europa ha tenuto il piede in due scarpe, ottenendo questi risultati spaventosi. Al di là di tutte queste ipotesi, ora c’è un obiettivo chiaro: sconfiggere l’aggressore e ripensare la politica estera commerciale energetica dell’intera Europa. Non dobbiamo mettere la Russia in un angolo. Oltre che impossibile, sarebbe una scelta politica cieca. La Russia va lentamente recuperata all’Europa affinché non abbia soltanto la Cina come alleato».

Ha ascoltato l’intervento del presidente Volodymyr Zelensky al Parlamento italiano?

«L’ho letto. Dalla serie di interventi che il presidente ucraino ha tenuto in questi giorni nei parlamenti di tanti Paesi di tutto il mondo emerge una statura morale e politica non comune, che suscita la mia ammirazione e mi fa pensare al coraggio e alla cultura di tutto quel popolo».

In questi giorni si sono riuniti a Bruxelles i capi di Stato occidentali. Dal suo punto di vista, ritiene che l’Europa dovrebbe ritagliarsi una maggiore autonomia rispetto agli Stati Uniti in difesa della propria storia e della propria convivenza pacifica?

«La debolezza dell’Europa sta nella rinuncia, tacitamente o esplicitamente affermata, alla propria storia, ai propri valori religiosi e morali a favore di una tecnocrazia mondiale in cui i diritti dell’individuo diventano la radice del suo isolamento e della sua nudità davanti al potere».

Il Papa dovrebbe considerare l’invito che proviene da più parti, in particolare dal presidente ucraino Zelensky, a recarsi a Kiev per compiere un gesto concreto di pace? Si pensa a quali rischi si esporrebbe?

«Papa Giovanni Paolo II voleva andare a Sarajevo. Sono stato testimone diretto, in un pranzo, di questa sua intenzione. Ne fu sconsigliato e infine impedito per ragioni di sicurezza. Se fossi papa Francesco prenderei in seria considerazione questo invito».

 

La Verità, 26 marzo 2022

 

«Perché i generali sono più realisti dei giornalisti»

Generale Fabio Mini sul nuovo numero di Limes lei ha scritto che l’espansione dell’Alleanza atlantica è la causa principale della guerra russo-ucraina. Che cosa glielo fa dire?

«Il fatto che dal 1997 con la Polonia, la Cecoslovacchia e l’Ungheria, passando per l’Estonia, la Lettonia e la Lituania nel 2004, fino al 2018 con la Macedonia, la Nato ha invitato nell’alleanza una serie di Paesi dell’Est europeo. È stata una strategia precisa che aveva un unico scopo».

Quale?

«Circondare la Russia per neutralizzarne l’influenza nel Centro Europa. Non era un obiettivo segreto, ma dichiarato».

Molti analisti sottolineano che in quel periodo ci sono state offerte di collaborazione della Nato alla Russia tanto che, per esempio, il G7 è diventato G8.

«Non so chi lo dica, ma è antistorico. Il dialogo è limitato al periodo iniziale dell’allargamento, dal 1991 al 1996. C’era reciproca volontà di collaborare, pur in presenza di una certa diffidenza che emergeva, per esempio, nelle riunioni in cui si parlava dell’Armenia o della Georgia. Dopo il 1997 la disponibilità al dialogo della Nato è stata solo un’etichetta diplomatica. Mentre a livello operativo e militare si agiva per favorire l’inserimento dei Paesi baltici nello scacchiere, apparentemente difensivo, che la Russia percepiva come offensivo».

Se si digita su Google Fabio Mini, compare la qualifica «scrittore». In effetti, Mini ha pubblicato diversi saggi per importanti editori in materia bellica e di strategia militare, discipline nelle quali è molto autorevole essendo stato generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano, Capo di Stato maggiore del comando Nato del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo. Scrive per la rivista Limes e collabora con Il Fatto quotidiano.

Generale, come spiega che questa crisi prevista dall’intelligence americana e britannica non è stata scongiurata?

«Per fermarla bisognava assumere le posizioni esplicite che la politica stava dettando. Questa situazione era annunciata da quando è iniziata la crisi per la Georgia. Nel 2001 andai a Tbilisi per seguire le esercitazioni della Nato. Alloggiavo in un hotel in centro, al terzo piano; dal quarto al nono erano tutti occupati dai servizi segreti americani. Sette anni dopo è arrivata la crisi della Georgia».

Non ci si è fermati prima a causa della pandemia o di altri interessi?

«L’America voleva che si evitasse d’ingoiare il rospo passivamente, come avvenuto per la Georgia. La Russia non pensava che la Nato rimanesse unita e, a sua volta, la Nato non credeva che la Russia fosse davvero decisa a invadere. Fin dal primo giorno dell’amministrazione Biden la situazione si è aggravata. L’irrigidimento di una parte ha portato all’irrigidimento dell’altra».

A cosa mira l’aggressione di Putin all’Ucraina?

«Non a occupare tutta l’Ucraina».

Perché?

«Non è nelle condizioni di farlo. Lo scopo che ha scatenato l’invasione è tenere la Nato lontano dai propri confini. Perciò se occupa l’Ucraina la Nato ce l’ha in casa».

Vuole insediare un governo che gli obbedisca?

«L’occupazione militare è una cosa, insediare un governo fantoccio o a lui favorevole è un’altra. Forse ci ha già provato. Il vero obiettivo credo sia mettere in sicurezza un territorio che circonda l’Ucraina dal Donbass e Kharkiv, passando per la parte meridionale per arrivare possibilmente fino alla Moldavia, dove c’è una forte comunità russofona».

Il bombardamento dell’ospedale dei bambini di Mariupol segna una svolta nella strategia di Putin?

«No. Segna una svolta nella campagna d’informazione. Siamo di fronte a due propagande, una di fronte all’altra. Tre feriti dopo un bombardamento così come raccontato non l’ho mai visto».

Si parla di strage di bambini.

«Ho letto di tre feriti, altri dicono sei. Vedo un’intensificazione della guerra di propaganda e annunci. Se dietro ci sono la strage e un obiettivo intenzionale non lo so. Le immagini che ho visto mostrano un’esplosione in uno spiazzo, un grande cratere, molti vetri rotti e una barella davanti a una telecamera. Commento quello che vedo e da ciò che vedo, fortunatamente, questa strage non si è verificata».

Fino a qualche giorno fa si diceva che la colonna ferma di carri armati indicava l’attesa di nuovi eventi e lo spazio per un negoziato, ma al colloquio in Turchia il ministro degli Esteri russo Lavrov ha rigettato l’offerta di neutralità dell’Ucraina.

«Il colloquio in Turchia non erano negoziati. Lavrov era lì per parlare, non per negoziare. La novità di quel colloquio è che Lavrov ha legittimato i negoziati in Bielorussia, avallando una diplomazia militare che fino a quel momento non era scontata».

Perché su Limes sottolinea il ruolo del mondo liberal americano in questa crisi?

«Ci sono due politiche estere negli Stati Uniti che fanno capo a democratici e repubblicani. L’idealismo liberal, come lo chiama l’editorialista del Foreign Policy Stephen Walts, e il realismo repubblicano».

Perché l’idealismo liberal è così protagonista?

«È storia. Le guerre le hanno iniziate i presidenti democratici in nome di quel falso idealismo. Non c’è una guerra iniziata con un presidente realista».

Bush padre ha iniziato la guerra del Golfo.

«George Bush e il partito repubblicano furono influenzati dai neocon, speculari ai neodem. Fu un movimento molto ideologizzato sul piano culturale e religioso. La prima guerra del Golfo nacque in quel contesto».

La stima per Putin ribadita anche di recente da Donald Trump è una posizione indifendibile?

«Certo. Anche le azioni di Putin sono indifendibili. Tra mille opzioni ha scelto la peggiore. Ha visto la debolezza nell’amministrazione americana, nella Nato e nell’Unione europea e ha pensato di approfittarne. Parliamo di una guerra non iniziata il 24 febbraio. Agendo in modo provocatorio la Nato ha violato le norme stesse del Patto atlantico».

Qual è la violazione principale?

«Ha messo in pericolo la sicurezza dei Paesi aderenti. Spostare armi e dislocare truppe ai confini di un altro Paese è una provocazione che in altri tempi avrebbe portato alla guerra il giorno dopo. È proprio uno di quei casi che il Trattato atlantico e la Carta delle Nazioni unite volevano evitare».

Lo diceva anche Biden al Consiglio Atlantico del 1997: «Annettere alla Nato gli Stati baltici potrebbe provocare una risposta vigorosa e ostile da parte della Russia».

«Il Biden del 1997 non è il Biden di oggi».

Ora alimenta il conflitto per ragioni interne?

«Sì».

Cioè?

«Per gran parte della popolazione americana, Biden non sta mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale. Il contrasto alla disoccupazione, la lotta al Covid, la sanità, le norme sui rifugiati. Alle elezioni di metà mandato un successo internazionale può rianimarlo. Altrimenti la sua presidenza finirebbe dopo due anni. Senza la maggioranza al congresso non potrebbe più governare. In gergo sarebbe una lame duck, un’anatra zoppa».

Come si sta comportando l’Unione europea?

«In maniera abbastanza sibillina, perché non ha la forza per imporre la propria volontà. Tuttavia, esistono una serie di ragioni pratiche e razionali che sconsiglierebbero di seguire la posizione degli Stati Uniti, di Zelensky e della Gran Bretagna».

Le risorse energetiche?

«Esatto. Un problema che ha portato a sanzioni meno drastiche di quelle che Gran Bretagna e Stati Uniti avrebbero voluto. Con intelligenza Biden ha detto che introdurre la no-fly zone in Ucraina vuol dire scatenare una guerra diretta tra Russia e America. Lo stesso discorso può valere per l’inasprimento delle sanzioni».

Perché l’Italia è fuori dai tavoli che contano?

«L’Italia non è influente perché si sa da che parte sta. Non conta chi sta zitto, ma chi alza il dito. Noi non l’abbiamo mai alzato e così ci danno per scontati».

Come giudica la decisione d’inviare armi al popolo ucraino?

«Inviare armi al popolo ucraino che si difende va benissimo. È doveroso. Invece, non manderei armi senza sapere bene a chi vanno e dove andranno a guerra finita. Se si contribuisce a un’ulteriore provocazione non è solidarietà all’Ucraina, ma una manifestazione di ostilità verso la Russia che può inasprire la situazione».

Non si mandano derrate alimentari o medicine, le armi sparano ma noi non combattiamo.

«Sono d’accordo, è pura ipocrisia».

Che cosa le fa dire che un conflitto tra la Nato e la Russia è ancora evitabile?

«Non è in atto l’occupazione militare di tutta l’Ucraina. Possono verificarsi degli eventi: se il negoziato non salta si può rimediare. Se le forze davvero in campo – il governo russo, quello ucraino e quello americano – si siedono allo stesso tavolo c’è ancora margine. Niente Nato, però».

Perché lei e il generale Mario Bertolini siete più disposti alla trattativa?

«Perché siamo testimoni di quello che succede nei Paesi dopo che l’intervento delle Nazioni unite è terminato. Negli ultimi 30 anni alla vittoria sul campo della Nato non è seguito un successo politico e umanitario. I Paesi usciti da quegli interventi – Iraq, Libano, Somalia, Afghanistan, Kosovo, Libia – erano più martoriati di prima».

Perché mentre voi militari siete trattativisti molti giornalisti sono convinti della necessità della prova di forza?

«Perché i giornalisti partono dall’invasione e non vanno a vedere cosa c’era prima. Se si punta lo sguardo adesso c’è un aggressore e un aggredito. Invece l’aggressione segue azioni di provocazione. Chiediamoci chi ha addestrato e inserito nelle file delle forze armate regolari formazioni di ex banditi».

Che ruolo può avere il Vaticano in questo scenario?

«Un grande ruolo perché la comunità russa è molto sensibile al sentimento religioso».

Anche se l’uscita del patriarca di Mosca Kirill si è rivelata controproducente?

«La Chiesa ortodossa non è una Chiesa unita. Zelensky ha lavorato per separare la comunità ortodossa ucraina da quella di Mosca. Quello che ha detto Kirill esprime come vedono il decadimento morale dell’Occidente».

Tornando al Vaticano, che margini d’intervento ci sono?

«Il Vaticano mantiene contatti con Mosca. Il Papa ha manifestato comprensione verso Putin e Putin si sforza di capire ciò che la comunità cattolica nella persona del Papa cerca di dirgli. Credo che la Russia prenderebbe in seria considerazione le dichiarazioni di condanna del Vaticano».

 

La Verità, 12 marzo 2022

«Sul vino si è vinto, ma la guerra del cibo è lunga»

Un visionario a capo del settore agroalimentare. È Luigi Scordamaglia, 56 anni, consigliere delegato di Filiera Italia. Da grande voleva fare il veterinario, fin quando Luigi Cremonini, grande produttore nel settore della carne, lo convince a mollare tutto per dedicarsi all’alimentazione. In pochi anni brucia le tappe, fino all’incarico attuale. Ultimamente lo hanno scoperto anche i conduttori televisivi più accorti. Impegnato in Europa in difesa del nostro vino e contro il Nutriscore, e in Italia a sostegno degli agricoltori in difficoltà per l’aumento dei prezzi causato dalla crisi energetica, per lui questi sono giorni caldi.

Ora che il bollino nero sul vino è stato scongiurato il pericolo è scampato per sempre?

«Doserei l’entusiasmo. Abbiamo vinto una battaglia non certo la guerra che è tutta da combattere. Abbiamo introdotto un po’ di buon senso nel testo sul consumo di alcol, ma la guerra tra opposte visioni prosegue».

Da chi è rappresentata quella che avversa il vino?

«Da una buona parte dei Paesi del Nord Europa e da poche, ben identificate, multinazionali che pensano che l’alimentazione del futuro debba essere omologata, non distintiva e sempre più composta da ingredienti sintetici e chimici a danno della qualità e dell’equilibrio dei cibi».

In che modo avete introdotto elementi di buon senso?

«Cancellando sugli alcolici l’etichettatura allarmistica, tipo quella in uso sui pacchetti di sigarette. È sufficiente consigliarne sempre un uso moderato e consapevole, come facciamo. Un’altra dose di buon senso è essere riusciti nelle scorse settimane a far eliminare sempre dal cancer plan (il piano europeo contro il cancro ndr) ogni riferimento esplicito al Nutriscore».

Quindi si può stare tranquilli?

«Mai. Abbiamo momentaneamente scampato il pericolo relativo al Piano anticancro, ma incombe sempre quello relativo all’obiettivo di armonizzare l’etichettatura nutrizionale con un unico sistema entro il 2022».

Cosa significa in concreto?

«La Commissione europea ha il compito d’identificare una sola grafica Fop (front of pay) che dia in maniera intuitiva le informazioni nutrizionali fondamentali. Al momento non esiste un unico sistema: si dovrà scegliere tra il Nutriscore e il Nutrinform, proposto dall’Italia».

In breve, cosa li diversifica?

«Il Nutriscore distingue tra alimenti buoni e cattivi, penalizzando prodotti come il parmigiano a vantaggio di formaggi di pessima qualità con ingredienti artificiali. Il Nutrinform, che sta sempre più convincendo i Paesi del Sud Europa, aiuta invece il consumatore a scegliere i singoli alimenti, meglio se di qualità per un apporto complessivo giornaliero equilibrato. Personalmente credo che, considerate le posizioni lontane tra i vari Paesi, la Commissione farebbe bene a prendersi un margine di riflessione ulteriore per definire un’indicazione unitaria».

A chi era venuto in mente di targare il vino come causa di malattie cancerogene?

«La commissione Beca del Parlamento europeo doveva scrivere il Piano anticancro. Ma casualmente, proprio nelle ultime settimane, anziché rilassarsi con un buon bicchiere di vino, Serge Hercberg, il professore francese inventore del Nutriscore, ha pensato di completare il suo già discutibile sistema con un bordo nero da apporre su tutti i prodotti contenenti oltre l’1% di gradazione alcolica».

Oltre l’1% chi si salva?

«Forse neanche le bevande analcoliche. Questi nostri interlocutori sembrano ignorare l’esistenza di testimonianze risalenti a 5 milioni di anni fa secondo le quali i primi ominidi mangiavano succhi da frutti fermentati con un certo livello alcolico».

Tuttavia, in Europa il consumo di alcol è superiore a quella degli altri continenti, perciò l’Oms chiede una riduzione del 10%.

«Chi ha una tradizione culturale e alimentare di millenni è abituato a distinguere tra uso e abuso. Imporre un bollino nero sulla bottiglia è una misura che può essere utile in molti Paesi del Nord Europa, dove molti giovani nel fine settimana sono abituati ad abusare spesso di mix di alcolici, non certo ai cittadini italiani che bevono un bicchiere di vino durante il pasto».

Dietro una problematica reale si nasconde qualcos’altro?

«Si strumentalizza una legittima preoccupazione per affermare interessi poco trasparenti. Se si promuove un prodotto trasformato con ingredienti sintetici e chimici di basso costo a scapito di quelli naturali si risparmia sulla produzione, si aumentano i margini di guadagno e, al contempo, si diventa salvatori del mondo».

Come in altri settori, si vuole applicare l’algoritmo anche in cucina?

«È la logica dell’omologazione. Si vuole applicare un algoritmo costruito a tavolino per favorire determinati prodotti e penalizzarne altri dimenticando che quello che ha fatto degli italiani uno dei popoli tra i più longevi al mondo è la dieta basata sull’equilibrio delle varie componenti alimentari di qualità».

Non bastano gli studi che mostrano che, dopo il Giappone, siamo il paese più longevo al mondo?

«Se prevalesse il buon senso dovrebbero bastare. Ma se dall’altra parte ci sono multinazionali globali o personalità come Bill Gates che investono risorse senza limiti nella fake meat e nel fake cheese il buon senso non è più sufficiente».

Perché dà fastidio il cibo made in Italy?

«Perché continua a crescere a due cifre all’anno sfondando l’obiettivo dei 50 miliardi di euro di esportazione come avvenuto nel 2021».

Nonostante la pandemia?

«Esatto. Anche nel 2020, anno in cui il commercio è crollato al livello dell’ultima guerra mondiale, l’export alimentare italiano è cresciuto con segno positivo: +1,5% contro -11% dell’intero manifatturiero italiano».

Una crescita imperdonabile?

«Per alcuni potenti interessi in particolare. Però, a mio avviso, non risulta imperdonabile solo la crescita del cibo italiano, ma anche la tenuta di tutte le culture alimentari distintive e non omologate».

È il conflitto tra globalizzazione e tradizione.

«Le multinazionali che producono cibo a bassissimo costo promosso come ecosostenibile vivono il successo del parmigiano reggiano o dell’olio d’oliva come un intralcio da eliminare».

A che punto è nel nostro Paese la risalita del comparto agroalimentare dopo la fase acuta della pandemia?

«Oggi l’agroalimentare è oggetto di una tempesta perfetta. L’esplosione dei costi delle risorse energetiche incide su tutta la filiera, dal campo agricolo alla trasformazione alla logistica distributiva, e mette in difficoltà soprattutto le piccole e medie imprese che non riescono a scaricare a valle questo aumento con il rischio che molte di queste debbano chiudere. Oggi oltre 40.000 dipendenti dell’industria alimentare sono a rischio disoccupazione».

Sono questi i motivi per cui in questi giorni gli agricoltori sono tornati a protestare in diverse piazze italiane?

«Certo senza agricoltura scomparirebbe una filiera di circa 550 miliardi di euro, il 25% del Pil italiano. Se gli agricoltori non hanno un reddito certo e adeguato, non gli si può chiedere di continuare a svolgere quel ruolo indispensabile non solo per garantire l’approvvigionamento alimentare del Paese, ma anche di tutela e presidio di paesaggi e territori e di difesa degli elevati standard di qualità e sicurezza che oggi la filiera agroalimentare italiana è in grado di garantire al consumatore. Da qui anche l’appello di questi giorni al presidente Draghi».

Cosa serve per tornare ai livelli precedenti l’avvento della pandemia?

«Non si può dipendere troppo dall’estero per beni di prima necessità. Nella malaugurata ipotesi di un’esasperazione della crisi tra Russia e Ucraina si sarebbero bloccati il primo e il terzo fornitore mondiale di grano, facendo esplodere i prezzi già alti di questa e di altre materie prime agricole. La soluzione è una sola: bisogna aumentare la produzione agricola nazionale attraverso contratti di lungo termine che valorizzino adeguatamente il nostro prodotto».

È ciò di cui si occupa Filiera Italia?

«È l’elemento ispiratore della sua stessa esistenza».

Che cosa significa il fatto che, nell’occasione dell’attacco al vino la nostra classe politica si è mostrata unita a prescindere dagli schieramenti?

«Su questi argomenti la classe politica si sta muovendo con un livello di unità difficile da vedere in altri campi. Forse perché il settore è così strategico per il Paese e così di buon senso sono le nostre richieste che non si poteva fare diversamente».

In passato lei ha detto che l’agricoltura è il nuovo petrolio: i nostri politici ne sono consapevoli?

«Finalmente cominciano a esserlo anche grazie alla fondamentale azione svolta da Coldiretti e Filiera Italia».

Perché a volte sembra che difendere categorie come i ristoratori sia un atto corporativo?

« L’agroalimentare non è più la Cenerentola dell’economia come si riteneva fino a poco tempo fa. Abbiamo una superficie di terra che è un fazzoletto rispetto ad altri Paesi del mondo, eppure riusciamo a ricavarci oltre 64 miliardi di euro, il più alto valore aggiunto in Europa».

Uno dei nemici da sconfiggere è l’Italian sounding, i prodotti che imitano il made in Italy?

«Gli effetti sono drammatici perché se è vero il nostro export cresce, l’Italian sounding aumenta in maniera molto più veloce».

Su questo fronte come state agendo?

«Attraverso strumenti giuridici sempre più efficaci, con accordi bilaterali sempre più mirati e con campagne di comunicazione sempre più specifiche nei principali mercati di esportazione».

Però intanto si valuta il Prosek croato.

«Ovviamente bisognerebbe evitare il fuoco amico, come l’atteggiamento della Commissione europea poco rispettoso del Prosecco doc. Ma ci auguriamo che tutto ciò finisca presto e la richiesta croata sia rigettata».

Cosa pensa del fatto che gli over 50 senza super green pass non possono recarsi al lavoro?

«I lavoratori del settore manifatturiero italiano hanno dato prova di grandissima responsabilità. Insieme ai sindacati abbiamo spiegato loro l’importanza della vaccinazione e abbiamo raggiunto lo straordinario risultato volontario di oltre il 99% dei vaccinati. A questo punto il sacrificio però dev’essere ripagato e, con la fine dell’emergenza, bisogna aprire tutto senza più limitazioni ai positivi  asintomatici e senza più ostacoli alla ripresa di tutte le attività, soprattutto di ristorazione e ospitalità».

 

La Verità, 19 febbraio 2022

«Se il premier punta al Colle, elezioni inevitabili»

Giulio Tremonti è stato ministro delle Finanze e dell’Economia nei governi Berlusconi. L’ultimo suo libro, edito da Solferino, s’intitola Le tre profezie – Appunti per il futuro dal profondo della storia.

Professor Tremonti, sul futuro del Paese si staglia l’elezione del presidente della Repubblica: come andrà a finire?

«Sulla elezione del Capo dello Stato si stanno moltiplicando articoli e memorie, libri e aneddoti, tutti comunque riferiti al passato, alla Prima e alla Seconda repubblica, ovvero riferiti a un passato felice o semi-felice che non c’è più. Oggi la realtà è diversa e drammatica ed è quella che è stata descritta con terribile lucidità da Rino Formica: “Un ciclo si è chiuso. Oggi c’è un Parlamento decomposto e incontrollabile”».

Insomma, finirà male?

«Bertolt Brecht scriveva: “Beato il Paese che non ha bisogno di eroi”. Oggi è pure peggio, data l’assenza di eroi. È per questo che pare diretta al naufragio la nave della “concordia” varata magicamente per notturno artificio nel febbraio scorso. Un naufragio nelle torbide acque della politica nazionale, e fra poco nelle tempestose acque di quella internazionale. Con una specifica: è un naufragio non per tragedia, quasi per commedia».

In che senso?

«Si sta ripetendo la storia dell’altra Concordia, la nave da crociera che naufraga dopo un lunghissimo inchino, con l’astuta discesa del suo comandante. Senza che ci sia un ufficiale che invita al rispetto del dovere, intimando di tornare a bordo, nel pieno di quello che era e che è ancora un possibile naufragio».

Dopo aver tentato di scendere, il comandante che tornasse a bordo godrebbe ancora di autorevolezza e di carisma?

«Non credo alla discesa, credo al senso di responsabilità».

In assenza di eroi e dentro un quadro così fosco, a cosa possiamo appellarci?

«Nella Repubblica di Platone la politica è definita come la forma superiore della tecnica perché per fare politica devi conoscere insieme la struttura della nave, l’equipaggio, i fondali, le correnti, i venti e le stelle. Semplificando, oggi la nave è il Palazzo, l’equipaggio è il popolo, il resto, i fondali, i venti, le correnti e le stelle sono il mondo circostante».

Cominciamo dal Palazzo.

«Ci sono tre palazzi: Montecitorio, Palazzo Chigi e Quirinale. Nel fare le elezioni del presidente della Repubblica, il primo palazzo, il Parlamento, che rappresenta la volontà popolare, è stato sempre centrale. Il secondo palazzo, il governo, è sempre stato quasi del tutto irrilevante e, comunque, mai in concorrenza alternativa con il terzo».

Come invece sembra accadere oggi?

«Speriamo di no».

Passiamo al popolo.

«Nella nostra storia repubblicana è stata sempre rispettata la centralità del popolo, ma in questa fase c’è l’impressione di una marginalizzazione del popolo da parte del palazzo. Si ha la sensazione che non sia sovrano, ma sovranizzato».

Può spiegare?

«Giorno dopo giorno aumenta l’evidenza, e non solo nei sondaggi, delle paure e delle sofferenze crescenti che investono sempre più larghi strati della popolazione. Contemporaneamente, c’è la sensazione di una sovrana indifferenza».

Dove la vede?

«Gli esempi non mancano e crescono di giorno in giorno. Da ultimo si riducono le tasse a chi ha di più e non ha chi ha di meno. Le mascherine sono un costo imposto a tutti, anche senza sgravi per chi ha di meno. I rincari non sono solo sulle bollette dell’energia, ma ormai su tutto il carrello della spesa. Così che emerge dal remoto passato la figura del “caro pane”. Si continua a parlare di scostamento di bilancio, ma la parola scostamento serve a occultare la realtà di un pubblico indebitamento sempre meno sostenibile».

Poi ci sono i condizionamenti esterni, i fondali e le correnti…

«Sullo scenario internazionale vediamo che la storia, che secondo i globalisti doveva essere finita, sta tornando con il carico degli interessi arretrati. E sta tornando, accompagnata dalla geografia lungo un arco di crisi che va dal Pacifico fino ai confini dell’Europa. Dalla pandemia che continua fino all’emersione dei nuovi conflitti. Nell’euforia della cosiddetta ripresa si evocano gli anni Venti, gli anni della Montagna incantata nella quale Thomas Mann prefigurava: “Il denaro sarà imperatore, ma solo fino alla completa demonizzazione della vita”. La Montagna è del 1924, la crisi finanziaria del ’29 è venuta subito dopo. Dopo quella del 2008 si è pensato che sono stati confusi la causa con gli effetti. Si è fatto girare l’helicopter money con il whatever it takes che non è stato un pronto soccorso, ma una lunga degenza. Si è creata e si sta ancora creando una massa infinita e incontrollabile di finanza».

A pagare le conseguenze sarà la nostra Italia?

«L’alternativa non è tra chi va al Quirinale e chi va al governo, ma tra questo governo e le elezioni».

Nessuno parla di elezioni.

«Ma nel caso in cui il comandante scendesse dalla nave, è fortemente improbabile che un governo composto da para-zombie possa subentrare all’attuale».

Che cosa intende per governo di para-zombie?

«È fortemente improbabile che, per quanto capaci, i ministri attuali possano sopravvivere in una Zombieland politica, interna ed esterna».

Qual è il suo giudizio sul governo attuale?

«Nel discorso sulla fiducia pronunciato in Senato il 17 febbraio scorso gli obiettivi erano tre: la vaccinazione come mezzo per l’uscita dalla pandemia, il Pnrr e soprattutto le grandi e necessarie riforme, per le quali si citava Cavour».

Il suo giudizio?

«Oggi è difficile sostenere che la pandemia è a termine. Mi pare particolarmente difficile sostenerlo osservando il labirintico, caotico, apparato dei quasi divieti e quasi permessi che si stanno sviluppando sulla Gazzetta ufficiale. La formula quasi era quella tipica di Bisanzio. La speranza è che anche il virus si metta a leggere la Gazzetta ufficiale».

Ma come? L’altro giorno il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta ha detto che l’Italia è il modello seguito da tutti, a cominciare dal green pass.

«Omissis».

Passando al Piano nazionale di ripresa e resilienza?

«I 51 punti del Pnrr sono attualmente e, per la verità, piuttosto confusamente, solo sulla carta. In questo contesto, oggi e domani, la forza del governo dovrà prevalere sulla triplice burocrazia: europea, nazionale e regionale. E se è difficile per questo governo, tanto più sarà difficile per un altro governo. Per quanto riguarda le riforme Cavour style vale lo stesso».

Il comandante vuole scendere anche perché ritiene insubordinato l’equipaggio?

«Nella Terza repubblica francese il pubblico si beava per il fatto che i leoni divoravano il domatore. In questa nostra repubblica lo scenario è meno cruento, ci sono modi diversi e per certi versi più subdoli per creare difficoltà al domatore».

Intanto c’è da risolvere il problema del terzo palazzo, il Quirinale.

«La sovranità appartiene al popolo. Come detto, dev’essere chiaro che l’alternativa è tra questo governo e le elezioni».

Il centrodestra sta rischiando di sprecare l’occasione di decidere il prossimo Capo dello Stato?

«Anche su questo omissis».

C’è chi si preoccupa che il futuro presidente sia una donna.

«Inviterei a rileggere La Repubblica di Platone dove le qualità politiche si valutano oggettivamente e non per gender. D’altra parte, nel G7 di Carbis Bay del maggio scorso, c’è ripetuto l’invito a superare lo status sessuale auspicandone la fluida mutevolezza come ai tempi di Eliogabalo: uomo di giorno, donna di notte. Naturalmente, sto scherzando».

È preoccupante lo scenario d’indifferenza che sottolinea tra la situazione della popolazione e le priorità dei palazzi.

«Le forze politiche – forze, si fa per dire –  sono concentrate sul Quirinale. Tuttavia, un vero grande problema rischia di essere sottovalutato. È l’emersione, più che prevedibile già prevista, di forme di protesta, che vanno ben oltre i no-vax, pronte a confluire in un movimento simile a quello che portò alla nascita dei Cinque stelle. Dal vaffa al vax, è una forza attorno al 5%, che si sta saldando con sofferenze e paure crescenti e che potrà erodere e spiazzare gli schemi politici convenzionali».

Se si andasse davvero a elezioni e il centrodestra le vincesse, dopo un governo come quello attuale pensa che riuscirà a prendere le redini del Paese e altri poteri interni o internazionali non lo impediranno?

«Credo che ci troviamo di fronte a un eccesso di retorica provinciale sulle cancellerie europee. Per l’esperienza che ho, sono stati più forti i traditori interni che le pressioni esterne. L’impegno per la chiamata dello straniero l’abbiamo già visto all’opera nel 2011. E non è stato per il bene dell’Italia. In quell’anno ero il presidente dei ministri del Tesoro del Ppe, la stragrande maggioranza. Il colpo non è venuto dall’Europa, ma dai “patrioti” italiani. È così, con la chiamata dello straniero, che arrivammo al governo Monti».

C’è da temere che l’Europa consenta sempre meno margini di autonomia alle nazioni come mostra il caso polacco?

«Dopo una lunga fase di errori, l’Europa si è messa dal lato giusto della storia fronteggiando con gli Eurobond la gestione della pandemia. Se posso, gli Eurobond sono stati una proposta italiana fatta nel 2003 e poi ancora nel 2010».

Qual è il lato giusto della storia?

«Gli Stati uniti d’America ci hanno messo due secoli, con in mezzo una tragica guerra, per arrivare a uno Stato federale. L’Europa ha solo 70 anni e può evolvere verso una unione federale solo passando attraverso una crescente confederazione degli Stati nazionali. Questo è nei Trattati europei che, diretti verso l’Unione, presuppongono ancora le identità e le costituzioni nazionali. Nella cerimonia per il cambio ai vertici della Bce nel 2019 i politici stavano in platea ad applaudire estasiati. Avrebbe visto Helmut Kohl, Charles de Gaulle, Francesco Cossiga, Alcide De Gasperi, Robert Schuman fare altrettanto? Il futuro per un’Europa politica è nella politica e non nella finanza».

 

 La Verità, 8 gennaio 20221

 

«Forza Italia impedirà che la destra sia legittimata»

No, Marco Tarchi, docente a Scienze politiche a Firenze, ideologo della Nuova destra vicino ad Alan de Benoist, non si è convertito al cellulare e ancor meno ai social network. Le conversazioni con lui avvengono per iscritto e sanno di pensatoio. Di riflessione lontana dalla schiuma mediatica. Lo abbiamo interpellato sulle ultime novità nello scacchiere italiano, in particolare nell’area del centrodestra e in vista della partita del Quirinale.

Professor Tarchi, che cosa pensa del fatto che alla recente convention di Fratelli d’Italia siano sfilati tutti i leader dell’arco costituzionale, da Giuseppe Conte a Enrico Letta fino a Matteo Renzi?

«È il riconoscimento del ruolo centrale che, grazie alla forte crescita dei consensi, il partito ha assunto all’interno del centrodestra, e di conseguenza nel sistema politico italiano. Un dato che nessuno può più ignorare».

Fino a ieri a Giorgia Meloni veniva chiesto di prendere le distanze dal fascismo e da gruppi come Forza nuova. Queste partecipazioni mostrano che è la pregiudiziale è caduta?

«Solo apparentemente. Quando si presenteranno occasioni di contrasto su temi importanti, l’accusa di criptofascismo verrà rispolverata da ambienti di centrosinistra. Del resto, questo compito continuano a svolgerlo, in tv, giornalisti e commentatori schierati su posizioni di sinistra radicale, che al momento opportuno torneranno utili anche al Pd».

Che eredità lasciano incontri apparentemente cordiali rapidamente contraddetti da prese di posizioni successive?

«Nessuna. Sono aspetti tattici di strategie che la politica conosce da sempre. Si dialoga pacatamente con l’avversario quando si ritiene conveniente esibire un volto moderato, salvo poi derubricarlo a nemico e attaccarlo duramente nelle situazioni in cui si vuole convincere l’elettorato dei “pericoli” che esso rappresenta».

Come valuta le critiche di Roberto Saviano che ha accusato la Meloni di usurpare la figura di Atreju, personaggio della Storia infinita di Michael Ende?

«È storia vecchia: riecheggia polemiche che si trascinano da quasi mezzo secolo sul diritto o meno dei giovani missini degli anni Settanta-Ottanta di sentirsi vicini alla visione che ispirava le opere di Tolkien, a partire dal Signore degli anelli. Accusarsi reciprocamente di appropriazioni indebite è un vezzo ideologico, nient’altro. Ben più preoccupante è l’apologia dell’odio per i “nemici politici” che Saviano ha recitato nella stessa occasione. Sembra di essere ritornati alla stagione che produsse l’orribile slogan “Uccidere un fascista non è un reato”, con le ben note conseguenze di quelle parole. Se a pronunciare quelle frasi fosse stato un esponente della destra, dal Quirinale fino alle piazze imperverserebbero le proteste più vigorose. Invece, tutto tace».

Esiste ed è credibile la svolta conservatrice di Fratelli d’Italia?

«Parzialmente. Molto più evidente, nel discorso di Giorgia Meloni e del suo partito, è il richiamo ad un nazionalismo che, pur declinato con la prudente etichetta di patriottismo, rischia di apparire – ed essere – anacronistico. La polemica antifrancese ne è un esempio. È difficile, poi, capire come questa visione possa sposarsi all’atlantismo e all’occidentalismo di cui Fdi si fa sempre più insistentemente alfiere. Può spiegarlo, ma non giustificarlo, solo il rapporto di collaborazione che il gruppo conservatore europeo che la Meloni presiede ha con i repubblicani statunitensi».

Che spazio c’è in positivo nel nostro Paese per una destra conservatrice che il più delle volte viene connotata solo in negativo come non sovranista e non populista?

«Ce ne sarebbe se quella destra scegliesse come suo obiettivo polemico principale quell’egemonia del politicamente corretto che si è abbattuta sul panorama culturale del cosiddetto Occidente e mette a repentaglio – come giustamente da più parti si sta facendo notare a cominciare, in Italia, dalle recenti critiche di Luca Ricolfi – la libertà di ricerca scientifica, di insegnamento e, ormai, anche di pensiero. Contrapporre, in questo campo, il conservatorismo al progressismo, con solidi argomenti e non solo con slogan, significherebbe anche dar voce a preoccupazioni diffuse negli strati popolari della società, dove mode intellettuali made in Usa come la teoria della fluidità di genere, l’attacco al presunto “privilegio bianco”, il separatismo etnico e così via sono tuttora viste come assurdità».

Giorgia Meloni è presidente del gruppo europeo conservatori e riformisti (Ecr) che risulta più moderato di quello cui aderisce Matteo Salvini. Questa contraddizione è risolvibile?

«È difficile dirlo, anche se in questa fase sia Fratelli d’Italia che la Lega sembrano prendere le distanze da quella mentalità populista che aveva fatto il successo del progetto di Salvini e che avrebbe potuto essere il terreno d’incontro dei due partiti. Convergere su temi più moderati li potrebbe però penalizzare, e non poco, dal punto di vista elettorale, specialmente se, una volta esaurita la pandemia, se ne dovranno pagare i costi economici e sociali».

Perché ritiene che sarà Silvio Berlusconi più ancora della sinistra a frenare il processo di legittimazione istituzionale di Meloni e Salvini?

«Perché Berlusconi non perdonerà mai né all’una né all’altro di averlo spodestato da quel ruolo di eterna leadership del centrodestra cui si riteneva predestinato. E anche perché, nel fondo, il presidente di Forza Italia non è e non è mai stato un uomo di destra. Lo ha rivendicato a più riprese, dicendosi sturziano e degasperiano».

Che cosa vuol dire esattamente che il nuovo capo dello Stato dev’essere un patriota?

«Mi pare una formula di comodo, un po’ improvvisata, e neanche troppo comprensibile per la pubblica opinione».

Patria è considerato un termine divisivo perché caro alla destra, in realtà dovrebbe essere inclusivo e richiamare un patrimonio comune?

«Le parole si trascinano dietro i significati che a esse vengono attribuiti in certi periodi. Il fascismo ha usato e abusato di questo termine, cercando di attribuirsene il monopolio, e le destre oggi ne pagano lo scotto. Non da oggi, la sinistra preferisce sostituirlo con “nazione”».

Per fissare subito dei paletti, Enrico Letta ha chiesto che il nuovo capo dello Stato sia europeista. I due elementi sono in contraddizione?

«Per come Giorgia Meloni aveva posto la questione, con l’attacco a Macron e alla Francia, sì. Letta sa che i rapporti con l’Unione europea sono una delle questioni che più chiaramente segnano, agli occhi dell’elettorato, la distinzione con il campo avverso, molto meno percettibile su altri terreni, e gioca su questo aspetto».

Quanto dobbiamo stare sereni se l’Europa a cui ci si richiama è quella che in nome dell’inclusività vorrebbe cancellare il Natale e i nomi della tradizione cristiana?

«Il problema è serio, e richiama in causa la questione del politicamente corretto, e quelle connesse dei pericoli della crescita dei caratteri multiculturali e multietnici delle società occidentali. Non è un caso che in Francia sia questo problema ad aver gonfiato le vele della candidatura alla presidenza dell’outsider Eric Zemmour».

Quanto è importante il pronunciamento di papa Francesco che ha sottolineato la necessità di salvaguardare le radici delle nazioni e messo in guardia dal dominio di entità sovranazionali?

«Non molto, visto che sono proprio quelle entità a promuovere fenomeni come l’immigrazione di massa extraeuropea, che il Papa instancabilmente difende dalle accuse dei suoi critici. È difficile salvaguardare le radici delle nazioni quando si contribuisce ad accrescerne l’eterogeneità sotto il profilo culturale e dei modi di vita».

Crede che il centrodestra riuscirà a essere determinante nella partita del Quirinale?

«Considerando l’insipienza strategica di cui i suoi leader hanno dato prova in passato, c’è da dubitarne».

Ha fatto bene Salvini a sollecitare per primo i leader di partito?

«È un modo come un altro per riguadagnare centralità mediatica, ma dubito che la mossa abbia effetti pratici. E difatti è già stata respinta al mittente».

Ritiene anche lei che la proroga dello stato di emergenza nasconda il tentativo di precludere a Mario Draghi la salita sul Colle più alto?

«Può essere, ma se l’interessato vorrà davvero raggiungere quel traguardo, non credo che questo sia un ostacolo insormontabile».

La candidatura di Berlusconi è davvero praticabile o rischia di riportare il Paese al clima di un decennio fa?

«Tutto può accadere, ma l’evento mi pare improbabile, e tutt’al più può risolversi in una sorta di omaggio formale degli alleati alla sua figura istituzionale».

Dopo il dibattito sul ddl Zan, ora il Pd sta alimentando il processo per l’approvazione della legge sull’eutanasia. Che scopo hanno queste campagne in questo momento politico?

«Attrarre le componenti più a sinistra dell’ipotizzato campo largo della coalizione anti destre, che nel recente passato hanno criticato duramente la svolta moderata del Pd, con Renzi e dopo. Ma non sarà un’impresa facile».

Al centro vede un’intesa possibile tra Forza Italia, Carlo Calenda, Italia Viva, Coraggio Italia e Noi con l’Italia?

«Possibile lo è certamente, ma perché si verifichi occorrerebbero circostanze adeguate, come un equilibrio, nei sondaggi pre-elettorali, del peso numerico delle due coalizioni maggiori, per tentare di fare da ago della bilancia».

Pensa che terminata l’esperienza del governo Draghi, se alle elezioni dovesse vincere il centrodestra sarà pronto per guidare il Paese? E i poteri forti glielo consentiranno?

«Se l’elettorato dovesse esprimersi nettamente a favore del centrodestra, le alchimie istituzionali per impedirgli di governare avrebbero poche possibilità di successo. A meno che il fuoco di sbarramento non provenisse dall’interno della coalizione. E questa è un’eventualità tutt’altro che peregrina: Forza Italia e centristi sono mine vaganti».

La pandemia come ha modificato lo scenario politico italiano?

«Lo ha ingessato, grazie al clima emergenziale e allo sfruttamento che ne è stato fatto, ma non ne ha cambiato i connotati. Quando la nevrosi da virus si attenuerà, ce ne renderemo conto».

Pensa anche lei che rischiamo di diventare un Paese in parte autistico?

«Il rischio c’è, visto il clima psicologico degli ultimi due anni».

 

La Verità, 18 dicembre 2021