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«Tv e giornali sono pieni di tronisti della letteratura»

Uno scrittore selvatico. Un autore che sceglie il margine. Solitario, fiero, iconoclasta. Posseduto da una furia lucida e distruttiva. Contro la religione e tutte le chiese, compresa quella dell’editoria e dei salotti letterari. La politica l’ha abbandonata svariati decenni fa. La televisione la evita. La tecnologia e i social li usa il meno possibile. Originario del Polesine, vive a Desenzano del Garda, dov’è stato a lungo bibliotecario comunale (quella biblioteca affacciata sul lago è un posto eletto). I suoi libri sono sassate, gorghi neri, storie di perversioni ordite in una cornice grottesca che svela una satira mostruosa e amara. Sto parlando di Francesco Permunian: «Ho compiuto 70 anni e non devo fare alcun esercizio di paraculaggine perché non appartengo ai tre ambiti che sostengono la produzione letteraria in Italia».

Quali sono?

«Le università, le scuole di scrittura e i media. L’emblema di queste sinergie era Umberto Eco. Anni fa Ferdinando Camon, che gentilmente aveva presentato un mio libro, mi disse che per imporsi serve un buon editore e la collaborazione con un giornale. Invece il mio istinto mi porta a starmene fuori dalla pista del circo. Se entro anch’io nella pista non posso più scrutare le maschere. Poi c’è l’orgoglio di chi è nato in un paesino tra l’Adige e il Po nel 1951, anno della grande alluvione».

Come si esprime questo orgoglio?

«Se riuscirò ad affermarmi lo farò solo per il valore della mia scrittura, della mia qualità letteraria. Questa è stata la sfida di tutta la mia vita. In un diario di Valentino Zeichen, il poeta muto della Grande bellezza di Paolo Sorrentino, ho trovato questa riflessione: “In una società come l’attuale, dove tutti hanno ambizioni letterarie, che centuplica di anno in anno gli autori, la probabilità di venire letti in un futuro prossimo è pressoché nulla. Poiché il mercato suddivide la notorietà passeggera fra tanti autori, interscambiabili, è preferibile che l’eccezione non si manifesti per non essere d’intralcio”».

Cosa voleva dire?

«Zeichen viveva orgogliosamente al margine, come uno spatriato nella patria delle belle lettere. E non si manifestava per non essere d’intralcio all’andazzo letterario generale».

Il suo ultimo libro, Giorni di collera e di annientamento, pubblicato da Ponte alle grazie, è un anti-romanzo?

«È un romanzo che disobbedisce alle regole delle scuole di scrittura oggi tanto in voga: quindi, sì. Non è un ovetto confezionato secondo i loro dettami da manuale scolastico. Non è il frutto di una ferita di plastica e senza sangue, anche se tecnicamente perfetta».

Dove nasce la sua furia contro il mondo dell’editoria e la religione bislacca?

«La storia inizia e finisce con le anguane, figure palustri mostruose della mitologia. Le immaginavo nella grande palude in cui si era trasformato il Polesine dopo l’alluvione. Appartengono a quel sacco amniotico adolescenziale che mi ha influenzato psichicamente prima che letterariamente. Queste anguane, silenti nel percorso del libro, rispuntano per partecipare al sabba finale. Dalla palude del Polesine a quella dell’editoria, anch’essa popolata di mostriciattoli, il passo è breve».

E la religione?

«È l’altro bersaglio. Tuttavia, in questo libro nichilista dalla prima all’ultima pagina, c’è un barlume, un chiarore antelucano che il protagonista intravvede in lontananza, scrutando la Strada dei crocefissi che i pellegrini percorrevano a piedi nel secolo scorso. Come fece David Herbert Lawrence con la sua compagna prima di fermarsi sul Garda ad abbozzare L’amante di Lady Chatterley. È la mia idea giansenista di religione, pura e lontana dal potere clericale. Altrettanto, vorrei la letteratura immune dalla corruzione dell’editoria».

Il protagonista del libro, un crooner di provincia che vorrebbe diventare il nuovo Fred Bongusto, vince il Premio Strega cui lo iscrive il suo manager. Cosa vuole esprimere con questo corto circuito?

«La casualità e l’arbitrarietà dei premi. Roberto Vecchioni fa parte della giuria del Campiello, Walter Veltroni ne è il presidente. È l’esempio plateale di come la letteratura sia ridotta a mondanità e marketing editoriale».

Da dove ha tratto la storia di don Fifì che rinuncia alla carriera canora dopo aver vinto il premio Strega?

«Eravamo al Castello Sforzesco per la presentazione di La terra della prosa – Narratori italiani degli anni zero di Andrea Cortellessa. Con me c’era Eugenio Baroncelli, un autore molto apprezzato che pubblica da Sellerio, che m’invitò a Ravenna. Dove scoprii che era un cantante di un gruppo rock. È lui, in un certo senso, ad aver ispirato la figura del mio protagonista».

Le scuole di scrittura sono posti così meschini?

«Sono centinaia in Italia. Anche a causa dei bassi compensi dei giornali, ho diversi amici che ci lavorano per arrotondare. Non ne possono più, loro per primi vedono che è inutile. Non si diventa scrittori perché ti danno il diploma della scuola. La voce per cantare o ce l’hai o non ce l’hai. Pietro Citati diceva che la grande scrittura non si insegna, tuttalpiù si può insegnare a scrivere decorosamente».

Sbertuccia i vincitori dello Strega che diventano pastonisti dei grandi quotidiani.

«Sono la maggior parte, devono mantenere visibilità. Se lo sai gestire bene lo Strega è un’assicurazione sulla vita. Come lo Zecchino d’oro o il Festival di Sanremo».

Un editor che va a Predappio sul sidecar di fabbricazione teutonica di una naziprostituta è il peggior sberleffo alla letteratura da talk show della domenica sera?

«È una presa per il culo che manda a ramengo tutta l’intellighenzia radical chic. Io prendo in giro il potere, la politica e la religione, salvo solo la scrittura. Non mi ammorbidiscono né i salotti della sinistra né quelli che sono contro i salotti della sinistra».

Però non tutti i vincitori dello Strega sono malvagi, Emanuele Trevi elogia la sua scrittura nella fascetta promozionale del romanzo: è una contraddizione?

«No, assolutamente. Il suo apprezzamento non ha a che fare con lo Strega vinto nel 2021, Trevi è un estimatore della mia scrittura da 20 anni. Fu il primo a lodare Cronaca di un servo felice, il mio primo romanzo rifiutato da una trentina di editori. In caso di ripubblicazione si è detto pronto a scriverci un saggio».

Cosa intende per librificio?

«È la produzione sfrenata di romanzi e romanzetti. E un romanzificio, soprattutto. Le piccole editrici sono con le spalle al muro e quindi investono sulla quantità. Chi resta a galla dopo due o tre settimane viene ripubblicato, gli altri scompaiono. Vellicando il narcisismo imperante, le scuole di scrittura hanno trasformato l’editoria in un reality di massa. Come i telespettatori i lettori non vogliono più fare il pubblico, ma salire sul palco come avviene nei reality».

Che cosa pensa delle classifiche di vendita?

«Alberto Arbasino diceva che valutare la letteratura in base alle classifiche è come valutare i ristoranti in base al numero dei coperti. Vincerebbe sempre un Motel Agip dell’autostrada».

Sono farcite di volti tv e di autori del giornalismo militante?

«È il trionfo del fazismo di massa, di cui i tronisti della letteratura sono i corifei. È la società di massa delle lettere».

Un dispositivo indistruttibile?

«Gli editori non sono benefattori, ma imprenditori che devono far quadrare i conti. È inutile arrabbiarsi. Se incassano con i libri di cantanti calciatori e giocolieri, poi magari riescono a pubblicare qualche buon romanzo. Ma non tutti sono Roberto Calasso o Elvira Sellerio che combinavano la qualità con il bilancio».

Mischiando devozioni e perversioni la sua farsa tocca i vertici del grottesco?

«Se guardiamo agli scandali degli ultimi anni, non mi pare di aver inventato nulla. La Chiesa è devastata dalla pedofilia ed è un miracolo che Cristo riesca ancora a tenere in piedi la cattedra di San Pietro. Poi c’è una cosa più sottile: l’ipocrisia del perbenismo cattolico, il quieto vivere piccolo borghese che riduce il messaggio a pratica devozionale. È difficile da smascherare. Io osservo da fuori anche questo spettacolo, forse il più bello e potente, una macchina di potere, preghiere e grida infernali».

Preti stravaganti, prostitute naziste, dentisti sposati con bambole di plastica: è così infernale la provincia?

«È la mia percezione. Rendo tutto paradossale e parodistico per far deflagrare quei personaggi, che altrimenti diventerebbero macchiette».

Non rischiano di esserlo già?

«Il prossimo lavoro sarà intitolato I demoni beati, da una frase di Gottfried Benn, contenuta nel suo saggio Invecchiare come problema per artisti. E sarà ancora peggio! Alzando al massimo il voltaggio rischi infatti di stonare, ma è un rischio da correre».

Nella sua opera, si sente in sottofondo una risata mostruosa e disperata.

«Onestamente è così. Il nichilismo passa per la lotta con il demone, per la paura d’impazzire. Sono le ossessioni con cui devo fare i conti. Uso la scrittura come terapia. Perciò la mia è una letteratura di sopravvivenza, di vita e di morte».

Per l’uomo contemporaneo la salvezza viene dalla tecnologia e dalla finanza.

«Sono cose estranee al mio mondo. Ho altre ossessioni, leggo poesie e diari. La tecnologia e i social li frequento il minimo indispensabile, con l’aiuto di mia figlia. Resto nel sacco amniotico della mia provincia».

Dal quale evade con internet.

«Certo. Oggi, per esempio, ho saputo che nel 2023 l’editore Francisco Magallanes di Buenos Aires pubblicherà il mio libro».

 

La Verità, 6 novembre 2021

Così hanno boicottato il film sui radical chic

Quante doppie vite hanno gli intellettuali francesi, il demi-monde letterario e cinematografico in particolare. Tante, come quelle dei loro gemelli italiani, scrittori e artisti engagés (tutto il mondo è paese). E quanti diversi piani di lettura ha Double vies – Non fiction, film di Olivier Assayas presentato ed elogiato all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Un film che avrebbe meritato sorte molto migliore di una programmazione silente e ultra residuale. Invece, di doppia vita, e di angolazione di ripresa, ne è stata colta solo una. Così, quest’opera sull’editoria, gli scrittori e la tv – in pratica, su un certo fazismo d’Oltralpe – scritta e diretta da un regista da festival nonché figlio d’arte, uno che dice che «fare cinema significa ascoltare le proprie budella», ecco, un’opera come questa è stata intitolata Il gioco delle coppie; proprio così. Finendo inevitabilmente nella disambiguazione di Wikipedia con lo storico programma televisivo, condotto negli anni da Marco Predolin e Corrado Tedeschi.

Se la furbata del titolo doveva servire ad attrarre il pubblico, il risultato è più che sconfortante. Poche decine di migliaia di euro sono l’incasso del primo weekend di programmazione. Così le domande vengono al pettine. Il titolo piatto e fuorviante è, infatti, solo la prima delle riduzioni cui è stato sottoposto Double vies. La seconda concerne la distribuzione (I Wonder cinema) in sole 12 sale (ora salite a 29, sempre poche) in tutto il territorio nazionale. Anzi, per la verità nel territorio del centro nord, essendo che da Roma in giù non se ne ha notizia. Infine, terzo e ultimo colpo di grazia sulla visibilità, l’uscita dilazionata in due tempi, una prima parte il 27 dicembre e una seconda il 3 gennaio 2019. Spiazzando giornali e tv con il risultato di poche recensioni e zero promozione. Non che le cose sarebbero cambiate granché. L’overdose di filmoni natalizi spinti dalle corazzate avrebbe comunque schiacciato un film d’essai. Ma perché programmarlo in questo periodo e non scegliere un tempo meno congestionato e più propizio? Perché acquistarlo se poi non lo si promuove adeguatamente? Sciatteria? Volontà di affossare una pellicola dissonante? Misteri del sistema cinematografico nostrano. A ben vedere, un mondo non molto diverso da quello raffinato e snob descritto in Double vies.

Le doppie vite sono tante, si diceva. Quelle dei protagonisti, innanzitutto. Editori, scrittori, attrici, ognuno con l’amante segreto o con qualche progetto più o meno confessabile. Poi quella dei libri, che con la rivoluzione digitale incombente si stanno sdoppiando in e-book e in audiolibri narrati da qualche star del cinema. È il tema centrale, la trama principale che alimenta i dialoghi nelle case, nei bistrot, nelle cene informali seduti in poltrona e non a tavola come si usa, tra il fascinoso editore Alain (Guillame Canet), lo scrittore narciso Léonard (Vincent Macaigne), l’attrice di serie tv e moglie dell’editore Selena (Juliette Binoche), e Valerie (Nora Hamzawi), la compagna dello scrittore nonché assistente di un politico emergente. Qui gli interrogativi sono elementari. Resisteranno i libri su carta o la letteratura e la saggistica saranno «dematerializzate» online? Fra l’editore geloso della tradizione e del feticismo libresco e la sviluppatrice digitale di vent’anni più giovane che crede nel futuro radioso della Rete il dibattito si accende appena usciti dalle lenzuola. Ma in fondo è quasi pretestuoso della cosa che sta davvero a cuore ad Assayas: l’ipocrisia che serpeggia tra gli intellettuali e nei salotti di cui sopra, intrisi di bon ton e frustrazioni. Ai quali il regista stesso appartiene, motivo per cui bisogna essergli ancor più grati per la riflessione con autodenuncia incorporata. È un’ipocrisia diffusa e radicata, che si mimetizza nell’autocommiserazione degli artisti incompresi (il mondo è ancora paese). Nel narcisismo delle presunte scelte antisistema e da splendido isolamento che poi splendido non è affatto. Nel sottoscala dei messaggi cancellati o spiati di whatsapp. Anche questa è doppia vita: quella vera è solo apparente e convenzionale e ci pensano le chat a smascherarla. Ecco perché Double vies è stato presentato come la risposta francese al molto più fortunato precursore Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, che però di tutti noi parlava.

Qui invece siamo nei circoli letterari e il vero protagonista è uno scrittore bambinone e opportunista che si vende come ribelle irriducibile, ma insegue la pubblicazione dall’editore potente (il mondo è sempre paese). E che nei libri camuffa appena le sue acrobazie erotico-sentimentali. Cosicché, con poco sforzo, amanti e compagne si riconoscono, e allora qui il gioco delle coppie ci sta alla grande. In fondo, è diverso «avere una storia» dallo «stare insieme». Come è diversa l’ipocrisia dall’«implicito», il sapere del tradimento ma conviverci senza smascherarlo o raccontarlo in giro. Distinzioni trasparenti che duplicano la stessa materia. Come quelle tra «romanzo» e «autobiografia romanzata», utili a puntellare la superiorità morale di un certo milieu. Assayas merita dunque gratitudine per la perfidia con cui racconta questi interpreti della gauche caviar in cammino verso il 2.0. I quali, se vanno anche loro a vedere Star Wars – Il risveglio della forza, preferiscono scrivere nei loro libri che era Il nastro bianco di Michael Haneke, che fa più chic.

Sembra un dettaglio. Invece c’è dentro tutta la storia. E chissà, forse anche il fatto che un film così sia rimasto ai margini. Per sciatteria e ottusità o per qualche altro curioso motivo?

 

La Verità, 3 gennaio 2019