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«La bellezza è visibile anche da chi non vede»

Vincenzo Mollica è un gigante con l’innocenza di un bambino. Con lui e sua moglie Rosa Maria, anche lei persona speciale, ho trascorso una bellissima mattinata nella loro casa in Val Seriana. Una casa immersa nel verde e allietata dal cinguettio degli uccelli. Non conoscevo Vincenzo, storico inviato di spettacoli del Tg1, premiato con il David di Donatello alla carriera. Ma dopo qualche telefonata ha accettato di soddisfare questa curiosità: cieco a causa di un grave glaucoma e affetto dal morbo di Parkinson – «du fiji de ’na mignotta» -, rimane sereno perché è buono come il pane o perché lo aiuta qualcos’altro? Oltre l’impossibilità di vedere, la fede gli dona un altro tipo di sguardo? «Non ho mai raccontato pubblicamente queste cose, ma stavolta lo faccio perché Cesare G. Romana, illustre collega del Giornale, mi aveva parlato di te», confida. A mia volta io ricordo quando, mentre si lavorava a una trasmissione televisiva, Claudia Mori e Adriano Celentano si gasavano: «Adesso dobbiamo chiamare Vincenzo». Una manciata d’anni dopo, eccomi a dialogare con lui di giornalismo, grandi artisti e bellezza.
Quali sono i segreti della tua carriera?
«La fatica, la curiosità e la passione. Il quarto segreto è l’idea di servizio pubblico imparata da Emilio Rossi, direttore del Tg1, e dal suo vice, Nuccio Fava. Per questo non ho mai cambiato casacca e sono sempre rimasto nella redazione cultura e spettacoli che ho contribuito a fondare con Gianni Raviele sotto la direzione di Albino Longhi».
Qual è stata la tua maggiore soddisfazione professionale?
«Sono state tante. Ho avuto la possibilità di essere testimone degli Oscar alla carriera di Federico Fellini e di Michelangelo Antonioni e degli Oscar a Roberto Benigni per La vita è bella. Ho potuto frequentare tanti artisti».
Ci sono gli amici nel mondo dello spettacolo?
«Ci sono come in tutte le situazioni della vita. Ho la fortuna di averne tanti e di continuare ad averne anche se non faccio più il mio lavoro. Lo sono stati Fellini, Hugo Pratt, Andrea Pazienza, Alda Merini, Franco Battiato, Daniele Del Giudice, Vincenzo Cerami. Lo sono Rosario Fiorello, Renato Zero, Paolo Conte, Francesco De Gregori, Milo Manara, Adriano Celentano. Persone con cui ho condiviso 40 anni di vita. Mina è un’altra persona cara, ho curato la raccolta di dvd sui suoi anni alla Rai».
Chi è il cronista, come ti definisci orgogliosamente?
«È un cercatore di storie, gli artisti hanno tante qualità da far conoscere. Come cronisti abbiamo il compito di trovare persone che riescono ad allargare il nostro sguardo sulla vita. Per me le opere d’arte non sono accessorie, ma sostanza. Se non avessi letto certi libri, visto certi film, ascoltato certe canzoni non sarei quello che sono oggi. A 71 anni ho ancora voglia di cercare e Mister Parkinson e Signora Cecità mi aiutano a farlo».
In che modo?
«Mi danno la voglia di capire ciò che mi sta succedendo, mi spronano a cercare l’essenza della vita. Quando hai due compagni così senti tutto in modo diverso, dai profumi dei fiori al canto degli uccelli. Il sapore del creato. A volte ci si sente abbandonati, altre volte si è contenti di sperimentare ciò che ci regala l’avventura umana».
Perché ti piace fare le interviste?
«Vinicius de Moraes diceva: “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”. Così ho capito che durante le interviste la cosa più importante è ascoltare. Non ho mai usato le domande per esaltare il mio narcisismo e mostrarmi più colto di chi mi risponde. Solo così puoi trasmettere le informazioni e le emozioni di quell’incontro».
Ci vuole curiosità per le persone, per il mistero dell’uomo.
«Una volta Fellini mi disse che era la curiosità a farlo alzare la mattina. La curiosità alimenta la nostra vita. In particolare, le cose che ami, quelle che la condensano meglio. Come l’arte».
Ciò che conta è lo stupore?
«La vita ci sorprende continuamente. Viviamo momenti di dolore, di allegria, di solidarietà, di generosità. E tutto è concentrato in queste quattro lettere. Per spiegare la vita ci vorrebbe una biblioteca sconfinata. Ma anche se ci avviciniamo alla sua realtà non riusciamo ad afferrarla perché è irriducibile a una formula matematica».
Qual è l’incontro che ti ha dato di più?
«Quello con Federico Fellini. Quando uscivi con lui non sapevi mai a che ora saresti tornato a casa, ma sapevi che ci saresti tornato meglio di come eri uscito. Con la mia Uno rossa, di notte, ci perdevamo per Roma. Spesso voleva passare per piazza San Pietro, vedere il colonnato, assaporare la spiritualità che emanavano quei luoghi. Andavamo al ristorante a mangiare cibi semplici, ma lui riusciva a farti percepire la solita cosa in modo nuovo. “L’unico vero realista è il visionario”, diceva. Oppure, citando Leopardi: “Nulla si sa, tutto si immagina”. Me lo disse quand’ero vedente e ora questa frase continua a echeggiare nella mia testa».
Cos’hai pensato quando da bambino hai appreso che saresti diventato cieco?
«Sono felice di averlo saputo a 8 anni. Mia mamma si era accorta che dall’occhio sinistro non vedevo. Mi portarono da un oculista a Locri e dopo la visita mi pregarono di uscire dalla stanza. Ma la porta rimase socchiusa e gli sentii dire che sarei diventato cieco. Tornando a casa non ho cercato di capire cosa volesse dire, ma se coprivo l’occhio destro con la mano, non vedevo più nulla. Un oculista di Messina che mi visitava ogni sei mesi mi tranquillizzò: se avverrà, sarà da adulto, ma potrebbe anche non avvenire. Invece, è avvenuto».
Come ti sei preparato?
«Cercando di memorizzare quello che vedevo. Camminando, localizzavo la posizione delle pietre. Quando andavo al Festival di Cannes o alla Mostra di Venezia imparavo i percorsi a memoria. Avrei già potuto muovermi a occhi chiusi. Imparavo anche i libri e i fumetti che leggevo. Una volta chiesi ad Andrea Camilleri, anche lui colpito dal glaucoma, se esisteva l’arte di non vedere. Mi disse: “Vincenzino, non dimenticare mai la tavolozza dei colori che hai nella testa”. E mi raccontò che di notte faceva un esercizio particolare, proiettando mentalmente i quadri e le scene dei film che aveva amato, e che gli apparivano più vividi di come li aveva visti la prima volta: “Con il cervello, puoi trasformare il buio in un grande schermo”. Come in un fumetto».
Che cosa ti aiuta a non perdere la serenità?
«Ci sono persone che sono entrate in depressione. Io non ne ho mai sofferto, ho accettato questi due malanni che mi sono capitati. Ho la fortuna di avere un carattere paziente e ironico. Poi ci sono Rosa Maria, mia moglie, e Caterina, mia figlia, che mi accompagnano con pazienza e dolcezza».
Oltre a godere della loro vista, che cosa ti manca in particolare?
«Scrivere e disegnare a mano su fogli di carta. Non ho mai usato la tecnologia, pur essendo stato il primo giornalista Rai con un sito dedicato. Mi manca scarabocchiare sulla carta, le frasi che cancelli tornano buone per quello che scriverai dopo. Anche durante i collegamenti con il tg mi aiutavo con appunti su foglietti. E mi piaceva colorare…».
Sottolinei spesso che attingi al bicchiere mezzo pieno: che liquido contiene?
«Contiene il sostegno della mia famiglia e anche della fede. Sono credente. È un fatto intimo, personale. Considero la Bibbia un libro fondamentale e la figura di Gesù una fonte permanente di speranza».
Hai l’abitudine di pregare?
«Prego non per necessità o per chiedere qualcosa che vorrei mi accadesse. Ma per coltivare una dimensione spirituale che il tempo in cui viviamo ci induce a trascurare».
Ti aiuta a convivere con la tua condizione?
«Non c’è dubbio. Quassù, fino a qualche anno fa, c’era don Tarcisio, un sacerdote di grande delicatezza umana, con il quale facevo lunghe chiacchierate. Erano come momenti di preghiera. Sempre qui vicino c’è il santuario di Lantana, davanti a una vallata meravigliosa. Adesso, ogni tanto mi faccio accompagnare e con il trucco di imparare i paesaggi a memoria, rivedo tutto e mi viene voglia di pregare. E poi c’è un’altra cosa che mi piace. Giovannino Guareschi e il suo Peppone e don Camillo. Quel dialogo con Cristo in croce mi ha sempre affascinato. A volte leggevo qualche pagina del Breviario di don Camillo, pubblicato dalla Rizzoli».
La frase di Fellini sulla visionarietà del realista mi ha ricordato quello che dice la volpe nel Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry: «Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi».
«C’è qualcosa di molto vero, l’essenziale passa dal cuore e lo fa pulsare. Quando ero ragazzo e muovevo i primi passi, Celentano cantava Pregherò, la prima canzone che parla di una persona cieca: “Non devi odiare il sole perché tu non puoi vederlo, ma c’è”. Poi in Santa Lucia De Gregori canta “per tutti quelli che hanno occhi e un cuore che non basta agli occhi”».
Vuoi dire qualcosa, per finire?
«Sì. Mi diverte Mr. Magoo, un personaggio dei cartoni animati che non vede nulla eppure riesce a superare seraficamente situazioni complicatissime. Mi ha fatto capire che si può contemplare il bello anche da ciechi».

 

Il Timone, Luglio-Agosto 2024

Altro Oscar a Sorrentino? Magari anche no

Con tutto il rispetto, abbiamo già dato. Al cinema di Fellini, a Napule è di Pino Daniele, al calcio di Diego Armando Maradona. Con tutto il rispetto, Paolo Sorrentino ha già avuto: l’Oscar per il miglior film internazionale a La grande bellezza. Da allora abbiamo visto Youth, le serie sui papi, Loro in due parti. È stata la mano di Dio è un’opera più personale e intima, meno estetizzante e gigiona. Tra la «realtà scadente» di Fellini e la «creatività e la fantasia falsi miti» di Antonio Capuano, quale sia la scelta del regista partenopeo è chiaro dalla prima scena: una «giunonica» Luisa Ranieri sale sulla Rolls Royce di un distinto signore che si spaccia per San Gennaro. Stavolta però Sorrentino dosa i sogni perché c’è di mezzo la sua adolescenza, segnata dalla perdita dei genitori. Meglio sbizzarrirsi nel grottesco vesuviano, antipode immaginario di Gomorra. Se la realtà è scadente, meglio il cinema: così Fabietto diventa Fabio e vede pure ’o monaciello che porta bene.

È stata la mano di Dio rimarrà bello e riuscito anche senza Oscar. È entrato nella short list, può infilarsi nella cinquina. E, nonostante Scompartimento n. 6 e Il capo perfetto, può agguantare la statuetta, ribadendo il cliché dell’Italia «molto pittoresca» che piace non solo a Hollywood. Sorrentino sta nell’Olimpo, vicino a Roberto Mancini e Mario Draghi. Dissentire dal secondo Oscar è una sassata contro la vetrina. È non rassegnarsi all’ovvietà di Maradona miglior calciatore di sempre. Io gli ho sempre preferito Johan Cruijff. Portate pazienza.

 

Oggi, 30 dicembre 2021

Oggi mi ha chiesto di fare il controcanto a Paolo Mereghetti, critico cinematografico del Corriere della Sera, a proposito della candidatura di È stata la mano di Dio come miglior film internazionale.

 

«Assurda la cacciata di Spacey, reciterei con lui»

Buongiorno Carlo Verdone, cominciamo dalla buona notizia: come si sta con due anche nuove di titanio?

Mi sembra d’essere ringiovanito di trent’anni. Ricominciare a fare movimenti che avevi dimenticato è come guadagnare un pezzo di vita.

La notizia cattiva è che i cinema ancora non aprono.

E il fatto è fonte di grande apprensione e tristezza. Tutti noi del settore temiamo che il pubblico cambi atteggiamento. Le persone di mezza età che amavano la sala resteranno spettatori, ma i giovanissimi che già prima la frequentavano poco si abitueranno sempre più al display?

Si vive una volta sola, il suo ultimo film, aspetta da un anno.

Per amore della visione in sala io, il produttore e il distributore stiamo temporeggiando, ma è un ultimo tentativo. Se i cinema non riapriranno presto non potremo fermare l’uscita in piattaforma perché altrimenti il film invecchia.

Qualcuno ha già fatto questa scelta.

Lo credo bene, non tutti hanno la forza economica per resistere come Aurelio De Laurentiis e Vision distribution.

Lei accetta docile o un po’ s’incazza?

Credo che prima o poi arriverà il via libera degli esperti al 40% di spettatori. A meno che le nuove varianti del virus non complichino ancora la situazione.

Lei è un rigorista o un vitalista?

Una parte di me è rigorosa e molto ubbidiente. Un’altra parte vuole vivere, vedere, stupirsi, emozionarsi.

Con la sua esperienza in materia di salute, che cosa suggerirebbe per contrastare la pandemia?

Non ho idee in più, suggerirei di attenersi alle prescrizioni. Quest’anno ha visto traccia dell’influenza? No, perché abbiamo portato le mascherine. Nessuno tra le persone che conosco l’ha avuta, mentre cinque miei amici sono morti di Covid.

Il suggerimento è maggior disciplina e uso delle mascherine?

Appena viene proclamata la zona gialla le strade dello shopping si riempiono. Capisco la gioia dei negozianti, ma credo che ci vorrebbero più responsabilità e autocontrollo. Maggior disciplina significa meno morti. Ricordiamoci anche degli anziani, che sono una categoria fondamentale per la formazione dei giovani e per la memoria storica di una società.

Aspetta con ansia il vaccino?

Certo. Come arriva me lo faccio. Un’ora fa mi hanno avvertito della morte di un’altra mia amica.

Ha paura della morte?

No. Ho paura solo del dolore che posso lasciare nella mia famiglia e nelle persone alle quali voglio molto bene quando non ci sarò più.

I suoi figli?

Non ne parliamo, quando si affronta l’argomento si incupiscono e cambiano stanza. Il brutto della morte è vederla arrivare. Per noi è un interruttore che si spegne. Poi se uno è cattolico può trovare conforto e forza in qualche modo nella fede. Non ci sono alternative.

Lei è credente?

Certo. E lo sto diventando sempre di più negli anni. Non per paura, ma perché è un percorso lungo e complicato. La fede si trova, si perde, si ritrova. Mi ha dato ragione anche il Papa quando gli ho parlato.

Mi ha detto che i veri credenti sono quelli che la perdono, ma continuano a camminare in salita e poi magari la ritrovano con più forza. Mi ha detto di dubitare dei cattolici di professione.

Dopo La casa sopra i portici, dedicato all’abitazione paterna, Carlo Verdone torna in libreria con La carezza della memoria (Bompiani), sorta di viaggio nel passato sulla scorta del ricco baule di fotografie da riordinare che ci svela il lato malinconico del più poliedrico attore brillante italiano.

Perché l’ha intitolato La carezza della memoria?

Perché provo sollievo nel ricordo, pure in quelli dolenti. E anche nella nostalgia.

Cosa vuol dire quando scrive: «Sono un uomo che ha vissuto nello stupore continuo»?

Mio padre, grande educatore, mi ha educato allo stupore, al gusto del bello.

È questo stupore che le permette di raccontarsi liberamente?

Penso di sì, non ho ancora il cuore indurito. Spero di continuare a stupirmi come mio padre fino a 90 anni. Lo stupore deriva dalla curiosità, dalla voglia di stare con gli altri, di amare la gente.

Come mai uno che ha avuto il suo successo è ancora attraversato da trepidazioni e paure?

La cosa giusta l’ha detta mio fratello: «Hai scritto un libro di grande umiltà». Se si legge con attenzione ci si accorge che il protagonista non sono io, ma gli altri.

Cosa vuol dire essere un «pedinatore di italiani»?

Essere curioso delle persone. Riuscire a scovare, anche in quelle apparentemente più grigie, un dettaglio che le rende involontariamente comiche.

Il ritratto di Maria F. ha accenni poetici.

È stata una storia breve, struggente e impossibile. Era una prostituta. Nella mia vita non ho pianto molto e questo è un guaio. Quando ho scritto il suo capitolo ho dovuto nascondere la commozione anche a mio figlio.

La stupisce che Bruno Gambarotta, storico comico e dirigente Rai di Torino, e una terrorista abbiano indovinato il suo futuro di successo?

È una coincidenza sorprendente. Quella donna che incontrai sul treno e che mi fissava con occhi intelligenti raccontò pochissimo di lei. Io ero un perfetto sconosciuto. Quando scendemmo a Torino all’una e mezza di notte, mi disse: «Tu ce la farai». In seguito scoprii dai giornali che faceva parte di una banda armata. Chissà cosa aveva visto.

La stessa cosa che vide Gambarotta?

Avevo partecipato alla seconda stagione di Non stop, il programma fucina di comici del grande Enzo Trapani. Gambarotta mi convocò nel suo ufficio: «La prossima volta che verrai a Torino sarà in Mercedes». Non male come profezia.

Si è rivelata azzeccata.

Come mai, pur essendo popolato di gente coatta e bische, questo libro è venato di malinconia?

È la mia anima, c’è poco da fare. Qualcuno confonde la malinconia con la depressione, ma non c’entra niente. È una tonalità totalmente diversa, come si vede già in Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone. Meno male che ho questa malinconia, altrimenti farei film vuoti.

Un altro personaggio straordinario è Zdenek Digrin che, senza essere un fotografo, è stato suo maestro di fotografia?

Non direi.

Le disse di non fare fotografie «per soddisfare chi le vedrà. Sennò farà solo cartoline. Segua i suoi colori, le atmosfere della sua anima».

Era un grande intellettuale che incontrai nella Praga degli anni Settanta, un grande studioso di commedia dell’arte italiana e del teatro di Carlo Goldoni. Un uomo mite, di un candore assoluto, alto e con due occhiali da miope grossi così. Ma siccome aveva scritto qualcosa che non andava bene al regime, ha fatto tutta la vita il portiere di notte.

Qual è stato l’incontro che ha segnato maggiormente la sua carriera artistica?

Forse sono due. Il primo è stato Federico Fellini, che veniva spesso a cena a casa nostra. All’epoca seguivo le rassegne underground e le monografie dei cineclub. Quando lo ascoltavo dialogare con mio padre o rispondere a qualche mia timida domanda sui suoi primi film mi affascinava la mente del regista. Così continuai a frequentare assiduamente i cineclub.

Il secondo maestro?

È stato Sergio Leone. Fu lui a impormi di scrivere e dirigere Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone oltre a interpretarli. Sosteneva che nessun altro regista avrebbe potuto tradurre sullo schermo la mia comicità come avrei saputo farlo io. Leone fu più che un angelo custode, un demiurgo. Per sei mesi, prima di Un sacco bello mi teneva a casa sua dalle 10 di mattina alle 4 di notte per farmi lezioni di regia. Avevo pensato anche di trasferirmi in una delle sue dependance, non lo feci perché ero sposato da poco.

A parte Roma, dove le piacerebbe vivere?

A Torino. Negli anni Settanta era grigia, un posto di solitudini. Oggi ha un fermento e una grazia nuova. Anche Siena, la città di mio padre, mi piace. Una città medievale, con strade strette e angoli scuri. Sono città nelle quali mi trovo a mio agio, anche se non sono esattamente radiose.

Mi regala un pensiero sulla politica italiana?

Diversi anni fa a una cena da un amico chirurgo ebbi modo di conoscere Mario Draghi, allora al ministero del Tesoro. Mi fece subito l’impressione di una persona per bene. Una persona umile nonostante il curriculum. Quando mi capita di incontrarlo a Città della Pieve, constato che la semplicità si abbina alla preparazione. Non a caso ha frequentato la scuola dei gesuiti.

Ne parla come di un esempio assoluto.

Credo lo sia. Non ha interessi personali ed è colto. All’estero, durante la crisi, si mettevano le mani nei capelli. Lui è credibile. I politici italiani devono essere preparati, per questo bisogna amare gli studi. Vorrei una classe politica che non pensasse alle poltrone e fosse di esempio per la gente, che altrimenti può diventare indisciplinata, volgare, violenta.

L’ultimo libro che ha letto?

Conversazioni di Jorge Louis Borges. Sono lunghe interviste fatte per la radio argentina. Con Borges si spazia dalla letteratura antica a quella moderna alla poesia.

L’ultima scoperta musicale?

Ho scoperto Mark Lanegan, un cantante maledetto, un po’ funereo, ma con una bella energia e bei testi. E sto rivalutando Lana Del Rey, che ha un bravo arrangiatore e scrive testi complessi e intelligenti.

A che punto è la serie per Amazon prime?

Abbiamo finito la sceneggiatura e in maggio inizieremo a girare.

È una storia autobiografica?

Ci sono cose della mia vita quotidiana, qualche amicizia, qualche fisima. È una commedia brillante in dieci episodi.

Il nome di un attore con cui le piacerebbe lavorare?

Kevin Spacey. Trovo incredibile che un attore gigantesco come lui, a causa del bigottismo che l’ha colpito sia ai margini. Basterebbe leggere Hollywood babilonia per accorgersi che tanti hanno fatto le cose più turpi. Noi, che siamo un paese cattolico, abbiamo santificato Pasolini. Spacey faccia il suo percorso di pentimento e riabilitazione, ma non può finire nell’oblio.

Il politicamente corretto non ammette eccezioni.

E bisognerebbe piantarla. Le basi del politicamente corretto sono giuste. Ma non lo sono più quando diventano qualcosa di dogmatico, un’ipocrisia unica, un’aberrazione.

Che cosa fa ridere oggi Carlo Verdone?

Bella domanda. Non c’è molto da ridere… I mitomani, i megalomani sono sempre divertenti. L’altro giorno ero in fila con la mascherina in una di quelle drogherie chic… Spunta un tizio senza mascherina, salta la coda e inizia a sbraitare: «Credete ancora a ’ste cazzate… No ’o capite ch’è ’n complotto? Che ce stanno a perculà…». Risultato: ce ne siamo andati tutti, lui ha indossato la mascherina ed è entrato bello tranquillo. A volte genialità e cafoneria vanno in coppia.

 

Panorama, 17 febbraio 2021

 

 

«Ho bisogno di solitudine, ma voglio essere amato»

Una casa piena di libri e solitudine. Piena di amici che non ci sono più. Goffredo Parise, Giovanni Comisso, il cugino Pier Paolo Pasolini. Nico Naldini abita nella prima periferia di Treviso, dove si ritirò una quarantina d’anni fa per lavorare alla biografia di Comisso, abbandonando le luci di Cinecittà dopo la tragica morte di PPP e scegliendo di proposito le ombre della provincia letteraria.

Vive qui, in compagnia dei suoi 91 anni spericolati e della personalissima ricerca del tempo perduto, in bilico tra autoironia e amarezza. Questa solitudine incolmabile fa venire alla mente «il desiderio di essere amato» di Michel Houellebecq «e la riflessione» che non può «farci niente».

È pronto?

«Non voglio essere pronto».

Come sta Nico Naldini?

«È un argomento che non voglio affrontare. I miei amici sono tutti morti».

Novant’anni in questa casa, tre stanze e un piccolo giardino.

«In questa casa… uguale a tutte le altre case. A ogni anfratto, a ogni cloaca, a ogni caverna del mondo».

Chi è Nico Naldini?

«Non so chi è. Non facciamo diatribe, mi ripugna sapere chi è».

Un poeta, un artista, uno sceneggiatore, uno scrittore, un grande biografo?

«Posso essere classificato in tutti questi modi. Però l’unica mia vera ambizione è scrivere tre versi che siano tre. Come faceva il mio amico Sandro Penna».

La sua vera ambizione è la poesia?

«Non è un’ambizione, è uno stato esistenziale, il fondo di ogni atto e di ogni pensiero. Qualcosa che dovrebbe reagire e sentire che ce l’ha fatta».

Uno stato esistenziale profondo che ce l’ha fatta ad affiorare in versi?

«Non ogni stato esistenziale può essere rappresentato da tre versi».

È soddisfatto della sua produzione poetica?

«Neanche per idea, neanche per sogno. Ogni tanto mi sveglio di notte e dico a me stesso: che cazzate».

Turbe degli artisti sempre insoddisfatti?

«Sono categorie alle quali non appartengo».

 A pagina 125 di Il treno del buon appetito (Ronzani Editore, 2017) cita un’espressione di Pasolini a proposito delle sue poesie: «Quel Naldini che pare non osi nemmeno esistere». Che cosa intendeva dire?

«Era un’esagerazione, una cosa provocatoria. Pasolini l’ha detto dopo cinquant’anni che abbiamo vissuto insieme… Improvvisamente si era accorto che ero troppo timido? Lo diceva per polemizzare con altri poeti».

Era una provocazione affettuosa verso di lei?

«Più affettuosa di così. Pensando in quali bolge infernali mi ha fatto entrare era il minimo che doveva dire».

Bolge infernali?

«Le bolge infernali sono bolge infernali. C’è un grande poema che si occupa di loro».

È un po’ reticente, me ne descriva una o teme le vendette di qualche attore o regista?

«Si figuri se mi faccio intimidire dal mondo del cinema. La realtà è il contrario di ciò che diceva Pasolini con quella battuta. Ero io a seguire lui per proteggerlo piuttosto che lui proteggere me».

La sua è una vecchiaia proustiana come fanno intendere L’alfabeto degli amici (L’Ancora del Mediterraneo, 2004) e Il treno del buon appetito?

«Dati i miei novant’anni, la mia generazione non può non essere proustiana se vuol essere qualcosa di diverso dalla volgarità, dall’abitudine a credere che si possa cavarsela facilmente. Aggiungendo una parolina dopo l’altra, ecco, ho fatto tutto. Invece, poi, dalla lettura di Marcel Proust, che è un castigamatti della letteratura, si viene fuori tutti frustati a sangue».

Frustati a sangue?

«Sotto ogni cosa, qualsiasi essa sia, un etto di caramelle o un chilo di patate, uno può sprofondare e ricavare impressioni o dati di fatto. Questo è l’insegnamento di Proust».

È la sua capacità analitica?

«Più che questo, ogni sua frase ti assesta un pugno».

Perché è in gioco quello stato esistenziale, il mistero che abbiamo dentro?

«Perché questo mistero Proust lo sbatte fuori; motivo per cui bisogna leggerlo recitandolo».

Perché un libro come Il treno del buon appetito è rimasto di nicchia?

«A dire il vero è stato recentemente ripubblicato con mia soddisfazione. Comunque sì, non è certo un libro di grande diffusione… perché si scansa dalle soluzioni facili. Ma paradossalmente ne sceglie una ancora più facile, che ha dentro il mistero della sua nascita. Bisogna pensarci molto, perché ogni cosa che dici, anche “buonasera signore”, ha un suo contenuto. A volte ci si adagia su frasi fatte. Ma se io dico “buonasera signore”, può darsi che questa espressione contenga anche la sua contraddizione».

Scrive che non ha «mai appartenuto né al vittimismo né all’orgoglio omosessuale»: che cosa ne pensa?

«Per me l’omosessualità è stata forse soprattutto una facile uscita dalla guerra. Il vittimismo l’ho citato così. Anche la vanità omosessuale per me è incredibile. È qualcosa di spregevole, perché trasforma un problema serio e antico come il mondo in una modernità imbecille».

La messinscena un po’ carnevalesca dei gay pride?

«Massì, anche quel bresciano, Aldo Busi. Tanti hanno un gran successo, ma poi spariscono».

Ce ne fossero come Busi, con il suo travaglio…

«Forse dico cose inesatte a causa della mia ignoranza. Se vogliamo chiudere il discorso sull’omosessualità dobbiamo prendere in esame la produzione di Aldo Palazzeschi e naturalmente Sandro Penna. E anche se vogliamo chiudere il discorso su Proust: è nelle biografie di Giovanni Comisso, Filippo De Pisis, Penna e Pasolini che mi avvicino di più al mondo proustiano».

Che cos’è per lei scrivere?

«Che domanda… Scrivere qualcosa che non sia una lettera alla mia cameriera è il bisogno di raccontare qualcosa di sé stessi che non era noto, non era alla portata di chiunque. Rivelarlo, rivelandosi».

E riguardo a sé?

«È esattamente questo. Degli altri non m’importa niente, son felice se dicono: “Che bello…”. Ma in realtà non m’interessa».

La sua è una solitudine amara?

«È una solitudine nella quale precisare i termini della propria esistenza. Precisare i termini e le possibili fughe dall’esistenza».

È un’espressione un po’ inquietante.

«Siamo qua, mi prenda a schiaffi se vuole. La solitudine è uno stato assolutamente necessario a me stesso. Non potrei convivere con qualcuno, un Adone o un Antinoo… Tornerei a vivere da solo».

Secondo l’insegnamento di Montaigne: «Abbiamo vissuto abbastanza per gli altri, viviamo per noi almeno quest’ultimo resto di vita»?

«Montaigne aveva una biblioteca meravigliosa e ha fatto rinascere molta parte della cultura classica».

Quella citazione significa che anche lei è geloso della sua solitudine?

«Ça va sans dire. La custodisco come qualcosa d’indispensabile».

Una solitudine orgogliosa?

«Una solitudine che qualcuno spero capisca e la concili con me, cioè le dia il senso che voglio io».

Può esistere un nostro simile che la capisca così?

«La solitudine si trova in tantissimi poeti, artisti, scrittori. Pensi a Caravaggio, per me grande come Proust. Anzi no, come Rimbaud. Caravaggio è il mio Rimbaud».

Però la pittura di Caravaggio esprimeva qualcosa di preciso.

«No, per carità. Non entriamo nel merito, lui era un gran teppista, io non sono un teppista come lui. Di fronte a Caravaggio mi metto in ginocchio e sto in silenzio».

Non vuole seguirmi?

«Non posso seguirla. Uno stronzo come me che parla di Caravaggio…».

Nella letteratura chi apprezza?

«Carlo Emilio Gadda riempie tutto. Poi, senza essere grande come lui, Alberto Moravia. E l’autore del Giardino dei Finzi Contini, come si chiama… Giorgio Bassani. Giovanni Comisso copre tutto».

I contemporanei?

«Non li leggo, sono un vecchio di 91 anni, penso di poterne fare a meno».

Chi è l’intellettuale cui è rimasto più affezionato?

«Sono morti tutti i miei amici, ho poco da scegliere».

Nel ricordo, quello che ritorna nelle sue madeleine?

«Più che un ricordo ammirato, il mio è un ricordo di malinconia e di disperazione. Il vuoto che mi hanno lasciato Goffredo Parise e gli altri mi imprigiona nella sua assolutezza. In questa assolutezza cerco di trovare degli elementi vivi canti».

In un’intervista, a una domanda simile, ha nominato Federico Fellini.

«Forse l’avrò detto come frase fatta. Fellini non lasciava impressioni su nessuno perché se le teneva per sé, quel vecchio porco. Non scriva vecchio porco…».

Detta da lei è un’espressione affettuosa.

«Gli ho fatto da ruffiano per tanto tempo. Giulietta Masina mi voleva bene perché sapeva che quando usciva con me poteva stare tranquilla. Divenne anche madrina del premio Comisso e ci veniva volentieri, con Fellini. No, non era un vecchio porco… Avrebbe desiderato esserlo, si metteva in situazioni in cui il porco si esprime con una pacca sul culo di qualcuna, ma poi le cose finivano così. Non aveva una reale sessualità. In tre o quattro volte che siamo usciti insieme l’ho visto una sola volta scopare… Scopare… Chissà».

Parlando di Parise, cita il suo suggerimento: «Niente eccessi di zelo». Negli ultimi suoi anni abitavate vicini, ma non vi siete frequentati.

«È una storia lunga, che non ho ancora capito. Non ho capito perché a un certo punto ha cominciato ad avercela con me. Saranno state le donne? In realtà, non credo potessero avere così tanta influenza. Parise era così, amava tanto qualcuno e qualcosa per poi improvvisamente rifiutarlo. Si annoiava. Ma non mi sarei aspettato di essere buttato nel cestino. Tanto che un giorno, venne a trovarmi qui a Treviso: “Basta, basta, torniamo amici, vieni a cena a casa mia a Ponte di Piave”. E io, un po’ da checca vendicativa, gli ho risposto di no, “Vengo un’altra volta”. Mi aveva molto turbato il suo cambio di comportamento, perché lui e Dacia Maraini avevano presentato al Premio Strega la mia Vita di Giovanni Comisso con la quale arrivai secondo. Pensavo che quel risultato fosse anche merito suo ed ero pieno di gratitudine. In quel momento scattò in lui il rifiuto».

Il sentimento dominante delle amicizie con Parise, Comisso e lo stesso Pasolini è l’incompiutezza?

«Sarei pronto a dire di sì se ci fosse stata. Sono stati rapporti profondi. Ho reso felice Comisso negli ultimi giorni della sua vita».

Il treno del buon appetito narra numerosi rapporti più o meno passeggeri, ma si legge poco o forse mai la parola amore: sbaglio?

«Non sbaglia. Si può pronunciare la parola amore dopo aver fatto ben altre esperienze che quelle che racconto lì. Soprattutto dopo aver sentito la sofferenza dell’amore. Comunque, per me questo libro è di secondaria importanza, quelli veri sono le biografie di Comisso e di De Pisis».

E di Pasolini.

«Quella non la cito per pudore. Grazia Cherchi mi considerava un grande biografo. Per scrivere una biografia vera bisogna perdere mezza vita. Ora non lo farei più. Farei una biografia di me».

Un’autobiografia, vuol dire?

«No, una biografia di me».

La differenza?

«L’autobiografia è un genere, peraltro di moda, che ha le sue formule e i suoi schemi. Una biografia di me significa che dovrei dire chi cazzo sono io».

Siamo tornati alla domanda di partenza: chi è Nico Naldini?

«Ce ne sono tanti. Ognuno di noi si moltiplica in tanti ego. È anche un fatto di vanità. Per cui è impossibile… Dire chi sono sarebbe un lavoro immane».

Niente autobiografia e biografia di sé a sua firma, ma qualcuno dovrà pur scriverla…

«Quando sono arrivato a Treviso, per documentarmi su Comisso, la prima persona che ho conosciuto è stato Nicola De Cilia. Abbiamo trascorso lunghe serate durante le quali gli ho raccontato quello che potevo».

La scriverà lui?

«No, perché è eterosessuale. L’omosessualità è una cosa che ha un suo intimo labirinto. È essa stessa un labirinto. E non vedo come lui possa essere il mio Teseo».

Non a caso è stato lei a scrivere le biografie di Comisso, Pasolini, De Pisis, Penna, tutti omosessuali. Chi scriverà la sua?

«Nessuno, mi auguro. Perché chiunque volesse provarci, rischierebbe di perdersi nel mio labirinto».

Come trascorre le giornate?

«Guardo documentari della Rai, i testi sono molto belli».

Riesce ancora a leggere?

«Poco, mi stanco presto. Rileggo le Lettere dal Ponto, ma non solo. Ovidio è il mio autore».

In Lettere dal Ponto chiede di essere perdonato e riammesso alla corte di Augusto.

«Non si può dire per cosa chiede perdono perché non si capisce il motivo per cui è stato mandato in esilio. Si sa che cos’è il carmen, ma l’error no: perché ha avuto varie interpretazioni nel corso dei secoli».

Ma lei per che cosa vorrebbe essere perdonato e da chi?

«La mia ammirazione per Ovidio è estetica e basta. Personalmente, non ho niente da farmi perdonare. E da chi? Sì, qualche volta penso a mia mamma e vorrei che me lo chiedesse lei».

Vorrebbe essere perdonato da lei?

«Vorrei che me lo chiedesse lei, solo a lei avrei permesso una simile domanda. Le avrei risposto che non ho nulla di cui discolparmi. Non sto rispondendo a lei, è sempre un colloquio con mia madre».

Qualche giorno fa ho pensato a lei quando ho letto questa riflessione di Michel Houellebecq: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora».

«Condivido totalmente. È un discorso lungo e complicato, che però non voglio fare. Anch’io ho il desiderio di essere amato».

Nico Naldini è morto il 9 settembre scorso. Questa intervista inedita è contenuta in Fabula veneta (Apogeo editore), dal 14 settembre in libreria

Arriva in tv una «casetta» per il cinema italiano

Non c’era. Difficile da credere, ma è così. Un canale tv dedicato al cinema italiano non esisteva. Colmerà la lacuna Cine34 di Mediaset, la nuova rete tematica (al tasto 34 del digitale e al 327 della piattaforma satellitare), che esordirà il 20 gennaio, nel centenario della nascita di Federico Fellini, al quale sarà dedicata la programmazione dell’intera giornata: otto film del maestro riminese, da Lo sceicco bianco a 8 e ½ passando per Amarcord e La dolce vita.

Disponiamo di televisioni sempre più complesse ma anche smart, di connessioni multiple, di telecomandi che sembrano consolle di portaerei, di decine e centinaia di canali ma, lasciando stare le reti generaliste, presi dalla smania di accontentare i vari target, i fan dei reality, quelli del crime, gli amanti del lifestyle e quelli della comicità, ci eravamo dimenticati del nostro cinema, quello che racchiude tutti i generi. Incoraggiati dalla crescita di ascolti delle altre 11 reti tematiche (il 7.4% di share in prima serata supera Rai, Discovery, Sky e Viacom) i dirigenti Mediaset hanno deciso di aprire questa nuova «casa del cinema», nella quale i diversi generi saranno proposti con una programmazione giornaliera: la domenica i poliziotteschi, il lunedì le monografie, il martedì i maestri del cinema, il mercoledì i thriller e così via. L’offerta attinge a una library di 2672 titoli, 446 dei quali mai trasmessi in tv, ottenuta sommando al magazzino Mediaset acquisizioni di nuovi listini per completare collane di autori, come nel caso di Fellini, o per integrare filmografie di sicura presa sul grande pubblico, come la commedia sexy (in palinsesto il venerdì) e gli spaghetti western (il sabato). Precisato che il nuovo canale prevede la giornata dedicata alle pellicole d’autore e d’essai, la parte del leone la faranno i cosiddetti B movie. L’ingenerosa etichetta proviene dalla critica colta, ma se un regista come Quentin Tarantino si è felicemente formato alla scuola del cinema popolare italiano, non dovremo essere noi a snobbarlo.

Rivolto a un pubblico centrale, con leggera predominanza maschile, l’obiettivo di share del nuovo canale è l’1% da raggiungere in sei mesi. Non potendo contare sulla visibilità nelle pagine dei programmi tv dei giornali, ci vorrà pazienza perché il passaggio da Cine34 diventi un’abitudine dello zapping serale. Ma contando su alcune chicche inedite in tv (tra le altre, Black killer con Klaus Kinski, La minorenne con Gloria Guida) o su alcuni classici dimenticati nei vari generi (La polizia incrimina, la legge assolve, con Franco Nero, La casa delle finestre che ridono di Pupi Avati), forse si può azzardare che quell’1% è una previsione al ribasso.

 

La Verità, 18 gennaio 2020