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«Io e Ricci, la più longeva simbiosi della satira»

Lorenzo Beccati non si vede mai, ma è popolarissimo. Forse non di nome, ma per la voce, che è quella del Gabibbo di Striscia la notizia, di cui è autore storico. Genovese di nascita, residente ad Alassio, la città di Antonio Ricci con il quale lavora da quarant’anni, Beccati si sta ritagliando uno spazio anche come scrittore di thriller storici, grotteschi, gialli. L’ultimo romanzo, pubblicato da Oligo editore, s’intitola Uno di meno, ed è ambientato nella Genova del 1600.

Quando e perché ha cominciato a scrivere?

Quando facevo cabaret nei teatrini con il mio gruppo, i Cospirattori, scrivere era una necessità. Parliamo degli anni Settanta. Visti i buoni risultati, altri comici mi hanno chiesto di farlo per loro. Ho collaborato a lungo con Gigi e Andrea e Pistarino. Ci sono autori che suggeriscono idee e fanno una scaletta. Io e Ricci siamo della vecchia scuola, ligi al copione parola per parola. Una puntata del Drive in era una roba di 50-60 pagine. Siccome poi ho sempre amato i libri, a un certo punto ci ho provato.

Perché romanzi storici?

All’inizio erano libri umoristici… Poi ho cominciato a incuriosirmi alla storia di Genova, ai carruggi… Ho scoperto il 1600, il secolo delle Repubbliche marinare e della nascita delle banche. Ho consultato testi antichi, frequentato gli archivi di Stato e ora mi sento a casa in quell’epoca. Uno dei primi romanzi, Il guaritore di maiali, vendette discretamente ed è stato tradotto in Germania. Così, ho proseguito.

Dietro la trama di fantasia c’è molta documentazione?

La base è la storia reale. Nell’ultimo romanzo c’è un Doge durato appena 40 giorni, il dipinto di Bernardo Strozzi della ragazza che spiuma le oche, «il genovesino», un tipo di coltello… Un attore scrive il monologo e poi improvvisa. Anche nel romanzo storico c’è ambiguità, realtà e fantasia si mescolano come nella comicità. Nelle note finali preciso cos’è reale e cos’è finzione.

Quando trova il tempo di scrivere?

Durante l’anno sarebbe impossibile. Ma d’estate, ad Alassio, cedo raramente al piacere del mare e mi dedico alla scrittura.

Serve a decantare lo stress del lavoro di autore tv?

Diciamo che è un lavoro più interiore, mentre quello di Striscia è collettivo, di condivisione di testi che innescano il monologo del comico o chiudono i servizi. Striscia è centrata sull’attualità, io mi rifugio nella storia. Sono diversi anche i tempi: pochi minuti in tv, orizzonti ampi nei romanzi. Anche se i miei non sono bestseller, ho un pubblico di fedelissimi. Ultimamente capita spesso che qualcuno di loro mi chieda di firmare copie dei miei primi libri.

Con la letteratura cerca la visibilità che il lavoro di autore non dà?

Assolutamente no. Innanzitutto perché come autori si è conosciuti. E poi, se mi fosse interessata la visibilità, avrei potuto continuare a fare il cabarettista. Mi è più congeniale stare dietro le quinte. Infine, interpretando il Gabibbo sono conosciuto pur non apparendo. Anche Antonio, che sul palco era molto bravo, quando s’impose Beppe Grillo scelse di cambiare vita e concentrarsi sui testi. Dal Drive in a oggi sono passati quarant’anni: salvo pochissime eccezioni, come autori si dura di più dei comici.

È molto duraturo anche il suo matrimonio professionale con Ricci.

Ci siamo conosciuti in vacanza, ma non ci siamo subito frequentati. All’inizio degli anni Settanta Antonio si esibiva con sua sorella Cecilia nel teatrino di Piazza Marsala a Genova. C’erano anche Paolo Poli e Paolo Villaggio. Io iniziai al Teatro Instabile, si chiamava così in polemica con lo Stabile di Genova e anche perché ci cacciavano spesso. C’erano Tullio Solenghi e Beppe Grillo… Non avevo ancora 18 anni.

Come arrivò a Drive in?

Scrivevo i testi di Pistarino e Ricci mi chiese di collaborare con continuità. Era il settembre del 1984, da allora lavoriamo gomito a gomito.

Che esperienza è lavorare con uno così?

È imparare da un genio, da una persona che va a caccia della verità. Anche quando montiamo i servizi, c’è sempre grande rigore. Ricci è uno che la satira ce l’ha «pronta beva», come diciamo noi.  Conosce i meccanismi della comunicazione come nessun altro. Satira e comunicazione sono una vena inesauribile nella quale gli autori hanno grande possibilità di inventare e creare satira.

Mai pensato di fare nuove esperienze?

E perché mai? A qualcuno può sembrare che esageri, ma il lavoro a Striscia è appagante.

Conducete una vita monacale.

Iniziamo alle 9,30 e finiamo alle 21,30, dopo la messa in onda. L’indomani ricominciamo da capo, come le casalinghe. Dove sono gli inviati, cosa scrivono gli autori, a chi porta il Tapiro Valerio Staffelli… Stiamo sempre sul pezzo, il telefono non si spegne mai. Arrivano centinaia di segnalazioni al giorno.

Anche nei migliori matrimoni ci sono incomprensioni e contrasti: voi?

Discussioni su lavori da correggere, quelle sì. Ma screzi veri mai. C’è grande rispetto tra persone che si vogliono bene. Se non fosse così, all’età che abbiamo e non avendo figli potremmo anche separarci…

Qual è stata la soddisfazione più grande come autore?

Impossibile dirlo perché è un lavoro gruppo. Non lo potrebbe dire nessuno. Abbiamo fatto tante campagne importanti, da Vanna Marchi alle mascherine anti Covid, ma è tutto condiviso.

Come dividerebbe le percentuali del successo di Striscia la notizia: genialità di Ricci, lavoro di squadra, documentazione…

La direzione e la capacità di Antonio conta per il 50%. La ricerca maniacale della verità il 20%. L’appoggio del pubblico e le segnalazioni esterne il restante 30%. Il contributo della gente è importante per trovare le notizie e partire con le campagne o i tormentoni.

Cosa fate quando arrivano le segnalazioni?

C’è un gruppo di persone che le vaglia e fa le prime verifiche. Poi incarichiamo gli inviati sul territorio di approfondire. Il 90% delle segnalazioni è vero. Infine, c’è il lavoro degli autori, una dozzina in totale.

Quanto conta il talento e quanto l’applicazione?

Il talento non si insegna, l’applicazione sì. Bisogna stare sul pezzo, lavorare di lima. Ci sono anche gli impiegati della risata perché la battuta, in fondo, è una formula matematica. Ma è il talento a fare la differenza.

Ricci legge i suoi libri?

È il primo a riceverli e in pochi giorni mi dà il suo giudizio. Non ama i gialli, Il pescatore di Lenin è il suo preferito. Una volta mi ha preso in castagna su un cantante lirico che avevo descritto come tenore, invece era un baritono.

Ha già in mente il prossimo?

Mi sono incuriosito al filetto alla Voronoff, scoprendo che Serge Voronoff fu un famosissimo chirurgo e sessuologo, un uomo molto ricco del secolo scorso. Si era occupato del ringiovanimento sessuale maschile attraverso l’innesto dei testicoli di scimpanzè. Ha vissuto in un grande castello a Ventimiglia fino al 1939, quando fu costretto a fuggire in America. Tornò a guerra finita e rimise a posto il castello bombardato. Ora è un bad&breakfast di lusso.

Ha mantenuto i rapporti con il gruppo di comici dei primi anni?

Con Grillo non ho mai avuto rapporti diretti. Ogni tanto vedo quelli del Drive in, seguo gli spettacoli di Solenghi, di Pistarino, di Sergio Vastano e leggo i libri di Enzo Braschi. Mi manca molto Giorgio Faletti.

 

Panorama, 27 aprile 2022

Il cuore nascosto di Petra farà quadrare la serie?

E se la faccia una risata ogni tanto», dice il capo della mobile (Riccardo Lombardo) a Petra dopo averle dato stringate istruzioni sulla reperibilità da garantire in assenza di un collega malato. «Come no, quando ce n’è motivo, volentieri», replica poco conciliante l’ex «avvocata» ora all’archivio della questura e, causa emergenza, spostata alla omicidi. Citando un vecchio gioco per bambini, verrebbe da commentare: fuochino. Non è tanto il fatto di ridere o sorridere, quanto di stare un attimo rilassati, togliendosi quel broncio stampato in volto. Insomma, il temperamento di Petra (Paola Cortellesi) che vive in una bellissima casa immersa nel verde, popolata di grilli «che servono per il ragno», è chiaro dopo due scene. E, verosimilmente, finirà per dividere il pubblico tra chi amerà questo cipiglio scorbutico e chi lo respingerà. Anche la sensazione che sia piuttosto complessa la quadratura del trapezio della nuova serie Sky original (con Cattleya e Bartleby film), quattro episodi lunghi tratti da altrettante storie di Alicia Giménez-Bartlett, da ieri su Sky Cinema, Sky Atlantic e on demand, è immediata. Sono tante infatti le variabili da mettere in equilibrio fra ambientazione, trama, personaggi e interpreti. Il primo azzardo è reinventare Cortellesi in un ruolo lontano dalla sua zona di conforto: una poliziotta anaffettiva, con due divorzi alle spalle, sempre in impermeabile nero, ispettrice senza mai aver indagato su un caso. La seconda scommessa è Genova, città trascurata dalla fiction nazionale, qui vista sempre di notte e prescindendo dal mare per sottolineare il gotico delle storie. Più semplice risulta l’alchimia tra gli opposti, Petra e il suo vice (Andrea Pennacchi), un vedovo arruffato, buona forchetta (Petra non cucina) e un filo moralista, al quale «non sta bene avere un capo donna» (che novità). Pian piano, però, la complementarità tra i due si afferma nelle indagini su una serie di stupri perpetrati nei carruggi da un giovane incappucciato che marchia le sue vittime sul braccio sinistro. Tra il ricomparire degli ex mariti di lei e il bilancio esistenziale di lui, l’intrigo noir della serie resta in secondo piano rispetto ai misteri privati dei due investigatori. Creare una nuova coppia italiana di profiler di ambientazione nichilista non è facile. Anche se, curiosamente, i dialoghi sfiorano le domande sulla felicità. Vuoi vedere che anche Petra ha un cuore? Sarà questo il tocco mediterraneo che dovrebbe differenziarla dai polizieschi nordici, tipo The Bridge e Bordertown?

 

La Verità, 15 settembre 2020

«Io, artigiana della musica, sempre alla ricerca»

Il fado portoghese, la canzone d’autore italiana, le corali sacre, la canzone dialettale e quella pop di qualità interpretata con i Matia Bazar: Antonella Ruggiero non si pone limiti e con quella voce può farlo. Ma per scavalcare i generi musicali non basta l’estensione vocale, per quanto straordinaria. Ci vogliono curiosità, passione e quell’irrequietezza positiva che, dalla sua Genova di talenti e tormenti, la spinge con il marito musicologo Roberto Colombo, nei territori lontani della musica. Il nuovo cofanetto di sei cd intitolato Quando facevo la cantante presentato nell’insolita sede della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale ne è la dimostrazione.

Cosa significa Quando facevo la cantante? La fa ancora.

«Certo. Significa quando ho ripreso a fare la cantante solista, dopo sette anni di allontanamento tra il 1989 e il 1996».

È una biografia musicale?

«È un riassunto in sei cd di quello che è avvenuto dal 1996 a oggi. Un racconto in 115 brani suddivisi nei vari generi delle mie frequentazioni musicali».

Come mai ha scelto la sede di una facoltà teologica per presentare il suo nuovo lavoro?

«Ho conosciuto persone che mi hanno offerto questo luogo meraviglioso. Mi fa piacere presentarlo in un posto frequentato con passione da giovani lontani dalla superficialità che sembra dominare il mondo. È una scelta estetica prima che religiosa».

Questa antologia è più uno sguardo al passato o un progetto di rinnovamento?

«La musica è sempre rinnovamento anche se si attinge al passato. Qui c’è la ricerca della musica che mi aiuta a stare bene. Non ho mai cantato brani di autori famosi se non mi trasmettono qualcosa di importante. Preferisco cercare tra gli autori che sono rimasti anonimi perché il destino non li ha aiutati. È un modo di vivere la musica che mi rasserena».

Qualcosa che va oltre la professione.

«Ho deciso di fermarmi per sette anni perché non la sentivo più così. La musica è un mezzo di scambio tra le persone. Io la vivo così, non è mai superficie. La musica quando è sentita smuove e commuove».

Ben oltre il fatto commerciale.

«Non può essere solo la routine dell’ovvio, ciò che bisogna fare per forza: il nuovo disco, la promozione, il tour. È un mondo che ho lasciato tanto tempo fa».

Il primo album da solista intitolato Libera ci ha fatto capire quanto le stesse stretto il mondo dei Matia Bazar.

«Quando si lavora in gruppo non sempre le teste ragionano in modo univoco. C’erano degli obblighi ai quali non volevo più sottostare e dai quali mi sono felicemente scollegata. Volevo aprirmi alla musica in tutta la sua varietà. L’arte è fatta di libertà, di alto artigianato, di superamento delle formule. Io mi sento un’artigiana che va alla ricerca delle perle più preziose, oltre la cultura mainstream. Pensando a come sono fatta ho cominciato a sentirmi nel giusto. Anche perché vedevo che il pubblico aveva i miei stessi desideri e andava a casa contento».

Però non ha rinnegato la canzone da festival.

«Sanremo è l’unica grande vetrina che c’è in Italia. Non giriamoci intorno, se hai un prodotto nuovo e vuoi promuoverlo presso il grande pubblico devi entrare in quel meccanismo per una settimana. Poi puoi tornartene alla tua vita di sempre».

Che rapporti mantiene con gli ex compagni dei Matia Bazar?

«Quando si è lavorato e girato il mondo insieme per 14, anni anche se per una vita non ci si vede, la memoria positiva rimane indelebile».

La sua ricerca spazia dalla canzone popolare alla musica sacra, dalla contemporanea al jazz.

«Sono sempre alla ricerca. Per me trovare un canto, un coro, una nuova aria è come entrare nella bottega di un artigiano in fondo a un vicolo. Quando ci arrivi e ti accorgi che dentro c’è qualcosa di diverso e raro ti senti privilegiato».

C’è un ambiente musicale nel quale si sente più a suo agio?

«Do sempre il 100% ai miei concerti, qualsiasi cosa canti. Ma devo riconoscere che interpretare brani antichi in una cattedrale accompagnata da un organo antico è un’esperienza particolarmente intensa. Anche il pubblico avverte una sorta di sospensione, si dimentica di quello che accade fuori».

Perché Genova ha dato i natali a tanti artisti?

«È una città particolare, meditativa. Diversa da Bologna e Napoli, anche loro di grandi tradizioni musicali, magari più gioiose. Genova è una città medievale austera, che aiuta a tirar fuori sentimenti profondi e intimi che fanno parte di tutti. Tante persone si ritrovano nelle parole dei cantautori genovesi».

È un motivo di tipo geografico, l’essere schiacciati tra montagna e mare, o un fatto di frequentazioni?

«Credo che la causa principale sia il territorio. Sai che hai una fettina di terra dal Ponente al Levante, che alle spalle c’è il monte e davanti c’è il mare, che significa potersene andare quando si vuole. Sono delle mura psicologiche che alimentano la poesia».

In un cd avvicina Crêuza de mä a O mia bela Madunina: quanto è importante la musica della tradizione dialettale?

«Importantissima. Tanto quanto girare l’Italia e andare a visitare certi paesini remoti eppure pieni di storia e di vita come facevano certi attori di teatro. È molto gratificante cantare davanti a persone che mai si muoverebbero per andare nelle grandi città».

La sua ricerca musicale è anche esistenziale?

«È la ricerca del bello. È un fatto di educazione. Fin da bambina i miei genitori mi hanno insegnato ad ascoltare la musica nei vari generi. Ricordo che una volta, sentendo un organo liturgico nella chiesa di Santa Maria di Castello, rimasi senza fiato. Mi auguro che ci siano genitori che insegnino ai figli ad ascoltare la musica vera, non quella obbligata che ci bombarda in tutti i momenti».

Che ricordo ha della sua prima collaborazione canora con il nome di Matia a un’incisione dei Jet, intitolata Fede, speranza, carità?

«Avrò avuto 21 o 22 anni, la prima volta in uno studio di registrazione. Era un intervento vocale senza testo, una coralità istintiva. Da lì è partito tutto: tre su quattro componenti dei Jet formarono i Matia Bazar, cambiammo solo il batterista».

Ricorda il primo momento in cui scoprì di avere questa voce?

«Ho sempre avuto vicino la musica. Cantavo in casa, come un animale su un ramo. Mai avrei pensato che potesse diventare una professione, mi occupavo di grafica e arti visive. Il primo momento fu quella collaborazione con i Jet, salita sul palco vidi che la mia voce piaceva. È un dono di natura».

Che cosa pensa dei talent musicali?

«Tra i giovani ci sono quelli desiderosi di popolarità, che sperano di sfondare rapidamente, e quelli che accettano di costruire nel tempo la propria fisionomia. Sperare di avere tutto subito è un’illusione. Quanti ragazzi tornano a casa delusi e pieni di sensi di colpa perché non ce l’hanno fatta. Poi è difficile rialzarsi. Nel jazz, ma soprattutto nella musica classica ci sono ragazzi che accettano di fare sacrifici e inseguono la qualità dell’artigianato».

Appurato che non è solo una cantante, come si definirebbe? Un’artista, una ricercatrice musicale, un’innamorata della musica…

«Non saprei. Io canto e mi esprimo attraverso la musica per incontrare le persone. Mi piace molto e lo vivo come un compito».

 

La Verità, 19 novembre 2018

 

«Salvini e Di Maio studino Odoacre e Weimar»

L’estate di Paolo Mieli è stata movimentata quasi come quella italiana. Presentazioni di libri, interventi da Cortina d’Ampezzo a Castiglioncello, gli editoriali sul Corriere della Sera sul complottismo leghista e sul paragone con i «barbari» capeggiati da Matteo Salvini e Luigi Di Maio. L’autunno prevede la ripresa della tournée di Era d’ottobre, lo spettacolo già condensato in La storia del comunismo in 50 ritratti (Centauria), sorta di album corredato dalle illustrazioni di Ivan Canu.

L’autunno italiano sarà caldo, caldissimo o rovente?

«Rovente. I giornali non ne hanno parlato, ma da quanto mi risulta, quest’estate molti capitali si sono spostati all’estero».

Le riforme economiche promesse da Lega e M5s sono realizzabili?

«La soluzione può essere un’applicazione a tappe del programma. Questo consentirebbe al ministro dell’Economia, Giovanni Tria, di presentarsi alla comunità internazionale con una patente di affidabilità. Se la patente dell’autista non è vidimata, gli investitori scelgono un altro autobus».

Negli ambienti della finanza c’è diffidenza verso l’esperimento italiano?

«È una diffidenza originata dall’esito elettorale prorompente delle forze governative, comprovata dalla crisi delle opposizioni. La comunità internazionale giudica difficilmente compatibili i programmi economici di Lega e 5 stelle. E giudica problematico anche quello di una sola delle formazioni di governo. La soluzione è accontentarsi di una riforma parziale, per andare a votare più avanti. Colpisce il carattere interlocutorio dell’analisi di Fitch. Che in pratica dice: se con la finanziaria scegliete la gradualità perché non puntate a elezioni anticipate possiamo concedervi un’apertura di credito».

Quindi era complottismo quello di chi paventava gli attacchi dei poteri forti?

«Il complottismo, rilanciato dalla Rete, è uno degli atteggiamenti più gravi che accomuna Lega e M5s. Quando le democrazie sono indebolite vi ricorrono sia forze politiche che personalità insospettabili. In un’intervista al Corriere della Sera l’arcivescovo di Pescara, Tommaso Valentinetti, identificava nelle “forze oscure” i mandanti delle accuse di Carlo Maria Viganò a papa Francesco: “La grossa finanza, i grossi petrolieri, chi vuole continuare a sfruttare senza scrupoli la terra”. Il complottismo surroga la pochezza di argomenti».

Sui migranti quello di Salvini è muscolarismo razzista, propaganda o la prova che stiamo uscendo dall’Europa?

«Penso che il fenomeno dell’immigrazione abbia proporzioni tali da non poter essere risolto dal provvedimento di un’estate. Ciò detto, qualsiasi persona di buon senso considera un problema reale quello posto in modi diversi prima dagli ultimi due ministri dell’Interno.  L’Europa ha capito che i migranti, ovunque approdino, vanno divisi in tutto il territorio. Nelle sue comunicazioni Salvini commette un esecrabile eccesso al giorno. Ma chiunque giustamente lo condanna, subito dopo deve indicare una soluzione alternativa».

Condivide l’allarme sulle somiglianze con l’epoca prefascista?

«Le analogie non riguardano i leader, i loro carismi e i loro metodi. Bensì il distacco consumato tra élites e popolo. Come ha sottolineato l’ex rettore della Bocconi, Guido Tabellini, il nostro presente si avvicina a ciò che accadde nella Repubblica di Weimar, nella quale l’incapacità delle élite di dare risposte le trasformò in calamita del risentimento generale. In Italia oggi questo processo è ancor più incredibile perché da noi qualcosa di simile è già accaduto 25 anni fa».

Il fenomeno dell’immigrazione si affronta con la politica o con il sentimento?

«Personalmente credo che al primo posto ci sia la pietà nei confronti dell’essere umano. Per il bene comune serve un politico che sappia veicolare questo primato nelle istituzioni. Salvini finora non ci è riuscito. Chiunque ha questa sensibilità deve avere idee concrete e vincenti anche nell’azione diplomatica».

Era necessaria l’inchiesta della magistratura sull’operato del ministro dell’Interno per la nave Diciotti?

«Non ho studi giuridici per valutare il merito, ma a naso direi di no. Avrei aspettato la chiusura della vicenda, considerando che, senza torturare i migranti, un politico deve trovare il modo per mettere l’Europa di fronte alle proprie responsabilità. Infine, non capisco perché analoga iniziativa non sia stata presa anche per la Aquarius».

Questa emergenza dalle proporzioni bibliche si poteva prevedere?

«All’inizio degli anni Ottanta, Marco Pannella impostò una grande campagna sulla fame nel mondo per evitare ciò che ora è davanti a noi. Anche un politico avveduto come Flaminio Piccoli si associò. Ma l’iniziativa si fermò troppo presto».

Che cos’ha evidenziato il crollo del ponte di Genova nei rapporti di forza della politica italiana?

«Per la prima volta nella storia repubblicana due leader di governo sono stati accolti dalla folla plaudente e gli esponenti dell’opposizione sono stati fischiati, come fossero correi del crollo. Questo fatto sarà ricordato nei libri di storia».

Significa che la formula «governo del cambiamento» ha fondamenti solidi?

«Le elezioni del 4 marzo sono state il big bang di una nuova storia. Difficilmente torneranno i partiti tradizionali con le loro alchimie. Chi ha governato in modo alternativo nella Seconda repubblica faticherà ad allearsi con Lega e 5 stelle. Lo si è capito a quei funerali».

Si è scoperto un sistema di potere basato su rapporti discutibili tra le istituzioni e la famiglia Benetton.

«Dire che anche la Lega ha votato per la riduzione dei controlli sui viadotti e ha preso finanziamenti da Autostrade per l’Italia non scalfisce la percezione profonda della complicità tra partiti tradizionali e grande imprenditoria. Il radicamento di questa percezione dev’essere ancora compreso. Tanto più considerando il fatto che, a differenza di Berlusconi che era favorito dalle sue televisioni e dalle dichiarazioni di Raimondo Vianello e Iva Zanicchi, Lega e M5s non godono del favore dei grandi media».

Dove ci si chiede se respingere o normalizzare i barbari, mentre nessuno contempla l’opzione prospettata dal poeta greco Konstantinos Kavafis: «Era una soluzione quella gente».

«Il paragone con il generale barbaro Odoacre si basa sul fatto che il Senato romano lo legittimò a proseguire il regime di Romolo Augustolo, giudicato esaurito. Nel governo c’è una componente formata dal ministro dell’Economia, Tria, e degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, che fa capo al presidente Sergio Mattarella. Prima di attaccare Salvini e Di Maio le opposizioni dovrebbero considerare lo spazio di manovra che questa componente consente loro».

Si continuano ad analizzare Lega e M5s, nati dopo la caduta del muro di Berlino, con chiavi interpretative del Novecento. È sbagliato dire che la discriminante dei prossimi decenni sarà l’alternativa sovranismo-globalismo al posto di destra-sinistra?

«Credo che prima o poi si tornerà alla contrapposizione destra-sinistra. Anche Forza Italia e Pd sono nati dopo la caduta del muro di Berlino. Piuttosto, dal governo Monti, per sette anni Lega e M5s sono rimasti all’opposizione senza mescolarsi ad alcuna forma di governo. Questo mentre gli altri oppositori trovavano posti nei Cda e nei tg e si aveva l’impressione che i governi, anziché dalle elezioni, fossero decisi da un sinedrio. Se si vuole avere la loro stessa forza si deve prevedere una strategia di lungo periodo».

Sovranismo e europeismo?

«Potrebbe essere così, ma nutro qualche dubbio. Alle europee potrebbero esserci più sovranismi e più europeismi. Probabilmente il confronto tra due forze populiste, entrambe a loro modo sovraniste».

Renzi sta lavorando a un programma televisivo: il Pd ha adeguatamente approfondito le ragioni della storica sconfitta elettorale?

«No, ma per riflettere su questo ci vuole tempo. Bisogna capire il rapporto tra la propria sconfitta e quella degli altri socialisti europei, che magari viene da lontano e Renzi era riuscito a rallentare. Dev’essere un’analisi disinteressata, non fatta allo scopo di ripresentarsi dopo sei mesi. Finora si sono rinfacciati le colpe l’un l’altro, invece hanno perso tutti».

La sinistra perde perché ha tradito la sua missione originale?

«Se la causa fosse questa, Leu avrebbe preso il 10%. C’erano Sergio Cofferati, Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Laura Boldrini… Il Corbyn italiano doveva essere tra loro. Più ancora che aver difeso gli oppressi e sventolato bandiere rosse, è il non appartenere al sistema a essere premiato».

Il suo ultimo libro è un congedo dal comunismo o un contributo all’analisi della crisi delle sinistre?

«È un congedo. Anche se, qua e là, prospetto qualche considerazione. I comunisti storici, che hanno prodotto tragedie, affrontavano la politica in modo diretto. Nel 1936, per cementare un’alleanza sociale tra compagni e camerati contro il capitalismo, Palmiro Togliatti fece l’“appello ai militanti in camicia nera”. È solo uno dei tanti esempi. Se si pensa che questo è il governo più a destra della storia repubblicana è lecito aspettarsi che il Pd dica qualcosa di chiaro a proposito del suo rapporto con il M5s».

Distingue tra comunismo delle intenzioni e delle applicazioni, il quale ovunque ha prodotto stragi. È diventato anticomunista?

«Nell’evoluzione del comunismo riconosco parti della mia storia giovanile. E mi chiedo: se le cose stavano così com’è possibile che non me ne sia accorto. È una domanda che mi brucia».

Come le è venuto in mente di cimentarsi da attore?

«Sto molto sui libri o negli studi televisivi. Più che l’interpretazione, m’interessa vedere in faccia le persone e ascoltare le loro riflessioni dopo lo spettacolo. È un contatto che mi arricchisce molto».

 

La Verità, 3 settembre 2018