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«TeleMeloni? Come TeleRenzi o TeleConte»

Pochi numeri per il curriculum della vittima di questa settimana. Età: 56 anni. Mogli: una, dal 2006. Anni di assunzione alla Rai: 21. Cause per demansionamento vinte contro la Rai: 4. Share di Ore 14, il programma che conduce su Rai 2: 8,5%. Paparazzate subite da magazine e riviste: 0.
Milo Infante, come si sta a TeleMeloni?
«Ah ah ah… Esattamente come a TeleConte, a TeleRenzi e prima a TeleProdi. Ma poi: cos’è TeleMeloni?».
La Rai dove non si muove foglia che il premier non voglia, o no?
«Se devo rispondere da telespettatore, dico di no. Invece, da conduttore di Ore 14 lo dico due volte».
Però.
«Nella cosiddetta TeleMeloni, come prima a TeleConte, nessuno mi ha mai detto cosa posso dire o non dire».
Negli spostamenti e nelle promozioni sarà cambiato qualcosa…
«Da TeleConte a TeleMeloni sono passato da vicedirettore a vicedirettore ad personam, perdendo deleghe e  potere».
Essendo in quota Lega ci si aspetta il contrario.
«Detto che non è vero, ogni tanto qualcuno lo scrive. Ma a me sfuggono tuttora gli eventuali vantaggi. Se TeleMeloni esistesse dovrebbe spingere i suoi centurioni, ma io promozioni non ne ho avute e miglioramenti economici nemmeno. L’azienda mi ha chiesto un impegno e io lo porto avanti. Con questa leggenda si è indotti a credere che in Rai si faccia carriera in base all’appartenenza politica presunta. Garantisco che nel mio caso non è così».
TeleMeloni dovrebbe lasciare il segno con qualche programma o progetto magari non condivisibile, ma degno di nota. Invece…
«Io non dispero. Quello da poco nominato con Giampaolo Rossi, Antonio Marano, Roberto Natale e Simona Agnes è un Cda di persone che conoscono bene il prodotto. Penso abbia le potenzialità per favorire un salto di qualità. La Rai è sempre presa di mira. Ricordo un titolo di Repubblica al podcast di Massimo Giannini quando è andato via Amadeus: “Amadeus saluta TeleMeloni. E la destra mantiene la promessa: fuori i migliori, restano solo i servi”. Non ho mai visto un atteggiamento così violento nei confronti della prima azienda culturale italiana».
Come sta andando la stagione di Ore 14?
«Abbiamo consolidato l’8,5% di share, un punto e mezzo in più rispetto all’anno scorso, con una media di 931.000 spettatori al giorno. Un risultato straordinario per Rai 2».
Perché un programma di cronaca nera dopo pranzo fa questi ascolti?
«Perché racconta quello che accade in Italia senza pregiudizi o falsificazioni. Non spettacolarizziamo la notizia, non enfatizziamo il negativo e scappiamo dal morboso. Siamo un programma di cronaca, non abbiamo balletti, non ospitiamo vip, modelle e influencer, per dedicarci al racconto del reale».
La tua squadra – la criminologa Vittoria Bruzzone, Piero Colaprico, Candida Morvillo – com’è accolta dalla critica?
«Bene perché i nostri esperti parlano di cose che conoscono in base al loro vissuto e alle loro competenze. Non chiamiamo ospiti a gettone che esprimono opinioni».
Niente vita mondana, sei un conduttore tv atipico?
«Rifuggo qualsiasi personalismo e cerco di trasmettere la mia passione facendo trasparire ciò che penso. Non ho problemi a mostrare i miei sentimenti. Finito di lavorare sto con mia moglie e mio figlio».
Eviti salotti e non ammicchi al gossip patinato.
«Sì. Rispetto i colleghi che lo fanno, ma non è nel mio stile. È una scelta di vita, anche se forse non aiuta il mestiere. La riservatezza è una filosofia professionale. L’albero che cade fa più rumore della foresta che cresce».
Come va con i vertici aziendali? Hai detto che il tuo programma era il più inosservato dalla Rai.
«Fino all’anno scorso lo era, mai un comunicato, una citazione. Da quest’anno con Giampaolo Rossi amministratore delegato e grazie a Paolo Corsini, capo degli Approfondimenti, per la prima volta ci sentiamo sostenuti. La nostra forza è essere sulla notizia in tempo reale come i tg. E questo anche grazie alla considerazione dei colleghi perché, fin dal primo giorno, le nostre richieste alla Pianificazione mezzi e produzione vengono soddisfatte».
In passato non è stato così, visto che hai fatto causa alla Rai per demansionamento.
«Di cause ne ho fatte e vinte quattro. La Rai è una grande realtà dove, a volte, le cose sbagliate sono opera di piccoli uomini che poi scompaiono, cancellati dall’azienda. Non ho mai trovato la benché minima ostilità dalla Rai durante quelle vertenze, anzi. Il giorno in cui ho ripreso a condurre i colleghi mi hanno detto “ben tornato al tuo posto”».
Si parla di alcune prime serate: quando andranno in onda e come saranno?
«Io e Corsini concordiamo sul fatto che non si possono fare programmi spot, ma serve un progetto forte, continuativo nel tempo, in sinergia con la striscia quotidiana. Lo dico da tempo, ma lo vedo realizzato da altri editori».
Non sulla cronaca nera, però.
«Meno male, così possiamo farlo noi. Però Paolo Del Debbio è bravo a partire dalla cronaca per arrivare alla politica. Da vent’anni propongo una prima serata, adesso c’è Quarto grado, e Chi l’ha visto?, che è un grande format, parte dagli scomparsi e si allarga ad altri casi».
Perché questa espansione della cronaca nera?
«Perché interessa alla gente. E poi c’è qualcuno che pensa di sfruttarla per fare ascolti, ma non va distante».
Però è innegabile che faccia audience.
«Il pubblico premia chi sa trattare certi casi, ma non ci s’improvvisa. Non c’è automatismo fra cronaca nera e grandi ascolti».
Femminicidi, persone scomparse, apparizioni religiose, baby gang, stupri: che Italia è quella di Ore 14?
«È una parte di Paese senza cuore. Per fortuna una realtà limitata, gli italiani non sono così».
Rispetto a qualche anno fa vedi un peggioramento?
«Soprattutto tra i più giovani. Anche ai miei tempi eravamo spregiudicati, ma non così crudeli. Vedo fatti spaventosi. Per esempio, il compiacimento di chi assiste alla mortificazione di una vittima come a uno spettacolo. Parlando dei casi più noti, cosa possiamo dire di Alessandro Impagnatiello che accoltella la compagna con un bambino di 7 mesi in pancia, se non che il male nella sua accezione più diabolica è tra noi?».
Da Paderno Dugnano in poi molti minorenni commettono delitti senza movente o per futili motivi.
«Esiste un disagio psichico nelle scuole e nelle comunità di ragazzi problematici che sfugge a ogni controllo. Gli adolescenti che compiono atti violenti vengono trattati come poveri bambini da proteggere. Questo crea un senso di impunità. Quando una minaccia di morte a un proprio simile per un banale litigio di strada o certe risse non producono conseguenze o sanzioni, trasmettiamo ancora un’abitudine all’impunità. Di fronte a certi atti violenti, carabinieri e poliziotti si sentono dire: tanto non ci potete fare niente perché siamo minorenni».
Come sono cambiate le bande giovanili rispetto a quando te ne occupavi a inizio carriera?
«Oggi i ragazzi insultano le forze dell’ordine nei post, nei social, nelle loro canzoni perché sono convinti di poter fare qualsiasi cosa e purtroppo la legge glielo consente».
Anche dal tuo osservatorio hai conferma di una relazione diretta tra omicidi, risse, violenze sessuali e immigrazione irregolare come documentato dal ministero dell’Interno?
«Non c’è dubbio. Innanzitutto, c’è un numero spaventoso di ragazzi extracomunitari non accompagnati. Premesso che fatichiamo a darla ai nostri figli, a più di 20.000 minori extracomunitari non riusciamo a dare alcuna educazione. Sono ragazzi che vivono senza genitori, affidati alle comunità, dove basta la presenza di una mela marcia per trasmettere le peggiori abitudini. Accanto a questi ragazzi ci sono i clandestini che vivono fuori dalla legalità. Che cosa può fare chi è senza una casa e un lavoro se non commettere reati? È un problema oggettivo, che non si può negare».
Tornando a parlare di Rai, qualche giorno fa Antonio Marano, presidente pro tempore, ha ipotizzato una direttiva che impedisca ai dirigenti di condurre programmi. Se fosse approvata, oltre a te dovrebbero lasciare il video Sigfrido Ranucci, Monica Maggioni, Francesco Giorgino e Alberto Matano.
«Marano si è dimenticato di Matano (ride). Battute a parte, io, Ranucci e Matano siamo dirigenti ad personam, senza poteri se non sui contenuti dei nostri programmi. Non possiamo comprare neanche una biro. Ci sta che un direttore non possa condurre se non espressamente autorizzato».
Se dovessi scegliere tra la vicedirezione e la conduzione
di Ore 14 per cosa opteresti?
«Sceglierei tutta la vita Ore 14. Un vicedirettore ad personam è un generale senza esercito. Non credo che quella di Marano sia una mossa contro Ranucci, muoiano Sigfrido e tutti gli altri vice ad personam. Report è un valore per l’azienda. Credo che Marano abbia sollevato la questione in riferimento a una norma già esistente».
Vita dura a TeleMeloni anche se si è considerati in quota Lega?
«Questa quota è davvero ridicola. L’ultima volta che ho parlato di Rai con Matteo Salvini era il 2003. Uscivo da corso Sempione e lui, consigliere comunale, manifestava contro il canone con un gruppo di militanti».
Già allora.
«È una battaglia storica della Lega».
E tu che cosa ne pensi?
«Che il canone deve esserci e deve essere di stimolo per fare un prodotto sempre migliore. Sarebbe bello produrre tutto gratis, ma a quel punto le risorse dovrebbero essere attinte altrove. Se pescassimo di più dalla pubblicità creeremmo seri problemi agli altri editori. Ricordiamoci che la Rai assolve a funzioni che non possono competere alle tv commerciali, come l’informazione regionale e dalle sedi estere. Detto questo, se mi consenti, voglio farti io una domanda».
Prego.
«Se uno è in quota a un partito resta senza lavoro e fa causa alla Rai? La verità è che sono sempre stato lontano dalla politica».
Però hai sposato Miss Padania…
«E lo farei ancora. Se la mia appartenenza dipende dal fatto che ho sposato una ragazza che a 18 anni ha vinto un concorso di bellezza, vabbé. Allora, se Sara avesse vinto anche Miss Italia invece di arrivare solo in finale, avrei la targa di Forza Italia?».
O di Fratelli d’Italia.
«Quello no; all’epoca non c’era».

 

La Verità, 21 dicembre 2024

«Senza la politica non si programma la rinascita»

Onorevole Rino Formica, che cosa vede dalla sua casa romana?

«Vedo troppa improvvisazione. E la tendenza a utilizzare l’emergenza come alibi per non affrontare i problemi di lungo respiro».

Quali sono?

«È urgente intervenire sugli assetti costituzionali del Paese. Ma questo richiede un pensiero politico e forze in grado di sostenerlo: entrambi evanescenti. Non è una situazione nata di recente, da trent’anni viviamo una decadenza morbida».

Novantaquattro anni compiuti, già ministro delle Finanze dei governi Spadolini e Andreotti, Formica unisce alla saggezza e alla lucidità dell’analisi la grande passione per la politica. Che «è stata abolita».

Come ha vissuto la pandemia?

«Come la può vivere chi si trova di fronte a una novità, non del tutto inimmaginabile».

In che senso?

«È un fenomeno che ha imposto un livellamento in una società organizzata in diseguaglianze. Chi ha la mia età ha vissuto situazioni drammatiche che però non erano mai l’ultima spiaggia. Invece, la pandemia ha fatto riflettere sulla possibilità dell’ultima spiaggia per tutti. Se non si fosse realizzato il vaccino in pochi mesi saremmo ancora ostaggi di un fenomeno distruttivo e fuori controllo».

Che prova è stata per la politica italiana?

«Penso che abbiano guadagnato punti coloro che ritengono che la politica sia un lusso, un filosofare, un perdere tempo».

Amara conclusione.

«Sì, perché questa situazione ci rende più deboli nell’affrontare i problemi del ritorno alla normalità. La crisi dei partiti è innanzitutto la crisi del pensiero politico. La riprova l’abbiamo nel fatto che ogni giorno nascono nuovi partiti in Parlamento, ma non nel Paese».

Si riferisce a Coraggio Italia?

«È l’ultimo esempio. Che ne sarà di questi partiti parlamentari quando si voterà? Vediamo alle elezioni amministrative che i partiti scompaiono e diventano forze civiche».

Sulla pandemia l’Europa si è mostrata lenta e farraginosa?

«Meno di quanto lo è stato il rapporto tra le giunte regionali e il governo nazionale».

Perché manca omogeneità politica?

«L’omogeneità si misura rispetto al pensiero politico che invece latita. Prendiamo la Lega e il Pd: oggi, a tre quarti della legislatura, sono diversi da come sono entrati in Parlamento. Diversi nella leadership, nelle prospettive, nelle alleanze, nelle collocazioni».

Che cosa disapprova di questi cambiamenti?

«Che avvengano nel chiuso di club oligarchici se non addirittura nella mente del capo carismatico. Posso anche approvare la conversione europeista della Lega, ma vorrei sapere com’è avvenuta e come si è radicata».

E cosa pensa dell’evoluzione del M5s?

«Penso che non ha più un dirigente né un’idea. Non rappresenta più il populismo giustizialista delle origini e nemmeno “il partito del No”. È in disfacimento».

Perché non si fanno più i congressi di partito?

«Per due ragioni. Fino agli anni Sessanta i partiti erano l’unico centro di elaborazione politica, poi anche le istituzioni si sono politicizzate. Oggi il congresso dell’Anm è un congresso politico. Questa pluralità di confronto è un bene perché investe l’intera società».

E la seconda ragione?

«Dall’abrogazione delle ideologie è derivata l’abolizione della politica. Come ci può essere confronto in un partito se non c’è un pensiero da aggiornare? Il paese che ha strutturato il partito moderno è la Germania. Nella socialdemocrazia e nel Partito popolare tedesco c’erano congressi strategici, relativi al lungo periodo, e congressi tattici. Anche in Italia era così».

Oggi i social hanno sostituito i congressi e la politica è diventata propaganda?

«Il primo insegnamento ricevuto dai vecchi compagni è stato questo: la politica vive tutti i giorni e se tu non te ne occupi qualcun altro lo fa al posto tuo. In un mondo globale e interconnesso, l’assenza di soggetti forti è rimpiazzata da interferenze di carattere internazionale. Perciò, sono sorpreso quando qualcuno si scandalizza perché cinesi e russi s’interessano all’Italia. È sempre avvenuto, ma una volta esisteva un Paese impermeabile alle contaminazioni esterne».

Se la politica diventa propaganda è naturale che per governare si ricorra a figure extraparlamentari come Mario Monti, Giuseppe Conte e Mario Draghi?

«Nessun partito di governo mostra capacità di attrazione alla coalizione. Ognuno pensa per sé. Al massimo si fraziona il potere con il manuale Cencelli, ma poi prevale il caos in cui chi prima si sveglia ruba le scarpe al fratello».

Come tra Lega e Pd?

«Esatto. L’idea che destra e sinistra non siano più il principio selettivo fa convergere tutti al centro. Ma è un centro di mediazione di poteri e non di idee. Così si ricorre a una sorta di arbitraggio esterno. Con Conte e con Draghi siamo entrati in una fase di centrismo post democristiano di matrice andreottiana».

Qual è l’alternativa?

«Costruire un pensiero politico di sistema e non di parte. Dobbiamo giudicare gli atti di governo in base all’aumento o alla diminuzione delle diseguaglianze sociali. È la riflessione provocata da Enrico Letta con la proposta della tassa di successione per aiutare i giovani».

Era il momento di farlo?

«Ha sbagliato tempo e modalità, ma ha posto il problema».

Concorda con Draghi per il quale questo è il momento di dare e non di prendere?

«Credo che l’esempio della tragedia di Stresa sia illuminante. Per superare la crisi del turismo si dà il bonus, ma poi i turisti muoiono. Voglio dire: non c’è più debito buono o cattivo, ma un debito che aumenta o diminuisce le diseguaglianze».

C’è un uso buono e uno cattivo del debito. La pandemia ha risparmiato i garantiti, statali e pensionati, e penalizzato i non garantiti, artigiani e commercianti?

«Per questo bisogna rivedere lo stato sociale. Serve una nuova solidarietà. Finora crediamo di aver risolto la crisi con la tacitazione della protesta, con l’indebitamento trasferito alle nuove generazioni e con l’abbandono di intere aree disastrate del Paese sia al sud che al nord».

Bisogna rivedere anche lo schema destra-sinistra?

«Bisogna stabilire dove andare a prendere il denaro. Non è solo un problema di tassazione, anche l’assistenzialismo che disincentiva il lavoro non ha senso. Dobbiamo rispondere ad alcune domande: la crescita è spontanea o guidata? Qual è il ruolo pubblico nello sviluppo dell’economia? Come si risolveranno i problemi delle aziende in crisi che non reggono l’evoluzione del mercato?».

Però la mappa è cambiata, oggi le istanze popolari e delle periferie sono interpretate dalla destra.

«Non sono sicuro che la lotta alle diseguaglianze resterà configurata come oggi».

Dipende se la sinistra continuerà a privilegiare i diritti civili su quelli sociali.

«Dubito che il Pd riuscirà a mantenere una linea pariolina quando il sindacato di riferimento si radicalizzerà con l’aggravamento della condizione dei lavoratori. Lo spostamento a destra del Pd e a sinistra della Lega deriva dalla tregua sociale mantenuta dagli scostamenti di bilancio, dai sussidi e dalla tolleranza dell’Europa verso il nostro debito. Questa situazione volge al termine perché gli interventi salvifici della Bce scadono e l’anno prossimo si dovrà rientrare nei parametri».

Non è un annuncio un po’ precoce?

«Non credo. Le classi dirigenti si misurano dalla capacità di anticipare le visioni e non di vedere ciò che già è avvenuto o di occultare ciò che sta per succedere. Draghi sa molto più di ciò che dice e se si mantiene sul presente è perché potrebbe essere destabilizzante parlare del futuro».

Vorrà affrontare un’emergenza alla volta?

«Un uomo di governo deve conoscere l’itinerario. Draghi non è stato chiamato per governare i prossimi vent’anni, ma per mettere in piedi il Paese. C’è la necessità di sopravvivere oggi, ma c’è anche l’esigenza di creare la muscolatura per poter correre domani».

È favorevole a prolungare il blocco dei licenziamenti?

«Io sono favorevole al blocco dei licenziamenti purché si dica che il differimento del debito sarà pagato in termini di sviluppo. Nessun pasto è gratis. Non possiamo cavarcela dando 10.000 euro a un giovane al quale abbiamo messo 100.000 euro di debito sulle spalle».

Il ripristino della tassa di successione per sostenere i giovani è una panacea?

«Soprattutto è la tassa più facile da evadere, chi ha patrimoni importanti trova mille modi per aggirarla. Se Letta avesse proposto il 5% di Iva in più sulle auto di lusso, quella sì sarebbe stata un’imposta certa».

Qual è il suo giudizio sui 100 giorni del governo Draghi?

«È stato aiutato dalla fortuna e poi ha fatto qualche buona scelta, per esempio nell’organizzazione della vaccinazione. Però, liberiamoci dai luoghi comuni consolatori. Non abbiamo goduto di maggiore indulgenza internazionale di quella che avremmo comunque avuto essendo il Paese più disastrato d’Europa. Nessuno può permettersi il crollo dell’Italia. Per Draghi il difficile verrà con il semestre bianco perché non ci sarà il paracadute delle elezioni anticipate».

Che cosa accadrà?

«La questione sociale dovrà trovare un punto di sfogo. Se sarà impetuoso come ci si aspetta, potrà travolgere anche chi proverà a cavalcarlo. L’incantesimo di quest’anno e mezzo, in cui si è pensato di lavorare stando a casa o di vivere con i sussidi, si è rotto. Chi non lo vede o finge o è cieco. Quando il potere non potrà più distribuire dovrà rispondere alle domande. Se non saprà farlo potrà nascere un contropotere che può vincere o essere represso con la forza. Siamo vicini al bivio».

Fosca previsione?

«La dico in un altro modo. Stiamo scalando la vetta e finora, con sussidi e sostegni, abbiamo cambiato i rapporti. Ma adesso sono finiti e si va su solo con i muscoli. Non possiamo più ipotizzare il futuro perché ci siamo già dentro».

Nella sua palla di vetro chi vede al Quirinale e a Palazzo Chigi nel maggio del prossimo anno?

«Non faccio nomi, ma identikit. Al Quirinale vedo qualcuno che per cultura ed esperienza incarni la difesa della Carta costituzionale, slegata dai trasformismi degli ultimi trent’anni. Immagino una donna. Quanto al capo del governo, lo sceglierà lei».

 

La Verità, 29 maggio 2021

«Se la destra vuole governare deve maturare»

Storico, saggista, autorevole firma del Corriere della Sera, di recente Ernesto Galli della Loggia ha vergato due interventi sul marmo. Il 12 gennaio a proposito dei fatti di Capitol Hill ha scritto che «ciò che spinge la gente in piazza non sono tanto le diseguaglianze, ma il sentimento di giustizia offeso». Mentre il 21 gennaio si è chiesto «che cosa altro deve succedere in Italia perché cambi il sistema politico, perché cambino le regole che lo governano? Non basta avere da tre anni come presidente del Consiglio un signor nessuno mai presentatosi in alcuna competizione elettorale?».

Professore, il fatto che il suo editore Urbano Cairo si sia espresso contro la crisi rappresenta un problema per gli editorialisti del Corriere della Sera?

«No, nessun problema direi. Gli editorialisti del Corriere rispondono al direttore ed è lui che decide se pubblicarli o no».

Secondo lei Giuseppe Conte è fuori dai giochi?

«Direi che ha ancora il 50% di probabilità di farcela. La situazione è così oscura e intrecciata che è difficile andare oltre qualche profezia in percentuale».

Qual è il mistero di Conte?

«Non c’è nessun mistero. Ha approfittato della situazione straordinaria nella quale i partiti vincitori delle elezioni del 2018, Lega e 5 stelle, si sono trovati: privi di un esponente in grado di metterli d’accordo, sono dovuti ricorrere a una figura terza. È stato prescelto proprio perché sconosciuto. Da lì in poi Conte è stato abile a cavalcare gli avvenimenti. Non c’è un segreto, se non che è una personalità duttile».

Non male come eufemismo.

«La duttilità è la capacità di adattarsi alle circostanze».

A me viene in mente Arturo Brachetti, l’attore trasformista.

«A me Fregoli, un Fregoli della politica».

Perché tutti lo vogliono tenere, a parole?

«Be’ proprio tutti non direi, diciamo molti. In ogni caso una persona che si adatta fa comodo. Anche se così si realizza una situazione in cui non si sa bene chi si adatta a chi».

Per qualche giorno la crisi è sembrata una guerra sulla sua testa?

«Sì, ma in realtà è una guerra tra partiti che o non hanno futuro o, pensando di averlo assai incerto, provano a garantirsi la sopravvivenza nel disfacimento generale».

Se Conte farà il suo partito toglierà voti al Pd e ai 5 stelle che, oltre la facciata, preferiscono un cambio a Palazzo Chigi?

«Cambiare Conte significa convincere i 5 stelle a trovare un altro premier. La sua forza è che nessun altro sembra in grado di garantire la convivenza tra Pd e M5s. D’altra parte senza Italia viva non ci sono maggioranze di centrosinistra diverse».

Conte ha resistito così tanto grazie alla pandemia?

«La pandemia lo ha aiutato, ma anche la sua adattabilità. Con lui il trasformismo è arrivato ai vertici del sistema».

Dietro l’aria azzimata c’è un politico inflessibile?

«Abbiamo appena finito di dire che è duttile… L’aria azzimata è tipica di un certo avvocato meridionale di un tempo che ignora l’abbigliamento casual. Cravatta e camicia bianca, poi, sono da sempre l’uniforme del politico italiano medio».

Ha esautorato il Parlamento con i dpcm.

«Non è certo il primo che governa con i decreti. Sono anni che il Parlamento è sopraffatto dall’attività legislativa del governo. Ma in questo caso che cosa sarebbe accaduto se su ogni provvedimento di emergenza si fosse aperto un confronto parlamentare, magari a botte di centinaia di emendamenti?».

È accentramento scrivere il Recovery plan affidandolo a una task force di sei manager scelti da lui?

«Non sono pregiudizialmente contrario ad accentrare certe decisioni. Purtroppo gli accentratori che Conte ha scelto hanno partorito un testo ridicolo. Non credo però che un bel tavolo di confronto con le regioni avrebbe fatto meglio».

Ha gestito con una struttura privata le immagini da diffondere sui media.

«Questo è un comportamento davvero singolare. Sarebbe interessante sapere se Rocco Casalino o la sua società si facevano pagare per cedere le immagini alla Rai».

Che sono sempre le stesse, come ai tempi dell’Istituto Luce.

«Il Luce era una cosa seria. Diciamo un’azione da Minculpop de noantri».

In questi giorni la parola più gettonata è europeismo: è la discriminante per escludere la destra di Matteo Salvini e Giorgia Meloni?

«Fossi Ursula von der Leyen avvierei un’azione legale contro chi usa il mio nome e quello dell’Europa per qualificare cause poco raccomandabili. Ognuno piega l’Europa secondo convenienza. È il modo giusto per screditarla».

I miliardi del Recovery fund l’Europa li dà solo se governa qualcuno che le è gradito?

«No, ma prenderla a sberle ogni giorno non facilita certo i rapporti. Non si va a chiedere un prestito in banca maltrattando gli impiegati e insultando il direttore…».

Senza arrivare ai maltrattamenti si può rivendicare autonomia nell’uso dei fondi?

«Sono stati assegnati all’Italia, ma a certi scopi. L’Europa vuole vedere se li rispettiamo. Il Recovery fund sarà il cuore della politica dei prossimi anni. Un governo di destra avrebbe certo un problema di coerenza se usufruisse di quei fondi continuando a dire che l’Ue è un’istituzione malvagia da combattere».

Il voto dei singoli paesi conta qualcosa?

«Certo. Il problema è che il voto di alcuni paesi conta più di quello di altri. Il voto dell’elettore tedesco elegge un governo che pesa più di quello italiano e quindi conta di più».

Sulla pandemia e sulla crisi economica annaspiamo: come vede il governo di salvezza nazionale?

«Non mi piacciono i governi di unità nazionale se non durante le guerre. Nei regimi democratici i governi devono essere governi politici. Durante una guerra si ha un unico obiettivo: vincerla. Paragonare l’epidemia a una guerra è inutile retorica. Durante un’epidemia si combatte il virus con il vaccino, ma produrre vaccini non è compito dei governi, distribuirli riguarda invece l’amministrazione, sulla quale i partiti hanno visioni diverse».

Il centrodestra è andato da Mattarella unito, Forza Italia entrerà in un governo di larghe intese?

«Probabilmente sì se ce ne sarà l’occasione, che però non vedo all’orizzonte».

Anche Salvini ha aperto a un governo di salvezza nazionale, senza Conte, che faccia poche riforme.

«Mi sembrano parole, solo Salvini sa che cosa voglia davvero».

Se non si andrà a votare, il nuovo capo dello Stato sarà espresso come sempre dal centrosinistra?

«Molto probabile. Ma bisogna vedere quali saranno i candidati e ricordare che il voto è segreto. Se si candidasse Massimo D’Alema, ad esempio, credo che per primi qualche decina di parlamentari del centrosinistra non lo voterebbero».

Proverrà dalla solita area?

«Sì, ma i nomi, cioè le persone, fanno la differenza. Ad esempio Pierferdinando Casini è un senatore del centrosinistra, ma sono sicuro che avrebbe un’ampiezza di consensi maggiore della sua parte».

Se invece ci fossero le elezioni vedrebbe come candidato del centrodestra uno come Giulio Tremonti?

«Certo. Un altro potrebbe essere Giancarlo Giorgetti».

Il centrodestra riuscirà a proporre una classe dirigente autorevole?

«Tra quanti anni? Temo ci sia bisogno di un lungo processo di cui però non vedo ancora l’inizio. Faccio un esempio: parlare dell’Europa come un mostro o in modo apocalittico della presenza degli immigrati non favorisce certo la formazione di una classe dirigente dotata di autorevolezza e di un minimo di spirito critico».

Come mai, da angolazioni diverse, sia lei che Tremonti avete evocato la Rivoluzione francese come esempio di sfogo finale della rabbia di larghi strati della popolazione?

«Forse perché non siamo degli ottimisti a 18 carati. Perché vediamo ciò che succede nel mondo. Se in questi giorni c’è stata una rivolta che ha messo a ferro e fuoco alcune città della pacifica Olanda, immagini cosa può accadere in Italia».

Oltre alla diseguaglianza economica qual è la molla di queste rivolte?

«L’essere rimasti in tanti per un anno senza reddito e vedere il proprio livello di vita avvicinarsi a quello della miseria. La forte diversità tra la massa e le élites fomenta la rabbia, certo, ma il Covid è decisivo. L’Europa è diversa dagli Stati Uniti, ma senza il Covid sono convinto che non ci sarebbe stato nemmeno l’assalto a Capitol Hill».

Qual è la cosa più grave che Salvini non capisce della situazione attuale?

«Non capisce che la piattaforma della Lega è invisa a molta gente che pure è tutt’altro che tifosa della sinistra».

Non sarà una strategia di marketing?

«Con il suo modo di fare e di parlare Salvini consolida solo lo zoccolo duro sovranista. Se il suo obiettivo è di riuscire a essere eletto a vita in Parlamento, senz’altro ci riuscirà. Ma se il centrodestra ambisce a governare, il leader leghista non deve accontentarsi dello zoccolo duro».

Alla sua destra Fratelli d’Italia cresce.

«Ma più o meno vale anche qui lo stesso discorso. Il compito delle forze politiche di destra è far maturare la propria base elettorale tradizionale per allargarla e arrivare a essere maggioranza. Ma perché questo accada devono maturare anche i suoi stessi dirigenti, che invece sembrano votati a restare minoranza».

Qual è invece la cosa più grave che non capisce il Pd?

«Che per mantenere il ruolo politico centrale che per un gioco del destino gli è capitato, sarebbe bene avere delle idee per il paese. Idee sul sistema fiscale, sull’avvenire della scuola, sulla raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. Idee che riguardino cioè i problemi veri del Paese e dei cittadini».

Quelle per le quali il Pd si spende sono genitore 1 e genitore 2 o il ddl sull’omotransfobia?

«Non direi che il Pd si spenda per queste idee, ne parla a mezza bocca e le sostiene a metà. Non ha il coraggio di opporsi mai a un certo genere di proposte».

A chi soggiace?

«A gruppi di opinione molto attivi. Non propone questi temi per primo, ma si fa ipnotizzare da idee non sue».

L’Italia resterà un paese in maggioranza moderato governato dalle sinistre?

«Se la destra non cambia, i moderati preferiranno a lungo di farsi rappresentare da una sinistra che non è certo composta da pericolosi bolscevichi».

Anche se ha una somma di consensi inferiore?

«Ma ha una capacità di coalizione maggiore, ed è quello che conta. Se la destra non accresce la sua capacità di dialogo e di allargamento del consenso può essere sicura che un presidente della Repubblica non lo eleggerà mai».

 

La Verità, 30 gennaio 2021

«Senza una scossa si va dal lockdown allo showdown»

Professor Massimo Cacciari, l’ho visto più rilassato di altre volte qualche sera fa a Otto e mezzo: soddisfatto dell’esito delle elezioni?

«Soddisfatto… Sono state elezioni di conservazione».

In che senso?

«Nel senso che hanno mostrato che la maggioranza degli elettori teme il futuro e tende a non agitare ulteriormente la situazione. Conte e il governo ne sono usciti consolidati. Segni di mutamenti sostanziali non ne ho visti».

E il trionfo di Nicola Zingaretti?

«Macché trionfo. Zingaretti ha scongiurato il pericolo che, cadendo la Toscana, sarebbe caduto pure lui. Dopo di che in Campania e in Puglia hanno vinto due capibastone. Oso sperare che il Pd non sia modellato su Michele Emiliano e Vincenzo De Luca».

Il Pd chiederà di cambiare i decreti sicurezza e di introdurre lo ius soli?

«Non so quanto voglia mettere alla prova il governo o consolidarlo. Nel Pd c’è un problema colossale: nessuno del gruppo dirigente ha una vera legittimazione dalla base. E non l’avrà fin tanto che non si farà un congresso e si creerà una vera maggioranza. Zingaretti continua a essere un uomo sospeso».

I successi di Luca Zaia, Giovanni Toti, Stefano Bonaccini e De Luca dimostrano che gli uomini nuovi vengono dal territorio perché gli elettori si fidano degli amministratori più che dei dichiaratori da talk show?

«È un discorso fatto altre volte. Alle amministrative di Venezia nel 1997 presi il 65%. A Roma tutto cambia: spesso comandano quelli massacrati a casa loro, come Dario Franceschini. La politica di oggi è talmente centralistica e burocratica da cancellare qualsiasi illusione federalistica. Non vedremo mai i De Luca e gli Emiliano presidenti del Consiglio».

Per il M5s, referendum a parte, è stata una débâcle.

«Ed era prevedibilissimo. In queste elezioni era tutto prevedibilissimo, fuorché Zaia».

Ci arriviamo. Perché si aspettava un risultato negativo dei grillini?

«Se si chiede agli elettori di eliminare un po’ di poltrone o di dimezzare gli stipendi dei parlamentari, come vuole che rispondano? Come si fa a parlare di vittoria storica… Ha ragione Alessandro Di Battista: non si può nascondere la totale mancanza di radicamento territoriale e di competenza amministrativa del M5s dietro il risultato del referendum. I 5 stelle devono decidere se restare un movimento di opinione che campa con referendum demagogici o se cominciare davvero a fare politica».

Gli altri sconfitti sono la Lega di Salvini e Matteo Renzi?

«Renzi è andato straordinariamente male anche nella sua Toscana. Ha sbagliato tutte le mosse, come Salvini. Sono due persone che pagano la loro megalomania».

Quali errori ha commesso Salvini?

«Il primo è stato l’atto autolesionistico di un anno fa. Poi in queste elezioni ha spostato l’asticella in cielo, illudendosi di conquistare l’Emilia Romagna, con quella candidata, e la Toscana idem. La stessa cosa che aveva fatto Renzi con il referendum: o me o morte. Sono persone divorate dalla loro megalomania. Salvini adesso ha anche il problema di Giorgia Meloni».

Che però lei non vede leader del centrodestra.

«Pesa ancora troppo il suo passato. Poi, visto l’arretramento di Forza Italia, dobbiamo ridiscutere il concetto di centrodestra, chiedendoci di quale destra parliamo. E qui diventa interessante il caso Zaia».

Eccoci al punto. In questi giorni Cacciari ha rivelato che alcuni suoi amici di centrosinistra hanno votato per il governatore del Veneto. Lui no, è rimasto fedele alla linea… Ma rimane il fatto che la parabola di Zaia lo stimola.

Perché incarna una destra più presentabile?

«Non è solo un fatto d’immagine. Zaia rappresenta una destra diversa, che non vive di comizi, che non fa il karaoke, che non si limita agli slogan. Ma una destra che amministra, radicata nel territorio, che interpretando gli interessi dell’imprenditoria, dell’agricoltura, delle reti commerciali e artigianali ha saputo modificare la struttura di una regione».

Altra cosa rispetto alla Lega salviniana.

«È una destra borghese anche in senso culturale. Salvini ha fatto la cosa giusta quando ha superato la Lega secessionista di Bossi. Ma ora c’è un altro cambiamento all’orizzonte. La Lega di Zaia è affidabile, non populista, antieuropeista e lepenista».

Si parla di nuova segreteria. Il leader nazionale potrebbe essere Giancarlo Giorgetti?

«Giorgetti e Zaia potrebbero essere i padroni del Nord e Salvini il leader nazionale».

In una fase transitoria?

«Una fase nella quale convicono la Lega populista e quella moderata, fin quando si sceglierà una linea o l’altra».

Un altro tema discriminante è l’immigrazione?

«Nel Veneto ci sono esperienze interessanti d’integrazione. Chi produce sa bene che una certa quota di immigrati è necessaria. Questo senza dimenticare le esigenze di sicurezza, ma anche senza sceneggiate e isterie».

E la Meloni che ruolo avrebbe?

«Intanto erode consensi a Salvini. Poi potrebbe essere l’ala nazionalista con cui allearsi per governare».

Conte continua a galleggiare sulle debolezze altrui?

«Sul piano politico i 5 stelle non esistono. Sono un movimento di opinione, flatus vocis. Il Pd tiene il suo 20% e vince con i capibastone, altrimenti sparisce come in Veneto, Liguria e nelle Marche. Resiste il Granducato di Toscana e l’Emilia. Guardando le mappe di vent’anni fa è evidente che l’eredità si sta consumando. Mi verrebbe da scuoterli: come fate a raccontare che avete vinto? Che congresso potrete mai fare senza una diagnosi realistica?».

E Conte?

«Approfitta del fatto che queste debolezze sono costrette a sorreggerlo. I 5 stelle non andrebbero a elezioni nemmeno con le cannonate e neanche il Pd smania per andarci. Spero che non si limiti a sopravvivere».

Intanto ha detto no al rimpasto. Ci terremo i ministri Azzolina, Bonafede, De Micheli…

«Che cambino un ministro o due significa poco. Quello che conta è decidere se i 200 miliardi del Recovery fund saranno debito in più o verranno investiti nella ricerca, nella scuola, nella formazione».

Il premier ha promesso un cambio di marcia: già sentito?

«Tutti i governi l’hanno promesso. Nei documenti dei famosi Stati generali c’era qualcosa di non già sentito negli ultimi trent’anni?».

Il cambio di marcia è rifare la legge elettorale?

«Devono farlo, altrimenti lo sconquasso sarà totale».

È il momento giusto?

«Tra un mese, quando finirà la cassa integrazione e vedremo fallimenti in serie, gli italiani dovrebbero appassionarsi alla riforma elettorale».

Di Ilva e Alitalia non si parla più…

«Come di scuola e di ricerca. Nel mondo, mentre negli ultimi sei mesi si è registrato un crollo del 10% della produzione, le 90 aziende top dell’informatica hanno aumentato il fatturato di 800 miliardi rispetto al 2019. I big del capitalismo finanziario moltiplicano i profitti, non pagano le tasse e noi parliamo di Emiliano e De Luca. Siamo fuori fase noi italiani, noi europei, noi occidentali».

Consigli?

«La politica dopo la Seconda guerra mondiale costringeva i grandi capitalisti a pagare le tasse e inventava forme di previdenza risolutive per i ceti più sfortunati. Questa urgenza dovrebbe accomunare le forze politiche, al di là di destra e sinistra, invece…».

Si pensa a prorogare lo stato di emergenza.

«Mi auguro che non avremo più lockdown generalizzati. Non possiamo guarire dal Covid crepando. La morte è la migliore medicina, ma se vogliono far guarire il Paese uccidendolo ce lo dicano. Dopo di che, bisogna avere grande attenzione alle regole».

Per esempio?

«Evitando gli eccessi visti in Sardegna. Evitando certi negazionismi. L’epidemia c’è e non è ancora stata sconfitta. Servono indicazioni precise, istruzioni chiare ai medici di base, potenziamento delle strutture sanitarie, delle terapie intensive, le zone rosse tempestive, non come a Bergamo. Ma, detto questo, tutto deve pian piano ripartire».

Beppe Grillo parla di reddito universale e il M5s continua a proporre bonus.

«La società contemporanea va verso una riduzione drastica del lavoro. Questo problema va affrontato con competenza e responsabilità. Doti che al M5s mancano, come si è visto dalla distribuzione a capocchia del reddito di cittadinanza. Ci vogliono criteri e controlli precisi. Altrimenti si creano nuovi ghetti di precari e sottoccupati».

Il pericolo è la società parassitaria di massa?

«Il reddito di cittadinanza non può autorizzare a stare a casa a grattarsi la pancia. Se il lavoro non ce l’hai ti industri per trovartelo o inventartelo. Servono strutture e meccanismi di formazione permanente. Se si continua con la mentalità del lavoro fisso e dello stipendio al 27 del mese, il risultato sarà la nascita di ghetti di poveri e ricchi sempre più distanti tra loro, mentre il ceto medio andrà in malora».

In occasione del caso Palamara si aspettava un’iniziativa maggiore del capo dello Stato, presidente del Csm?

«Il caso Palamara è molto grave, ma anche prevedibile. La crisi dei partiti si è allargata alle altre istituzioni e ai gruppi dirigenti. Una certa prudenza del capo dello Stato è comprensibile, qualsiasi suo intervento avrebbe acuito questa crisi. Il picconatore Cossiga poteva esternare perché c’era ancora la Prima repubblica».

Dove ci porterà una politica fatta di piattaforme, monopattini e banchi a rotelle?

«Dove già siamo. A una politica priva di professionalità e responsabilità. D’altra parte, chi è causa del suo mal pianga sé stesso. Alla fine della Prima repubblica c’erano giornali o tv che non alimentavano la retorica anticasta e sottolineavano l’importanza della competenza e della responsabilità?».

Che cosa ci aspetta nei prossimi mesi?

«Mi auguro di vedere un governo che, sulla base di un’analisi realistica, sappia gestire i soldi del Recovery fund».

Che però arriveranno a giungo 2021.

«Ma già ora bisogna decidere. Se si sceglierà una prospettiva di sviluppo, bene. Se invece prevarrà la logica assistenzialistica vista finora, si passerà direttamente dal lockdown allo showdown. E quando saremo obbligati a rientrare nei parametri, qualcuno metterà le mani nei nostri conti correnti come fece il governo Amato a inizio anni Novanta».

 

La Verità, 26 settembre 2020

«Vi racconto la vera storia della crisi di mezza estate»

Ladri di democrazia. S’intitola così, senza tanti giri di parole, il pamphlet nel quale Paolo Becchi, con Giuseppe Palma, racconta la vera storia della «crisi di governo più pazza del mondo» (Historica editore). Il professore di filosofia del diritto, già considerato l’ideologo del M5s per la vicinanza a Gianroberto Casaleggio, segue dalla sua casa di Genova i mutamenti della politica e l’evoluzione dei pentastellati, destinati, a suo avviso, a diventare «una piccola formazione di sinistra ecologista». Tutt’altro che periferico, Becchi è stato protagonista del disperato tentativo di mediazione agostano tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio che, per un attimo, aveva riaperto lo spiraglio per una riedizione del governo gialloblù con il capo grillino premier. «Doveva andare così, invece ora penso che il presidente Mattarella sarà pentito delle scelte che ha fatto quest’estate». Insomma, il professore la sa lunga e perciò conviene andare con ordine.

Cominciamo dalla fine, quella dei 5 stelle: davvero Grillo scioglierà il movimento come si sussurra?

«Mmmh… non credo. Secondo me lo lascerà così. Nemmeno lui ha la forza di scioglierlo. Lo renderà biodegradabile… O biodegradato».

In che senso?

«Diventerà una formazione marginale, un partitino di ecologisti di sinistra».

Il giocattolo è rotto e non si può aggiustare?

«Non vedo nessuno in grado di farlo. Il movimento aveva il suo Garibaldi, Grillo, che guidava le cariche, e il suo Giuseppe Mazzini, Casaleggio, il visionario che ci metteva il pensiero. Serviva un Cavour, ma non l’hanno mai avuto. Nel frattempo è morto proprio Mazzini».

Di Maio doveva essere il Cavour del M5s?

«Forse, ma ci voleva tempo per farne un grande pragmatico capace di gestire il potere».

La crisi attuale dipende dal personale politico, dai rapporti con la Casaleggio associati o da alleanze sbagliate?

«È venuto meno il principio unitario che teneva insieme l’organismo. L’originalità del movimento derivava dalla visione di Casaleggio che immaginava una società senza partiti, nella quale il cittadino avrebbe fatto politica senza intermediazioni, attraverso la Rete».

Utopia, sogno

«Non bisognava abbandonarlo, bensì integrarlo nella democrazia rappresentativa. Ora che si è perso l’elemento identitario qualificante è difficile trovarne un altro. La Lega nord si è trasformata in partito nazionale, ma l’idea autonomista è rimasta come elemento di fondo. Il M5s voleva abolire le poltrone e ora, per non sparire, i suoi uomini si attaccano proprio alle poltrone. Sono diventati il tonno dentro la scatoletta. Tra il 2013 e il 2018 hanno perso un’occasione storica. Dovevano cambiare la politica invece sono diventati un asse della partitocrazia. E poi c’è un altro fatto…».

Dica.

«I grillini rivendicano di aver riportato i cittadini alla politica. In realtà, se si guardano i numeri, nel lungo periodo l’astensionismo è aumentato».

Brusco risveglio in Umbria?

«Quando un partito ottiene un buon risultato alle politiche, poi lo dimezza alle europee e lo dimezza ancora alle regionali prendendo meno voti di Fratelli d’Italia, come si fa a non trarre le conseguenze. Quelle dell’Umbria sono state le prime elezioni dopo la nuova alleanza voluta da Grillo. Se si fosse andati a votare prima dell’accordo col Pd, il M5s poteva presentarsi ancora come forza antisistema. Ora ne è pienamente parte e la corrente di protesta si è spostata tutta sulla Lega. La verità è che la crisi di agosto non doveva finire così».

E come?

«Di Maio non voleva la rottura. E Salvini, quando ha visto l’uscita di Matteo Renzi, ha tentato in tutti i modi di fermare l’alleanza tra Pd e 5 stelle. Fino a telefonare al presidente Mattarella, proponendo Di Maio premier con un programma più articolato e una compagine diversa».

Tipo?

«Senza Danilo Toninelli e Giovanni Tria e con Conte commissario a Bruxelles. Glielo dico perché la mediazione l’ho fatta io, giorno per giorno».

Qualcosa ho letto in Ladri di democrazia

«Non ho potuto scrivere tutto… Quando ho capito che la faccenda si metteva male li ho chiamati. Io ero un sostenitore del governo gialloblù… Certo, mancava la sintesi, i leghisti ottenevano un risultato e i grillini un altro. Poi è cresciuto il ruolo di Giuseppe Conte».

Torniamo ad agosto.

«Dopo l’intervista di Renzi che seguiva le dichiarazioni di Grillo era chiaro che si sarebbe andati all’accordo col Pd. Di Maio non ne era per niente convinto, ma per fermare il treno ha posto come condizione di fare il premier».

Quindi non è stata un’idea solo di Salvini?

«Per garantirsi, Di Maio ha chiesto che fosse Salvini a parlarne a Mattarella. Domenica 25 agosto Salvini chiama il Quirinale, ma il presidente è fuori per impegni istituzionali. Quando nel pomeriggio Mattarella richiama e Salvini gli prospetta il governo con Di Maio premier, il presidente non si sbilancia. Non so se informi Di Maio o se avverta Zingaretti, fatto sta che il giorno dopo Zingaretti, fino a quel momento fermo sulla discontinuità, accetta Conte premier. Questa è la pura cronaca. Ora penso che Mattarella cominci a pentirsi delle scelte che ha fatto».

Prima c’era stata la conversione di Grillo che aveva deciso che il Pd non era più il nemico numero uno. Che cosa gli aveva fatto cambiare idea?

«Non so. So solo che in quei giorni viene informato del fatto che suo figlio è indagato per stupro».

Che cosa c’entra con il ribaltone sul Pd?

«Magari nulla, non so cosa sia avvenuto nella sua testa. Però c’è la contemporaneità, il giro sulla moto d’acqua del figlio di Salvini ha occupato le prime pagine per settimane, dell’accusa di stupro a suo figlio si è parlato mezza giornata. Fino a quel momento il Pd era il partito di Bibbiano. Poi, improvvisamente, Grillo dice che bisogna finirla con i barbari e allearsi con il Pd».

Tutto si è messo in moto da lì.

«Grillo ha sempre disprezzato Salvini, mentre considera Conte un elevato, lo ha anche scritto. Forse pensa che a lungo andare potrà sostituire Di Maio. Ma quel cambio di rotta è inspiegabile, anche perché c’era un accordo…».

Cioè?

«Una spartizione di ruoli: l’associazione Rousseau paga tutti i processi di quelli cacciati dal movimento e Grillo si ritira nel ruolo di padre nobile. Non a caso crea il suo blog mentre Di Maio, appoggiato da Davide Casaleggio, diventa il capo politico. Fino ad agosto, quando cambia tutto».

Il ritiro di Grillo non era causato dalla stanchezza…

«C’era un accordo, ricordiamoci sempre che è genovese… Di Maio è rimasto spiazzato perché non si aspettava che intervenisse in prima persona. Per far passare l’accordo, Grillo non voleva specificare il nome del Pd nel quesito sulla piattaforma. Adesso aspettiamo di vedere che cosa dirà sulle regionali in Emilia Romagna. Sappiamo solo che è contrario alla posizione di Di Maio».

Tornando a oggi, come hanno fatto a non prevedere il disorientamento degli elettori dopo un cambiamento così radicale?

«Non hanno più il contatto con la popolazione, vivono nel palazzo. Pensi alla trasformazione di una come Paola Taverna che non dava neanche la mano e adesso cerca benevolenza… Non spariranno del tutto, resteranno un partitino votato dagli elettori del Sud che hanno avuto il reddito di cittadinanza».

Previsione troppo nera?

«Non credo. Con Gianroberto Casaleggio c’era un’idea di futuro, c’erano i meet up e gli streaming. Casaleggio aveva detto che se ci si fosse alleati con il Pd sarebbe uscito dal movimento e invece sono gli italiani che hanno lasciato il M5s. Sono divisi su tutto, non riescono nemmeno a nominare i capi dei gruppi parlamentari».

Perché ha lasciato il movimento?

«Per dissensi sulla linea. Mi chiesero di scrivere un atto di accusa di Napolitano, ma poi cambiarono idea e il mio documento finì nel cassetto. Per le europee del 2014 avevo proposto di fare la campagna contro l’euro, allora non era come adesso. Dissi a Casaleggio che stava sbagliando e che Renzi avrebbe stravinto, sappiamo tutti come andò».

Una volta arrivati al governo era troppo difficile gestire l’ideologia della decrescita?

«Il governo gialloblù non ha saputo fare la sintesi tra sovranismo identitario leghista e sovranismo sociale dei 5 stelle. Ma l’Italia ha bisogno di questa sintesi».

C’erano i no alla Tav, all’Ilva, alla Gronda…

«È il motivo per cui Salvini ha staccato la spina. I poteri forti non aspettavano altro e appena si è aperto lo spiraglio si sono infilati per riprendersi tutto. Il M5s non ha saputo mantenere la carica ecologista adattando il messaggio a una strategia di sviluppo sostenibile».

Il futuro del M5s è quello di un partito verde e digitale su modello nordeuropeo?

«Trascuriamo gli eccessi alla Greta Thunberg, ma l’emergenza ecologica è reale. Non vedo altri approdi che quello di una sinistra ecologista, tipo i Grunen tedeschi. Ma in Italia non hanno mai attecchito, è un destino di marginalità».

Destino irreversibile? E Di Maio?

«Destino molto probabile. Di Maio non ha il carisma di Salvini o dello stesso Grillo che entusiasmano le folle. E prima o poi si andrà a votare».

Tra un paio d’anni?

«Non credo, si voterà già nel 2020. Alla fine capiranno che è meglio una morte rapida e dolce rispetto a un’agonia prolungata. Dopo l’Umbria ci saranno l’Emilia Romagna, la Calabria, la Puglia, il Veneto… Se Zingaretti avesse intelligenza politica sarebbe lui a voler votare. Certo, vincerebbe Salvini, ma si libererebbe di Renzi, metterebbe in Parlamento i suoi uomini e potrebbe dar vita a un’opposizione credibile».

Adesso però è al governo.

«In un governo che sta mettendo le tasse sulle cartine per le sigarette. Ma è una gag di Maurizio Crozza o una cosa vera? Un Paese come l’Italia, già settima potenza mondiale, sta decidendo di tassare le cartine per le sigarette: non ci si crede. Una manovra così dà ancora più potere a Salvini. Di Maio l’ha capito, Zingaretti ancora no».

Ha visto Di Maio cantare Pino Daniele al Costanzo show?

«No, come già Gianroberto Casaleggio, non guardo la televisione».

 

La Verità, 3 novembre 2019

«Il mio abbraccio con Salvini ha rotto un tabù»

Sigaro sempre acceso, barba cespugliosa e una matassa di braccialetti al polso, Davide Rondoni, poeta bolognese di 54 anni, si definisce «anarchico e cattolico di rito romagnolo». Ma per molti frequentatori dei social, la fotografia del suo abbraccio con Matteo Salvini è qualcosa che macchia indelebilmente la sua immagine da perfetto irregolare. Altre reazioni? «Sono state scritte cose ridicole. L’abbraccio del diavolo, cose così. Invece, altri si sono mostrati contenti di cogliere un accento umano. Chi ha avuto la pazienza di seguire la diretta su Facebook del Festival dell’Essenziale, dove Salvini era ospite, si è accorto dell’umanità di quell’incontro. L’anno scorso avevo abbracciato la sottosegretaria alla Giustizia Federica Chiavaroli del Pd, ma non si era scatenata la canea di oggi. Purtroppo, in certi ambienti siamo fermi ai cliché degli anni Cinquanta».

L’appuntamento è nella sede del Banco di solidarietà di Bologna, una delle tante attività a cui si dedica Rondoni, curatore di collane di poesia, ideatore di festival e fondatore di clanDestino, rivista di poesia con una D maiuscola non banale dove, a commento della vicenda, ha scritto un post intitolato «Confesso che ho abbracciato»: «Sono un estremista dell’abbraccio… In ogni abbraccio rischio l’anima, più che la reputazione». Niente lavoro fisso, vive in una vecchia stalla ristrutturata sui crinali fuori Bologna: «Con quattro figli io e mia moglie abbiamo bisogno di spazio. Lì ci sono cerbiatti, volpi, cinghiali…».

Che cos’ha di poetico Matteo Salvini?

«Quello che hanno tutte le persone che si impegnano nella realtà mettendoci la faccia. Se affrontata con impegno, la vita rivela sempre livelli nascosti. E la poesia, forse, è la chiave migliore per arrivare a quelli più profondi. Salvini non è un uomo di cultura e il suo non fingere di esserlo lo rende simpatico».

Converrà che, d’istinto, la sintonia tra un poeta e il segretario leghista stupisce.

«Non d’istinto, ma a causa di una cultura che ha dato della poesia un’idea lontana dal reale. Mentre noi siamo il Paese di Dante Alighieri e Pier Paolo Pasolini».

Che incarnarono un’idea concreta?

«Erano poeti impegnati nella realtà della propria epoca».

All’ultimo raduno di Pontida Salvini ha citato un suo verso: quale?

«Amare è l’occupazione di chi non ha paura».

Che vuol dire?

«Per amare una donna, i figli e la realtà che hai intorno non devi essere bloccato dalla paura; dalla paura del sacrificio e della diversità».

Salvini è stato ribattezzato ministro della paura.

«Non mi sembra una definizione sufficiente. Non è lui che ha paura, ma la gente».

Normalmente Salvini parla di «pacchia» dei migranti, di «crociera» delle navi delle Ong, di «ruspe» per radere al suolo i campi rom. Come giudica questo linguaggio?

«È il linguaggio di un politico che sta lucrando un consenso su problemi reali. La propaganda è sempre stata grossolana. Quando la Dc diceva che i comunisti mangiavano i bambini o Prodi che Forza Italia era il nulla non andavano tanto per il sottile».

Certe espressioni potrebbero alimentare atti di razzismo negli strati meno critici della popolazione?

«Più che certe parole, ciò che alimenta un possibile scontro è il disagio che provoca la guerra tra i poveri».

Disoccupati e migranti?

«L’attacco ai campi rom non lo fa chi abita ai Parioli, ma chi vive lì vicino. Comunque, io rispondo delle mie parole».

Come si può definire il vostro rapporto? Intesa, simpatia, affinità, vicinanza…

«Direi semplicemente amicizia. A un convegno sulla demografia avevo commentato il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi, facendo risalire la questione a un problema culturale. Dei politici presenti in sala l’unico che si è avvicinato è stato lui».

Poi?

«Abbiamo bevuto un caffè e ci siamo visti un paio di volte».

Leopardi avvicina Salvini e un poeta di formazione cattolica?

«Leopardi avvicina sempre le persone».

È stato anche l’autore più amato da don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e liberazione dove si è formato anche lei. Fosse vivo come valuterebbe la sua vicinanza con il leader leghista?

«È una domanda alla quale non si può rispondere. Forse non gliene fregherebbe niente. Oppure, visto che amava il gelato ed era un poeta libero dagli schemi, magari prenderebbe un gelato con noi».

Ha votato Lega?

«Questa volta sì. In passato ho votato anche Pd, a volte non ho votato. Non penso che la politica sia la cosa più importante».

Che rapporto ci può essere tra la carità cristiana e la politica di Salvini, tra il cattivismo e il Banco di solidarietà dove ci troviamo?

«La carità è una dimensione della vita. La politica deve prendersi cura dei problemi economici e sociali a cui la carità di per sé non risponde. Poi ogni persona che lo ritenga è chiamata a essere caritatevole nel suo ambito. Qui lavorano dei migranti».

Come ha valutato l’iniziativa dello scrittore Sandro Veronesi che invitava Roberto Saviano a salire sui barconi dei migranti?

«La carità si fa in silenzio, non facendo sapere alla mano sinistra ciò che fa la mano destra. Gli slanci caritatevoli a favore di telecamera non mi commuovono. Su come affrontare un problema epocale come l’emigrazione si possono avere idee e strategie differenti senza pensare che chi ne ha una diversa dalla tua sia cattivo».

In passato ha apprezzato le poesie di Sandro Bondi: è un poeta di destra?

«Continuare a parlare di destra e sinistra non aiuta a capire il nostro tempo. Non sono di destra, ma anarchico, cattolico, di rito romagnolo».

Cioè gaudente?

«Diciamo non clericale. Bondi mi chiese la prefazione a un suo libretto come fanno molte altre persone alle quali non chiedo a quale partito appartengono. Nelle prefazioni scrivo ciò che penso».

Quindi non è un poeta di destra, ma anarchico?

«Il giorno dopo la visita di Salvini, al Festival dell’Essenziale è venuto Moni Ovadia a salutarmi: ho abbracciato anche lui. Sono amico di Roberto Benigni, che sicuramente non è salviniano. La libertà che mi viene dall’esperienza cristiana mi aiuta a comprendere la realtà».

Concorda con Pietrangelo Buttafuoco che commentando sul Tempo quella foto ha parlato di rottura del tabù per cui artisti, scrittori e attori potevano fiancheggiare solo la sinistra?

«Premesso che io non fiancheggio nessuno, forse sì, si può parlare di rottura di un tabù. Il nostro Paese ha bisogno di uscire da troppi cliché e la cultura dovrebbe essere la prima a farlo, non l’ultima».

Altri esempi di conformismo?

«Quando Benigni si pronunciò in favore di Renzi subì un feroce attacco da Dario Fo. Il più libero era Pasolini che non si vergognò di intervistare in tv Ezra Pound quando Pound era considerato peggio del demonio».

Non teme che questa amicizia possa indebolire il suo profilo artistico?

«Non me ne frega niente, così come non penso m’indebolisca l’amicizia con Ovadia, con Benigni o altre persone di sinistra. Di recente l’editore Tallone ha raccolto in un’edizione pregiata la mia opera. Non temo ci sia qualcosa che influenzi uno sguardo libero sul suo eventuale valore».

Da dove deriva la definizione della poesia come «l’allodola e il fuoco»?

«Dai trovatori. La poesia è la voce dell’anima, la voce dell’allodola che non si vede, ma canta tra le tenebre e l’alba».

Che cos’è esattamente clanDestino?

«Una rivista nata trent’anni fa da me e altri ventenni, attraverso la quale scopriamo nuovi talenti e facciamo poesia e letteratura».

E il Festival dell’Essenziale, con tutti i festival che imperversano in Italia?

«È un ritrovo sull’essenziale, nato da persone impegnate nella cultura e nella società con Amici di marzo e Fondazione Claudi».

Come mai porta tanti braccialetti?

«Sono ricordi di viaggi. Questo me lo regalò un tassista tunisino: aveva fatto lo spacciatore di cocaina a Verona. Gli dissi: “Vorresti che i tuoi figli si drogassero?”. “No, ma ero disperato, avevo perso la testa”. Salutandolo, ho abbracciato anche lui».

Come campa un poeta?

«Lavorando. Anche Dante curava gli affari dei Da Polenta, signori di Ravenna. Faceva quello che oggi chiameremmo il responsabile del marketing».

Insegna?

«Niente mestieri fissi, mai assunto da giornali, televisioni, case editrici. Ho diverse collaborazioni, con la Rai, lo Iulm. È una posizione scomoda, ma libera. In passato ho fatto dal guardiano notturno al lettore di contatori. Era divertente, si entrava nelle case…».

Progetti futuri?

«Domenica (oggi per chi legge ndr) a Pordenonelegge parlerò del desiderio, una delle parole del Sessantotto. Citerò il discorso che Pasolini stava scrivendo per il congresso del Partito radicale al quale non riuscì a partecipare: “Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo. E i suoi chierici saranno chierici di sinistra”».

È andata così.

«Il fatto che non ci sia una sinistra credibile per me è un problema vero. Ho anche una storia di sinistra: il mio maestro è Mario Luzi, ho seguito le lezioni di Piero Bigongiari, frequentato Franco Loi e Giovanni Testori. Invece di leggere Pasolini, Pavese e Fenoglio gli intellettuali di oggi leggono Umberto Eco e Michele Serra».

Altre idee?

«Le manifestazioni per i 200 anni dell’Infinito di Leopardi, la prima sarà il 25 ottobre alla Festa del cinema di Roma. Ora che si lega l’identità al fare e alla professione, ci servirà rileggere questa poesia scritta due secoli fa da un ventenne. L’identità dell’uomo è il suo desiderio di infinito. Come diceva Giussani nelle università: “O sei legato all’infinito o sei legato al potere”. Questo è il motivo per cui posso abbracciare tutti. Da Salvini a Festus, un ragazzo nigeriano che domani mattina sarà qui a lavorare».

 

La Verità, 23 settembre 2018

Nomine Rai, grave errore non puntare su Freccero

C’è qualcosa che sfugge nella faccenda delle nomine Rai in corso di definizione nei palazzi romani. Come tutti i precedenti governi, anche quello gialloblù, capeggiato da Giuseppe Conte e orientato da Matteo Salvini e Luigi Di Maio, ha annunciato innovazione, cambiamenti e divaricazione tra politica e servizio pubblico radiotelevisivo. Insomma, la solita raffica degli annunci. Se, infatti, subito dopo si vanno a leggere i nomi dei consiglieri scaturiti dalla selezione dei curriculum e successivamente entrati in gioco per i posti apicali, non si ha esattamente la percezione di una netta e inconfutabile inversione di tendenza. La nomina alla presidenza «che spetta alla Lega» di Giovanna Bianchi Clerici, già consigliera di amministrazione, ha il sapore di una riproposizione delle solite liturgie. Forse meno scontata è l’indicazione per il ruolo di amministratore delegato di Fabrizio Salini, già ad dei canali Fox, direttore di La7 e ora dirigente della società di produzione «Stand by me».

Tutto, in fondo, dipende dalla mission dei nuovi vertici. Tre anni fa Antonio Campo Dall’Orto aveva l’obiettivo di trasformare un’azienda matura e sostanzialmente analogica in una media company moderna al passo con la rivoluzione digitale. Si è visto com’è finita quando ha provato a tenere i partiti lontani dalla Rai. Le sue stesse dimissioni, precedute da quelle di Carlo Verdelli, e le uscite di Massimo Giannini, Massimo Giletti e il semaforo rosso alzato davanti al portale diretto da Milena Gabanelli nonché alla sua proposta di una striscia quotidiana, sono lì a documentare il rifiuto della politica a farsi da parte. Con tante promesse disattese gravanti sul cavallo morente di Viale Mazzini è inevitabile che scetticismo e rassegnazione accompagnino ogni cambio di governance. Qualcuno dice che «ci sono nomi nascosti che non vogliamo bruciare». Salvini annuncia di voler incontrare «personalmente tutti i candidati ai vertici». Intanto si continuano a leggere rose di nomi dalle quali è sorprendentemente sparito quello di un professionista autorevole e carismatico come Carlo Freccero. Chi, parlando di televisione, ha un curriculum più credibile dell’ex direttore di Rai 2, ispiratore di mille, pur controversi, successi? Freccero è competente, colto, trasversale, imprevedibile e slegato da consorterie di partito: una figura sulla quale nessuno potrebbe eccepire. Lega e M5s potrebbero affidare al presidente la delega editoriale sul prodotto, lasciando al direttore generale funzioni aziendali e d’innovazione tecnologica. Lasciare in panchina un fuoriclasse con la sua storia e il suo know how sarebbe un errore di cui ci si potrebbe pentire.

 

La Verità, 24 luglio 2018

 

«Ciò che Matteo R. può imparare da Matteo S.»

Ha avuto un infarto che, dice, «mi ha cambiato la vita e mi ha fatto ricalcolare le priorità». Da quando, settembre 2017, si è ritrovato una notte in terapia intensiva, Claudio Amendola, 55 anni, figlio d’arte e marito di Francesca Neri, prova a dosarsi. Ma essendo persona generosa, non sempre riesce a frenarsi, anche quando si tratta di pronunciarsi sulle cose della politica. Così succede che una volta gli diano del leghista, un’altra uno come Paolo Mieli lo invita a presentare il suo libro (La storia del comunismo in 50 ritratti) con questa motivazione: «Ho sfogliato i giornali dell’ultimo anno e le uniche due persone che abbiano parlato di comunismo e di valori con intelligenza, tenendo presente i sentimenti, sono state Claudio Amendola e Moni Ovadia». Amendola è di estrema sinistra e ha lavorato molto a Mediaset, apprezza l’abilità di Matteo Salvini, fa il testimonial di un marchio di scommesse sportive. Qui però partiamo da Hotel Gagarin, il film opera prima di Simone Spada, con Luca Argentero, Giuseppe Battiston e un poetico Phlippe Leroy. Una sorta di apologo lieve e incantato che mette di buonumore.

 La frase chiave è una citazione di Lev Tolstoi fatta dal personaggio di Battiston: «Se vuoi essere felice, comincia». A lei cosa dice questa frase?

«È una nota di positività, nel film come nella vita. Se non ci si alza dal divano e si apre la finestra, la felicità non entrerà mai. È un invito a riconoscere che dipende in gran parte da noi».

Di solito la colpa della nostra infelicità è della società, della politica. Viviamo di alibi?

«Continuamente. Per fortuna ci sono anche esempi di responsabilità. Io ho tre figli: la primogenita Alessia, mamma e doppiatrice affermata, e Rocco, il terzo, che studia all’università. In mezzo c’è Giulia, che ha 28 anni, ha fatto l’Accademia di moda e costume e, lavorando con me, avrebbe avuto la strada spianata. Ma siccome è un po’ hippie, preferisce girare l’Italia in camper e vendere sulle bancarelle i prodotti che confeziona con la macchina per cucire. Non mi ha chiesto niente, ora sta diventando un’imprenditrice online. E si ribella quando le sue amiche lamentano che non c’è futuro. Lo racconto senza sminuire la situazione del nostro Paese; solo per chiedermi: cos’è la felicità?».

Hotel Gagarin è una favola sognante: cosa le è piaciuto della sceneggiatura?

«Sapevo dall’inizio che avrei fatto questo film perché conosco e stimo Simone Spada. Ma leggendo il copione mi sono commosso e divertito. C’è la commedia, mai volgare. C’è il bonario rimprovero di Battiston davanti ai poveri veri… C’è l’incontro tra due popoli diversi. Se avessimo girato sulle montagne d’Abruzzo non avremmo trovato quei volti simili a quelli dei nostri contadini del dopoguerra. Abbiamo imparato la storia del popolo armeno, un mondo parallelo vittima di genocidi e dell’influenza sovietica».

Cosa c’è di vero nel fatto che è stanco di recitare e che preferisce dirigere?

«Non sono stanco a prescindere, dipende dai ruoli. Trovo che la regia mi completi e mi dia grande soddisfazione perché mi piace dirigere gli attori, conoscendo bene ciò che passa nella loro testa. A volte i registi non comprendono come siamo fatti, un mix di orgoglio e presunzione che spesso cozza con limiti e vergogne».

Madre attrice e padre doppiatore, il cinema è un sogno o una questione di famiglia?

«Tutt’e due. Ci sono sia il mondo dorato che la tradizione di famiglia. Ma è soprattutto un mestiere, qualcosa di artigianale, un lavoro di squadra».

Un ricordo di suo padre?

«Quando recitavamo insieme temeva non ricordassi le battute e non riusciva a non ripeterle sottovoce. In quel labiale c’era tutta la sua protezione e il suo incoraggiamento».

A quale ruolo è più affezionato?

«Ho interpretato tanti personaggi, il Samurai di Suburra, ho recitato ne La regina Margot, in Ultrà e La scorta di Ricky Tognazzi, in Mery per sempre di Marco Risi… Ma forse i ruoli che mi sono più rimasti sono il terrorista di La mia generazione e l’ispettore di Domenica, due film di Wilma Labate. Mi trovo a mio agio nelle figure dolenti e sconfitte più che con gli eroi vittoriosi».

È stato tra i primi a passare dalla tv al cinema e dal cinema alla tv smontando lo snobismo di coloro che dividevano la recitazione in serie A e serie B.

«Mi faceva ridere lo snobismo di qualche anno fa, quando mi rimproveravano I Cesaroni. E mi fa sorridere ora la corsa per entrare nei cast delle serie giuste. Ho fatto tante ore di volo in tv, imparando dai macchinisti e dai tecnici. Se dopo quasi 40 anni ancora lavoro vuol dire che la scuola è stata buona».

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«Perché l’asse Lega-M5s può durare a lungo»

Buongiorno Carlo Freccero: per l’Italia è una buona giornata quella che vede la nascita del governo pentaleghista?

«L’esatta meteorologia di questa giornata la si conoscerà tra un po’ di tempo. Oggi e ancora presto».

La facevo più ottimista.

«Sono molto ottimista perché fino a poco tempo fa le domande della politica riguardavano l’austerità. Ovvero, cosa tagliare nella spesa pubblica per rispettare il fiscal compact. Oggi la domanda è: si può cancellare il debito pubblico?».

Roba da far imbiancare i capelli ai tecnocrati europei.

«In verità non si tratterebbe di una cancellazione vera e propria. Ma, come ha spiegato l’economista Claudio Borghi, di una sottrazione del debito incardinato nella Bce dal rapporto tra Pil e debito pubblico».

Allo stato delle cose questa cancellazione non è ufficialmente nel contratto, almeno non nella stesura finale.

«No, certo, ma è un tema all’ordine del giorno. Noi pensiamo ai soldi come a qualcosa di concreto mentre sono semplici iscrizioni contabili. Basta riconoscere il fatto che il debito mondiale non è ripagabile perché non esiste sul pianeta un corrispettivo di ricchezza sufficiente».

Tornando in Italia, adesso il braccio di ferro è sui ministri, principalmente su Paolo Savona per la casella dell’Economia.

«La scelta di Savona rappresenta un’opportunità di lavoro su questi temi. Per il pensiero politicamente corretto le decisioni non competerebbero al popolo, ma alle élites e agli esperti. E la scienza per eccellenza sarebbe l’economia, anzi: il neoliberismo. In realtà, l’economia non è una scienza, come dimostrano le crisi prodotte dal neoliberismo stesso. Perciò occorre lavorare per trovare altre soluzioni».

Il capo dello stato Sergio Mattarella ha chiuso un occhio sul curriculum di Giuseppe Conte per poter alzare disco rosso su Savona?

«Credo che i servizi segreti avessero già fornito a Mattarella tutte le informazioni necessarie sul conto di Conte».

Riformulo la domanda: al Quirinale fa gioco un premier debole?

«Il premier è un amministratore delegato o direttore generale che deve attuare l’ordine del giorno che il consiglio dei ministri elaborerà ogni settimana».

È Matteo Salvini l’uomo forte di questo governo?

 

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«Il governo? Dipende da quanti Pd ci saranno»

«È molto probabile che, la sera del voto, non avremo la minima idea di che governo si potrà insediare da lì a qualche settimana»: previsione di Luca Ricolfi, datata 3 marzo. Sociologo, docente di Analisi dei dati all’università di Torino, editorialista del Messaggero, osservatore tra i più lucidi delle cose della politica, allergico agli sconti a destra come a sinistra (vedi le sue analisi sul sito della Fondazione David Hume). Ci siamo rivolti a lui per interpretare le più clamorose elezioni anti establishment degli ultimi decenni e tracciare qualche scenario futuro.

Per trovare un altro risultato così dirompente bisogna tornare al 1994. Allora iniziò la Seconda repubblica, sta nascendo la Terza?

«No, stiamo tornando alla Repubblica “di mezzo” (fra la prima e la seconda), quella che è esistita fra le elezioni politiche del 1992 e le elezioni del 1994, al tempo in cui tutto cominciò a cambiare, grazie al referendum sulla preferenza unica, a Mani pulite, all’esplosione della Lega, alla nuova legge elettorale (il compianto Mattarellum). Non tutti lo ricordano ma, allora, gli studiosi di comportamenti elettorali congetturarono che l’Italia fosse ormai divisa in tre: la Padania, egemonizzata dalla Lega (Forza Italia non era ancora nata), l’Etruria, egemonizzata dal Pds, il Mezzogiorno, ancora saldamente in mano alla Dc. Oggi la carta geopolitica è tornata a essere quella di allora, con i 5 stelle al posto della Dc».

Quali sono i fattori di maggior novità del voto del 4 marzo?

«C’è molta più chiarezza di prima: il Centronord vuole proseguire sulla via della modernizzazione del Paese, timidamente intrapresa in questi anni, ma lo fa con sensibilità diverse, rappresentate dal centrodestra e dal Pd. Il Sud vuole continuare a sussistere nell’unico registro che un ceto dirigente irresponsabile è stato in grado di prospettargli: assistenza, assistenza, assistenza».

Concorda con chi sostiene che le urne ci consegnano un’Italia geograficamente e socialmente bipolare: nel Sud della disoccupazione e della povertà ha vinto il M5s, nel Nord dove si teme per la sicurezza ha vinto la Lega.

«Concordo, ma solo in parte. Oggi il voto del nord sembra ad alcuni soprattutto anti-immigrati, ma a mio parere esprime invece, molto di più, l’ennesima rivolta antifisco e anti burocrazia».

Sarà difficile mantenere le promesse di flat tax e reddito di cittadinanza. È per questo che, sotto sotto, né Lega né M5s smaniano di governare?

«Non so se davvero esitano, a me sembrano piuttosto smaniosi entrambi. Il mancato mantenimento delle promesse penso sia messo in conto da tutti, tanto basterà dire: noi volevamo ma gli alleati, ma l’Europa, ma la situazione, eccetera eccetera».

Code all'indomani del voto per richiedere il reddito di cittadinanza

Code all’indomani del voto per richiedere il reddito di cittadinanza

Si è votato in marzo, quando non ci sono sbarchi d’immigrati. Se si fosse votato in maggio, la Lega avrebbe superato anche il Pd di Matteo Renzi?

«L’ho sostenuto in un’intervista a Sky pochi giorni fa. Votare a marzo ha attutito i danni subiti dal Pd, checché ne dica Renzi, che si è lamentato di non aver potuto votare prima: se si fosse votato la primavera scorsa non avrebbe potuto giocare la carta Marco Minniti».

Che però, a sorpresa, è stato sconfitto.

«Il fatto ha stupito anche me, ma forse io ho un pregiudizio positivo nei confronti di Minniti, che mi pare uno dei pochissimi ministri che sanno di che cosa parlano».

Con Lega e M5s è nato anche un nuovo bipolarismo politico che sostituisce quello composto da Forza Italia e Pd, ora residuali?

«No, il sistema per ora è quadripolare e instabile. Lega e M5s rappresentano solo la dialettica interna alle forze antieuropee. Un vero bipolarismo richiederebbe il compattarsi di due aggregazioni più ampie e robuste: ad esempio centrodestra contro mutanti».

Chi sono i mutanti?

«Pd e 5 stelle, Organismi politicamente modificati (Opm) costruiti a partire dal ceppo antico del socialismo e del comunismo».

Un ceppo che germoglia sempre meno. La sinistra è in declino dovunque in Occidente. La crisi di quella italiana ha fattori specifici più gravi?

«La sinistra non è affatto in declino, semplicemente sta assumendo forme che i media (e pure gli studiosi, devo ammettere) si rifiutano di riconoscere per quello che sono. Quella che continuiamo a chiamare sinistra è semplicemente la sinistra ufficiale, ovunque amata e votata dai ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, e dal mondo della cultura. Ma esiste anche un’altra sinistra, trasgressiva e populista, prediletta dai giovani e da una parte dei ceti popolari, che si esprime in forme nuove: Podemos in Spagna, Syriza in Grecia, 5 stelle in Italia, France insoumise oltralpe, per citare i casi più importanti. Quel che sta succedendo è che, in molti paesi, tranne il Regno Unito, la sinistra populista sta diventando più forte di quella ufficiale, riformista, benpensante, assennata e politicamente corretta».

Com’è possibile che non ci si interroghi sul fatto che il Pd tiene nei centri storici e scompare nelle periferie e tra i lavoratori?

«Me lo sono chiesto anch’io, e ne è venuto fuori un libro (Sinistra e popolo, Longanesi 2017). Però la vera domanda forse è anche quest’altra: perché del problema ci accorgiamo solo ora visto che il distacco fra sinistra e popolo è in atto da almeno 40 anni?».

Augusto Del Noce diceva che il partito comunista sarebbe diventato un grande partito radicale di massa. L’apparentamento con Emma Bonino ne è stata l’ultima piccola conferma?

«Sì, quello di partito radicale di massa è un concetto che descrive a pennello l’evoluzione del comunismo dal Pci al Pd renziano. Ne parla anche Marcello Veneziani nel suo ultimo libro (Imperdonabili, Marsilio 2017). Il Pd è diventato una sorta di macchina per proclamare diritti, e anche un rifugio identitario per i ceti alti e medi, bisognosi di impegno per espiare la colpa di non essere poveri. Una mutazione che l’alleanza con la Bonino ha reso evidente, per non dire plateale. Ma a questo tipo di evoluzione (o involuzione?) ha contribuito anche una certa dose di stupidità autolesionista, una quasi inspiegabile incapacità di capire il punto di vista della gente comune: come si può pensare, nell’Italia di oggi, di attirare consensi con l’antifascismo e lo ius soli? Se ci fossero pulsioni fasciste e nostalgiche Casa Pound e Forza Nuova avrebbero avuto un risultato decente, non i pochi decimali (0.9 e 0.37%) che qualsiasi simbolo buttato sulla scheda finisce per raccogliere».

Emma Bonino alla convention del Pd al Lingotto di Torino

Emma Bonino alla convention del Pd al Lingotto di Torino

Che responsabilità hanno gli intellettuali nel distacco tra la classe dirigente del Pd e la sua area tradizionale di riferimento?

«Negli ultimi 30 anni, intellettuali e mondo della cultura molto si sono preoccupati di veder rappresentati loro stessi e i loro interessi, e pochissimo di convincere il Pd a rappresentare anche i ceti popolari. Questa è una delle differenze fra Prima e Seconda repubblica: gli intellettuali della prima pretendevano di conoscere meglio dei dirigenti del Pci quali fossero i veri interessi della classe operaia; a quelli della seconda è premuto assai di più che gli eredi del Pd rappresentassero il loro mondo incantato. Ci sono riusciti benissimo».

Che giudizio dà di Renzi come amministratore, comunicatore e stratega politico?

«Non voglio infierire, l’ho già criticato a sufficienza in questi anni. Anzi, voglio dire che, se solo avesse fatto meno il bullo e avesse provato ad ascoltare chi lo criticava stando dalla sua parte, oggi ricorderemmo le non poche buone cose che ha fatto, dal jobs act a industria 4.0. Il dramma dell’Italia è che questo modesto Pd è pur sempre la miglior sinistra disponibile sul mercato, visto quel che offrono 5 stelle e Leu».

Cosa pensa dell’esperienza di Liberi e uguali? A chi è maggiormente attribuibile la colpa della scissione?

«Un’operazione politica penosa, nei contenuti e nelle persone. Quello che non capisco è perché abbiano scelto come capo una figura scolorita come quella di Pietro Grasso: chiunque altro, tranne forse il demonizzatissimo Massimo D’Alema, avrebbe portato a casa più voti. Quanto alla scissione, non so se è stata una colpa, forse è stata un atto di chiarezza».

Quanto il successo di M5s e Lega complica il rapporto con l’Europa?

«Meno di quanto si pensi. Noi continuiamo a fare uno sbaglio: pensare che il problema siano le autorità europee. No, il problema sono i mercati, come si è visto nel 2011, quando le autorità europee lodavano Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi, e sono bastati tre mesi di impennata dello spread per capovolgere tutto».

Che scenario intravede? Se la sente di fare delle percentuali dei possibili governi?

«No, non me la sento. Credo che molto dipenderà dal Pd, ovvero da quanti Pd vi saranno fra qualche mese. Se ve ne sarà uno solo, non si potrà che tornare al voto. Se ve ne saranno due, vedremo se la spunterà quello assistenzialista, che vuole dare una mano al sud (e ai 5 stelle), o quello sviluppista, che vuole dare una mano al centronord (e quindi al centrodestra)».

Quanto un governo a guida Di Maio con il sostegno del Pd aggraverebbe il bilancio dello Stato?

«Molto, perché anche il Pd è tentato dalla spesa in deficit».

Dobbiamo rassegnarci all’ennesimo governo del Presidente?

«Speriamo di no, abbiamo già dato. E poi Sergio Mattarella mi pare più arbitro di Giorgio Napolitano, che era chiaramente un giocatore in campo».

Quali sono le prime riforme che suggerirebbe al nuovo governo?

«Sgravi fiscali sui produttori, alimentati da una lotta senza quartiere contro gli evasori totali».

Che cosa consiglierebbe a Silvio Berlusconi che si chiede «adesso dove si va»?

«Di decidersi a scovare un successore».

Se si rivotasse entro un anno le tendenze del 4 marzo uscirebbero radicalizzate o ridimensionate?

«Dipende: se nel frattempo non succede nulla avremo un Parlamento fotocopia. Ma qualcosa succederà. Basta che non sia un nuovo 2011».

 

La Verità, 11 marzo 2018