Persino l’Eurovision ha un pregio: la stringatezza
No, l’Eurovision Song Contest (Esc), titolo 2.0 del vecchio Eurofestival, non è più la versione canora del novecentesco Giochi senza frontiere, ingenuo tentativo di unificare popoli e nazioni attraverso sfide e competizioni colorite con contorno di bandiere e folclore che riposa nella memoria dei boomer. Eppure, partendo dall’antenato sorto nel 1956, anche l’Esc ha una storia lunga oltre mezzo secolo. Ora è diventato un gigantesco luna park delle canzonette? Un kolossal del kitsch? Uno show dell’omologazione musicale in atto? Un format dell’ultrash canoro? Un po’ tutto questo: un’apprezzabile identità è ancora da trovare (martedì, Rai 1, 5,5 milioni di telespettatori, 27% di share). Nell’attesa, giusto per non perdere l’occasione di mettere la firma sul marchio, veicolo del gender più mainstream, il nostro principale quotidiano gli dedica ampi spazi mentre l’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes lo battezza con la retorica che non manca mai in queste occasioni: «Dalla musica arriva l’invito a un futuro insieme, in un momento delicato per l’Europa». Ne avremo ancora per altre due serate, la seconda semifinale stasera (quando toccherà al duo italiano Mamhood e Blanco, oltre all’immancabile Achille Lauro in rappresentanza di San Marino) e la finale di sabato. Non a caso mezza Rai si è trasferita a Torino già da diverse settimane per sostenere l’evento pilotato da Laura Pausini, Alessandro Cattelan e Mika, alla fine costretti dentro un copione risicatissimo e una scaletta tirannica per rispettare i tempi delle esibizioni. «Ciao Italia!» e «Ciao Torino!» sono parse le maggiori licenze concesse ai conduttori, per il resto impegnati ad abbracciarsi ripetutamente per smentire le voci di rivalità trapelate dal backstage. La loro performance rivolta all’eurovisione, per i telespettatori italiani si è trasformata nella radiocronaca di Gabriele Corsi, Cristiano Malgioglio e Carolina di Domenico, in perfetta sintonia con l’ultrash protagonista sul palco, trionfo di cattivo gusto, dalla maggior parte dei costumi ai bengala da capodanno al luna park. Fortunatamente l’esito del televoto ha selezionato per la finale le esibizioni migliori, a conferma del fatto che il pubblico ha le idee abbastanza chiare. E se Malgioglio è ormai un cadeau che tocca accettare nella sua interezza – indiscussa competenza musicale comprensiva di biografia amorosa multinazionale – al contrario il nostro Sanremo potrebbe considerare la lezione di stringatezza e ritmo del format continentale. In fondo, anche da chi è più ingenuo di noi si può sempre imparare qualcosa.
La Verità, 12 maggio 2022