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Perché VivaRaiPlay! è l’evento tv dell’anno

La parola chiave, hashtag nel gergo moderno, è «inter», ma il calcio non c’entra. Inter nel senso di attraverso, cross in inglese, per cui si potrebbe dire anche crossover, suscitando le giuste reprimende degli italianisti. La prestazione della prima settimana di Fiorello con VivaRaiPlay! su Rai 1 e RaiPlay (su Radiodue dal 16 novembre) si è sviluppata attraverso diverse piattaforme: la tv generalista, la visione streaming e la app della Rai. Personalmente, ho visto le prime due puntate in tv e ho recuperato le ultime tre su RaiPlay attraverso il tablet. È proprio questo il carattere rivoluzionario dell’operazione realizzata dallo showman siciliano, sollecitato dalll’ad di Viale Mazzini Fabrizio Salini: la fruizione in diretta, la visione on demand e con applicazioni e dispositivi alternativi. Il secondo elemento è il viaggio intergenerazionale: da Pippo Baudo, Raffaella Carrà, Bruno Vespa e il muppet Vincenzo Mollica – la storia Rai – ai ballerini di Urban theory, i rapper Calcutta, Marracash, Mike Lennon e Coez passando per il meglio della musica italiana, Giorgia, Marco Mengoni, Emma Marrone, Giuliano Sangiorgi e tanti altri ospiti (Fabio Rovazzi, Virginia Raffaele), complici nel proporre qualcosa di nuovo, un linguaggio, una formula, un tormentone (Biagio Antonacci bloccato all’ingresso). Il tutto sorretto da una leggerezza che non risparmia punzecchiature alla critica (la recensione in tempo reale «Fiorello: tutto qua?»), in grado di fare di ogni episodio un pezzo artigianale unico di spontaneità e buonumore. Infine c’è l’attraversamento dei generi musicali: il rap, la trap, lo swing, il pop, il melodico, lo swing virato disco rap (come sollecitato dal whatsapp di Mina). Niente resta fuori grazie al susseguirsi dei camei degli ospiti, in una sorta di raffinato puntinismo televisivo che solo Fiorello può realizzare con il suo talento artistico – un po’ Walter Chiari, un po’ Adriano Celentano – e la stima di cui gode. Un minishow nel quale trovano la giusta misura sia l’omaggio a Fred Bongusto che la gag sulla diversità di stili tra Roma e Milano, in uno spettacolo che si vorrebbe non finisse (e perciò si aspetta il ritorno sulla piattaforma).

Su Rai 1 gli ascolti hanno oscillato tra il 22 e il 25% di share (tra 5,5 e 6,5 milioni di spettatori). E qualcuno ha davvero detto «tutto qua?». Ma per capire l’operazione andrebbero conteggiate anche le tante fruizioni on demand e sulle app, su cellulari e tablet. È qui la novità: interpiattaforma, intergenerazioni, intergeneri (musicali). Inter. Ma il calcio non c’entra, anche se è interista… Lui.

 

La Verità, 10 novembre 2019

«L’overdose di gay è il nuovo conformismo»

Nella sede di Rtl 102.5 a Cologno monzese fervono i preparativi per il trasferimento a Villasimius in Sardegna da dove l’emittente trasmetterà fino a fine agosto. «Io invece, mi trasferisco a casa mia a Parma», confida ironico Mauro Coruzzi, in arte Platinette. «Devo rimettermi in sesto per poter dare una mano a una persona cara che ha bisogno di me». Il tempo a disposizione non è molto, alle 17 incombe Password, il programma che conduce con Nicoletta De Ponti. Pochi convenevoli e si parte.

Dalla mise, l’intervista è a Mauro Coruzzi.

«Se per lei ha importanza… è un conformismo anche questo».

Mauro sta chiedendo più spazio?

«No. Credo sia un work in progress, come direbbero quelli che parlano bene. Non amo seguire regole neanche nell’abbigliamento o altre che indicano qualche segretario di partito o qualche televisivo. Neanche a scuola le seguivo».

Coruzzi frequenta la radio e Platinette, più telegenica, la tv?

«No. Platinette è un riciclaggio di me stesso e di modelli altrui, da Mae West a Mina, splendida ragazza madre nell’Italia dei Sessanta. Cerco il difforme, non il conforme. Platinette è una travestita, ma se la trova certe notti nella bassa padana non la riconosce. Mauro è un ragazzo obeso, con una testa che lavora più del corpo e tanta voglia di migliorare il suo aspetto».

Tra i due c’è intesa?

«Una felice collaborazione, come quella che ci fu tra Mara Carfagna e Alessandra Mussolini quando fecero la legge contro l’omofobia. La dobbiamo a loro, non agli illuminati di sinistra, tipo Franco Grillini dell’Arci o Vladimir Luxuria, che ha approfittato dell’anno in Parlamento per rifarsi le tette. Personalmente ho speso un patrimonio in questa battaglia, solo la tessera radicale costava 600 euro. Ma c’era Marco Pannella…».

Marco Pannella.

«Quando andò ad Arcore ebbi un orgasmo. Speravo nella fusione tra la sua creatività e lo spirito liberale di Berlusconi. Non trovo che il sistema delle cooperative abbia migliorato la convivenza civile. Purtroppo, l’avvicinamento tra i due non ha avuto seguito. E il mio spirito liberale e libertario è rimasto orfano pur avendo i genitori».

Ricominciamo da quelli veri.

«Contadini inurbati da Langhirano a Parma, sperando in un miglioramento. Mia madre era operaia in una fabbrica di conserve di pomodoro, mio padre muratore. Non conoscevano l’italiano, la sera guardavano Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi per imparare qualcosa».

Infanzia e adolescenza in povertà.

«Avevo intuito che la cosiddetta cultura, senza la k degli anni Settanta, poteva essere d’aiuto. Alle magistrali ero un inguaribile secchione che però partecipava alle occupazioni, al Movimento studentesco e tutto il resto. Studiavo perché mi piaceva, e mi piace tuttora».

Amici?

«Amori in classe, nella scuola, come tutti».

Non se omosessuali.

«Non solo omosessuali».

Figure importanti di quegli anni?

«Una professoressa d’italiano, tale Irma Traversa Coscia, donna fantastica, unghie curatissime e cervello fulminante. Le chiesi cosa potevo presentare di difforme alla maturità. Scegliemmo Alberto Moravia che avevo conosciuto attraverso Il conformista del parmense Bernardo Bertolucci. Non pago, aggiunsi L’uomo che si gioca il cielo a dadi, una canzone di Roberto Vecchioni».

Garzone di fruttivendolo, poi giornalista: cosa c’è in mezzo?

«Volevo dei soldi per i cavoli miei. Finii le medie facendo consegne della spesa per un verduraio, come i rider di oggi. Guadagnavo 500 lire ogni sabato che spendevo in cinema pizza e Coca cola. Come regalo per la terza media, anziché il Ciao chiesi a mia madre, complice con il figlio frocio come da copione, di andare al concerto di Mina a Parma. Fu un’apparizione, era il 1968».

La sua svolta?

«L’inizio di una devozione. Poi il destino generoso me la fece incontrare ancora. Nel 1981 eravamo nel suo ufficio per fondare il Mina fan club quando lei arrivò, pelliccia fino a terra e maglione nero: “Io prendo un cappuccino scuro, voi?”. Sparì, ma ci fece sapere che l’idea del fan club le piaceva. Noi ci esibivamo en travesti col nome di Le Pumitrozzole, crasi di puttane mignotte troie zoccole lesbiche. “Magari, d’ora in avanti quando mi chiamano mando voi”, buttò lì».

Invece?

«La ritrovai a fine anni Ottanta quando lavoravo per Rock Caffè di Rai2 e mi suggerirono di provinare Benedetta Mazzini, sua secondogenita. Arruolata, ma la madre sorvegliava, così ebbi l’occasione di frequentarla. Un’altra l’ho avuta per gli spot della Tim durante il Festival di Sanremo 2018».

Maurizio Costanzo dove l’ha scovata?

«Uscì un articoletto su Panorama sulla speaker di un piccolo network radiofonico di nome Platinette che faceva dell’esagerazione e dell’irriverenza la sua cifra. Mi fece chiamare per una serata del Costanzo show dedicata alle drag queen. Declinai. Ci riprovò per una puntata sulle patologie alimentari, argomento che conosco bene. Quando arrivò al Parioli e io ero seduto in platea prima del trucco chiese agli assistenti: “E quello chi è?”. Non poteva riconoscermi, ma da quella sera c’innamorammo».

Qualche giorno fa ha scatenato un putiferio dicendo che gli omosessuali hanno troppo spazio.

«Trovo che la lamentela continua delle associazioni Lgbt abbia poca ragione d’essere. Non si fa un film o un talent o un reality show senza una travestita o due omosex che litigano. Un’overdose. Un nuovo conformismo. Cristiano Malgioglio io so che è un grande autore, ma non sono sicuro che il pubblico colga. Nel pomeriggio di Rai1 Pierluigi Diaco conduce un programma sui buoni sentimenti, con la posta del cuore. Sembra di essere nel dopoguerra».

La sua è una critica di costume?

«Non solo. In Italia se non sei famiglia, compresa quella omosessuale, non sei niente. Non ce l’ho con chi si unisce civilmente, il rapporto codificato dalle leggi mi fa piacere. Ma così si uccide la singolarità, io sono famiglia di me stesso. Se esco con certi amici tradizionali o anche omosex mi annoio a morte. Parlano di figli, di carriere a Londra, portano una cena normale come prova di solidità del rapporto: “Era caldo, non sapevamo che fare, abbiamo tagliato un melone e cenato alle otto di sera”. Sì, e alle otto e dieci?».

Concorda con la sensazione che il Gay pride goda di stampa molto migliore di quella del Family day?

«Ammazza! Non c’è dubbio. Se dissenti sul Gay pride non hai cittadinanza. Eppure le conquiste sono state fatte, ci si può un po’ prendere in giro. Volevo affittare una decappottabile per sfilare come Lana Turner. Mi hanno detto di no perché l’auto inquina. Capisce? Ho ripiegato su un risciò, che è costato quasi più della decappottabile».

Si impegnerebbe senza se e senza ma sui matrimoni gay? Da uno a dieci…

«Quattro. Come i figli di Lorella Cuccarini…».

Sulla stepchild adoption.

«Zero, senza incertezze. Tiziano Ferro se ne faccia una ragione».

Sull’utero in affitto?

«Sottozero. È una forma orribile di sfruttamento delle donne. Ti presto il mio forno per cuocere le tigelle e poi le mangi tu. Dopo l’approvazione della legge Codice rosso per la violenza sulle donne voluta da Giulia Bongiorno non ho visto né sentito esultare le organizzazioni Lgbt: solo perché Bongiorno appartiene a uno schieramento diverso?».

Sul Me too?

«Uno. Guarda caso, si salvano tutti. Fausto Brizzi è tornato, persino Cristiano Ronaldo non sarà processato. Si vogliono moralizzare anche le donne che sono felici di concedersi per trarne un vantaggio. Perché le nostre attrici, bravissime per carità, erano tutte sposate a produttori cinematografici?».

Sulla triptorelina, il farmaco che rallenta la pubertà per chi avverte disforia di genere.

«Zero anche qui. Ci fosse un ormone che ci permettesse di stare in bilico tutta la vita, quello servirebbe».

Nemmeno le unioni civili la convincono?

«Non mi convince il matrimonio come mutuo soccorso. L’assistenza, la successione, la reversibilità erano possibili anche prima, bastava andare dal notaio con 100 euro. Non m’interessano la metà del cielo e quelle cose lì. Anche Maria di Nazareth era sola… Nasciamo singolarmente, ma non si fa mai una legge per l’individuo».

Ha seguito la vicenda di Bibbiano?

«Poco. Non mi ha preso emotivamente, anche se mi rendo conto… Ciò che mi colpisce è che questi fatti avvengano a Reggio Emilia, città di partigiani e comunisti, governata a lungo da Graziano Delrio. Allora è vero che i comunisti mangiano i bambini».

Definisca Linus.

«C’è qualcosa da dire?».

Barbara D’Urso.

«L’unica che abbia sottomesso la volontà per ottenere dei risultati. Ho massima ammirazione, ma vorrei vederla applicata su altre tematiche, oltre alla difesa delle donne e dei gay».

Maria De Filippi.

«La donna che avrei voluto essere. Mai visto un copione, mai avuto tanta libertà come con lei. Una gratificazione riuscire a farla ridere fino a scapicollare».

Regista cinematografico preferito?

«George Cukor. Donne è un capolavoro assoluto: un film con tutte le star di Hollywood che parlano di uomini per tutto il tempo senza che se ne veda uno. Ex equo con Luchino Visconti ed Ernst Lubitsch».

E il cinema italiano? Ferzan Ozpetek, Luca Guadagnino, Gianni Amelio…

«Non lo seguo molto. Per carità, con Ozpetek e Amelio ho anche lavorato. Chiamami col tuo nome mi è parso retorico al confronto con Il giardino dei Finzi Contini o Rocco e i suoi fratelli».

Letture preferite?

«Le biografie. Non avendo una vita interessante, leggo quelle altrui. Aprirò una libreria di sole biografie».

Che cosa le manca di più oggi e in prospettiva futura?

«Un faro. Rifaccio il nome di Pannella, per il tipo di visione costante che rende la vita soddisfacente. Non ha mai nascosto il suo essere omosessuale, ma non ne ha mai fatto strumento di lotta se non al servizio del cittadino, come dimostrano le battaglie per l’aborto, il divorzio e l’eutanasia».

Alla fine si è avvicinato alla Chiesa.

«Sì, doveva fare i conti con qualcuno. Con la sua coscienza, credo; più che con il Dio dalla barba bianca».

 

La Verità, 28 luglio 2019

 

 

«Tutto questo rap rovina la nostra melodia»

 L’incanto di Venezia, la poesia della musica e la magia del cinema. Siamo in uno studio sul Canal Grande, a un campiello di distanza dal museo Peggy Guggenheim. La prima volta di Pino Donaggio a Sanremo fu nel 1961: «Come sinfonia avrebbe dovuto cantarla Mina. Ma finito il Festival la incise davvero e adesso Pedro Almodóvar l’ha ripescata per il suo Dolor y gloria, che uscirà il 22 marzo. È anche nel trailer, venga che glielo faccio vedere».

Che giudizio dà di questo Festival?

«Positivo. Claudio Baglioni è un grande musicista, che ci capisce quando c’è da scegliere le canzoni. Poi si è rivelato anche uomo di spettacolo, dimenticandosi di essere cantante».

Mica tanto.

«Sì, è vero, canta parecchio. Però partecipa agli sketch, se la cava bene».

Giovedì sera ha cantato Io che non vivo con Alessandra Amoroso.

«Non mi aveva detto nulla. Ho capito quando hanno parlato di una canzone del 1965 che aveva venduto milioni di dischi».

Una sorpresa.

«Molto gradita, poi Alessandra Amoroso mi è sempre piaciuta. Si è anche commossa».

L’anno scorso era presidente della giuria di esperti.

«Quest’anno c’è Mauro Pagani, un altro amico. Al festival di Mike Bongiorno e Piero Chiambretti ho fatto anche il direttore artistico con Giorgio Moroder e Carla Vistarini».

Nel 2015 le consegnarono un premio alla carriera.

«In realtà, era un premio per Io che non vivo. È un evergreen, come Quando quando quando. La cantano a X Factor inglese, australiano, nei film americani. Carlo Conti è stato bravo a ricordarsi dei 50 anni della canzone».

Fu fatta conoscere da Dusty Springfield, una concorrente che partecipava con un altro brano: furba?

«La intitolò You don’t have to say you love me. Ha venduto più di 80 milioni di copie, tra tutti gli interpreti che l’hanno cantata, Elvis compreso».

Dusty Springfield?

«La rividi vent’anni dopo a New York. Non so se si può dire che è stata furba. Al festival di allora c’era la doppia interpretazione con un inglese o uno spagnolo che spalancava i mercati esteri. Lei era stata eliminata, ma la sera dopo in platea si commosse con la mia canzone. La mattina, prima di ripartire, trovò il disco in un negozio. Una fortuna che la Emi l’avesse già distribuito».

Quando scoprì tutta la storia?

«Quando era prima in classifica in Gran Bretagna da 3 settimane e aveva già venduto un milione di copie, come riportava Billboard che mi mostrò il mio editore Curci».

Il festival di quest’anno è uguale a quello dell’anno scorso?

«Non si cambia una cosa che funziona, si ritocca cambiando i partner. Sperimentare è difficile».

Il suo giudizio sulle canzoni?

«Tecnicamente buono. Si sono un po’ allontanate dallo stile italiano, ma è un processo iniziato da tempo. Invece che sulla melodia si punta sui testi perché tante sono quasi parlate. Così, quando arrivano Andrea Bocelli, Marco Mengoni o Giorgia si respira».

Le sue preferite?

«Quelle di Daniele Silvestri e di Simone Cristicchi. E quella di Loredana Bertè, più classica. Cristicchi la sua può cantarla solo lui, non certo gli americani. In generale, c’è troppo rap».

Serve per darsi una patina di modernità?

«È un genere arrivato dall’America. Le parole prevalgono sulla musica, tendenza iniziata con i cantautori. Tiziano Ferro ha cambiato ancora, non propone più strofa ritornello strofa. Adesso invece si alterna la strofa melodica a quella rap».

Tanto rap poca possibilità di esportare?

«Non lo possiamo certo vendere in America dove ce l’hanno già. La nostra forza è la melodia, veniamo dal melodramma, dalla canzone napoletana. Guardi Andrea Bocelli e Il Volo. Ma appena c’è qualcosa di melodico lo attaccano, per spingere il rap che non è roba nostra. Fossi stato nei ragazzi del Volo non sarei andato in gara».

Cosa pensa della polemica sul conflitto d’interessi di Baglioni?

«Non ne so molto. Se la Rai ha accettato questo sistema vuol dire che le va bene. Ma dovrebbe controllarlo».

Può sbagliare anche la Rai?

«Certo. Come in tutti i posti, ci sono persone oneste e disoneste».

Suo padre la voleva violinista classico?

«Diventare solista per suonare nei grandi teatri era anche il mio sogno. Con il violino ero bravo. A 12 anni facevo già concerti di classica col mio gruppo. Ho tradito il mio strumento».

Richiedeva troppo sacrificio o fu sorpreso dal successo?

«Il successo fu imprevisto. Ero cresciuto sentendo mio padre che suonava con la sua orchestra in un locale. Il cantante era Sergio Endrigo che di giorno faceva il lift all’hotel Danieli. Mio padre invece lavorava all’Enel».

Viveva immerso nella musica.

«In vacanza ad Auronzo di Cadore facevamo le gare di rock and roll. Un’estate, avevo 16 anni, cantai Dayana di Paul Anka e capii che piacevo. Una volta tornati a casa, chiesi a mio padre di cantare con lui, visto che Endrigo non c’era più. Anche lì fui applaudito, lui diceva perché ero suo figlio».

Il violino era già dimenticato?

«No. Dai Solisti Veneti ero passato al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Ricordo che sul treno Milano-Venezia abbozzavo delle melodie. Una volta a tempo perso andai alla Curci, in Galleria del Corso. C’era il maestro Giovanni D’Anzi, quello di O mia bela Madunina. Che disse: “Canta come un selvaggio, ma la musica la conosce e scrive bene”. A quel punto mio padre si convinse anche perché firmò lui il contratto non ero ancora maggiorenne».

Quando sbarcò a Sanremo?

«Nell’estate del 1960 scrissi Come sinfonia e alla Curci dissero subito che bisognava mandarla al festival. Mina era già in ballo con altri due brani, ma insistette con Ezio Radaelli perché la cantassi io. Lui mi ascoltò e diede il suo assenso. Qualche giorno dopo la si sentiva già per strada».

Era un cantautore di successo.

«A Sanremo vinse Betty Curtis con Al di là, secondo Adriano Celentano con 24mila baci, poi Milva e Mina con le due canzoni. Io arrivai sesto, ma passata l’onda di Celentano andai primo in classifica».

Difficile tornare al conservatorio.

«Avevo detto al mio insegnante che sarei tornato dopo una settimana. Quando mi presentai dopo un mese non mi volle. Lasciai anche I Solisti veneti perché la mia notorietà era diventata un problema».

Dalla canzone alle colonne sonore fu come saltare da un vaporetto a una nave da crociera?

«Anche quella fu un’occasione imprevista. Non ero pronto a scrivere per il cinema».

Invece?

«Una mattina all’alba che tornavo da una serata mi vide Ugo Mariotti, giovane produttore di A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg. Lui era sulla riva del Canal Grande e io l’unico passeggero del vaporetto che gli sfilava davanti. Era un film di parapsicologia… e Mariotti vide in quell’immagine una premonizione. Qualche ora più tardi mi telefonò spiegandomi l’idea. Pensavo: possibile che chiamino me per un film con Julie Christie?».

Convergenze astrali.

«Incontrai il regista che non sapevo una parola d’inglese. Mi spiegò la musica che voleva e dopo una settimana gli feci ascoltare i temi. Ma al produttore esecutivo inglese non piacquero: “Si sente che non ha mai lavorato per il cinema”. Invece quello americano che metteva i soldi disse: “Se la musica è questa che problemi abbiamo?”. Vinsi il premio come miglior colonna sonora dell’anno in Gran Bretagna. Secondo si classificò George Martin, produttore dei Beatles, per 007 – Vivi e lascia morire con la canzone di Paul McCartney».

Si aprì un’autostrada.

«Composi per alcuni registi giovani, poi mi contattò Brian De Palma. Disse che aveva visto A Venezia… un dicembre rosso shocking a occhi chiusi. Bernard Hermann, il suo musicista di fiducia, era morto da poco».

Ha composto per molti film di De Palma.

«Domino che uscirà tra qualche mese sarà l’ottavo».

Com’è nata questa sintonia?

«Il mio modo di scrivere si adatta alla sua sensibilità. Ci incontriamo, prendiamo nota dei punti dove mettere la musica, torno in Italia, scrivo, torno a New York. Per Carrie, lo sguardo di Satana partirono gli applausi: “Questa scena l’ho vista davvero per la prima volta con la tua musica”, disse».

Strano che i suoi studi classici l’abbiano portata a comporre colonne sonore per thriller e horror.

«Ho cominciato con quei generi e continuano a chiamarmi per quelli. Ma ho fatto anche commedie come Non ci resta che piangere, film di Carlo Vanzina, di Liliana Cavani e i film politici di Giuseppe Ferrara».

Terence Hill e Tinto Brass sono veneziani.

«Terence Hill mi ha cercato per Don Camillo, poi ho scritto anche per le sue serie. Brass è un amico, ma non mi mostra le scene: “Mi fai un reggae che devo girare la scena di un massaggio?”. Quando ho visto il film, altro che massaggio. Ne ho fatti tre con lui, poi mi sono fermato. Vuole musiche firmate, le ha chieste anche a Ennio Morricone e Riz Ortolani».

Quanto c’entra Venezia nel suo lavoro?

«Moltissimo. Ho scritto anche a Milano e in America, ma qui è un’altra cosa. Se non ti viene l’ispirazione esci di notte e sei già dentro un thriller. Oppure vado al Guggenheim, la mia passione è la pittura, a Punta della Dogana, a Ca’ Rezzonico. E quando torno mi metto a scrivere. Su quella parete ho messo un grande specchio perché così posso vedere l’acqua mentre sono al pianoforte».

Com’è nata la collaborazione con Massimo Ranieri?

«Mi ha chiesto una canzone, per un nuovo album di inediti, tra i quali ci saranno un brano di Bruno Lauzi e uno di Domenico Modugno trovati da lui».

Altri progetti?

«Finalmente si è sbloccato il film sulla vita di Enzo Ferrari che sarà interpretato da Robert De Niro e diretto da Barry Levinson, il regista di Rain man. Poi sono molto contento di aver scritto un disco per I Solisti Veneti, l’avevo promesso a Claudio Scimone. È la chiusura di un cerchio».

È pentito di aver tradito il violino?

«No, visto come sono andate le cose. Il mio sogno era il violino, la mia forza è la composizione. Non ho rimpianti, il violino lo faccio suonare agli altri».

 

La Verità, 10 febbraio 2019

Pagelle Sanremo: vincono ospiti, Mina e Spinoza

Trio al comando (Baglioni, Bisio, Raffaele). In fondo questo 69º Sanremo è stato uno sfregio alla competenza, tipo i ministri della Prima repubblica rimbalzanti da un dicastero all’altro, con effetti noti. Di tre conduttori nessuno lo era. Se un cantautore di lunghissimo corso vuol presentare e dirigere artisticamente (3 per l’egocentrismo) è facile che incappi nel conflitto d’interessi. Troppo potere in una sola persona. Che nemmeno l’invenzione della «contiguità» virtuosa della direttora di Rai 1 Teresa De Santis (6 per lo sforzo) riesce a far digerire. Lo sapeva bene Gianni Morandi (8 a posteriori) che volle limitarsi a condurre. Se poi prendi due comici affermati e li metti a leggere il gobbo del regolamento la frittata è completa. Inevitabile che producano risate stiracchiate, vedi sketch in coppia scoppiazzati, da Giochi proibiti con la chitarra alla rovescia a Ci vuole un fiore di Sergio Endrigo (4 agli autori). Operazione ardita passare dal ruolo istituzionale alla goliardia. Arditissima passare dal voto a 51 centesimi al monologo togliendosi la giacca. Si finisce alle gag di pernacchie o a riciclare il libro del proprio autore, vero Bisio (4 per lo spaesamento)? Qualche possibilità in più ha avuto Virginia Raffaele ricorrendo all’eclettismo di showgirl, mimo, imitatrice, niente parole e pistolotti (6.5). Comunque tutti al di sotto delle loro potenzialità. Fuori ruolo.

Comici veri. La riprova è che, svincolati da altri compiti e copioni, il numero comico del Festival l’hanno fatto Pio e Amedeo spazzolando tutti, da Silvio Berlusconi a Pier Silvio Berlusconi, dallo stesso Baglioni a Pippo Baudo, con la loro verve scorretta (8). Rovinato solo dalla chiusa buonista con lunga citazione dell’ennesima canzone di Baglioni (5). Senza sconti.

Amici e compari. Più nascosti possibile, eppure la loro presenza dietro le quinte più trasparenti di sempre ha zavorrato irrimediabilmente il Festivalone. Michele Serra si è trovato con le mani legate dal ruolo di presentatore del suo assistito (4 alla reattività). Federico Salzano aveva già condizionato tutto e tutti già al momento delle selezioni (3 alla mancanza di stile), presenziando alle audizioni dei potenziali concorrenti nel camerino di Baglioni in tour. La peggior disgrazia sarebbe che vincesse un cantante Friends & Partners. Ombre lunghe.

Striscia la notizia e Dagospia. Controinformazione al caravanserraglio (8). Senza paure.

Canzoni. (5 di media) Abbinamenti azzardati: Patty Pravo e Briga. O anonimi: Federica Carta e Shade. Anche certi duetti sono sembrati sbilanciati: Noemi soverchiante Irama, Manuel Agnelli megalomane con Daniele Silvestri. O chimici, in senso lato: Achille Lauro e Morgan. Notevole invece l’apporto del violino di Alessandro Quarta al Volo. Insopportabile l’overdose incontrollata di rap (3). È dovunque, come la rucola negli anni Novanta. Quasi tutti i brani con lo stesso spartito: rap, strofa melodica, rap. Rap-presaglia.

Ospiti italiani. Idea pregevole, i momenti migliori del Festival (7.5). Andrea Bocelli con suo figlio, Antonello Venditti e Baglioni che cantano Notte prima degli esami, il medley di Raf e Umberto Tozzi che trasforma l’Ariston in discoteca, la magia di Notre dame de Paris di Riccardo Cocciante, Giorgia, Fiorella Mannoia. Peccato per certe esibizioni all’ora dei vampiri. Colonna sonora.

Spinoza Live, cioè l’account Twitter di Spinoza.it. Godimento social, stile Gialappa’s band. Antidoto, spesso macabro, al virus della piaggeria che ha inondato l’Ariston. Fulminanti molti tweet del forum. Vere chicche i profili dei cantanti. Andrebbero riportati integrali (9). Limitandosi: «Nek nasce il giorno della Befana del 1972, immaginate quanto erano stati cattivi i genitori…». Zen Circus: «Al Festival porteranno L’amore è una dittatura, di Salvini-Isoardi». Il Volo: «Si esibiscono anche alla cerimonia del Nobel per la pace, che quell’anno viene assegnata agli spettatori in sala». Simone Cristicchi: «Nel 2007 vince Sanremo con Ti regalerò una rosa, battendo numerosi cingalesi». Ex-Otago: «Il brano che portano a Sanremo si chiama Solo una canzone, ma attenti: gli effetti sono gli stessi di quando il radiologo vi dice “Solo una macchietta”». Anna Tatangelo: «Il verso “potrei lasciarmi alle spalle la parte migliore” lascia intendere che le abbiano montato le tette nuove sulla schiena». Oscar all’irriverenza.

Mina e la Tim. Quando la pubblicità è un piacere (9). Opera di Luca Josi, esempio di uomo ombra che funziona. Prima lo spot dei sognatori per il cinquantesimo dello sbarco sulla luna, con un’inedita versione di Kiss the Sky di Jason Derulo. Poi il capolavoro finale: Timtarella di luna… Ti connetti sotto i tetti… Tim Tim Tim fasci di fibra. Geniale.

Omaggi funebri. Alcuni riusciti, come quello a Lucio Battisti con Emozioni cantata da Baglioni e Marco Mengoni (8). Altri venuti male, come quello a Lelio Luttazzi, sempre Baglioni con la Raffaele (4). Poi ci sono quelli doverosi e sgrava coscienza, come per il compleanno di Fabrizio Frizzi, al quale non è mai stato proposto di condurre il Festival ma, ha rivelato Baglioni: «Io l’anno scorso ci avevo anche pensato» (3). Sorprendente la dedica di Fabio Rovazzi al papà (7) morto quando aveva 16 anni. Trascendentali.

Matteo Salvini. (7.5) Convitato di pietra evocato, citato e ritwittato. Tutti a interrogarsi sulle sue reazioni, si può o no parlare di politica? Per Bisio no, Pio e Amedeo han dimostrato che sì. Lui ha postato «Evviva #Sanremo», con selfie davanti alla tv. Ha scomunicato Achille Lauro per il sottotesto stupefacente. Vincitore morale.

La Verità, 10 febbraio 2019

«A Sanremo Mina e Tim stupiranno ancora»

Mina torna a Sanremo. Con la Tim, come l’anno scorso. In voce e in digitale. La più grande cantante italiana, l’artista che non compare pubblicamente da quarant’anni, dovrebbe cantare un brano americano. Non è sicuro al 100% perché sui contratti manca ancora la firma, questione di ore. «Sarà qualcosa di sorprendente», concede Massimiliano Pani, che di Mina è anche il produttore. Nella serata finale del Festival 2018 un ologramma comparve sulla scalinata dell’Ariston. L’avatar di Mina cantò Another Day of Sun tratto dalla colonna sonora di La La Land. Quest’anno che cosa inventeranno lo sponsor unico della kermesse e l’artista che vive a Lugano? Di sicuro si rinnoverà il racconto in cinque episodi, uno per sera, ideato da Luca Josi, direttore della struttura Branded Strategy e Media del marchio e creatore della formidabile campagna, che dura da più di due anni, con il ballerino Sven Otten, in arte JSM. Sarà una piccola soap opera, con sorpresa finale. «Non posso anticipare nulla», si ritrae Pani, «finché i contratti non sono firmati. Se dovesse essere confermata la canzone su cui si sta lavorando, sarà una cosa veloce e positiva. Di un genere musicale inaspettato».

Siamo a Lugano, studi della Pdu Productions, casa discografica di Mina, con Massimiliano, 55 anni, figlio della cantante e di Corrado Pani.

Com’è nato il vostro coinvolgimento con il brand della telefonia?

«Mia madre si fida di Luca Josi. Ne apprezza la genialità e il coraggio. Sono due visionari, due pazzi sani che si divertono. La riuscita di questa collaborazione deriva da questa intesa, dalla stima reciproca».

Si conoscevano già?

«C’era una conoscenza pregressa, che risaliva a quando Josi era in Einstein Multimedia. Una volta in Tim, sapendo che Mina ama l’originalità, le ha proposto qualcosa di innovativo. E lei, che negli ultimi anni aveva rifiutato diversi abbinamenti, ha accettato».

In passato ha collaborato a diverse campagne. Si ricordano le réclame di Barilla…

«In sessant’anni ha fatto una decina di abbinamenti; ci sono artisti che ne fanno uno all’anno. Se si riguardano i caroselli della Barilla si vede ancora adesso quanto fossero in anticipo. Lei cantava una canzone e il prodotto compariva solo nel codino».

Perché si è convinta a collaborare con Tim?

«Perché non era uno spot tradizionale, ma una specie di helzappoppin. Credo che le campagne Tim siano la comunicazione pubblicitaria più all’avanguardia dell’ultimo decennio. Prima il testimonial era Pif. Per trovare una claim altrettanto efficace bisogna tornare a Massimo Lopez e alla telefonata che allunga la vita».

Cosa c’era di originale in questa campagna?

«Josi non ha preso un pezzo già noto e digerito dal pubblico. Ha scelto All Night di Parov Stelar e l’ha fatto cantare a un’artista trasversale a tutti i pubblici, anche lei colta e pop. Ha preso una cantante fuori dal tempo per rivolgersi ai ragazzini, i veri clienti di Tim. È stato un di giro della morte. Un esempio di comunicazione leggera, divertente, creativa».

Che ha portato avanti un discorso, pur cambiando ambientazione.

«All’inizio sono andati in onda anche i filmati del pubblico, gruppi di ragazzi a scuola, marinai sulle navi… Poi sono spuntati Stanlio e Ollio. Ora c’è Piazza Navona che collega le Dolomiti, la Torre di Pisa in un’unica grande piazza che è l’Italia. Cambia il visual, ma il phil rouge è la voce di Mina. Fino alla soap opera intergalattica di Sanremo, con l’astronave in avvicinamento alla terra comandata da un’aliena».

Com’è stato realizzato l’ologramma della serata finale?

«Il fotografo e pittore Mauro Balletti, che dal 1978 è l’unico a poterla riprendere e fotografare, ha creato un rendering del volto e del corpo di Mina, un avatar digitale che ha i suoi lineamenti e i suoi movimenti».

L’avete rappresentata come un’aliena perché Mina è un’assenza presente nella vita italiana? Una protagonista lontana che può sempre comparire?

«È un’aliena per le scelte che ha fatto, perché ha capito alcune cose prima di altri. Ha capito che la televisione stava cambiando e allora ha deciso di tirarsene fuori. Nella ricerca estetica, vent’anni prima di Madonna e trenta prima di Lady Gaga ha cominciato a giocare con la sua stessa immagine. Rappresentandosi in tanti modi, persino con la barba… Ha creato una casa discografica per tutelare il suo lavoro. È stata la prima a pubblicare dischi dedicati come MinacantaLucio e Mina quasi Jannacci. Oppure monotematici come Mina canta o Brasil e Napoli».

La modernità, la contemporaneità, l’anticipo sui tempi da cosa derivano?

«Pensa sempre al domani. Mentre generalmente ci si concentra sul presente, lei si concentra sul bello, su ciò che si può fare di innovativo. Su questo Josi è un ottimo partner, forse l’ultima grande testa della comunicazione pubblicitaria, lo dico per come lavora. Vedremo presto che cosa ci riservano per il 2019».

Come si cura l’immagine di Mina?

«Vogue Italia ha dedicato un intero numero a Mina come immagine. La sua carriera va divisa in due epoche. Quella della ragazza che già negli anni Sessanta e Settanta influenzava la moda con la sua intelligenza e la sua personalità. E quella successiva, quando scelse di ritirarsi. E decise di giocare con la sua immagine, affidandosi a un maestro dell’iconografia come Balletti, che ha realizzato le sue idee in un’epoca in cui non esisteva il photoshop».

Mina ha collaborato con alcuni giornali. Che rapporto ha con la comunicazione?

«Scrivendo per La Stampa e Vanity Fair su qualsiasi argomento e non solo di musica, ha dimostrato che ha successo non perché canta bene, ma perché è intelligente. Quando mi chiedevano chi le scriveva i pezzi rispondevo: “Ma con tutto quello che ha fatto nella musica non credi sia in grado di scrivere da sola?”. È una donna attenta a tutto, che ascolta tantissima musica, informata, sempre avanti…».

Come vive le vicende italiane?

«Gioisce e soffre come tutti noi. Non prende parte benché sia stata più volte sollecitata da tutti».

In che modo?

«Ci sono persone popolari che non sono autorevoli o, al contrario, persone autorevoli che non sono popolari. Lei è entrambe le cose. Quel mondo, tutto, man mano che cambiavano i governi, ha cercato più volte di coinvolgerla, ma lei non ha mai considerato l’idea perché non ama il potere e i potenti. È un mondo troppo distante da ciò che ama e sa fare».

È nei social, ha un canale YouTube…

«Ci sono il canale Mina official e Mina Instagram. Questi luoghi digitali raccolgono parte di quello che ha fatto e lo rendono disponibile anche a chi è nato nell’era digitale e non possiede i vinili o non ha visto la tv dell’epoca. Mina ha un pubblico trasversale, composto anche da ragazzi che le riconoscono modernità e atemporalità».

Danilo Rea suona il pianoforte di Arturo Benedetti Michelangeli?

«Sì. Questo pianoforte viene dalla Basilica, la chiesa sconsacrata dove c’era lo studio di registrazione della Pdu a Milano. Benedetti Michelangeli incideva lì per la qualità dell’acustica. Aveva chiesto alla Steinway di preparargli un pianoforte a coda particolare, più lungo e con un legno preciso. Quando glielo portarono suonò due note ma, esigente ed eccentrico, lo rifiutò perché secondo lui il tasto tornava male. I tecnici della Steinway rimasero basiti nel loro camice bianco. Noi lo abbiamo comprato ed è tuttora il nostro pianoforte».

Che cosa significa comporre e arrangiare per Mina?

«Lei ha la capacità d’interpretare ogni genere musicale non a modo suo, ma come va interpretato. Riesce a entrare in un mondo musicale, dalle canzoni napoletane alla bossa nova, dal tango agli standard, nella maniera in cui va fatto e ai massimi livelli. Perciò bisogna essere in grado di passare da un genere all’altro e avere musicisti all’altezza. Questo, tendenzialmente, lo sanno fare meglio i jazzisti. Toots Thielemans suonò per Mina in Non gioco più. Danilo Rea iniziò a collaborare con noi a 21 anni. Nei dischi c’è sempre un brano con arrangiamento jazz. Gianni Ferrio è stato l’arrangiatore per eccellenza di Mina. Abbiamo lavorato con lui fino agli ultimi anni».

Duettò anche con Astor Piazzolla.

«Nel 1972 lo fece invitare a Studio Uno, insieme eseguirono Balada para mi muerte. Per dire che cosa faceva la Rai in quegli anni».

Un altro rapporto duraturo è quello con Adriano Celentano.

«Hanno iniziato insieme da ragazzi. Lei, Celentano, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. Cantavano nei locali il rock’n’roll e le canzoni di Elvis prima di diventare cantanti loro stessi. Con Adriano è rimasta grande complicità».

Celentano ogni tanto fa degli show in carne e ossa. Sua madre non è tentata?

«Sono artisti diversi. Adriano è anche attore e performer. Mina si esibiva dal vivo, nei concerti in teatro e in tv. Sono cambiati sia la tv che i luoghi dei concerti. Gli stadi, per esempio, non sono deputati per fare musica, non hanno l’acustica giusta. Con 70.000 persone cambia anche la drammaturgia. Lei privilegiava l’emozione in una dimensione più intima, con l’orchestra. Ha preferito fare dischi in studio».

Canta con Celentano, duetta con Paolo Conte, pubblica un songbook dei successi di Lucio Battisti, scrive un articolo per ricordare Fabrizio De André. Vuole ricostruire la memoria musicale italiana?

«Non so se è questo lo scopo. Lei è un’interprete e cerca di cogliere le canzoni più belle già scritte o che saranno scritte. Perciò a volte fa delle riletture musicali, altre volte pubblica un album di inediti come Maeba».

Come si vive vicino a un’artista così?

«Ho avuto due genitori di grandissima personalità. Mio padre è stato un attore importante e aveva un carattere difficile. Quando gli dicevano che aveva lavorato con grandi artisti del teatro e del cinema rispondeva: “Io di artisti veri ne conosco solo due, Mina e Carmelo Bene”. Mina è una fuoriclasse per il suo modo di pensare».

 

La Verità, 13 gennaio 2019

Prima del via godiamoci certe scintille degli spot

Nell’attesa che finalmente inizi la nuova stagione (a proposito, Quelli che il calcio parte alla terza giornata di campionato – non si potevano fare delle puntate serali per le prime due? – Fabio Fazio il 24 settembre e Domenica in addirittura in ottobre: noi l’abbonamento lo paghiamo tutto l’anno), nell’attesa, dicevo, che, oltre a un po’ di sport vario, inizi davvero la stagione, il meglio si trova negli spot pubblicitari, in certi casi vere scintille di genialità, quello del Buondì compreso. A dirla tutta, sulla campagna che ha scatenato polemiche e predicozzi, oltre gli eccessi moralistici, non so chi è peggio tra due genitori mortiferi e una bimbetta smorfiosa che chiede una merendina «che possa coniugare la mia voglia di leggerezza e golosità». Parla come mangi, sarebbe stata la risposta giusta, e fine della storia. Ma dopo aver standardizzato l’alimentazione di matusa e mocciosi, ormai il politicamente corretto e i dogmi del nutrizionismo che alluvionano tutti i palinsesti hanno hanno invaso anche il linguaggio infantile. Dove invece, sempre in materia di generazioni, non ho difficoltà a scegliere da che parte stare è nel fulminante spot di Vigorsol Easy (non nuovissimo, ma testé riproposto): tutta la vita con l’adolescente ribelle che, dopo aver lanciato dalla finestra il tappetino da yoga, esce dalla camera vestita da punk come padre e madre, fasciati di pelle e borchie (genitori così esistono e si diffondono). Una volta all’aperto si disfa della maschera spruzzandosi con la pompa per innaffiare e, sorda alle proteste dei «vecchi», sale sulla bici del ragazzo, in rotta verso la libertà. Niente divise: nell’era all tattoo, trasgressione e anticonformismo sono acqua e sapone. La generazione dei maturi riguadagna invece credibilità nello spot Tim d’inizio stagione, dove Stanlio e Ollio ballano sulle note di All night, il brano del dj Parov Stellar cantato da Mina, che alla fine chiosa: «È bello ripartire con un sorriso». Un altro gioiello che prosegue la story della bellezza («è bello amare il calcio»; «è bello avere Mina»), inaugurata quasi un anno fa dalla campagna del marchio di telefonia. In tema di sigle e jingle fortunati, è partito con ampio anticipo il corteggiamento della Rai per abituare il pubblico del primo canale all’idea di trovarsi Fazio in casa ogni maledetta domenica. Il promo antologico con la sfilata dei big è efficace quasi quanto è contagiosa Twistin’ night away di Sam Cook. Resta da vedere se il conduttore saprà essere all’altezza dello smalto della sigla. Oltre che di quello del tintinnante cachet.

La Verità, 5 settembre 2017

Josi: «Così è nato lo spot tormentone della Tim»

Incontri Luca Josi e non sai da dove cominciare. Da Bettino Craxi e i nomignogli che gli hanno affibbiato: Hammamet express, l’apostolo, l’aspirante martire del craxismo, l’ultimo repubblichino della Repubblica di Salò di Craxi? Oppure dai cinque Telegatti vinti quando faceva il produttore tv con Einstein Multimedia, prima di chiudere a causa della vicenda riguardante la fiction Rai Agrodolce? Dal matrimonio con Laura Paglieri, famiglia Felce Azzurra, o da quello con Luisa Todini, famiglia di grandi costruttori? O dal nuovo ruolo di capo della comunicazione di Tim (formalmente: direttore della struttura Brand Strategy e Media), ideatore e curatore, tra mille altre cose, dello spot con il ballerino Sven Otten che ci ha stregato prima durante e dopo il Festival di Sanremo? Forse intuendo i miei impacci, parte lui da quand’era bambino, promessa del nuoto a Genova, due allenamenti e una ventina di chilometri al dì, genitori socialisti nella città dove nacque il Psi e si andava al cinema nella Sala Sivori, luogo della fondazione. Il padre Giuseppe insegna Statica delle navi all’università e, per capire il tipo, a un tal Lelekis fa ripetere l’esame 32 volte. La madre è giudice minorile, poi preside di una scuola privata. Il più ignorante del casato ha tre lauree. L’unica a non aver studiato è nonna Margherita, discendente di Marco Antonio Bragadin, ammiraglio della Serenissima che resistette agli Ottomani nell’assedio a Famagosta (Cipro), poi catturato e scorticato vivo perché rifiutò di convertirsi all’islam. La nonna gli ripete questa storia, ma lui alla fine s’iscrive all’università. Ma siccome, nel frattempo, la passione politica ha scalzato il nuoto, studia a Genova e va alle riunioni dei giovani socialisti a Roma, dormendo in treno. Tre volte la settimana per tre anni, questa è la tigna. Più che un grande irregolare, Josi è una presenza che smuove il senso di colpa collettivo nei confronti di Craxi. Si definisce un «salmone orfano»: salmone perché essere craxiano dal 1992 al 2000 è piuttosto controcorrente, orfano perché nel frattempo il Psi è scomparso. A Roma poi esplode la passione per la storia dell’arte. Tuttora viva al punto che, entrato nel Cda della Fondazione di Telecom, chiamato dal presidente Giuseppe Recchi, si butta nel piano di ripristino del Mausoleo di Augusto a Roma («il più grande monumento sepolcrale del mondo dopo le piramidi, che consegneremo alla cittadinanza in meno di due anni»). Una volta in Telecom, complici altri cambiamenti, nell’aprile 2016 l’ad Flavio Cattaneo gli affida la responsabilità della comunicazione. Nel frattempo è tornato anche l’amore per il nuoto e, a 50 anni, Josi fa ancora i 100 stile libero in un tempo inferiore al minuto.

Dunque, cominciamo dalla fine. Com’è nato questo spot così magnetico, contagioso, virale?

«È nato nella mia famiglia allargata; tra figlie, figli e la mia amatissima compagna Allegra: la persona con cui guardo e condivido meglio il mondo. In casa, anche noi, siamo tenaci navigatori della rete, tutti frequentatori di questo straordinario modo di viaggiare da fermi».

Uscendo dalla metafora?

«A settembre ci siamo ricordati di quel ballerino che avevamo visto qualche tempo prima. Per la nostra comunicazione cercavo qualcosa di semplice nella sua ripetitività – una legge, un mantra, per chi viene dall’avere lavorato coi format – e il ballo di Sven era perfetto. Lo era già nel suo video autoprodotto in bianco e nero, con quelle inquadrature pulite e quel continuo volteggiare degli arti che sembravano indicare i quattro angoli dello schermo lasciato vuoto per poterci inserire le nostre parole».

E la musica?

«C’era già. Sven infatti ballava nella sua camera su All Night di Parov Stelar. Abbiamo preso il binomio completo. Loro due nemmeno si conoscevano. Sven è tedesco, ha 29 anni e una storia perfetta da raccontare: era un programmatore di computer, che per la tendenza ad appesantirsi, con conseguenti problemi alla schiena, aveva deciso di dimagrire e gli era venuta l’idea del ballo. Da autodidatta aveva cominciato a scaricarsi dei tutorial dalla rete per imparare i primi passi, poi si era appassionato a questa musica al punto d’inventarsi un ballo per interpretarla».

Adesso quando la senti nelle sigle della Serie A, nella testa vedi Sven che balla…

«È l’elettro-swing. Lo swing è nato negli anni Trenta e ha rappresentato una reazione, fisica, alla depressione economica. Da lì vengono una serie di sonorità e danze nuove, più spensierate e positive. Nel 2012, Stelar, ha creato questo brano, una versione elettro dello swing. E così, ci siamo ritrovati tra le mani questa chicca».

Un brano che sprigiona energia.

«Come tutto ciò che tira fuori il meglio di noi, regala qualche secondo di allegria, un sorriso e un po’ di buon umore. Questa campagna è diventata precocemente virale. Non era ancora partito il concorso per le reinterpretazioni del ballo rivolto sia ai singoli consumatori che possono mandare un video autoprodotto che ai dipendenti delle aziende che possono proporlo con tanto di marchio del gruppo – su www.ballacontim.it online da mercoledì – che lo spot aveva già prodotto più di 200 imitazioni e una ventina di parodie. Tutte nate spontaneamente; il sogno di ogni pubblicitario».

Rischio di sovraesposizione?

«Sono quei rischi che ognuno si augura sempre di dover gestire».

Quindi, spot stupendo: ma il prodotto è stato comunicato in modo efficace?

«Esistono un’infinità di casi di pubblicità famose per qualità delle immagini e dei suoni che si sono rivelate di scarsa efficacia per il prodotto di cui erano ambasciatrici. Noi abbiamo avuto un risultato eccellente in tutte le sue declinazioni. Al di là della piacevolezza, quella musica e quel modo di portare le parole dell’offerta è talmente semplice che lo spettatore ricorda con precisione il contenuto della proposta commerciale».

È la prima volta che c’è uno sponsor unico al Festival di Sanremo. Come l’avete deciso?

«Ricordiamo la leadership del gruppo presidiando gli eventi e i fenomeni principali della nostra società come la Serie A del calcio o la scuderia Ducati. Ci siamo chiesti quindi quale fosse il Superbowl italiano e la risposta era senza dubbio il Festival di Sanremo che realizza ascolti irriproducibili».

Avrete stanziato un super budget.

«Se intende sugli investimenti pubblicitari la risposta è no. Abbiamo riscontrato però che la percezione, anche da parte degli addetti ai lavori, è stata quella di un investimento infinitamente superiore a quello reale. Il che significa che abbiamo speso molto molto bene i nostri soldi per la resa che hanno avuto. La tempesta perfetta si è vericata a Sanremo dove si sono incontrati l’evento più evento del panorama italiano e lo spot del momento. Quando il nitro incontra la glicerina scaturisce qualcosa di esplosivo».

A proposito di super budget, com’è arrivata Mina?

«Come una cosa bella. A Sanremo ci siamo chiesti: perché le telepromozioni devono essere percepite come un prodotto minore della comunicazione? Così ci è venuta l’idea di creare uno spettacolo nello spettacolo, provando a immaginare un piccolo musical in stile bollywoodiano derivato dallo spot. Recchi e Cattaneo hanno sposato l’idea e sono stati i primi veri sponsor di questa campagna. Si è innescata una sorta d’isteria produttiva: abbiamo avuto il via libera il 15 gennaio e abbiamo iniziato a girare i filmati a Cinecittà il martedì precedente all’inizio del Festival».

E Mina?

«Ho la fortuna di averla amica. Lei ha avuto fiducia nell’idea che le ho proposto. Ed è successo quello che avete visto e ascoltato. La mia più grande preoccupazione era di realizzare qualcosa che fosse rispettoso del suo mito. Mina, che come tutte le persone di genio vive della sua curiosità imprevedibile, ancora una volta ha trovato il modo di divertirsi, stupire e reinventarsi. L’idea di cantare “Tim Tim Tim” è sua. Un guizzo mozartiano di un personaggio dal talento inesauribile».

Da quanto tempo esiste questo rapporto con Mina?

«Siamo amici, ci conosciamo da anni e, appunto, se devo immaginarmi il genio o spiegarlo, penso a lei e a pochi altri. Sono quelle intelligenze carsiche delle quali non riesci mai a capire come costruiscano i passaggi che le portano a intuizioni, a sintesi, che altri producono, faticosamente, dopo percorsi lunghi, concatenati (sempre che le producano). Il genio, invece, all’improvviso ti dà un’intuizione che con istinto animale ti spiazza. È come se fosse già in possesso di una soluzione che agli altri mancava, quello che si definisce “nascere imparato”. Mina è così, una persona imparata in tutte le situazioni, mai fuori luogo, non s’identifica con una stagione attraversandole tutte da protagonista».

C’è un episodio, una frase, una situazione che l’ha particolarmente colpita in questa amicizia?

«Le amicizie e i sentimenti privati si definiscono tali proprio perché lo restino».

Questa campagna della Tim è il suo ritorno pubblico nel mondo della comunicazione. Una sorta di rinascita dopo anni difficili?

«Per rinascere bisogna morire. Vengo da una famiglia di trattori, gente ligure che, se china il capo, vuol dire che sta prendendo la rincorsa per tirarti una testata. Negli anni della tv ho vinto cinque Telegatti, prodotto migliaia di ore del primetime televisivo, organizzato il Live8 del 2 luglio 2005 (il più grande evento musicale italiano). Ho incontrato poi momenti cattivi concepiti da personaggi peggiori (non sono credente, ma credo che convenga anche a questi tizi che Dio non esista). Mi hanno aiutato oltre alla mia famiglia, meravigliosa, poche persone e devo a loro se sono qui. Non sono stati anni facili, ma sono cresciuto con mia nonna paterna che al posto delle favole mi raccontava la storia dell’avo Marco Antonio Bragadin; qualcosa di diverso da Biancaneve. Da parte di mia madre, nelle mezze parole liguri, ascoltavo invece quella del tenente Piero Borrotzu, che a 22 anni si consegnò ai nazisti per scambiare la sua vita con quella dei cittadini di Chiusola. Non c’è un grammo di retorica in questi ricordi: erano uomini come noi, come me; persone che hanno affrontato prove assolute, con coraggio, forza e senso del dovere che riduce a un pizzicotto ognuno dei miei mostri».

A proposito di quei tizi mi permetto di dire che devono sperare nell’esistenza di Dio, perché Lui perdona… Comunque, l’esperienza di produttore tv è la sua seconda vita, la prima è stata la politica. Quando parlava dell’intelligenza di Mina, mi chiedevo come classificasse quella di Craxi.

«Anche di Craxi non si capiva come arrivasse alla sintesi, all’idea finale. Andreotti raccontava spesso che quando andavano insieme a qualche meeting politico, lui impiegava il tempo del viaggio a studiare i dossier, mentre Craxi si sdraiava e dormiva per poi rinvenire quando l’aereo iniziava la discesa. A quel punto, scartabellava velocemente il plico immergendosi in silenzio in quelle carte; una volta raggiunto il tavolo del consesso era però sempre lui quello che poneva il pallino al centro della conversazione focalizzando l’aspetto strategico della questione. E Andreotti lo ricordava con un filo d’ironica invidia».

Lei come lo ricorda?

«Come il mio miglio amico e il mio leader».

Oggi che rapporto ha con il mondo della politica?

«Protetto. Guardo la tv e vedo che c’è un sacco di gente che ne parla, che ne discute; probabilmente, da qualche parte, ce ne sarà qualcuno anche capace di farla. In generale, mi sembrano tempi eunuchi, pieni di personalità calviniste con il prossimo e cattoliche con sé stesse».

Può esemplificare? C’è qualcuno che l’ha particolarmente delusa e, al contrario, qualcuno che le suscita un briciolo di speranza?

«La politica necessita di un fondo di ottusità: quella di sentirsi indispensabili all’umanità. Alcuni, se non lo sono per davvero, risultano almeno utili; l’altra gran parte, sono rinunciabili o interscambiabili. Però la politica è imprescindibile perché dovrebbe servire a reagire alle ingiustizie e alle prepotenze. Perché si occupa della vita di ognuno di noi e se tu non affronti i problemi loro troveranno te e avrai solo perso tempo. Da noi il coraggio e l’impegno ci si immagina abbiano effetti retroattivi. Sopraggiungono dopo sperando che abbiano effetto sulle codardie e le negligenze del prima».

Piercamillo Davigo, presidente dell'Anm (Franesco Garufi)

Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm (Franesco Garufi)

Di recente Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm, ha detto che a 25 anni da Mani pulite la politica è ancora più corrotta. Concorda?

«È probabile. In un certo senso Tangentopoli somiglia a una terapia antibiotica interrotta anzitempo, che ha rafforzato la malattia. Craxi fu l’unico ad autodenunciarsi in Parlamento per il problema del finanziamento illecito ai partiti. Tacquero tutti. Non era il: “Tutti colpevoli, nessun colpevole”, ma il tutti colpevoli e basta. Nel frattempo la mitragliatrice di Tangentopoli aveva esaurito il nastro delle sue munizioni e fu così che resistettero i nani e le ballerine. I primi avvantaggiati dall’altezza e le seconde dalla mobilità».

 

Cosa la fece diventare craxiano proprio mentre prendeva corpo l’azione di Mani pulite?

«Sono stato l’ultimo segretario dei giovani del Psi di Craxi. Ci siamo messi a difendere una storia non nostra perché sapevamo ci sarebbe ricaduta in testa. E soprattutto perché pensavo che se fossimo stati così pessimisti da non voler difendere il nostro futuro non potevamo essere, contemporaneamente, così ottimisti da sperare che qualcuno lo facesse al posto nostro. Perché alla fine appare sempre che sono i buoni a vincere. E non perché lo siano per davvero, ma perché vincendo, e scrivendosi la storia, lo diventano».

Si sente un irregolare?

«Un carattere nazionale è ormai diventato il galleggiamento. Io preferisco nuotare e penso, come scriveva Ignazio Silone, che il destino sia un’invenzione della gente fiacca e rassegnata».

Per tornare al punto dal quale abbiamo iniziato: quali sono i grandi progetti su cui sta lavorando il terzetto Tim, Josi, Mina?

«Molti, ma non le rovinerò la sorpresa».

 

La Verità, 5 marzo 2017

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Il cambio di passo è netto. Una svolta anche nella comunicazione, quella registrata alla presentazione dei palinsesti Rai della prossima stagione, con tutte le star e i volti noti, vecchi e nuovi, a far squadra, in Continua a leggere