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«La bellezza è visibile anche da chi non vede»

Vincenzo Mollica è un gigante con l’innocenza di un bambino. Con lui e sua moglie Rosa Maria, anche lei persona speciale, ho trascorso una bellissima mattinata nella loro casa in Val Seriana. Una casa immersa nel verde e allietata dal cinguettio degli uccelli. Non conoscevo Vincenzo, storico inviato di spettacoli del Tg1, premiato con il David di Donatello alla carriera. Ma dopo qualche telefonata ha accettato di soddisfare questa curiosità: cieco a causa di un grave glaucoma e affetto dal morbo di Parkinson – «du fiji de ’na mignotta» -, rimane sereno perché è buono come il pane o perché lo aiuta qualcos’altro? Oltre l’impossibilità di vedere, la fede gli dona un altro tipo di sguardo? «Non ho mai raccontato pubblicamente queste cose, ma stavolta lo faccio perché Cesare G. Romana, illustre collega del Giornale, mi aveva parlato di te», confida. A mia volta io ricordo quando, mentre si lavorava a una trasmissione televisiva, Claudia Mori e Adriano Celentano si gasavano: «Adesso dobbiamo chiamare Vincenzo». Una manciata d’anni dopo, eccomi a dialogare con lui di giornalismo, grandi artisti e bellezza.
Quali sono i segreti della tua carriera?
«La fatica, la curiosità e la passione. Il quarto segreto è l’idea di servizio pubblico imparata da Emilio Rossi, direttore del Tg1, e dal suo vice, Nuccio Fava. Per questo non ho mai cambiato casacca e sono sempre rimasto nella redazione cultura e spettacoli che ho contribuito a fondare con Gianni Raviele sotto la direzione di Albino Longhi».
Qual è stata la tua maggiore soddisfazione professionale?
«Sono state tante. Ho avuto la possibilità di essere testimone degli Oscar alla carriera di Federico Fellini e di Michelangelo Antonioni e degli Oscar a Roberto Benigni per La vita è bella. Ho potuto frequentare tanti artisti».
Ci sono gli amici nel mondo dello spettacolo?
«Ci sono come in tutte le situazioni della vita. Ho la fortuna di averne tanti e di continuare ad averne anche se non faccio più il mio lavoro. Lo sono stati Fellini, Hugo Pratt, Andrea Pazienza, Alda Merini, Franco Battiato, Daniele Del Giudice, Vincenzo Cerami. Lo sono Rosario Fiorello, Renato Zero, Paolo Conte, Francesco De Gregori, Milo Manara, Adriano Celentano. Persone con cui ho condiviso 40 anni di vita. Mina è un’altra persona cara, ho curato la raccolta di dvd sui suoi anni alla Rai».
Chi è il cronista, come ti definisci orgogliosamente?
«È un cercatore di storie, gli artisti hanno tante qualità da far conoscere. Come cronisti abbiamo il compito di trovare persone che riescono ad allargare il nostro sguardo sulla vita. Per me le opere d’arte non sono accessorie, ma sostanza. Se non avessi letto certi libri, visto certi film, ascoltato certe canzoni non sarei quello che sono oggi. A 71 anni ho ancora voglia di cercare e Mister Parkinson e Signora Cecità mi aiutano a farlo».
In che modo?
«Mi danno la voglia di capire ciò che mi sta succedendo, mi spronano a cercare l’essenza della vita. Quando hai due compagni così senti tutto in modo diverso, dai profumi dei fiori al canto degli uccelli. Il sapore del creato. A volte ci si sente abbandonati, altre volte si è contenti di sperimentare ciò che ci regala l’avventura umana».
Perché ti piace fare le interviste?
«Vinicius de Moraes diceva: “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”. Così ho capito che durante le interviste la cosa più importante è ascoltare. Non ho mai usato le domande per esaltare il mio narcisismo e mostrarmi più colto di chi mi risponde. Solo così puoi trasmettere le informazioni e le emozioni di quell’incontro».
Ci vuole curiosità per le persone, per il mistero dell’uomo.
«Una volta Fellini mi disse che era la curiosità a farlo alzare la mattina. La curiosità alimenta la nostra vita. In particolare, le cose che ami, quelle che la condensano meglio. Come l’arte».
Ciò che conta è lo stupore?
«La vita ci sorprende continuamente. Viviamo momenti di dolore, di allegria, di solidarietà, di generosità. E tutto è concentrato in queste quattro lettere. Per spiegare la vita ci vorrebbe una biblioteca sconfinata. Ma anche se ci avviciniamo alla sua realtà non riusciamo ad afferrarla perché è irriducibile a una formula matematica».
Qual è l’incontro che ti ha dato di più?
«Quello con Federico Fellini. Quando uscivi con lui non sapevi mai a che ora saresti tornato a casa, ma sapevi che ci saresti tornato meglio di come eri uscito. Con la mia Uno rossa, di notte, ci perdevamo per Roma. Spesso voleva passare per piazza San Pietro, vedere il colonnato, assaporare la spiritualità che emanavano quei luoghi. Andavamo al ristorante a mangiare cibi semplici, ma lui riusciva a farti percepire la solita cosa in modo nuovo. “L’unico vero realista è il visionario”, diceva. Oppure, citando Leopardi: “Nulla si sa, tutto si immagina”. Me lo disse quand’ero vedente e ora questa frase continua a echeggiare nella mia testa».
Cos’hai pensato quando da bambino hai appreso che saresti diventato cieco?
«Sono felice di averlo saputo a 8 anni. Mia mamma si era accorta che dall’occhio sinistro non vedevo. Mi portarono da un oculista a Locri e dopo la visita mi pregarono di uscire dalla stanza. Ma la porta rimase socchiusa e gli sentii dire che sarei diventato cieco. Tornando a casa non ho cercato di capire cosa volesse dire, ma se coprivo l’occhio destro con la mano, non vedevo più nulla. Un oculista di Messina che mi visitava ogni sei mesi mi tranquillizzò: se avverrà, sarà da adulto, ma potrebbe anche non avvenire. Invece, è avvenuto».
Come ti sei preparato?
«Cercando di memorizzare quello che vedevo. Camminando, localizzavo la posizione delle pietre. Quando andavo al Festival di Cannes o alla Mostra di Venezia imparavo i percorsi a memoria. Avrei già potuto muovermi a occhi chiusi. Imparavo anche i libri e i fumetti che leggevo. Una volta chiesi ad Andrea Camilleri, anche lui colpito dal glaucoma, se esisteva l’arte di non vedere. Mi disse: “Vincenzino, non dimenticare mai la tavolozza dei colori che hai nella testa”. E mi raccontò che di notte faceva un esercizio particolare, proiettando mentalmente i quadri e le scene dei film che aveva amato, e che gli apparivano più vividi di come li aveva visti la prima volta: “Con il cervello, puoi trasformare il buio in un grande schermo”. Come in un fumetto».
Che cosa ti aiuta a non perdere la serenità?
«Ci sono persone che sono entrate in depressione. Io non ne ho mai sofferto, ho accettato questi due malanni che mi sono capitati. Ho la fortuna di avere un carattere paziente e ironico. Poi ci sono Rosa Maria, mia moglie, e Caterina, mia figlia, che mi accompagnano con pazienza e dolcezza».
Oltre a godere della loro vista, che cosa ti manca in particolare?
«Scrivere e disegnare a mano su fogli di carta. Non ho mai usato la tecnologia, pur essendo stato il primo giornalista Rai con un sito dedicato. Mi manca scarabocchiare sulla carta, le frasi che cancelli tornano buone per quello che scriverai dopo. Anche durante i collegamenti con il tg mi aiutavo con appunti su foglietti. E mi piaceva colorare…».
Sottolinei spesso che attingi al bicchiere mezzo pieno: che liquido contiene?
«Contiene il sostegno della mia famiglia e anche della fede. Sono credente. È un fatto intimo, personale. Considero la Bibbia un libro fondamentale e la figura di Gesù una fonte permanente di speranza».
Hai l’abitudine di pregare?
«Prego non per necessità o per chiedere qualcosa che vorrei mi accadesse. Ma per coltivare una dimensione spirituale che il tempo in cui viviamo ci induce a trascurare».
Ti aiuta a convivere con la tua condizione?
«Non c’è dubbio. Quassù, fino a qualche anno fa, c’era don Tarcisio, un sacerdote di grande delicatezza umana, con il quale facevo lunghe chiacchierate. Erano come momenti di preghiera. Sempre qui vicino c’è il santuario di Lantana, davanti a una vallata meravigliosa. Adesso, ogni tanto mi faccio accompagnare e con il trucco di imparare i paesaggi a memoria, rivedo tutto e mi viene voglia di pregare. E poi c’è un’altra cosa che mi piace. Giovannino Guareschi e il suo Peppone e don Camillo. Quel dialogo con Cristo in croce mi ha sempre affascinato. A volte leggevo qualche pagina del Breviario di don Camillo, pubblicato dalla Rizzoli».
La frase di Fellini sulla visionarietà del realista mi ha ricordato quello che dice la volpe nel Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry: «Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi».
«C’è qualcosa di molto vero, l’essenziale passa dal cuore e lo fa pulsare. Quando ero ragazzo e muovevo i primi passi, Celentano cantava Pregherò, la prima canzone che parla di una persona cieca: “Non devi odiare il sole perché tu non puoi vederlo, ma c’è”. Poi in Santa Lucia De Gregori canta “per tutti quelli che hanno occhi e un cuore che non basta agli occhi”».
Vuoi dire qualcosa, per finire?
«Sì. Mi diverte Mr. Magoo, un personaggio dei cartoni animati che non vede nulla eppure riesce a superare seraficamente situazioni complicatissime. Mi ha fatto capire che si può contemplare il bello anche da ciechi».

 

Il Timone, Luglio-Agosto 2024

«La Rai è un calabrone, vola nonostante il peso»

Agostino Saccà, come vede la Rai da pochi metri di distanza uno che ci ha lavorato 35 anni?
«A rigore di fisica e di logica la Rai non dovrebbe volare. Invece, è come il calabrone, un volatile che ha un’apertura alare incoerente con il suo peso. Quello che la grava, soprattutto dall’esterno, è così tanto che dovrebbe spiaccicarsi al suolo».
Invece?
«È al 39% di ascolto in prima serata, contando anche i canali digitali. Se pensa che era al 45,8% 35 anni fa, poco dopo l’inizio dell’Auditel, assistiamo a un miracolo. Non c’è solo la concorrenza di Mediaset, ma anche quella di La7 e Sky, degli americani di Warner Bros Discovery, delle reti locali e di decine di canali satellitari. Senza dimenticare le piattaforme».
Siccome nella tv pubblica Agostino Saccà è stato tutto, ne parla con autorevolezza e passione. Dalla direzione generale di Willy De Luca passando per Biagio Agnes, dai professori a Pierluigi Celli, ha attraversato metà della sua storia settantennale. Giornalista in radio e al Tg3, vicedirettore di Rai 2, capo-staff di Letizia Moratti, due volte direttore di Rai 1, direttore generale e capo della fiction. Lo incontro a due passi da Viale Mazzini, negli uffici della Pepito che ha fondato nel 2007, sorta di laboratorio di idee dove nascono film, serie tv e documentari.
Cominciamo dall’addio di Amadeus, dal sorpasso di Mediaset o dalla presunta censura di Antonio Scurati?
«Dal sorpasso di Mediaset».
Prego.
«Intanto, nei primi quattro mesi del 2024, non c’è. In primetime la Rai, digitale compreso, è al 39% e Mediaset al 36%».
In daytime?
«Nemmeno. L’ha smentito anche il direttore generale Giampaolo Rossi che io ritengo, per cultura personale, conoscenza aziendale e capacità di dialogo la scelta migliore possibile oggi per il ruolo di amministratore delegato. La Rai fa il 37,8%, Mediaset il 37,2%. Se poi togliamo il digitale, dove Mediaset è più forte, sulle generaliste il primato Rai è schiacciante: Rai 1 è al 24,3 e Canale 5 al 16. Idem sui tg: il Tg1 fa il 25,4 e il Tg5 il 19,8».
C’è una narrazione falsata?
«A metà del 2023 Mediaset ha effettivamente superato Rai e ha mantenuto la posizione fino a fine anno. Ma dall’inizio del 2024 i dati sono questi».
Narrazione falsata?
«Soprattutto pigra».
L’amministratore delegato Roberto Sergio ha detto che c’è chi vuole distruggere la Rai: lo si trova nelle file dall’opposizione e nei giornali d’area?
«Oggi la Rai ha tanti nemici e pochi difensori. Nell’opposizione c’è chi è tentato di buttare l’acqua “sporca” col bambino per timore di un’egemonia del centrodestra nella tv pubblica. Questa tentazione può saldarsi con gli interessi degli editori che trarrebbero vantaggio da un suo ridimensionamento nel mercato pubblicitario. Ma oltre a conseguirli, con la direzione della pubblicità di Gian Paolo Tagliavia, la Rai sa vendere bene i suoi risultati. Grazie alla performance pubblicitaria, che a Sanremo si è espressa al meglio, ha ridotto di 90 milioni l’indebitamento».
Amadeus poteva essere trattenuto?
«No perché doveva portare all’incasso l’enorme successo di Sanremo. Ricordiamoci che è anche un grande autore. Lo dico perché l’ho portato al grande pubblico con In bocca al lupo su Rai 1 più di vent’anni fa e ho apprezzato sia le doti del conduttore che quelle autoriali che lo aiutano a migliorare i prodotti a cui lavora. A Warner Bros Discovery fornirà i format delle trasmissioni che potrà inventare, far comprare o anche produrre. Questo in Rai non era possibile».
Nella prossima stagione i poli televisivi aumentano: essendo ìmpari quella sulle risorse, sposterebbe la sfida sulle idee?
«Le idee sono fondamentali, ma senza soldi la tv generalista non si può fare. Quando devi massimizzare gli ascolti e difenderti da offerte ricche, perdi. Il canone di abbonamento della Rai è il più basso d’Europa, quattro volte inferiore a quello tedesco, più di tre volte di quello inglese, più della metà di quello francese. È stupefacente che il calabrone continui a volare».
Bisogna aumentare la tassa più invisa agli italiani?
«Il governo dovrebbe dare all’azienda risorse coerenti con la missione di servizio pubblico. Il canone andrebbe riportato a 90 euro e andrebbe ridotta la tassa di concessione di 90 milioni che le altre tv non pagano in questa misura. Se si teme il rifiuto di una parte dei cittadini c’è un’altra via».
Sentiamo.
«La Rai dispone di uno strumento efficace per la crescita del Paese e per la concorrenza alle piattaforme. Raiplay ha riavvicinato i giovani e, con 24 milioni di account, è un dispositivo strategico per preservare i codici espressivi nazionali e il modo di raccontare dei grandi artisti dell’immaginario italiano. Bisogna avere la forza di lanciare Raiplay, dicendo che servono 20 euro di canone da destinare al prodotto. Sarebbe una piccola grande rivoluzione culturale».
In questo scenario come valuta il ruolo di La7 di Urbano Cairo?
«È una televisione con professionisti di valore e i risultati lo confermano. La mia sensazione è che, forse, la sua narrazione si dimostri leggermente datata rispetto ai grandi cambiamenti geopolitici e culturali che si sono verificati negli ultimi tempi».
Come risponderebbe alla perdita di Amadeus?
«Se Mina accettasse di fare il direttore artistico di Sanremo sarebbe un grande ritorno. È figlia della Rai, ha fatto i varietà dell’epoca d’oro, è una grande conoscitrice di musica, aggiornata su tutte le nuove tendenze. Con Carlo Conti all’Ariston, sarebbe un colpo straordinario. Su Sanremo bisogna avere coraggio e fantasia».
Lei lo avrebbe fatto fare il monologo a Scurati?
«Io gliel’avrei fatto fare, anche se confliggeva con le norme che vogliono che il sabato precedente al voto sia di silenzio. Tuttavia, mi chiedo: se è agli atti che l’azienda l’aveva consentito a titolo gratuito, perché improvvisamente spuntano i soldi e successivamente la conduttrice attacca la Rai sui social e denuncia la censura?».
La politica ha sempre influenzato la tv pubblica: la situazione è peggiorata con la riforma Renzi che ne ha spostato il controllo dal Parlamento al governo?
«Il Parlamento e il governo sono gli azionisti, è inutile fare gli ipocriti. È così in tutta Europa. In alcuni casi le intrusioni sono leggende. È soprattutto la piccola politica a provarci, governo e Presidenza del consiglio di solito si fermano alle nomine apicali. Proprio il caso Scurati lo dimostra: Giorgia Meloni ha pubblicato il monologo sul suo account di Facebook che ha più seguaci degli ascoltatori del programma».
Buoni dirigenti dovrebbero saper gestire le situazioni.
«In Rai ci sono e un dato lo conferma. Un’impresa operante in un sistema competitivo che subisse interferenze continue non si manterrebbe quasi al 40% di share. La Rai sarebbe finita come l’Alitalia che è costata 8 miliardi di aiuti allo Stato. Ricordo che quando il governo Ciampi stanziò 200 miliardi di lire per aiutarla in un momento difficile, Letizia Moratti li rifiutò: “La Rai si salva da sola”, disse. E in due anni e mezzo abbattemmo 1500 miliardi di lire d’indebitamento, figlio della guerra contro Berlusconi e della realizzazione di Saxa Rubra. Non c’è in Italia un’azienda pubblica o privata, dall’Olivetti alla Fiat, che abbia rifiutato gli aiuti dello Stato come ha fatto la Rai».
Sono limiti strutturali a condizionarla?
«Dal punto di vista della gestione economica e finanziaria la Rai è più paralizzata di un ente locale. Per stanziare 2.000 euro serve una gara d’appalto. Alle riunioni del Cda partecipa un giudice della Corte dei conti con compiti di controllo, una prassi che non c’è in un nessun’altra azienda o amministrazione pubblica. Agendo in regime di concorrenza, andrebbero applicate le norme del diritto privato. Il governo dovrebbe presentare in Parlamento un articolo di poche righe per l’interpretazione corretta della natura e dell’azione della Rai».
Tornando alle questioni editoriali, la riforma per aree di genere è stata un errore?
«Non è sbagliato rendere autonome le produzioni per generi perché la Rai vive una condizione di multimedialità. Le reti producevano per sé stesse, mentre le aree per genere declinano i contenuti su più canali e più media, online compreso».
Ma non ci sono più i direttori di rete a dare identità al palinsesto e a rispondere se qualcosa non funziona.
«Giusto. Se si cancellano i responsabili delle reti si riduce il carattere identitario dell’offerta. È il responsabile di rete a sapere quello che gli serve. L’offerta di palinsesto dovrebbe definirsi nel rapporto dialettico tra i responsabili di rete e i direttori dei generi».
Dalla passione che ci mette sembra ancora un uomo di vertice della Rai.
«Amo e conosco i meriti di un’azienda che ha inventato il digitale e ha insegnato a parlare agli italiani. Ci sono arrivato quasi cinquant’anni fa, da ragazzo di Calabria…».
Anche lei come Giovanni Minoli invierà il curriculum alla Commissione di Vigilanza per entrare in Cda e magari presiederlo?
«Ogni stagione ha i suoi incarichi. Adesso mi diverto facendo il produttore».
Pepito le ha dato una seconda giovinezza?
«In un certo senso sì, perché continuo a fare il lavoro che mi ha sempre appassionato».
Che cosa le piace del mestiere di produttore cinematografico e audiovisivo?
«La meraviglia di partire da un’idea e farla diventare immagini, scene, costumi, facce. Lo stupore di prendere una storia vera come quella di Hammamet, o non vera ma realistica come quella di Favolacce, e farne due film definiti capolavori dai critici. Hammamet in Italia ha incassato quasi 7 milioni di euro, mentre Favolacce è stato venduto in 50 paesi, America compresa, e ha vinto l’Orso d’argento a Berlino».
Si producono troppi film d’autore e pochi per il grande pubblico?
«Si producono troppi film che non arrivano al pubblico. Ma credo che questo governo, di cui aspettiamo i decreti sul tax credit e i finanziamenti, stia lavorando bene contro la dispersione delle poche risorse. Le quali vanno concentrate su opere che, per scrittura, regia, cast e referenze del produttore, meritano l’attenzione del ministro della Cultura».
A che progetti sta lavorando?
«Stiamo scrivendo una sceneggiatura su Elvira Notari, la prima grande regista e autrice italiana che a Napoli, insieme con il marito, ha inventato tecniche di ripresa, fotografiche e di colorazione delle pellicole prima del colore. Un altro progetto con Rai Cinema riguarda la morte di Cavour, una morte misteriosa e sospetta che va raccontata».

 

La Verità, 27 aprile 2024

L’asso nella manica della Rai: Mina a Sanremo

Il succo è questo. Mentre i dirigenti Rai sono alle prese con le tessere da rimpiazzare nel puzzle dei palinsesti e Urbano Cairo conta i risparmi del salvadanaio di La7, nella provincia televisiva italiana atterrano gli americani. La concorrenza, vien da dire, si fa un tantino più vivace. È la legge del libero mercato. Ma oltre che di risorse, un fattore tutt’altro che marginale, è questione di prospettive. Di orizzonti. Di ampiezza del pensiero. Forse è il caso di rimboccarsi le maniche e farsi venire qualche idea, come sembra stia avvenendo dalle parti di Viale Mazzini. Finora, con le piattaforme over the top c’era poco da duellare. Anche con loro il confronto era ìmpari. Ma, in fondo, si rivolgevano a segmenti di pubblico minoritario. I ceti più abbienti, le classi medio alte. Adesso no, gli americani di Warner Bros. Discovery sbarcano nella televisione generalista. Perciò, è stato facile buttarla in politica. Lo smantellamento della Rai. L’estinzione del servizio pubblico. TeleMeloni fa scappare le star. Ecco Fiorello, Federica Sciarelli, Sigfrido Ranucci già incolonnati dai giornaloni dietro ad Amadeus, il cui approdo a Discovery è stato ufficialmente annunciato ieri (collaborerà alla realizzazione di nuovi formati per l’intrattenimento e condurrà un programma di access prime time, forse I soliti ignoti, e due di prime time: un’operazione da 100 milioni di dollari in quattro anni). E poi, rastrellando qua e là, Barbara D’Urso, Belen Rodriguez eccetera. Insomma, una pesca a strascico tra i volti noti più o meno irrequieti del villaggio provinciale. Non è finita. Il gruppo cui fanno capo Nove, Real Time, Eurosport e alcune altre reti, sta anche per aprire la nuova sede a Roma per lanciare il polo dell’informazione, acquisendo La7 o arruolando Enrico Mentana.

Allarmismo e toni apocalittici hanno riempito paginate e ramificato nell’infosfera. Con il solito retropensiero: il governo delle destre fa crollare persino gli equilibri dell’etere. Ma questa narrazione ha conquistato il record di smentite. Fiorello: «Nessuno mi ha chiamato, il mio contratto è solo con il divano». Warner Bros. Discovery: «Non c’è alcuna trattativa in corso da parte del gruppo per l’acquisizione del polo giornalistico di La7». Mentana: «Non vado da nessuna parte. Non ho difficoltà a dire che il mio contratto scade il 31 dicembre del 2024. Quindici giorni dopo compio 70 anni, cosa mi metto a fare?». Quanto all’apertura della nuova sede, nella capitale Discovery ha già i suoi uffici attivi e funzionanti. Infine, a proposito dell’acquisizione di altre star, la pesca a strascico non è nello stile del gruppo. Semmai si ragiona su un innesto o una nuova collaborazione a stagione. Così è stato in passato con Barbara Parodi, Maurizio Crozza, Roberto Saviano, Virginia Raffaele. E poi un anno fa con Fabio Fazio, l’arrivo che ha impresso la svolta alla strategia del gruppo perché gli ascolti di Che tempo che fa hanno dimostrato che sul pianeta della tv generalista c’è vita e hanno convinto i dirigenti a proseguire nella politica di espansione. Ma «non è la rivoluzione d’ottobre», è solo mercato, «e lo dobbiamo vivere laicamente», ha suggerito il solito Mentana in un’intervista alla Stampa nella quale ha scremato la schiuma militante dalle cronache del caso.

Tuttavia, soprattutto vista da Viale Mazzini, una questione di prospettiva e di rilancio della tv pubblica esiste eccome. A breve dovrebbe avvenire il passaggio di testimone tra l’amministratore delegato Roberto Sergio e il direttore generale Giampaolo Rossi, si vedrà se semplicemente con uno scambio di ruoli. Si parla di un ritorno di Marcello Ciannamea alla distribuzione e di un accorpamento dell’Intrattenimento day time e prime time in un’unica super direzione, con il recupero alla gestione del prodotto di Stefano Coletta (scelta perfetta se si vuol rendere ancor più arcobaleno il palinsesto serale). Al di là di tutto, rimane sul tappeto la necessità di un progetto editoriale di ampio respiro. Come il caso di Amadeus insegna, le star non se ne vanno principalmente per una questione economica, ma perché cercano nuovi stimoli, nuove prove nelle quali cimentarsi. Per contro, non potendo vincere la guerra sul terreno dei cachet, la Rai dovrebbe provare a farlo sul fronte delle idee, dell’identità e dell’immaginazione. Nel 1987 quando in un colpo solo Pippo Baudo, Raffaella Carrà ed Enrica Bonaccorti migrarono a Canale 5, l’allora direttore generale Biagio Agnes chiamò Adriano Celentano affidandogli le chiavi del sabato sera di Rai 1. Chi c’era ricorda come andò. La Rai riconquistò il centro della scena e riprese a dettare l’agenda pubblica. Ma per farlo occorre un disegno editoriale. Che non è appena riempire le caselle lasciate vuote dagli abbandoni. Il problema di che cosa fare del Festival di Sanremo ci sarebbe stato comunque, anche se Amadeus fosse rimasto in Rai. Un conduttore di format preserale si può trovare. Un direttore artistico dopo cinque edizioni di successo con le ricadute sugli introiti pubblicitari, le case discografiche e la fruizione del pubblico giovane, è un filo più complicato. Serve un’idea, un guizzo, un colpo di teatro. Serve sparigliare il copione di un Festival a misura di disc-jockey ed emittenza radiofonica. Serve qualcosa che somigli all’irruzione di Celentano di oltre trent’anni fa. Nel 2019 l’allora amministratore delegato Fabrizio Salini aveva avuto la pensata giusta: Mina direttore artistico del Festival. Purtroppo non se ne fece nulla. Quando la signora della canzone italiana si disse disponibile a patto di avere carta bianca sullo spartito della manifestazione, i dirigenti Rai si dileguarono. Ecco. Pensare in grande vuol dire avere il coraggio di lasciare totale libertà di movimento all’artista più contemporanea di cui disponiamo. Un’artista che continua a studiare, ad ascoltare musica. Che, come dimostrano le collaborazioni della sua produzione recente, è aggiornata su tutte le novità della scena non solo italiana. Un’artista la cui (non) presenza all’Ariston sarebbe anche un grande colpo mediatico. In Viale Mazzini l’idea sta facendosi strada. Auguriamoci, stavolta senza retromarce.

 

La Verità, 19 aprile 2024

«Dopo Adriano e Sanremo rompo i recinti dei salotti»

Francesco Baccini, Caterina Caselli, Adriano Celentano, Dario Fo, Mogol, Gianni Morandi, la Nazionale italiana cantanti, Shimon Peres e Yasser Arafat, Sanremo nel senso del Festival. In ordine alfabetico, all’inizio ci andrebbe l’Arena di Verona. Gianmarco Mazzi è tutto questo e tutti loro, e anche molto di più. Perché ci sono anche Riccardo Cocciante, Massimo Giletti, Zucchero Fornaciari… star con cui ha lavorato, nella sua precedente vita. E perché ora, Mazzi, veronese, da sempre uomo di destra, deputato di Fratelli d’Italia, è sottosegretario alla Cultura del governo Meloni.

Oggi compie 63 anni, come festeggerà?

«Sarò a Genova alla cerimonia della partenza per il giro del mondo dell’Amerigo Vespucci, la nave scuola della Marina militare che in 19 mesi toccherà cinque continenti e 28 Paesi».

È il giorno giusto per chiederle che cosa le sta più a cuore nella vita, che cosa o chi vorrebbe salvare se fosse costretto a scegliere una sola persona, una cosa, un ricordo…

«Non so se è il giorno giusto, forse no. Quando compio gli anni mi fermo a pensare al tempo che passa e divento mediamente cupo. Ma le voglio rispondere. Mi sta a cuore essere in pace con me stesso, sapendo di aver fatto le cose per bene, al massimo delle mie possibilità. Salverei Evelina, l’amore della vita e poi i tre gol di Paolo Rossi al Brasile nel 1982. L’Italia mai doma, sul tetto del mondo. Una metafora, una sensazione indescrivibile che ancora oggi mi commuove e incoraggia».

Lei è sottosegretario alla Cultura, organizzatore musicale o agente di artisti?

«Dal 2 novembre 2022, sottosegretario di Stato al ministero della Cultura».

Qualcuno ha osservato che i ruoli potrebbero confondersi.

«Sia la legge che la giornata di 24 ore mi consentono di fare solo e orgogliosamente il sottosegretario. L’agente di artisti e l’autore televisivo sono esperienze significative della mia vita precedente».

Com’era il rapporto con Celentano?

«Adriano è un geniale visionario, devi stargli vicino da amico fidato. Ama molto dialogare e mettersi in discussione. Con lui e Claudia (Mori ndr) mi diverto da matti. Sono cresciuto con loro».

Un episodio che vuole ricordare?

«Ricordo la volta che chiesi ad Adriano: “Se non fossi diventato Celentano che cosa avresti fatto?”. E lui: “Avrei potuto fare qualsiasi altro lavoro, anche l’imbianchino o l’idraulico, meglio”. Rimasi spiazzato, ma lui proseguì, “mi sarei dato da fare per diventare l’idraulico della città, pensa che bello, andare nelle case, risolvere i problemi alla gente”. Lo diceva festoso, credendoci sul serio. Questo è Adriano; appassionato a ciò che fa, dà sempre il meglio di sé. Non male come insegnamento».

Beppe Caschetto ha imparato da Bibi Ballandi, lei ha avuto dei maestri?

«Sì, gli artisti. Celentano, Mogol, Gianni Morandi, all’inizio Caterina Caselli. Potrei dire anche Caschetto, che è manager colto, dall’estro prezioso».

Qual è l’evento internazionale che ricorda con più emozione?

«Una partita della pace del 2000, allo stadio Olimpico di Roma. C’erano Shimon Peres e Yasser Arafat con il presidente Carlo Azeglio Ciampi. E poi Pelè, Sean Connery, Michael Schumacher. Tutti nella stessa sera.

A ripensarci una cosa da non credere. Nel giro di una settimana ero andato a Los Angeles e a Ramallah. Ne parlavo con Morandi pochi giorni fa, mi emoziono ancora al ricordo. Mentre la vivevo, mi sembrava quasi normale».

Ha organizzato anche parecchi Festival di Sanremo con Lucio Presta: chi era il gatto e chi la volpe?

«Io ero il direttore artistico, Lucio mi consigliava e mi guardava le spalle. A Sanremo bisogna essere astuti come serpenti per mantenersi puri come colombe. E noi ci aiutavamo».

Come si trova nel ruolo attuale, più politico e istituzionale?

«All’inizio male, adesso comincio a orientarmi. Devo contenere l’impulso di realizzare subito un’idea che mi viene in mente. Le tempistiche dell’emisfero pubblico sono molto più lente. Ogni giorno devo mediare con la mia indole».

Per i cento anni del Festival lirico dall’Arena di Verona su Rai 1 è andata in onda un’edizione speciale dell’Aida: soddisfatto dell’accoglienza o qualche critica di troppo?

«No, non mi sembra. Da due anni, con la sovrintendente dell’Arena Cecilia Gasdia, lavoravo alla realizzazione di una serata televisiva memorabile per il mondo dell’opera. Un qualcosa di mai visto prima. Con Sophia Loren, la Rai, le Frecce Tricolori, Alberto Angela, Luca Zingaretti, Milly Carlucci e grazie a Giuseppe Verdi, agli artisti e ai tecnici dell’Arena ce l’abbiamo fatta. E il mondo ha apprezzato».

«Italia loves Romagna» è stato un successo, ma qualcuno ha notato l’assenza dei contadini che hanno allagato le loro terre per preservare dall’alluvione la città di Ravenna suggerendo di assegnare a loro la medaglia della cultura e dell’arte. Cosa ne pensa?

«È un’idea buona, come altre. In realtà l’evento è nato per la raccolta fondi e come abbraccio affettuoso ai romagnoli. I contadini sono stati meravigliosi ma tutta quella gente, intendo la popolazione della Romagna, è stata protagonista di tali e tanti gesti di generosità che abbiamo scelto di non farne una classifica».

Secondo lei c’è davvero la prevalenza della cultura progressista o è un falso problema e gli intellettuali conservatori ci sono ma non sono illuminati dai media, questi sì orientati a sinistra?

«Le definizioni progressista e conservatore, in questo ambito, sono categorie fuorvianti. Da anni vedo una cultura dominante che non produce dibattito, ma solo pensiero convenzionale, fatto di quattro concetti, sempre i soliti, espressi con un vocabolario povero, di una ventina di parole. Mi annoia. La cultura deve essere libera e arricchire il confronto con idee diverse, anche in contrapposizione tra loro, senza pregiudizi. Così ognuno può farsi la sua, di idea. Poi il sistema culturale italiano più che a un big bang creativo fa pensare a un centro per l’impiego, dei soliti noti. Ma questo è un altro discorso».

Proprio a questo riguardo Pietrangelo Buttafuoco dice che il governo Meloni serve a rompere i recinti e a dare una «casa a chi casa finora non ne ha avuta una». Concorda?

«Buttafuoco ha ragione. In realtà una casa forse esiste, ma i recinti l’hanno sempre costretta oltre i bordi della periferia più estrema. Penso che in futuro anche gli abitanti di quella casa potranno esprimere la loro opinione non conformista e lo faranno con calma, senza la supponenza di chi li ha emarginati sino a oggi».

Le è piaciuta la partecipazione del presidente Sergio Mattarella all’ultimo Festival? E in generale ha apprezzato l’ultima edizione?

«Per la prima volta dopo 73 anni, il Presidente della Repubblica ha presenziato alla manifestazione più conosciuta e amata dagli italiani nel mondo. È stato giusto. Ha impreziosito un’edizione di grande successo, costruita con passione e cura da Amadeus. Sanremo è uno spettacolo di canzoni, ma anche una sceneggiatura in cinque puntate, quasi una fiction. Deve coinvolgere il pubblico per una settimana intera, anzi per un anno, e lo fa attraverso vari strumenti narrativi, sviluppando un’alternanza di stati emozionali diversi, a contrasto. Come dire, dalla provocazione dei primi giorni fino alla pacificazione, magari nell’ultima sera e nei giorni successivi. È un lavoro più complesso e raffinato di quello che può apparire».

Parlando di provocazioni non le pare che ultimamente si sia un po’ esagerato?

«Mah, esagerato… Alla fine Sanremo resta una festa in famiglia. Qualcuno che fa casino c’è sempre, ma famiglia si rimane».

Magari famiglia arcobaleno… Quest’anno sarà l’ultimo festival di Amadeus. Si sentirebbe di dare un suggerimento per gli anni a venire? Per esempio, affidarlo davvero a Mina, cosa ventilata in passato, ma mai presa sul serio?

«Lei è davvero convinto che Mina aspiri a quel ruolo?».

Da quel poco che so credo che se ci fosse un progetto che le lasciasse carta bianca ci penserebbe.

«Lo scopriremo solo vivendo».

Tra pochi giorni verranno presentati i nuovi palinsesti della Rai: si aspetta un cambio di passo rispetto ai precedenti?

«Vedo concentrazione e impegno da parte della nuova dirigenza. Sono professionisti di grande esperienza e livello, con una visione culturale ampia e sfaccettata. Diamo loro tempo e si faranno apprezzare».

È giusto a suo avviso che la Rai si prefigga di contribuire «alla promozione della natalità della genitorialità»?

«Molto giusto, sono valori importanti, per i cattolici fondamentali, che è importante salvaguardare, rappresentandoli alle nuove generazioni. Bisogna riflettere sulla vacuità dei social e sulla dilagante aggressività di modelli che vogliono imporsi, umiliando la tradizione. Tutto troppo frenetico. A volte sembra un mondo all’incontrario, porta a una sorta di dittatura delle minoranze. Penso che ci voglia più rispetto, da tutti per tutti».

È stato a lungo amministratore delegato della società Arena di Verona: che cosa si può fare per rendere economicamente autosufficienti i teatri italiani?

«Ci vuole pazienza, avvicinare il pubblico alla cultura con semplicità e spiegare serenamente agli operatori che per ricevere contributi pubblici bisogna meritarseli, dandosi da fare, mostrando dinamismo e intraprendenza, anche economica. Ci vuole capacità di attrarre gli investimenti di quei privati che amano l’arte. Per un ministero pubblico ci vuole responsabilità. La cultura non può essere un concetto astratto, buono per la propaganda, ma va collegata al concetto di impresa. Va considerata come industria culturale, un settore vivo che produca lavoro, stimoli interesse, affascini i giovani e cresca in autorevolezza».

C’è un progetto, un’idea, un’iniziativa che ha in serbo per i prossimi mesi e che vuole rivelare in anteprima?     

«Il mondo dello spettacolo aspetta dal 1967, oltre 55 anni, un codice nuovo, lo stiamo scrivendo con serietà, dialogando con i protagonisti del settore. Poi vorrei valorizzare una scoperta archeologica eccezionale fatta a Verona, una residenza alberghiera di epoca romana con caratteristiche uniche al mondo. Per convenzione e per darmi un tono la chiamo “piccola Pompei”. Ma se mi sente il ministro Gennaro Sangiuliano, si arrabbia. Pompei non si tocca».

 

La Verità, 1 luglio 2023

Perché «Er gol de Turone» non va mai in archivio

Lui, Maurizio «Ramon» Turone, il suo gol non l’aveva mai rivisto in questi 40 anni e più. Per non acuire la percezione netta dei romanisti di essere stati defraudati di una rete valida e della probabile conquista dello scudetto, stagione 1980-81, invece andato alla Juventus. Lo ha fatto in occasione di Er gol de Turone era bono, documentario di Francesco Miccichè e Lorenzo Rossi Espagnet, presentato alla Festa del cinema di Roma e riproposto domenica su Rai 1 (ora su Raiplay). È domenica 10 maggio 1981, dopo un intero campionato a rivaleggiare, al Comunale di Torino si gioca Juventus-Roma, ultima occasione della squadra di Paulo Roberto Falcao e allenata da Nils Liedhom di scavalcare la Juventus di Zoff, Gentile, Cabrini… con Giovanni Trapattoni in panchina, al momento avanti di un punto. I bianconeri sono ridotti in dieci per l’espulsione di Beppe Furino quando, al 27° del secondo tempo, Turone insacca su imbeccata di Roberto Pruzzo. L’arbitro Paolo Bergamo convalida la rete, ma il guardalinee Giuliano Sancini tiene la bandierina alta per il fuorigioco.

Attraverso le testimonianze dei protagonisti, gli juventini Cesare Prandelli e Andrea Marocchino, i romanisti Falcao, Pruzzo e Conti, i ricordi di Enrico Vanzina e Paolo Calabresi, tifosi della Roma, dei giornalisti sportivi, compreso Gianni Minà che intervista Giulio Andreotti, il documentario, inclinato da parte romanista, presenta il «cold case» del calcio italiano. In realtà, sebbene ci fossero già stati segnali di direzioni arbitrali discutibili, tipo quelle di Concetto Lo Bello, il gol di Turone è il peccato originale, la matrice di una serie di episodi successivi in partite decisive per l’assegnazione del titolo, tutti dello stesso segno (dal rigore negato all’Inter per il fallo dello juventino Juliano su Ronaldo, al gol non visto di Muntari in un Milan Juventus, fino alla mancata espulsione di Pjanic in un altro Inter Juventus). È questo il motivo per cui quell’annullamento non sarà mai acqua passata. All’epoca non c’era il Var, unica tecnologia che avrebbe potuto redimere quel peccato originale (non ancora come s’è visto di recente i falli di mano). C’erano solo i suoi antenati, la moviola di Carlo Sassi e il Telebeam di Giorgio Martino, significativamente di opinioni opposte. Era un altro calcio, con altre strumentazioni. Tuttavia, una continuità rimane, ben espressa da Luca Beatrice: «La Juventus ha vinto negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta… sempre. Le altre vittorie sono anomalie». Al quale, con sagacia irriducibile, ribatte Gian Paolo Ormezzano: «I gol segnati alla Juve sono sempre buoni».

 

La Verità, 31 marzo 2023

«Mio padre Gaber, uno di sinistra non della sinistra»

Di sinistra, ma coscienza critica della sinistra. Del conformismo e di quello che poi avremmo chiamato pensiero unico. Senza però mai atteggiarsi, né adagiarsi nel ruolo: l’inventore del Teatro canzone era sempre un passo avanti. E, ora che non c’è più da vent’anni, quanto manca, a tutto campo. Basterebbero i titoli delle canzoni e degli spettacoli – Far finta di essere sani, Libertà obbligatoria, E pensare che c’era il pensiero, citando poco e alla rinfusa – per dire quanto Giorgio Gaber è attuale oggi, e precursore era allora. La figlia Dalia Gaberscik ha creato e dirige l’agenzia di comunicazione Goigest (Gianni Morandi, Jovanotti, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti tra i suoi artisti) ed è vicepresidente della Fondazione Gaber. Ma soprattutto è la custode dell’opera del padre. Per la conservazione della quale annuncia una collaborazione con la Rai.

Chi era Giorgio Gaber?

«Mio papà, semplicemente. Ho avuto presto la percezione che era un papà fuori dal comune».

Vent’anni senza di lui che mercoledì prossimo di anni ne compirebbe 84: che cosa le manca di più?

«Mi manca il riferimento delle decisioni personali e professionali. Anche sul piano artistico sono orfana, come lo sono tutti quelli che l’hanno stimato. Però abbiamo la fortuna che il suo lavoro è ancora eccezionalmente attuale».

Quanto è stata importante nella sua vita la poliomielite contratta da piccolo?

«Abbastanza, direi. Ha formato il suo temperamento, la serietà nell’affrontare le cose. È stata decisiva nella formazione di musicista, lo ha reso tenace nella costruzione dei suoi spettacoli».

Suo padre gli regalò una chitarra perché esercitandosi sciogliesse la mano colpita dalla malattia. Lui ci prese gusto e una volta disse: «Tutta la mia carriera nasce da questa malattia».

«È andata così».

Chi era l’uomo di spettacolo Giorgio Gaber?

«Una persona semplice e curiosa. Molto ambiziosa nel voler trovare forme d’innovazione e stimoli intellettuali. Quindi, un grande lavoratore».

Cosa significa, concretamente?

«Che non si fermava mai. La sua ricerca di temi da trattare, di cui scrivere o da mettere al centro delle conversazioni con Sandro Luporini non aveva pause. Se a una cena ricorreva un argomento capivo a cosa si stava interessando».

Un uomo di sinistra mal tollerato dalla sinistra?

«Un uomo di sinistra, non della sinistra».

Cosa vuol dire?

«Che nasce di sinistra e ha un’attitudine artistica e comportamentale che richiama i valori della sinistra, senza una necessaria appartenenza alla partitica della sinistra».

Ebbe una prima stagione artistica, quella di Torpedo blu, Il Riccardo… che cosa lo fece virare verso la canzone impegnata?

«Credo che l’incontro decisivo fu con Paolo Grassi quand’era sovrintendente del Piccolo teatro di Milano. Fino a quel momento mio padre apriva gli spettacoli di Mina, un’esperienza non semplicissima perché il pubblico aspettava Mina. Ma lui ci è stato e, sera dopo sera, ha instaurato una relazione artistica prioritaria e unica con il pubblico. Fino a iniziare a pensare, con l’incoraggiamento di Paolo Grassi, di poter chiudere con la tv. Quel rapporto lo incoraggiò a rinunciare a tutto, a fronte di un mestiere difficile come il teatro. All’inizio, non sempre agli spettacoli del Signor G c’era il pienone».

L’hanno influenzato anche la canzone francese e Jacques Brel?

«Lo affascinavano molto e sicuramente hanno influito, ma la passione per il teatro nasce con Mina».

Però non indossò mai il sussiego esistenzialista.

«No. Il teatro era solo il posto dove avevano maggiore capacità di penetrazione le cose che voleva dire».

Che rapporto aveva con le donne?

«Erano anni abbastanza affollati, per usare un suo paradigma. C’era la rivoluzione femminista e mia mamma era molto impegnata. Ma loro si fidanzarono da piccolini, 19 anni lei 24 lui. L’ho sempre visto follemente innamorato. Il rapporto con il mondo femminile è sempre transitato da una donna molto diversa dall’universo tradizionale, impegnata per il divorzio e l’aborto in anni molto caldi».

In Chiedo scusa se parlo di Maria canta: «La libertà, Maria, la rivoluzione, Maria, il Vietnam la Cambogia, Maria, la realtà». Le donne interrompono le astrattezze ideologiche e riportano alla realtà?

«Direi di sì. Mentre il mondo parlava della rivoluzione pensava fosse altrettanto importante parlare del rapporto tra un uomo e una donna».

In un altro brano canta: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione».

«Era un invito a essere concreti perché troppa ideologia finiva in chiacchiere da bar. Chiacchieriamo e pontifichiamo pure, ma se non siamo concreti rischiamo di essere dei ciarlatani, nel senso di ciarlare e basta».

In che cosa può essere considerato un precursore?

«Basta rileggere i temi affrontati con Luporini, temi dai quali per tanti anni i cantautori si sono tenuti lontano. Come le riflessioni sul rapporto di coppia, di un’attualità sconvolgente».

«Al bar Casablanca con una gauloise, la nikon, gli occhiali. E sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali»: anno 1974, vide già la nascita dei radical chic?

«Potrebbe essere senz’altro così. Era un bar di Viareggio, frequentato da intellettuali».

In Io come persona, 1995, descrive «un tempo indaffarato e inconcludente», ma evoca la reazione e la responsabilità dell’io.

«La maggior contemporaneità è quando si addentra nell’analisi della persona. Abbiamo molte testimonianze di giovani che ce lo confermano. Mentre quando affronta la politica anche con pezzi ironici a volte cita figure che i miei figli ignorano, nelle questioni che riguardano l’animo umano mi sembra non ci siano rivali. S’inoltrava in un territorio unico».

È qualcosa che andrebbe protetta e tramandata ai giovani?

«Ci stiamo lavorando, raccogliendo tutti i materiali che in questi vent’anni abbiamo trovato. In collaborazione con la Rai stiamo definendo un progetto di organizzazione di tutto questo materiale».

Vedremo dei programmi tv?

«Per ora è un progetto finalizzato al recupero e alla conservazione».

Come lavoravano lui e Luporini?

«Facevano lunghissime chiacchierate. Mio padre andava in tour durante l’inverno, poi all’inizio dell’estate si ritrovavano a Viareggio, prima all’hotel Maestoso, poi al Plaza e negli anni Ottanta a casa nostra. Erano chiacchierate su tutto, che duravano dal primo pomeriggio fino a dopo cena».

Destra-sinistra è un brano del 1994: aveva già capito che erano categorie che non coglievano più l’essenza delle cose?

«Direi proprio di sì».

Non era una riflessione indotta dalla scelta di Ombretta Colli di candidarsi in Forza Italia?

«È un pezzo nato ben prima. Penso che in teatro l’avesse proposta già nel 1992-’93. Registrava le canzoni quando gli pareva. Al contrario di quello che succede oggi, lui usava il disco per fermare quello che aveva già avuto una vita a teatro».

Però tornò a votare per lei dopo anni che non lo faceva…

«È vero. Disse che il voto va dato alle brave persone e siccome pensava che sua moglie lo fosse, decise di votarla: “Non mi perdonerei mai se non fosse eletta per un voto”».

Fu criticato?

«Moltissimo. L’hanno messo in croce. Molti dei suoi ex amici della sinistra gli hanno anche chiesto di separarsi; perché qualcuno che ti chiede una cosa del genere non penso sia un tuo vero amico».

C’era qualche intellettuale in cui si riconosceva? Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco…

«Direi di no. La loro ricerca scandagliava tutti, da Borges a Pessoa a Rilke, per rubare anche a mani basse, ma dichiarando sempre il debito dalle fonti. Di italiani non ricordo di aver mai visto citato nessuno».

Il potere dei più buoni, 1998, fu un’altra profezia del buonismo terzomondista ecologista a caccia di visibilità?

«Era un sentimento omologato che faceva nascere dei sospetti sull’originalità del sentimento stesso».

Sembrano profili cuciti da un sarto, come in Si può e Il conformista.

«Non c’era un destinatario singolo. Fotografava una tendenza, un sistema di pensiero».

Per che cosa perdeva la pazienza?

«Detestava la superficialità, il tirar via le cose, il fatto di non esser seri. Diceva che voleva essere ricordato come una persona seria, la poliomielite l’aveva formato. Una cosa che diceva sempre della tv, anche a Celentano: tu provi due ore una cosa che vedranno 13 milioni di persone, io tre mesi una cosa che vedranno 300.000 persone».

Era una provocazione?

«Certo, erano grandi amici. Volle tornare in tv proprio ospite di Celentano con il quale si volevano bene».

Ha mai fatto una litigata furiosa?

«Non era un litigatore, uno che si metteva a urlare. I suoi silenzi erano punitivi e più che sufficienti, lo dico da figlia».

C’è qualcosa o qualcuno che non gli piacerebbe dell’Italia di oggi e qualcosa o qualcuno che apprezzerebbe?

«Domanda difficile. Non so cosa penserebbe degli influencer… L’approccio del successo facile non gli piacerebbe. È morto nel 2003, ma per ciò che è successo nell’intrattenimento e nella comunicazione son passati tre secoli».

Vuole raccontarci qualcosa di poco conosciuto della sua vita?

«Quando, a causa dei problemi di salute, non poteva più esibirsi a teatro, io e Paolo Dal Bon, ora presidente della fondazione, lo convincemmo a incidere un disco. Il successo di La mia generazione ha perso, che fu primo in classifica, lo spiazzò perché si accorse che il lavoro destinato al teatro lo aveva fatto arrivare a un numero limitato di persone».

Ho letto su .Con un articolo di Enzo Manes che racconta la sua partecipazione al Meeting di Rimini e l’inizio di un carteggio con don Luigi Giussani.

«Avvenne a fine anni Novanta. A proposito di persone serie, era incuriosito da gente che aveva voglia di riflettere e pensare. Confrontava quel mondo con la deriva del movimento studentesco che l’aveva affascinato ai suoi tempi».

Fu contestato dalla Pantera?

«Non ricordo. Ricordo uno scontro nel camerino del teatro Lirico con gli autoriduttori che volevano imporre esibizioni di persone qualsiasi».

Era incuriosito dalla gente del Meeting pur da posizioni diverse?

«Più di una semplice curiosità era un interesse sincero verso il mondo dei cattolici, interlocutori che lo soddisfacevano sul piano intellettuale e della passione per il ragionamento. Certo, con posizioni diverse, come sull’aborto e il divorzio».

Chi era suo padre?

«Un grande. Da ragazzina non capivo i contenuti degli spettacoli, ma vedevo la faccia delle persone quando uscivano dai teatri e capivo che era un’artista e una persona speciale. Sulla sua tomba abbiamo scritto “Artista”. Anche se lui forse avrebbe preferito “Una persona per bene”».

 

La Verità, 21 gennaio 2023

«Adesso sto buona buona, ma vedrete cosa oserò…»

Tango e politica, talent e talk, Ballando con le stelle e Cartabianca. Sempre spericolata, Iva Zanicchi fa discutere di qua e di là. Soprattutto nel talent ballerino di Rai 1. La scorsa settimana prima ha bonariamente rimproverato Samuel Peron, il suo partner, per averle rovinato il finale del boogie-woogie; poi, raccontando una barzelletta sconcia, ha finito per gelare lo studio. Prezzi che si pagano alla spontaneità. Ma l’Aquila di Ligonchio, concerti nei teatri di mezzo mondo, vincitrice di tre Festival di Sanremo, attrice, presentatrice e opinionista tv, già europarlamentare di Forza Italia, tira un bel respiro e riparte, «ma tenendo di più i remi in barca», promette.

Signora Zanicchi, lo sa che le interviste sono come il ballo?

«Non lo sapevo, perché durano poco e sono divertenti?».

Perché ci sono interviste valzer e interviste rock’n’roll.

«Ci sono anche le interviste marcia funebre?» (ride).

Speriamo di no. Stasera su che ballo si cimenterà?

«Affrontiamo il foxtrot, un ballo americano che mi piace molto e va anche nelle balere italiane. È una danza elegante, indosserò un bell’abito da sera come le ballerine vere. Spero che vada tutto bene e di non fare la pagliaccia, come al solito».

Accettando l’invito di Milly Carlucci sapeva di rischiare e di mettersi alla prova?

«L’ho preso come un gioco da fare seriamente».

Le ho visto eseguire il casqué nel tango argentino e il ponte nel boogie-woogie: come fa alla sua tenera età?

«La settimana scorsa dopo che ho fatto il ponte ho ricevuto una marea di telefonate. Erano tutti stupiti per i miei 82 anni, l’età l’ho sempre sbandierata… Da ragazza facevo ginnastica e sport, perciò il corpo è ancora abbastanza flessibile, non ho avuto neanche mal di schiena. Vedrà questa sera cosa oserò…».

Quanto si allena?

«Questa è la disperazione di Samuel. Però lui che è un ragazzo intelligente capisce che non posso allenarmi sei o sette ore al giorno come i più giovani. “Fai un po’ di cyclette”, mi dice. Io gli dico di sì ma poi non la faccio. Gli attrezzi mi annoiano, a me piace camminare, ma dove vado da sola per Roma? Mi alleno un’ora al giorno e va bene così».

Come diceva quella canzoncina: di belli come noi la mamma non ne fa più…

«S’è rotta la macchinetta…».

Invidia qualcosa ai giovani di oggi?

«Quello che io non ho mai avuto, la leggerezza, un certo menefreghismo. Hanno la sfrontatezza di voler arrivare a una metà senza soffrire. Noi facevamo la gavetta, ci hanno insegnato a lavorare e studiare per anni… Oggi partecipano a un talent e dopo sei mesi sono in tour negli stadi o a Sanremo. Magari subito dopo spariscono».

Hanno vita troppo facile?

«Sicuramente. Non dico che ai miei tempi si considerasse necessaria la sofferenza, ma un certo spirito di sacrificio sì. Una meta te la devi sudare… Oggi è tutto più facile, si va a studiare all’estero, una cosa che negli anni Sessanta e Settanta era impossibile. Anche se essendoci tanta concorrenza ci vuole molto impegno».

Da ragazza andava a ballare?

«Qualche volta in agosto, alle sagre. Mentre papà era negato, mia mamma adorava il ballo e ci insegnava il liscio nell’aia di casa».

Invece alle sagre ballava i lenti e il rock’n’roll?

«Il rock no. La mazurka, il valzer, il tango romagnolo, non quello argentino. Sono arrivata fino al twist».

Niente rave party?

«Per l’amor di Dio».

Con chi va più d’accordo del cast?

«Ho un bellissimo rapporto con tutti, anche con le donne… Paola Barale la conosco da quando era ragazza. Mughini è molto dolce, diverso da come lo immaginavo».

Discutete mai di politica?

«Mai, né dietro le quinte né in camerino. La politica è bandita».

Neanche un commento sulle elezioni?

«Ballando è iniziato dopo, prima ci vedevamo solo per le prove. Lasciamo fuori tutto, siamo concentrati sulla preparazione e su quello che dobbiamo fare. Anche nelle pause non si parla di cose  extra ballo».

E con gli autori va d’accordo?

«Ho un autore che mi segue, un ragazzo dolcissimo che mi fa le interviste prima delle esibizioni. C’è un rapporto come tra mamma e figlio. È affettuoso, io lavoro bene solo se ho attorno persone carine, è un mio punto debole».

Ogni tanto la rimproverano?

«No, perché sono abbastanza autocritica. Nella prima puntata ho fatto una piccola scivolata (una parolaccia sfuggita, rivolta a Selvaggia Lucarelli ndr), nell’ultima ho raccontato una barzelletta un po’ piccante. Adesso devo stare buona buona» (sussurrando).

Quindi, un po’ le hanno tirato le orecchie.

«Mi sgrida molto Samuel. Dice che la butto in caciara perché quando sbaglio un passo, un movimento, rido. È il mio modo di scaricare la tensione, cosa devo fare, mettermi a piangere? Comunque, ci vogliamo bene, c’è un affetto straordinario…».

Con Milly Carlucci che rapporto ha?

«Ottimo. Non la conoscevo bene, ed è una sorpresa unica, non so come faccia. Tutti i santi giorni è la prima ad arrivare e l’ultima ad andare via. È una macchina da guerra, un po’ com’era Raffaella Carrà, persino di più, oserei dire. Segue tutto, dalla musica alle interviste, dalle prove ai costumi».

Una grande professionista.

«Anche di più, una grande manager. Io non potrei mai…».

È vero che le ha chiesto di fare la giurata del Cantante mascherato in primavera su Rai 1?

«Ma… sì, è vero. Me l’ha proposto, è stata molto carina. Vedremo, manca ancora un po’».

Ha più feeling con Samuel Peron a Ballando o con Mauro Corona a Cartabianca?

«Vorrei rispondere Corona, ma non è così. Ne ho di più con Samuel anche se Corona mi diverte. Quando vado a Cartabianca mi sincero che ci sia anche lui perché è intelligente e mi diverte».

È un irregolare come lei?

«Un po’ mi somiglia. L’ultima volta ho promesso che andrò a trovarlo e faremo una diretta con “Bianchina” dalla sua casa di montagna».

Andate d’accordo perché siete entrambi montanari?

«Oddio, forse un po’. Ma non solo quello. Lui si presenta come un vecchio pastore, ma è un uomo colto, ironico e dissacratore. In questo ci somigliamo, ma lui è più dissacratore di me».

Entrambi simpatizzate per Giorgia Meloni?

«Non conosco il pensiero di Corona, io sicuramente sì. L’ho sempre ammirata e tifo per lei. La seguo da anni e quando ho avuto degli incontri casuali sono stati sempre cordiali».

Che cosa la convince della Meloni?

«È coraggiosa, capace e coerente. La coerenza gliela riconoscono tutti».

Se dovesse darle un consiglio non richiesto cosa le direbbe?

«Posso augurarle buon lavoro, che altro? Spero non si scoraggi perché incontrerà molti ostacoli e molte difficoltà a governare, con tanti oppositori che ci sono».

Questi primi 15 giorni non sono filati proprio lisci.

«Credo che abbia la capacità di governare questo Paese. Noi italiani siamo meravigliosi, amiamo il bello, l’arte e il buon vivere. Ma spesso non ci piacciono le persone di successo, siamo un po’ invidiosi. Le opposizioni fanno il loro lavoro e con tutti i problemi che ci sono nel mondo, in Italia ce ne sono anche di più… Non sarà facile. Ma dico: se la gente le ha dato fiducia, lasciamola lavorare».

Secondo lei Berlusconi resisterà nel ruolo di padre nobile un po’ defilato o cercherà di riprendersi la scena?

«Direi che la scena non l’ha mai persa: pur non avendo vinto le elezioni è sempre in primo piano. Ma dato che è molto intelligente, e che gli voglio bene, sono sicura che sarà capace di ragionare senza ascoltare nessuno. E, nonostante non sia il premier, sarà pronto a collaborare con lei. Lui rimarrà sempre Berlusconi, però le elezioni le ha vinte lei».

Chi è stata la più grande cantante italiana fra lei, Ornella Vanoni, Mina e Milva?

«Guardi, tutti dicono Mina e può essere giusto. Anche perché ha avuto tante occasioni che le altre non hanno avuto. Per 15 anni era in televisione tutti i sabati sera. Però effettivamente è la più brava, ha grande musicalità, praticamente è una jazzista, con una voce molto duttile. Lo scettro è suo, ma non dimentichiamo le altre».

Ornella Vanoni?

«È una grande interprete, che muove i sentimenti. Se Mina è capace di grandi virtuosismi, la Vanoni tocca il cuore. Quando canta Mi sono innamorata di te ti arriva dentro».

Milva?

«Anche lei era una grandissima interprete. Possedeva una voce scura, profonda, diversa da quella di Mina. Poteva cimentarsi in generi preclusi alle altre, il tango argentino con Astor Piazzola, il repertorio di Kurt Weill».

E Iva Zanicchi?

«Io racchiudo le qualità di tutte e tre» (sonora risata).

Qualche volta l’ho sentita un po’ tagliente nei confronti di Mina…

«Lo so, con questa boccaccia… Mina ha la stessa mia età, ma io ho iniziato cinque o sei anni dopo. Lei si era già affermata con le prime canzoni, Una zebra a pois, Prendi una matita… Era dirompente, prima di lei le cantanti non parlavano in televisione. Adesso, quando mi capita di riascoltarla, la ammiro più di allora».

Invece tra le cantanti giovani chi le piace?

«Le giovanissime le conosco poco, conosco più quelle di mezzo. Giorgia, potrebbe essere la Mina di questa generazione, ha una grande estensione vocale. Laura Pausini è famosa in mezzo mondo, quindi chapeau, è una grande manager di sé stessa. Emma Marrone ha grinta e grande determinazione sul palco. Arisa è un’altra grandissima voce, Elisa è una brava interprete e anche cantautrice, è molto completa».

L’anno scorso è andata a Sanremo, quest’anno dopo Ballando e oltre a Cartabianca ha altri progetti?

«Ne ho uno, a parte il Cantante mascherato. Lo sto proponendo e mi auguro si possa realizzare. Il titolo è Vacche grasse».

Un titolo ottimista.

«Esatto, dopo le sette vacche magre… Ho un mito televisivo che si chiama Renzo Arbore e non mi vergogno a dire che m’ispiro a lui. Basta così, non posso dire altro».

Intanto, questa sera niente barzellette?

«Vediamo, sa come succede: quando finisco di ballare il pubblico in sala comincia a tifare. Si figuri se mi faccio pregare. Però, d’ora in poi, solo barzellette risciacquate nell’Arno».

 

La Verità, 5 novembre 2022

«Così ho inventato la pubblicità interattiva»

È il cervello della comunicazione di Tim. Formalmente: direttore Brand strategy media e multimedia entertainment della prima compagnia telefonica italiana. 54 anni, un passato da fiero craxiano e produttore tv di successo (5 Telegatti), Luca Josi è l’ideatore di tutte le campagne che accompagnano il marchio al Festival di Sanremo. Anche la piattaforma Timvision risponde a lui.

Questo è il quinto anno di Tim sponsor unico: qual è il vostro bilancio?

«È un lustro che ci ha dato lustro. Tutto è cominciato nel 2017 quando Mina ha iniziato a interpretare i brani delle nostre campagne».

Siete partiti benino.

«Da allora, ogni anno ha dedicato un nuovo brano a Tim, riuscendo a inserire il brand nella canzone fin dalla dalla prima, quando s’inventò quel Tim Tim Tim che divenne subito virale. Poi ci fu Timtarella di luna sul palco di Sanremo… Fino all’edizione in corso con Questa è Tim, l’inno del gruppo che è l’adattamento di This is me, brano vincitore del Golden Globe 2017, il cui acronimo è proprio Tim».

Anche la collaborazione con Mina è motivo di lustro.

«Il fatto che la più prestigiosa e desiderata interprete italiana canti per la nostra azienda con enormi riscontri è qualcosa di molto gratificante. E ci gratifica anche la coerenza del messaggio. La nostra mission è far comunicare tra loro le persone: avere come testimonial la voce italiana più apprezzata nel mondo, oltre che motivo di orgoglio è il modo più paradigmatico per rappresentare il nostro gruppo».

Perché per voi è interessante collaborare con la Rai per il Festival?

«Sanremo è l’evento italiano che mette insieme il pubblico più variegato ed eterogeneo. Nel Festival il più importante gruppo italiano di comunicazione riconosce il veicolo più efficace per incontrare il proprio pubblico».

Com’è nata l’idea del concorso a premi con in palio una crociera lunga un anno?

«Da una serie di coincidenze. La prima è che per anni, da produttore televisivo, mi sono dedicato a giochi e concorsi. Ho fatto Passaparola, che ha allargato il vocabolario di una parte dei telespettatori. Con Amadeus abbiamo lavorato insieme a Quiz show, un altro format di successo. Ma non è una mia fissazione: prendo solo atto che siamo un Paese di giocatori, di persone che amano mettere alla prova le proprie conoscenze. Non a caso i programmi preserali sono imperniati su giochi e quiz. Ora una serie di innovazioni tecnologiche consente alla pubblicità di trasformarsi in opportunità».

Come?

«Il nostro concorso cambia la comunicazione pubblicitaria. Inserendo negli spot ogni volta un indizio diverso stimoliamo lo spettatore a seguire la campagna perché offre la possibilità di acquisire nuovi beni e servizi. È una forma di pubblicità interattiva, bidirezionale. Una piccola grande rivoluzione».

Perché avete messo in palio una crociera di un anno?

«Sono tutti premi orientati al mondo che ripartirà. Prodotti alimentari Valsoia, un’auto Suzuki ibrida, una crociera intorno al mondo per quattro persone nella suite di una nave Costa crociere. È una sorta di nemesi che risponde all’anno appena trascorso in cui la popolazione è stata obbligata dalla pandemia a rimanere chiusa in casa».

Che risposta ha avuto?

«Molto positiva, ogni giorno crescono tutti gli indici di partecipazione, gli iscritti, gli utenti unici. Si può partecipare anche fotografando il Qr-code delle nostre filiali o del portellone delle Panda aziendali che girano l’Italia».

Che Festival è stato dal punto di vista di Tim?

«Credo sia stato fatto qualcosa di eroico. Confrontarsi con uno spazio vuoto è un’operazione difficilissima. Un conto è guardare lo show dal divano di casa, un altro dalla parte di chi costruisce cinque ore e per cinque giorni uno spettacolo in quelle condizioni. Faccio un piccolo esempio: gli anni scorsi, ogni notte la lettura della classifica veniva accolta dal brusio della platea che esprimeva dissenso o approvazione. Ora tutto questo non c’è. I conduttori lavorano nel silenzio e nel vuoto».

Qual è il momento che le è piaciuto di più e quello che le è piaciuto meno?

«Meno di tutto mi è piaciuto girare in una cittadella dove i chioschi delle radio degli anni scorsi sono stati sostituiti dai chioschi dei tamponi».

E sul palco?

«Non faccio distinzioni a favore di qualcuno. Editorialmente, l’ho trovato uno spettacolo molto garbato. Produrre questi risultati in questa situazione mi sembra una magia».

L’ha sorpresa il fatto che con il coprifuoco l’audience sia diminuita rispetto al 2020?

«Non recito la parte di quello che l’aveva detto. Anch’io pensavo a una platea potenziale più larga. La surrealtà nella quale è andato in scena il Festival provoca una curiosità eccezionale che dura qualche minuto, come la leggenda del monoscopio che fa più audience del programma. Non a caso da 70 anni il pubblico continua a comprare il biglietto per vedere il Festival dal vivo. Poi c’è anche un altro fattore, poco considerato…».

Sentiamo.

«Il lockdown ha un po’ nordicizzato il Paese, anticipando tutti i nostri orari. L’obbligo di essere a casa alle 22 ha accorciato le serate, si cena prima e si va a dormire prima. Infatti i bacini televisivi dei programmi di seconda e terza serata si sono ridotti. Forse Sanremo ha pagato anche il fatto che ci siamo avvicinati ad orari e abitudini nord europee».

Il calo di ascolti comporta una correzione del contratto fra Rai e Tim?

«Io mi occupo della parte editoriale, ma non mi risulta che in questo momento si stia valutando una revisione del contratto».

La vostra campagna istituzionale per i 100 anni d’innovazione conteneva l’auspicio di tornare presto ai balli di massa: era una visione troppo ottimistica della situazione in cui ci troviamo?

«Senza fare paragoni, che cosa faceva essere ottimistica la comunicazione del cinema di Frank Capra nei momenti tragici in cui veniva prodotto? Una regola aurea del vivere ancor prima che del comunicare è che in tempi in bianco e nero si cerca di dare il colore, mentre in tempi variopinti si produce una comunicazione più minimalista e introspettiva. Se è in discussione il nostro modo di esistere cerchiamo di trasmettere la possibilità dell’uomo di credere in sé stesso e nella sua energia».

Con il primo spot con il ballerino Sven Otten avete inaugurato una nuova stagione della comunicazione pubblicitaria. Quanto è difficile continuare a innovare?

«È un problema che ci poniamo ogni giorno. Ci sembra di aver fatto molto e in effetti abbiamo fatto ballare col cappello di Sven Otten Topolino e il Gabibbo, Amadeus e Gerry Scotti, Spiderman e i personaggi di Star Wars. Paventare l’esaurimento delle idee per il futuro sarebbe presunzione. Il mondo offre un’infinità di spunti rispetto ai quali ciò che noi abbiamo prodotto è nulla. Anche grandi compagnie come Coca Cola e Pepsi hanno realizzato spot orientati al ballo. Il quale è un modo di coinvolgere le persone attraverso un elemento unificante che invita a vedere positivamente il presente e il futuro».

Era molto presente anche nel cinema del dopoguerra.

«La stagione dei grandi musical si è alimentata di questa cultura. Non c’è frivolezza nel dire <ballaci sopra>. Per chi fa comunicazione non c’è niente di più importante che regalare alle persone la possibilità di gioire e di liberarsi dalle costrizioni».

In che modo il Covid ha cambiato la comunicazione pubblicitaria?

«Non sono un sociologo della comunicazione. Credo che ci vorranno anni per capire le trasformazioni nelle quali siamo immersi. Mi diverte lavorare al videogioco della nostra comunicazione, consapevole che non stiamo scoprendo la penicillina. Ma provando a trasmettere un pizzico di serenità e offrendo al pubblico, anziché martellarlo con un messaggio sempre uguale, un’opportunità di dialogo e partecipazione come attraverso il concorso al Festival».

Difficilmente ci sarà l’Amadeus-Fiorello ter. Da sponsor unico, Tim ha dei suggerimenti per i vertici Rai?

«Sul fatto che non ci sarà il terzo festival di Amadeus e Fiorello mi concedo qualche dubbio. Non do consigli agli altri, ascolto quelli che danno a noi. Abbiamo visto i fiori sul carrello, poi con i guanti, mancava che li facessero cantare con la mascherina. Quando tra dieci anni rileggeremo questi dati di ascolto ci stupiremo della capacità di mettere insieme platee così ampie in un’èra di frammentazione delle piattaforme e di rigidi protocolli anti-pandemia».

Tim avrebbe gradito Mina direttore artistico del Festival?

«Non è una valutazione che ci compete».

La collaborazione con lei continuerà?

«Da anni coltiviamo una grande idea. Mina è sempre sorprendente per curiosità e visione. Per l’ultimo brano abbiamo avuto ritorni inaspettati dal pubblico giovane. Si è soliti dire che ai giovani devono parlare i loro coetanei. Invece, a chiunque si parla attraverso il talento. Il quale si spiega da sé e arriva prima anche a chi appartiene a un’età anagrafica diversa».

Questa idea riguarda la comunicazione del marchio o qualcosa di più?

«Qualcosa di più, con il marchio capofila. Sarà un regalo a tutti gli italiani, ma qui mi fermo per riservatezza verso Mina e suo figlio Massimiliano».

Avrà a che fare con Timvison?

«Forse».

 

La Verità, 6 marzo 2021 (versione integrale)

Tra tanti, spicca l’augurio subliminale di Mina

Si è realizzato uno strano effetto di sovrapposizione, quasi uno scambio di ruoli, la sera del 31 dicembre guardando in sequenza su Rai 1 prima il Messaggio di Fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, poi l’anteprima dell’Anno che verrà con Amadeus, infine il lungo spot della campagna istituzionale di Tim con la voce di Mina. Sarà stato il non cenone al quale un po’ tutti eravamo intenti causa restrizioni da zona rossa, sarà stato l’anno che ci lasciavamo alle spalle, è evidente che il messaggio più gradito sia arrivato dal musical allestito in tre minuti e mezzo dal marchio della compagnia telefonica. Probabilmente per obblighi istituzionali, per stile della casa, per impacci conseguenti alla crisi ventilata, minacciata, possibile o incombente, il discorso del Capo dello Stato non è andato oltre un’accorata esortazione a comportarci bene. Il prologo del tradizionale varietà della notte di Capodanno ha invece confermato l’impostazione da caravanserraglio della rete: tutti dentro un calderone che mixa Gianni Morandi e Piero Pelù, Rita Pavone, Gigi D’Alessio e J-Ax, con qualche ballerina di contorno. In sintesi, «l’Italia dei capelli tinti», è stato autorevolmente scritto.

Schiacciato tra il messaggio presidenziale e il veglione in studio, alla fine il contenuto più augurale è arrivato dallo spot «Questa è Tim». Non tanto per l’abusato arcobaleno che soverchiava il titolo, quanto per il ballo di massa finale. Leggero, colorato, spensierato, sinonimo di libertà da riconquistare. È l’auspicio per il 2021 che, in modo subliminale, è rimbalzato da quei quattro minuti di musica, parole e danze. Così la campagna per i 100 anni d’innovazione, è diventata, per collocazione e contesto, il vero messaggio positivo ai telespettatori.

Lo spot si presenta con l’immagine di Torino, capitale della ricerca tecnologica da dove parte «una storia italiana», «la storia di un’idea e di chi trovò la strada per farne una realtà. Così da cent’anni un’infinita via fa volare milioni di ciao, di come stai. Se pure noi siamo lontani, ci fa sentire più vicini». Le parole sono l’adattamento del testo di This is me, dal musical The Greatest Showman. Le coreografie che Luca Tommassini ha tratto da altri grandi musical e da Pane, amore e… o Flashdance, le immagini montate con linguaggio contemporaneo dalla regia di Luca Josi, direttore della comunicazione strategica di Tim, e le note della voce di Mina, ci trasmettono quella leggerezza e quell’autostima di cui oggi più che mai abbiamo bisogno.

 

La Verità, 2 gennaio 2021

Perché VivaRaiPlay! è l’evento tv dell’anno

La parola chiave, hashtag nel gergo moderno, è «inter», ma il calcio non c’entra. Inter nel senso di attraverso, cross in inglese, per cui si potrebbe dire anche crossover, suscitando le giuste reprimende degli italianisti. La prestazione della prima settimana di Fiorello con VivaRaiPlay! su Rai 1 e RaiPlay (su Radiodue dal 16 novembre) si è sviluppata attraverso diverse piattaforme: la tv generalista, la visione streaming e la app della Rai. Personalmente, ho visto le prime due puntate in tv e ho recuperato le ultime tre su RaiPlay attraverso il tablet. È proprio questo il carattere rivoluzionario dell’operazione realizzata dallo showman siciliano, sollecitato dalll’ad di Viale Mazzini Fabrizio Salini: la fruizione in diretta, la visione on demand e con applicazioni e dispositivi alternativi. Il secondo elemento è il viaggio intergenerazionale: da Pippo Baudo, Raffaella Carrà, Bruno Vespa e il muppet Vincenzo Mollica – la storia Rai – ai ballerini di Urban theory, i rapper Calcutta, Marracash, Mike Lennon e Coez passando per il meglio della musica italiana, Giorgia, Marco Mengoni, Emma Marrone, Giuliano Sangiorgi e tanti altri ospiti (Fabio Rovazzi, Virginia Raffaele), complici nel proporre qualcosa di nuovo, un linguaggio, una formula, un tormentone (Biagio Antonacci bloccato all’ingresso). Il tutto sorretto da una leggerezza che non risparmia punzecchiature alla critica (la recensione in tempo reale «Fiorello: tutto qua?»), in grado di fare di ogni episodio un pezzo artigianale unico di spontaneità e buonumore. Infine c’è l’attraversamento dei generi musicali: il rap, la trap, lo swing, il pop, il melodico, lo swing virato disco rap (come sollecitato dal whatsapp di Mina). Niente resta fuori grazie al susseguirsi dei camei degli ospiti, in una sorta di raffinato puntinismo televisivo che solo Fiorello può realizzare con il suo talento artistico – un po’ Walter Chiari, un po’ Adriano Celentano – e la stima di cui gode. Un minishow nel quale trovano la giusta misura sia l’omaggio a Fred Bongusto che la gag sulla diversità di stili tra Roma e Milano, in uno spettacolo che si vorrebbe non finisse (e perciò si aspetta il ritorno sulla piattaforma).

Su Rai 1 gli ascolti hanno oscillato tra il 22 e il 25% di share (tra 5,5 e 6,5 milioni di spettatori). E qualcuno ha davvero detto «tutto qua?». Ma per capire l’operazione andrebbero conteggiate anche le tante fruizioni on demand e sulle app, su cellulari e tablet. È qui la novità: interpiattaforma, intergenerazioni, intergeneri (musicali). Inter. Ma il calcio non c’entra, anche se è interista… Lui.

 

La Verità, 10 novembre 2019