«La bellezza è visibile anche da chi non vede»
Vincenzo Mollica è un gigante con l’innocenza di un bambino. Con lui e sua moglie Rosa Maria, anche lei persona speciale, ho trascorso una bellissima mattinata nella loro casa in Val Seriana. Una casa immersa nel verde e allietata dal cinguettio degli uccelli. Non conoscevo Vincenzo, storico inviato di spettacoli del Tg1, premiato con il David di Donatello alla carriera. Ma dopo qualche telefonata ha accettato di soddisfare questa curiosità: cieco a causa di un grave glaucoma e affetto dal morbo di Parkinson – «du fiji de ’na mignotta» -, rimane sereno perché è buono come il pane o perché lo aiuta qualcos’altro? Oltre l’impossibilità di vedere, la fede gli dona un altro tipo di sguardo? «Non ho mai raccontato pubblicamente queste cose, ma stavolta lo faccio perché Cesare G. Romana, illustre collega del Giornale, mi aveva parlato di te», confida. A mia volta io ricordo quando, mentre si lavorava a una trasmissione televisiva, Claudia Mori e Adriano Celentano si gasavano: «Adesso dobbiamo chiamare Vincenzo». Una manciata d’anni dopo, eccomi a dialogare con lui di giornalismo, grandi artisti e bellezza.
Quali sono i segreti della tua carriera?
«La fatica, la curiosità e la passione. Il quarto segreto è l’idea di servizio pubblico imparata da Emilio Rossi, direttore del Tg1, e dal suo vice, Nuccio Fava. Per questo non ho mai cambiato casacca e sono sempre rimasto nella redazione cultura e spettacoli che ho contribuito a fondare con Gianni Raviele sotto la direzione di Albino Longhi».
Qual è stata la tua maggiore soddisfazione professionale?
«Sono state tante. Ho avuto la possibilità di essere testimone degli Oscar alla carriera di Federico Fellini e di Michelangelo Antonioni e degli Oscar a Roberto Benigni per La vita è bella. Ho potuto frequentare tanti artisti».
Ci sono gli amici nel mondo dello spettacolo?
«Ci sono come in tutte le situazioni della vita. Ho la fortuna di averne tanti e di continuare ad averne anche se non faccio più il mio lavoro. Lo sono stati Fellini, Hugo Pratt, Andrea Pazienza, Alda Merini, Franco Battiato, Daniele Del Giudice, Vincenzo Cerami. Lo sono Rosario Fiorello, Renato Zero, Paolo Conte, Francesco De Gregori, Milo Manara, Adriano Celentano. Persone con cui ho condiviso 40 anni di vita. Mina è un’altra persona cara, ho curato la raccolta di dvd sui suoi anni alla Rai».
Chi è il cronista, come ti definisci orgogliosamente?
«È un cercatore di storie, gli artisti hanno tante qualità da far conoscere. Come cronisti abbiamo il compito di trovare persone che riescono ad allargare il nostro sguardo sulla vita. Per me le opere d’arte non sono accessorie, ma sostanza. Se non avessi letto certi libri, visto certi film, ascoltato certe canzoni non sarei quello che sono oggi. A 71 anni ho ancora voglia di cercare e Mister Parkinson e Signora Cecità mi aiutano a farlo».
In che modo?
«Mi danno la voglia di capire ciò che mi sta succedendo, mi spronano a cercare l’essenza della vita. Quando hai due compagni così senti tutto in modo diverso, dai profumi dei fiori al canto degli uccelli. Il sapore del creato. A volte ci si sente abbandonati, altre volte si è contenti di sperimentare ciò che ci regala l’avventura umana».
Perché ti piace fare le interviste?
«Vinicius de Moraes diceva: “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”. Così ho capito che durante le interviste la cosa più importante è ascoltare. Non ho mai usato le domande per esaltare il mio narcisismo e mostrarmi più colto di chi mi risponde. Solo così puoi trasmettere le informazioni e le emozioni di quell’incontro».
Ci vuole curiosità per le persone, per il mistero dell’uomo.
«Una volta Fellini mi disse che era la curiosità a farlo alzare la mattina. La curiosità alimenta la nostra vita. In particolare, le cose che ami, quelle che la condensano meglio. Come l’arte».
Ciò che conta è lo stupore?
«La vita ci sorprende continuamente. Viviamo momenti di dolore, di allegria, di solidarietà, di generosità. E tutto è concentrato in queste quattro lettere. Per spiegare la vita ci vorrebbe una biblioteca sconfinata. Ma anche se ci avviciniamo alla sua realtà non riusciamo ad afferrarla perché è irriducibile a una formula matematica».
Qual è l’incontro che ti ha dato di più?
«Quello con Federico Fellini. Quando uscivi con lui non sapevi mai a che ora saresti tornato a casa, ma sapevi che ci saresti tornato meglio di come eri uscito. Con la mia Uno rossa, di notte, ci perdevamo per Roma. Spesso voleva passare per piazza San Pietro, vedere il colonnato, assaporare la spiritualità che emanavano quei luoghi. Andavamo al ristorante a mangiare cibi semplici, ma lui riusciva a farti percepire la solita cosa in modo nuovo. “L’unico vero realista è il visionario”, diceva. Oppure, citando Leopardi: “Nulla si sa, tutto si immagina”. Me lo disse quand’ero vedente e ora questa frase continua a echeggiare nella mia testa».
Cos’hai pensato quando da bambino hai appreso che saresti diventato cieco?
«Sono felice di averlo saputo a 8 anni. Mia mamma si era accorta che dall’occhio sinistro non vedevo. Mi portarono da un oculista a Locri e dopo la visita mi pregarono di uscire dalla stanza. Ma la porta rimase socchiusa e gli sentii dire che sarei diventato cieco. Tornando a casa non ho cercato di capire cosa volesse dire, ma se coprivo l’occhio destro con la mano, non vedevo più nulla. Un oculista di Messina che mi visitava ogni sei mesi mi tranquillizzò: se avverrà, sarà da adulto, ma potrebbe anche non avvenire. Invece, è avvenuto».
Come ti sei preparato?
«Cercando di memorizzare quello che vedevo. Camminando, localizzavo la posizione delle pietre. Quando andavo al Festival di Cannes o alla Mostra di Venezia imparavo i percorsi a memoria. Avrei già potuto muovermi a occhi chiusi. Imparavo anche i libri e i fumetti che leggevo. Una volta chiesi ad Andrea Camilleri, anche lui colpito dal glaucoma, se esisteva l’arte di non vedere. Mi disse: “Vincenzino, non dimenticare mai la tavolozza dei colori che hai nella testa”. E mi raccontò che di notte faceva un esercizio particolare, proiettando mentalmente i quadri e le scene dei film che aveva amato, e che gli apparivano più vividi di come li aveva visti la prima volta: “Con il cervello, puoi trasformare il buio in un grande schermo”. Come in un fumetto».
Che cosa ti aiuta a non perdere la serenità?
«Ci sono persone che sono entrate in depressione. Io non ne ho mai sofferto, ho accettato questi due malanni che mi sono capitati. Ho la fortuna di avere un carattere paziente e ironico. Poi ci sono Rosa Maria, mia moglie, e Caterina, mia figlia, che mi accompagnano con pazienza e dolcezza».
Oltre a godere della loro vista, che cosa ti manca in particolare?
«Scrivere e disegnare a mano su fogli di carta. Non ho mai usato la tecnologia, pur essendo stato il primo giornalista Rai con un sito dedicato. Mi manca scarabocchiare sulla carta, le frasi che cancelli tornano buone per quello che scriverai dopo. Anche durante i collegamenti con il tg mi aiutavo con appunti su foglietti. E mi piaceva colorare…».
Sottolinei spesso che attingi al bicchiere mezzo pieno: che liquido contiene?
«Contiene il sostegno della mia famiglia e anche della fede. Sono credente. È un fatto intimo, personale. Considero la Bibbia un libro fondamentale e la figura di Gesù una fonte permanente di speranza».
Hai l’abitudine di pregare?
«Prego non per necessità o per chiedere qualcosa che vorrei mi accadesse. Ma per coltivare una dimensione spirituale che il tempo in cui viviamo ci induce a trascurare».
Ti aiuta a convivere con la tua condizione?
«Non c’è dubbio. Quassù, fino a qualche anno fa, c’era don Tarcisio, un sacerdote di grande delicatezza umana, con il quale facevo lunghe chiacchierate. Erano come momenti di preghiera. Sempre qui vicino c’è il santuario di Lantana, davanti a una vallata meravigliosa. Adesso, ogni tanto mi faccio accompagnare e con il trucco di imparare i paesaggi a memoria, rivedo tutto e mi viene voglia di pregare. E poi c’è un’altra cosa che mi piace. Giovannino Guareschi e il suo Peppone e don Camillo. Quel dialogo con Cristo in croce mi ha sempre affascinato. A volte leggevo qualche pagina del Breviario di don Camillo, pubblicato dalla Rizzoli».
La frase di Fellini sulla visionarietà del realista mi ha ricordato quello che dice la volpe nel Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry: «Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi».
«C’è qualcosa di molto vero, l’essenziale passa dal cuore e lo fa pulsare. Quando ero ragazzo e muovevo i primi passi, Celentano cantava Pregherò, la prima canzone che parla di una persona cieca: “Non devi odiare il sole perché tu non puoi vederlo, ma c’è”. Poi in Santa Lucia De Gregori canta “per tutti quelli che hanno occhi e un cuore che non basta agli occhi”».
Vuoi dire qualcosa, per finire?
«Sì. Mi diverte Mr. Magoo, un personaggio dei cartoni animati che non vede nulla eppure riesce a superare seraficamente situazioni complicatissime. Mi ha fatto capire che si può contemplare il bello anche da ciechi».
Il Timone, Luglio-Agosto 2024