«A Sanremo Mina e Tim stupiranno ancora»

Mina torna a Sanremo. Con la Tim, come l’anno scorso. In voce e in digitale. La più grande cantante italiana, l’artista che non compare pubblicamente da quarant’anni, dovrebbe cantare un brano americano. Non è sicuro al 100% perché sui contratti manca ancora la firma, questione di ore. «Sarà qualcosa di sorprendente», concede Massimiliano Pani, che di Mina è anche il produttore. Nella serata finale del Festival 2018 un ologramma comparve sulla scalinata dell’Ariston. L’avatar di Mina cantò Another Day of Sun tratto dalla colonna sonora di La La Land. Quest’anno che cosa inventeranno lo sponsor unico della kermesse e l’artista che vive a Lugano? Di sicuro si rinnoverà il racconto in cinque episodi, uno per sera, ideato da Luca Josi, direttore della struttura Branded Strategy e Media del marchio e creatore della formidabile campagna, che dura da più di due anni, con il ballerino Sven Otten, in arte JSM. Sarà una piccola soap opera, con sorpresa finale. «Non posso anticipare nulla», si ritrae Pani, «finché i contratti non sono firmati. Se dovesse essere confermata la canzone su cui si sta lavorando, sarà una cosa veloce e positiva. Di un genere musicale inaspettato».

Siamo a Lugano, studi della Pdu Productions, casa discografica di Mina, con Massimiliano, 55 anni, figlio della cantante e di Corrado Pani.

Com’è nato il vostro coinvolgimento con il brand della telefonia?

«Mia madre si fida di Luca Josi. Ne apprezza la genialità e il coraggio. Sono due visionari, due pazzi sani che si divertono. La riuscita di questa collaborazione deriva da questa intesa, dalla stima reciproca».

Si conoscevano già?

«C’era una conoscenza pregressa, che risaliva a quando Josi era in Einstein Multimedia. Una volta in Tim, sapendo che Mina ama l’originalità, le ha proposto qualcosa di innovativo. E lei, che negli ultimi anni aveva rifiutato diversi abbinamenti, ha accettato».

In passato ha collaborato a diverse campagne. Si ricordano le réclame di Barilla…

«In sessant’anni ha fatto una decina di abbinamenti; ci sono artisti che ne fanno uno all’anno. Se si riguardano i caroselli della Barilla si vede ancora adesso quanto fossero in anticipo. Lei cantava una canzone e il prodotto compariva solo nel codino».

Perché si è convinta a collaborare con Tim?

«Perché non era uno spot tradizionale, ma una specie di helzappoppin. Credo che le campagne Tim siano la comunicazione pubblicitaria più all’avanguardia dell’ultimo decennio. Prima il testimonial era Pif. Per trovare una claim altrettanto efficace bisogna tornare a Massimo Lopez e alla telefonata che allunga la vita».

Cosa c’era di originale in questa campagna?

«Josi non ha preso un pezzo già noto e digerito dal pubblico. Ha scelto All Night di Parov Stelar e l’ha fatto cantare a un’artista trasversale a tutti i pubblici, anche lei colta e pop. Ha preso una cantante fuori dal tempo per rivolgersi ai ragazzini, i veri clienti di Tim. È stato un di giro della morte. Un esempio di comunicazione leggera, divertente, creativa».

Che ha portato avanti un discorso, pur cambiando ambientazione.

«All’inizio sono andati in onda anche i filmati del pubblico, gruppi di ragazzi a scuola, marinai sulle navi… Poi sono spuntati Stanlio e Ollio. Ora c’è Piazza Navona che collega le Dolomiti, la Torre di Pisa in un’unica grande piazza che è l’Italia. Cambia il visual, ma il phil rouge è la voce di Mina. Fino alla soap opera intergalattica di Sanremo, con l’astronave in avvicinamento alla terra comandata da un’aliena».

Com’è stato realizzato l’ologramma della serata finale?

«Il fotografo e pittore Mauro Balletti, che dal 1978 è l’unico a poterla riprendere e fotografare, ha creato un rendering del volto e del corpo di Mina, un avatar digitale che ha i suoi lineamenti e i suoi movimenti».

L’avete rappresentata come un’aliena perché Mina è un’assenza presente nella vita italiana? Una protagonista lontana che può sempre comparire?

«È un’aliena per le scelte che ha fatto, perché ha capito alcune cose prima di altri. Ha capito che la televisione stava cambiando e allora ha deciso di tirarsene fuori. Nella ricerca estetica, vent’anni prima di Madonna e trenta prima di Lady Gaga ha cominciato a giocare con la sua stessa immagine. Rappresentandosi in tanti modi, persino con la barba… Ha creato una casa discografica per tutelare il suo lavoro. È stata la prima a pubblicare dischi dedicati come MinacantaLucio e Mina quasi Jannacci. Oppure monotematici come Mina canta o Brasil e Napoli».

La modernità, la contemporaneità, l’anticipo sui tempi da cosa derivano?

«Pensa sempre al domani. Mentre generalmente ci si concentra sul presente, lei si concentra sul bello, su ciò che si può fare di innovativo. Su questo Josi è un ottimo partner, forse l’ultima grande testa della comunicazione pubblicitaria, lo dico per come lavora. Vedremo presto che cosa ci riservano per il 2019».

Come si cura l’immagine di Mina?

«Vogue Italia ha dedicato un intero numero a Mina come immagine. La sua carriera va divisa in due epoche. Quella della ragazza che già negli anni Sessanta e Settanta influenzava la moda con la sua intelligenza e la sua personalità. E quella successiva, quando scelse di ritirarsi. E decise di giocare con la sua immagine, affidandosi a un maestro dell’iconografia come Balletti, che ha realizzato le sue idee in un’epoca in cui non esisteva il photoshop».

Mina ha collaborato con alcuni giornali. Che rapporto ha con la comunicazione?

«Scrivendo per La Stampa e Vanity Fair su qualsiasi argomento e non solo di musica, ha dimostrato che ha successo non perché canta bene, ma perché è intelligente. Quando mi chiedevano chi le scriveva i pezzi rispondevo: “Ma con tutto quello che ha fatto nella musica non credi sia in grado di scrivere da sola?”. È una donna attenta a tutto, che ascolta tantissima musica, informata, sempre avanti…».

Come vive le vicende italiane?

«Gioisce e soffre come tutti noi. Non prende parte benché sia stata più volte sollecitata da tutti».

In che modo?

«Ci sono persone popolari che non sono autorevoli o, al contrario, persone autorevoli che non sono popolari. Lei è entrambe le cose. Quel mondo, tutto, man mano che cambiavano i governi, ha cercato più volte di coinvolgerla, ma lei non ha mai considerato l’idea perché non ama il potere e i potenti. È un mondo troppo distante da ciò che ama e sa fare».

È nei social, ha un canale YouTube…

«Ci sono il canale Mina official e Mina Instagram. Questi luoghi digitali raccolgono parte di quello che ha fatto e lo rendono disponibile anche a chi è nato nell’era digitale e non possiede i vinili o non ha visto la tv dell’epoca. Mina ha un pubblico trasversale, composto anche da ragazzi che le riconoscono modernità e atemporalità».

Danilo Rea suona il pianoforte di Arturo Benedetti Michelangeli?

«Sì. Questo pianoforte viene dalla Basilica, la chiesa sconsacrata dove c’era lo studio di registrazione della Pdu a Milano. Benedetti Michelangeli incideva lì per la qualità dell’acustica. Aveva chiesto alla Steinway di preparargli un pianoforte a coda particolare, più lungo e con un legno preciso. Quando glielo portarono suonò due note ma, esigente ed eccentrico, lo rifiutò perché secondo lui il tasto tornava male. I tecnici della Steinway rimasero basiti nel loro camice bianco. Noi lo abbiamo comprato ed è tuttora il nostro pianoforte».

Che cosa significa comporre e arrangiare per Mina?

«Lei ha la capacità d’interpretare ogni genere musicale non a modo suo, ma come va interpretato. Riesce a entrare in un mondo musicale, dalle canzoni napoletane alla bossa nova, dal tango agli standard, nella maniera in cui va fatto e ai massimi livelli. Perciò bisogna essere in grado di passare da un genere all’altro e avere musicisti all’altezza. Questo, tendenzialmente, lo sanno fare meglio i jazzisti. Toots Thielemans suonò per Mina in Non gioco più. Danilo Rea iniziò a collaborare con noi a 21 anni. Nei dischi c’è sempre un brano con arrangiamento jazz. Gianni Ferrio è stato l’arrangiatore per eccellenza di Mina. Abbiamo lavorato con lui fino agli ultimi anni».

Duettò anche con Astor Piazzolla.

«Nel 1972 lo fece invitare a Studio Uno, insieme eseguirono Balada para mi muerte. Per dire che cosa faceva la Rai in quegli anni».

Un altro rapporto duraturo è quello con Adriano Celentano.

«Hanno iniziato insieme da ragazzi. Lei, Celentano, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. Cantavano nei locali il rock’n’roll e le canzoni di Elvis prima di diventare cantanti loro stessi. Con Adriano è rimasta grande complicità».

Celentano ogni tanto fa degli show in carne e ossa. Sua madre non è tentata?

«Sono artisti diversi. Adriano è anche attore e performer. Mina si esibiva dal vivo, nei concerti in teatro e in tv. Sono cambiati sia la tv che i luoghi dei concerti. Gli stadi, per esempio, non sono deputati per fare musica, non hanno l’acustica giusta. Con 70.000 persone cambia anche la drammaturgia. Lei privilegiava l’emozione in una dimensione più intima, con l’orchestra. Ha preferito fare dischi in studio».

Canta con Celentano, duetta con Paolo Conte, pubblica un songbook dei successi di Lucio Battisti, scrive un articolo per ricordare Fabrizio De André. Vuole ricostruire la memoria musicale italiana?

«Non so se è questo lo scopo. Lei è un’interprete e cerca di cogliere le canzoni più belle già scritte o che saranno scritte. Perciò a volte fa delle riletture musicali, altre volte pubblica un album di inediti come Maeba».

Come si vive vicino a un’artista così?

«Ho avuto due genitori di grandissima personalità. Mio padre è stato un attore importante e aveva un carattere difficile. Quando gli dicevano che aveva lavorato con grandi artisti del teatro e del cinema rispondeva: “Io di artisti veri ne conosco solo due, Mina e Carmelo Bene”. Mina è una fuoriclasse per il suo modo di pensare».

 

La Verità, 13 gennaio 2019