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«Se lo Stato non aiuta la natalità tocca alle aziende»

Produce burro e formaggi di alta qualità che, dall’alto vicentino, esporta in tutto il mondo. Ma è un antistatalista, un creatore di welfare alternativo, un imprenditore visionario. Avvocato, un passato da musicista al fianco della madre concertista con tournée europee, l’ultima trovata di Roberto Brazzale è l’assunzione di un gruppetto di ex compagni di scuola sessantenni. Se non è andare controcorrente questo…

Roberto Brazzale, stamattina ha bevuto il caffè con i suoi ex compagni di scuola?

«Con quelli presenti, sì. Erano solo due perché alcuni fanno il ponte e altri sono in giro per lavoro».

Sono diventati suoi dipendenti a sessant’anni?

«All’incirca, fra i 50 e i 60 e oltre. Noi non guardiamo la carta d’identità».

Trae una riflessione generazionale da questa vicenda?

«Siamo un po’ sorpresi dal clamore che ha avuto questa notizia. Ci sembra un fatto normale, ma evidentemente non è così. Forse abbiamo toccato un nervo scoperto».

Quale?

«Credo che molte persone di quest’età abbiano ancora tanta voglia di realizzarsi nel lavoro, a fronte di uno Stato preoccupato solo di trovare risorse per farle uscire dalla vita attiva. È vero che c’è chi sente il bisogno del pensionamento per mille motivi, ma altri sono ancora pieni di energia».

La sorprende di più la motivazione dei sessantenni o l’insipienza dei trentenni?

«Non si devono contrapporre le generazioni. Quasi il 50% dei nostri dipendenti ha meno di 35 anni e siamo felicissimi di loro. Il punto è che si può essere giovani anche a sessant’anni e oltre: la carta d’identità è spesso una convenzione. Mi sono trovato di fronte a degli amici, ex compagni di scuola, veri fuoriclasse che, grazie alla passione e all’esperienza sanno dare il meglio ora che non sono più giovanissimi».

In che ruoli sono stati assunti?

«Ruoli amministrativi, logistici e soprattutto commerciali di contatto con la clientela o il consumatore. Lavorano in perfetta simbiosi con i ventenni».

Dal suo osservatorio come giudica l’inverno demografico italiano?

«È la crisi più terribile che stiamo vivendo: tutto è contro la procreazione. I primi a esserne colpiti sono i giovani che lavorano. Deve tornare a essere bello fare figli. È un piccolo segnale il fatto che alcuni sessantenni possano continuare a lavorare, contribuendo ad alleggerire i giovani dal peso fiscale e contributivo che complica la realizzazione dei loro progetti di vita. L’allungamento dei congedi parentali può essere la chiave di volta di questa crisi».

Come funziona?

«Copiamo dai Paesi più civili. Ho davanti l’esempio della Repubblica ceca dove abbiamo 500 dipendenti che lavorano al Gran Moravia. Lì, papà o mamma, a scelta, possono restare a casa fino a quattro anni con il posto di lavoro garantito e una remunerazione del 30%. E, dopo la prima infanzia, gli asili sono perfettamente efficienti. Purtroppo, in Italia assistiamo a una serie di tentativi che, nonostante le buone intenzioni, non colgono il bersaglio. Oggi non arriviamo a 390.000 nati a fronte di quasi 700.000 morti all’anno. Se si aggiungono i 100.000 che emigrano, è come se scomparisse una città come Bologna».

Però ci sono gli immigrati.

«Sono fondamentali da decenni, ma non rimediano al male interno alla nostra società provocato dal crollo delle nascite e dalla riduzione dei giovani. Due fattori che stravolgono intimamente società e cultura del nostro Paese, facendogli perdere slancio, fiducia e bellezza».

Quanti stranieri ha nella sua azienda?

«Abbiamo oltre mille dipendenti sparsi nel mondo. In Italia sono più di 500 dei quali oltre il 25% stranieri. La loro presenza è fondamentale».

Crea problemi di tipo amministrativo o burocratico?

«Nessun problema. Sono veramente bravi, senza di loro le nostre attività si fermerebbero».

Il sociologo Luca Ricolfi afferma che le giovani coppie non procreano perché l’arrivo di un figlio compromette il piano di vita che si sono date, molto più basato sul tempo libero rispetto a qualche decennio fa.

«In molti Paesi occidentali i giovani vivono allo stesso modo, eppure fanno figli. Da noi ci sono stipendi netti troppo bassi, il reddito pro-capite non cresce da più di vent’anni. E soprattutto non c’è una valorizzazione della procreazione che dovrebbe essere il momento aureo della vita dei singoli. Fare figli è una corsa a ostacoli, economici, amministrativi, culturali».

Per lei la denatalità dipende dalla mancanza di sostegni economici e di una legislazione finalizzata?

«Non solo. Bisogna dare tempo ai genitori per seguire i figli. Meno del 50% delle donne italiane lavorano, a fronte del 70% negli altri Paesi europei, perché lasciano il lavoro per poter essere mamme. Serve un diverso atteggiamento nel mondo del lavoro e una ridefinizione delle priorità dello Stato. Garantire i congedi triennali con una remunerazione del 30% potrebbe costare molto meno di 10 miliardi all’anno, l’1% della spesa pubblica, il 3% delle pensioni. Ma lo Stato non li trova e magari poi li spende con il Pnrr che è spesa  a debito, il cui peso graverà proprio sui giovani».

È contrario al Pnrr?

«Ovvio. 250 miliardi di spesa pubblica extra: ne avevamo bisogno? In Italia la spesa pubblica è già il 60% del Pil, e il debito vero ben oltre il 150%. Lo Stato deve ridursi non espandersi, imprese e famiglie devono essere sollevate dal peso che le soffoca. Ormai nessun politico difende più i singoli dall’ipertrofia dello Stato».

Il Pnrr permetterà di realizzare opere necessarie allo sviluppo del Paese.

«Gli Stati che funzionano le fanno attingendo al bilancio ordinario, non a extra debito. Un euro speso dallo Stato è un euro tolto ai cittadini. Come si può pensare che lo Stato spenda meglio di una famiglia o di un’impresa?».

Nella sua azienda assume sessantenni, estende il baby bonus, allunga il congedo per maternità…

«Attraverso il congedo parentale aziendale aggiuntivo, i nostri dipendenti, uomini o donne, possono rimanere a casa fino a un anno in più al 30% dello stipendio. Abbiamo creato un gruppo di imprenditori che si chiama “Benvenuta cicogna”, una mailing list per scambiarci informazioni e anche Confindustria giovani Vicenza ha messo al centro della propria azione la maternità sul lavoro. Non possiamo aspettare lo Stato, invitiamo a considerare misure simili chi non l’ha ancora fatto».

È uno strano welfare aziendale, il suo.

«L’azienda è una comunità di persone. Oggi categorie come i sessantenni o le donne che hanno paura della gravidanza sono considerate neglette nel mondo del lavoro. Noi proviamo a porre rimedio a ciò che non funziona nella nostra società, anche prendendo esempi dalle esperienze che facciamo in giro per il mondo».

I sindacati cosa dicono?

«Le nostre misure, per esempio le attenzioni per le mamme, sono apprezzate e condivise. La protezione della maternità è quasi una forma di controcultura perché, per sciatteria, la cultura prevalente mortifica la procreazione».

È contento del momento d’oro dei formaggi italiani, in vetta alle classifiche di gradimento mondiali?

«Il momento d’oro dei formaggi italiani dura da sempre e durerà per sempre perché 8,1 miliardi di persone a cui torna l’appetito ogni 4 ore amano i nostri prodotti. C’è solo da darsi da fare per rispondere a questa enorme domanda sopperendo alla carenza di territorio di cui soffriamo. Dunque, pensando al made in Italy come valore aggiunto creato dagli italiani e dalla loro formidabile capacità di trasformazione, attraverso l’espansione internazionale delle catene di approvvigionamento».

È più urgente la riforma del premierato o quella dell’autonomia?

«La più urgente è riprendere a fare figli. Rispetto a questo, quelle riforme sono irrilevanti. Poi, non si capisce bene quale autonomia lo Stato voglia davvero concedere. La sensazione è che il centralismo statalista, la radice dei nostri mali, non verrà intaccato».

Che cosa si aspetta dalle elezioni europee?

«L’Unione europea ha bisogno di ripensare molte delle sue decisioni più recenti e di farlo in fretta».

Sa già per chi voterà?

«Dipende dai candidati e dai programmi, ci sono ancora molte cose da capire».

Se dovesse dare un consiglio a Giorgia Meloni quale sarebbe?

«Subito il congedo parentale triennale a carico del sistema previdenziale. E maternità e procreazione in cima alle priorità, in modo rivoluzionario».

L’ultima volta che ci siamo visti, parlando del suo andare controcorrente, mi ha raccontato di quell’automobilista che mentre guida in autostrada nella nebbia sente alla radio l’allarme per un pazzo che va contromano e commenta: «Macché uno, saranno almeno cento…». È ancora incolume o ha fatto qualche incidente?

«Nessun incidente. Appena esco dall’Italia mi accorgo di pensare in modo normale, comune. Mio nonno diceva: “Mai paura, basta ’ver ’e idee ciare”».

Dice di pensare in modo condiviso nei Paesi europei, ma poi la Ue promuove le auto elettriche, l’efficientamento delle abitazioni e penalizza le aziende che non si adeguano ai dogmi green.

«L’Unione europea è una brutta copia centralista degli Stati nazionali, replica i loro difetti e ne aggiunge di propri. Era meglio un’Europa comunitaria, che eliminava barriere e allargava mercati e libertà».

Per questo le chiedevo quali aspettative ha dalle prossime elezioni.

«I Paesi sono espressione della cultura dei popoli. Si pretenderebbe di unificare Paesi con culture molto diverse, antitetiche. L’Italia non è solo quella che ha fatto nascere il Recovery plan è anche l’unico Paese che ha chiesto tutti i fondi a debito del Pnrr. Siamo i più furbi o i peggio amministrati? Stando ai risultati, la seconda. La Ue per tenersi in piedi ha finito per assecondare le peggiori politiche nazionali, come la monetizzazione dei deficit. Di facciata si sottoscrivono patti che si sa già non verranno rispettati. E presuntuosi burocrati pretendono di pianificare la vita di singoli e imprese. La capitale a cui guardare oggi non è né Bruxelles né Roma ma, sorprendentemente, Buenos Aires».

Addirittura? L’Argentina del premier con la motosega?

«Lasci stare il folklore. Certi principi di buon governo e libertà non si sentivano pronunciare dai tempi di Margaret Thatcher. Riusciranno a metterli in pratica? Difficile, ma finalmente il pensiero unico statalista viene messo in discussione da un governo liberamente eletto. Peccato ciò accada solo fuori dalla Penisola e dal Vecchio continente».

 

La Verità, 30 dicembre 2023

«Dopo Adriano e Sanremo rompo i recinti dei salotti»

Francesco Baccini, Caterina Caselli, Adriano Celentano, Dario Fo, Mogol, Gianni Morandi, la Nazionale italiana cantanti, Shimon Peres e Yasser Arafat, Sanremo nel senso del Festival. In ordine alfabetico, all’inizio ci andrebbe l’Arena di Verona. Gianmarco Mazzi è tutto questo e tutti loro, e anche molto di più. Perché ci sono anche Riccardo Cocciante, Massimo Giletti, Zucchero Fornaciari… star con cui ha lavorato, nella sua precedente vita. E perché ora, Mazzi, veronese, da sempre uomo di destra, deputato di Fratelli d’Italia, è sottosegretario alla Cultura del governo Meloni.

Oggi compie 63 anni, come festeggerà?

«Sarò a Genova alla cerimonia della partenza per il giro del mondo dell’Amerigo Vespucci, la nave scuola della Marina militare che in 19 mesi toccherà cinque continenti e 28 Paesi».

È il giorno giusto per chiederle che cosa le sta più a cuore nella vita, che cosa o chi vorrebbe salvare se fosse costretto a scegliere una sola persona, una cosa, un ricordo…

«Non so se è il giorno giusto, forse no. Quando compio gli anni mi fermo a pensare al tempo che passa e divento mediamente cupo. Ma le voglio rispondere. Mi sta a cuore essere in pace con me stesso, sapendo di aver fatto le cose per bene, al massimo delle mie possibilità. Salverei Evelina, l’amore della vita e poi i tre gol di Paolo Rossi al Brasile nel 1982. L’Italia mai doma, sul tetto del mondo. Una metafora, una sensazione indescrivibile che ancora oggi mi commuove e incoraggia».

Lei è sottosegretario alla Cultura, organizzatore musicale o agente di artisti?

«Dal 2 novembre 2022, sottosegretario di Stato al ministero della Cultura».

Qualcuno ha osservato che i ruoli potrebbero confondersi.

«Sia la legge che la giornata di 24 ore mi consentono di fare solo e orgogliosamente il sottosegretario. L’agente di artisti e l’autore televisivo sono esperienze significative della mia vita precedente».

Com’era il rapporto con Celentano?

«Adriano è un geniale visionario, devi stargli vicino da amico fidato. Ama molto dialogare e mettersi in discussione. Con lui e Claudia (Mori ndr) mi diverto da matti. Sono cresciuto con loro».

Un episodio che vuole ricordare?

«Ricordo la volta che chiesi ad Adriano: “Se non fossi diventato Celentano che cosa avresti fatto?”. E lui: “Avrei potuto fare qualsiasi altro lavoro, anche l’imbianchino o l’idraulico, meglio”. Rimasi spiazzato, ma lui proseguì, “mi sarei dato da fare per diventare l’idraulico della città, pensa che bello, andare nelle case, risolvere i problemi alla gente”. Lo diceva festoso, credendoci sul serio. Questo è Adriano; appassionato a ciò che fa, dà sempre il meglio di sé. Non male come insegnamento».

Beppe Caschetto ha imparato da Bibi Ballandi, lei ha avuto dei maestri?

«Sì, gli artisti. Celentano, Mogol, Gianni Morandi, all’inizio Caterina Caselli. Potrei dire anche Caschetto, che è manager colto, dall’estro prezioso».

Qual è l’evento internazionale che ricorda con più emozione?

«Una partita della pace del 2000, allo stadio Olimpico di Roma. C’erano Shimon Peres e Yasser Arafat con il presidente Carlo Azeglio Ciampi. E poi Pelè, Sean Connery, Michael Schumacher. Tutti nella stessa sera.

A ripensarci una cosa da non credere. Nel giro di una settimana ero andato a Los Angeles e a Ramallah. Ne parlavo con Morandi pochi giorni fa, mi emoziono ancora al ricordo. Mentre la vivevo, mi sembrava quasi normale».

Ha organizzato anche parecchi Festival di Sanremo con Lucio Presta: chi era il gatto e chi la volpe?

«Io ero il direttore artistico, Lucio mi consigliava e mi guardava le spalle. A Sanremo bisogna essere astuti come serpenti per mantenersi puri come colombe. E noi ci aiutavamo».

Come si trova nel ruolo attuale, più politico e istituzionale?

«All’inizio male, adesso comincio a orientarmi. Devo contenere l’impulso di realizzare subito un’idea che mi viene in mente. Le tempistiche dell’emisfero pubblico sono molto più lente. Ogni giorno devo mediare con la mia indole».

Per i cento anni del Festival lirico dall’Arena di Verona su Rai 1 è andata in onda un’edizione speciale dell’Aida: soddisfatto dell’accoglienza o qualche critica di troppo?

«No, non mi sembra. Da due anni, con la sovrintendente dell’Arena Cecilia Gasdia, lavoravo alla realizzazione di una serata televisiva memorabile per il mondo dell’opera. Un qualcosa di mai visto prima. Con Sophia Loren, la Rai, le Frecce Tricolori, Alberto Angela, Luca Zingaretti, Milly Carlucci e grazie a Giuseppe Verdi, agli artisti e ai tecnici dell’Arena ce l’abbiamo fatta. E il mondo ha apprezzato».

«Italia loves Romagna» è stato un successo, ma qualcuno ha notato l’assenza dei contadini che hanno allagato le loro terre per preservare dall’alluvione la città di Ravenna suggerendo di assegnare a loro la medaglia della cultura e dell’arte. Cosa ne pensa?

«È un’idea buona, come altre. In realtà l’evento è nato per la raccolta fondi e come abbraccio affettuoso ai romagnoli. I contadini sono stati meravigliosi ma tutta quella gente, intendo la popolazione della Romagna, è stata protagonista di tali e tanti gesti di generosità che abbiamo scelto di non farne una classifica».

Secondo lei c’è davvero la prevalenza della cultura progressista o è un falso problema e gli intellettuali conservatori ci sono ma non sono illuminati dai media, questi sì orientati a sinistra?

«Le definizioni progressista e conservatore, in questo ambito, sono categorie fuorvianti. Da anni vedo una cultura dominante che non produce dibattito, ma solo pensiero convenzionale, fatto di quattro concetti, sempre i soliti, espressi con un vocabolario povero, di una ventina di parole. Mi annoia. La cultura deve essere libera e arricchire il confronto con idee diverse, anche in contrapposizione tra loro, senza pregiudizi. Così ognuno può farsi la sua, di idea. Poi il sistema culturale italiano più che a un big bang creativo fa pensare a un centro per l’impiego, dei soliti noti. Ma questo è un altro discorso».

Proprio a questo riguardo Pietrangelo Buttafuoco dice che il governo Meloni serve a rompere i recinti e a dare una «casa a chi casa finora non ne ha avuta una». Concorda?

«Buttafuoco ha ragione. In realtà una casa forse esiste, ma i recinti l’hanno sempre costretta oltre i bordi della periferia più estrema. Penso che in futuro anche gli abitanti di quella casa potranno esprimere la loro opinione non conformista e lo faranno con calma, senza la supponenza di chi li ha emarginati sino a oggi».

Le è piaciuta la partecipazione del presidente Sergio Mattarella all’ultimo Festival? E in generale ha apprezzato l’ultima edizione?

«Per la prima volta dopo 73 anni, il Presidente della Repubblica ha presenziato alla manifestazione più conosciuta e amata dagli italiani nel mondo. È stato giusto. Ha impreziosito un’edizione di grande successo, costruita con passione e cura da Amadeus. Sanremo è uno spettacolo di canzoni, ma anche una sceneggiatura in cinque puntate, quasi una fiction. Deve coinvolgere il pubblico per una settimana intera, anzi per un anno, e lo fa attraverso vari strumenti narrativi, sviluppando un’alternanza di stati emozionali diversi, a contrasto. Come dire, dalla provocazione dei primi giorni fino alla pacificazione, magari nell’ultima sera e nei giorni successivi. È un lavoro più complesso e raffinato di quello che può apparire».

Parlando di provocazioni non le pare che ultimamente si sia un po’ esagerato?

«Mah, esagerato… Alla fine Sanremo resta una festa in famiglia. Qualcuno che fa casino c’è sempre, ma famiglia si rimane».

Magari famiglia arcobaleno… Quest’anno sarà l’ultimo festival di Amadeus. Si sentirebbe di dare un suggerimento per gli anni a venire? Per esempio, affidarlo davvero a Mina, cosa ventilata in passato, ma mai presa sul serio?

«Lei è davvero convinto che Mina aspiri a quel ruolo?».

Da quel poco che so credo che se ci fosse un progetto che le lasciasse carta bianca ci penserebbe.

«Lo scopriremo solo vivendo».

Tra pochi giorni verranno presentati i nuovi palinsesti della Rai: si aspetta un cambio di passo rispetto ai precedenti?

«Vedo concentrazione e impegno da parte della nuova dirigenza. Sono professionisti di grande esperienza e livello, con una visione culturale ampia e sfaccettata. Diamo loro tempo e si faranno apprezzare».

È giusto a suo avviso che la Rai si prefigga di contribuire «alla promozione della natalità della genitorialità»?

«Molto giusto, sono valori importanti, per i cattolici fondamentali, che è importante salvaguardare, rappresentandoli alle nuove generazioni. Bisogna riflettere sulla vacuità dei social e sulla dilagante aggressività di modelli che vogliono imporsi, umiliando la tradizione. Tutto troppo frenetico. A volte sembra un mondo all’incontrario, porta a una sorta di dittatura delle minoranze. Penso che ci voglia più rispetto, da tutti per tutti».

È stato a lungo amministratore delegato della società Arena di Verona: che cosa si può fare per rendere economicamente autosufficienti i teatri italiani?

«Ci vuole pazienza, avvicinare il pubblico alla cultura con semplicità e spiegare serenamente agli operatori che per ricevere contributi pubblici bisogna meritarseli, dandosi da fare, mostrando dinamismo e intraprendenza, anche economica. Ci vuole capacità di attrarre gli investimenti di quei privati che amano l’arte. Per un ministero pubblico ci vuole responsabilità. La cultura non può essere un concetto astratto, buono per la propaganda, ma va collegata al concetto di impresa. Va considerata come industria culturale, un settore vivo che produca lavoro, stimoli interesse, affascini i giovani e cresca in autorevolezza».

C’è un progetto, un’idea, un’iniziativa che ha in serbo per i prossimi mesi e che vuole rivelare in anteprima?     

«Il mondo dello spettacolo aspetta dal 1967, oltre 55 anni, un codice nuovo, lo stiamo scrivendo con serietà, dialogando con i protagonisti del settore. Poi vorrei valorizzare una scoperta archeologica eccezionale fatta a Verona, una residenza alberghiera di epoca romana con caratteristiche uniche al mondo. Per convenzione e per darmi un tono la chiamo “piccola Pompei”. Ma se mi sente il ministro Gennaro Sangiuliano, si arrabbia. Pompei non si tocca».

 

La Verità, 1 luglio 2023

«Gesù? Un vero influencer, lo dice pure la statistica»

Di Roberto Volpi in Rete ci sono pochissimi cenni. Statistico, direttore di uffici pubblici e ideatore del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. Pisano di nascita, fiorentino d’adozione.

Come mai, professore?

«Innanzitutto, non sono professore perché non ho mai insegnato. Ma appena uno scrive un libro lo si fa subito professore».

Lei ne ha scritti diversi. Il penultimo era Gli ultimi italiani – Come si estingue un popolo e l’ultimo s’intitola In quel tempo – Da Gesù a Paolo attraverso i numeri del Nuovo testamento, entrambi da Solferino. Ma torniamo alla scarsità di notizie online su di lei.

«È così perché non sono sui social, non ho siti. Vedo amici molto assorbiti da questa attività, io mi sento più libero così. Sono un uomo di un altro tempo».

Quanti anni ha?

«Sono del 1946, un prodotto della Liberazione».

Tempo in cui si facevano figli con più slancio, nonostante si stesse peggio.

«Ma si aveva l’idea di costruire il futuro. Oggi si sono divaricati l’individualismo e la famiglia, che sono i due elementi di spinta della civiltà».

Perché la famiglia è poco sponsorizzata?

«Qualche decennio fa la coppia eterosessuale godeva di maggiore considerazione sociale. Oggi l’individualismo si è allargato e prevale la voglia di realizzarsi da sé e per sé».

Io lo chiamerei egoismo: ci sono sia le fiere della maternità surrogata sia la pillola anticoncezionale gratuita.

«L’individualismo è anche una molla di crescita della società. Ha generato novità. Non bisogna annichilirlo, ma agganciarlo alla famiglia».

Sta seguendo gli Stati generali della natalità?

«Poco. Detesto questa kermesse enfatica e sbagliata nella formulazione. Il ministro Francesco Lollobrigida ha fatto un intervento sbagliato».

Gli Stati generali, titolo di memoria rivoluzionaria, servono a portare la denatalità al centro della riflessione nazionale?

«Su questi temi bisogna allargare, non restringere la platea».

Ci è andato anche papa Francesco.

«E questo è un bene. Ma dobbiamo partire dal fatto che nell’ultimo mezzo secolo il mondo è cambiato e la famiglia non può restare invariata».

A restare invariata è la natura, il modo in cui si fanno i figli.

«Certo, è la coppia eterosessuale a far avanzare l’umanità e la civiltà. Altresì dobbiamo sapere che oggi un figlio su due nasce fuori dal matrimonio. E che l’età media della donna madre è minore di due anni rispetto a quella della donna moglie. Prima arriva il figlio, poi ci si sposa. È stato un errore allungare i tempi dell’individualismo liceizzando tutta l’istruzione superiore e svalutando la laurea che è fagocitata dalla magistrale. Il risultato è stato ritardare il tempo della responsabilità».

Lei ha scritto Gli ultimi italiani – Come si estingue un popolo: finalmente ce ne stiamo accorgendo?

«Sì e no, contemporaneamente. Sì, perché c’è nuova una coscienza del problema nel governo. È il primo che ne parla espressamente, e non solo perché ha creato un dicastero per la Famiglia e la natalità».

E perché no?

«Glielo dico con dei numeri. Al primo gennaio di quest’anno le donne italiane in età feconda, fra 15 e 49 anni, erano 11.750.000, pari al 38,9% del totale. Dal primo gennaio 2009, quando erano 13.867.000, a oggi sono diminuite di 2,1 milioni, dal 47 a meno del 39%. Nei prossimi dieci anni, tra le bambine e ragazzine che entreranno nell’età feconda e le donne che ne usciranno, ci sarà un saldo negativo di 1.653.000 unità. Al primo gennaio 2033 avremo con una popolazione di donne in età feconda di poco superiore ai 10 milioni, il 34%  del totale. Se si pensa che una buona natalità si ha con una percentuale vicina al 50% si capisce la situazione».

Soluzioni?

«Occorrono sia un’azione decisissima sulla natalità sia una gestione dei flussi migratori che la incrementino da subito. Con una gestione e un’integrazione oculate. Ripeto: il governo è cosciente, ma se le donne che possono fare figli sono quelle, le nascite continueranno a diminuire».

Come le è venuto in mente di applicare la statistica al Nuovo testamento? Perché è utile?

«Per provare a capire qual era lo scenario della vita pubblica di Gesù. Per questo occorreva servirsi di alcune stime».

Quali sono?

«Stime sull’estensione e sul numero di abitanti della Galilea dell’epoca. In base alle quali aveva un’area geografica di circa 1.300 chilometri quadrati, simile a una piccola provincia italiana, per circa 100-120.000 abitanti, circa 90 per chilometro quadrato».

Cambia qualcosa il fatto che lo scenario della vita pubblica di Gesù sia relativamente piccolo?

«Non cambia la qualità del messaggio dell’insegnamento di Gesù, ma le sue modalità».

Perché?

«A causa delle dimensioni contenute, Gesù parlava a folle che cambiavano poco. Molte delle persone a cui si rivolgeva tornavano ad ascoltarlo. Ma Gesù era un grande predicatore e, per non annoiare l’uditorio, variava la predicazione. Cioè inventava parabole sempre nuove per alimentare il fascino e la freschezza dell’insegnamento».

L’evangelista Marco parla di una «folla» che lo seguiva, circa 5.000 uomini si sfamarono grazie alla moltiplicazione dei pani e dei pesci.

«Marco è l’evangelista più concreto. Una volta parla di una folla di 5.000 e un’altra di 4.000, sempre in occasione dei miracoli dei pani e dei pesci. Si parla di uomini, senza contare donne e bambini, perciò, in realtà, presumibilmente si trattava di circa 7.000 persone. In quel tempo ci si spostava solo a piedi. La gente arrivava da un’area distante al massimo 10-12 chilometri percorribili in due o tre ore, alle quali bisogna sommare il tempo di ascolto e quello del ritorno. In totale fanno sei o sette ore. Perciò, la popolazione che poteva raggiungere Gesù in quell’arco di tempo era di circa 30-40.000 persone potenziali, alle quali vanno tolti i bambini più piccoli. Questo significa che circa una persona su 5 andava ad ascoltare, ripetutamente, Gesù».

Oggi lo si direbbe un influencer di successo?

«Un predicatore molto efficace che aveva capacità di radunare grandi folle».

Composte di follower, persone che lo seguono e tornano ad ascoltarlo?

«Dei fan. Nel libro azzardo un paragone, che non vorrei risultasse irrispettoso, con i cantanti che si esibiscono spesso nelle stesse piazze. Gesù aveva gente che lo seguiva quotidianamente».

I vangeli non si soffermano sugli spostamenti e sulla cronologia perché non sono dei diari?

«Gli evangelisti sono interessati a far conoscere la parola di Gesù. Nei loro testi non si trovano mai descrizioni dei luoghi, dei paesi, della gente. Lo scopo è far conoscere l’insegnamento di Gesù, il resto passa in secondo piano, questo spiega la mancanza di annotazioni cronologiche e geografiche».

Come predicatore Gesù registrò qualche insuccesso?

«I vangeli ci parlano della passione e della morte di Gesù che è l’insuccesso massimo. Avviene negli ultimi giorni, a Gerusalemme. Ma prima parlano poco delle difficoltà di Gesù perché il loro scopo è divulgare il suo fascino. Eppure si intuisce che questi momenti ci sono stati perché Gesù si incavola e manda i discepoli in missione a due a due, avvertendoli che, in caso di reazioni tiepide o indifferenti, devono scuotere la polvere dai calzari e andarsene. Dà istruzioni precise perché doveva esserci passato. Poi c’è un altro elemento significativo…».

Quale?

«Istruisce i discepoli a prendere solo una veste. E, non essendo Gesù un asceta come Giovanni il Battista che si vestiva con peli di cammello, questo comando si spiega con il fatto che le missioni degli apostoli durano al massimo un paio di giorni. Vanno e vengono, perché il territorio è piccolo».

Il ridimensionamento geografico e demografico e qualche insuccesso indeboliscono il metodo dell’incarnazione divina?

«Il libro parla della predicazione e della parola di Gesù, non dell’incarnazione. Cerco di collocarlo nel suo ambiente, parlo del Gesù terreno. Non a caso, nella sua geografia minima, i monti sono poco più che colli, il deserto sono piccoli territori senza villaggi e il Mare di Galilea in realtà è il Lago di Tiberiade».

Tra tutti i vangeli non analizza quello di Giovanni perché annuncia l’incarnazione?

«Domanda maliziosa. Insisto sul vangelo di Marco perché è il primo in ordine di tempo e perché era il segretario di Pietro. E sul vangelo di Luca perché è l’ultimo e lui era discepolo di Paolo, colui che universalizzerà il messaggio. Essendo il più mistico, il vangelo di Giovanni si presta meno a essere analizzato con la statistica».

A Gerusalemme, capitale dell’ebraismo, avviene il salto di qualità della missione di Gesù che diventa universale proprio quando viene messo a morte.

«Andando a Gerusalemme Gesù sa che vi troverà la morte. In Galilea predica a una popolazione rurale, la prima vera città che incontra è Gerusalemme, tre chilometri quadrati con 25.000 abitanti, classi sociali alte, ma anche molto basse».

Nei villaggi della Galilea lo accettano mentre nella città istruita e benestante lo rifiutano?

«Chi grida “crocifiggilo” a Pilato non è una folla di ceti elevati, ma il popolino. Gesù è estraneo alla città e la città è estranea a Gesù. Solo la sera dell’Ultima cena va dal tempio al Getsemani, viene portato nei palazzi del potere, percorre il sentiero verso il Golgota. Solo nella notte della passione il cristianesimo inizia a diventare una religione cittadina».

Cosa vuol dire?

«Che il salto del cristianesimo dalla dimensione rurale alla dimensione urbana avviene grazie a Paolo. Ma Gesù lo indica agli apostoli nel finale del vangelo di Luca: “Io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso: ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”».

Negli Atti degli apostoli la folla e il popolo diventano moltitudine e nelle lettere di Paolo l’universalità esistenziale del messaggio di Cristo diventa anche geografica. Perché descrive Paolo come «il braccio armato di Gesù» con una formula giornalistica?

«Perché se la merita. Paolo aveva coscienza di essere il braccio armato di Gesù da quando viene sbalzato da cavallo sulla via di Damasco. Da quel momento sa di dover essere lui a portare il cristianesimo nel mondo. Paolo è veramente cosmopolita. E si metterà in opposizione al cristianesimo rimasto a Gerusalemme per il quale, prima di diventare cristiani, si doveva passare dall’ebraismo attraverso la circoncisione che, per altro, assegnava un ruolo primario all’uomo. Invece per Paolo non c’è più bisogno della circoncisione. Il patto di sangue c’è stato con il sacrificio di Gesù sulla croce. E così rende il cristianesimo universale, parificando anche il ruolo della donna a quello dell’uomo».

 

La Verità, 13 maggio 2023