«Perché le mie ricerche disturbano la mia sinistra»
Marzio Barbagli è uno dei maggiori sociologi italiani, ma lui preferisce che lo si chiami «ricercatore di scienze sociali» perché questa espressione sottolinea il carattere scientifico della disciplina e l’importanza che intende dare ai dati. 84 anni, professore emerito dell’università di Bologna, nella sua attività di studioso si è occupato di immigrazione, criminalità, famiglia, tossicodipendenza, scuola, religione, sicurezza, morte, suicidi. Uomo di sinistra ed elettore del Pd, la relazione tra reati e immigrazione irregolare evidenziata dalle sue ricerche lo ha esposto alle critiche dei suoi ambienti di riferimento. Il suo prossimo libro in uscita il 5 maggio edito dal Mulino s’intitola Uomini senza – Storia degli eunuchi e del declino della violenza.
Da uomo della strada le chiedo: perché è rilevante occuparsi degli eunuchi oggi?
«Innanzitutto, perché la loro storia di tremila anni prova la tendenza alla diminuzione della violenza. Inoltre, non definendosi né uomini né donne, mettono in discussione la concezione binaria dei generi. Considerando il lunghissimo periodo, sono un fenomeno che travalica gli schieramenti di destra e sinistra e che ha generato riposte diverse nelle diverse civiltà. Oggi, in alcuni Paesi come Germania o Argentina, coloro che lo chiedono all’anagrafe non vengono registrati come maschio o femmine, ma come terzo genere».
Parliamo di un’ultra nicchia, se non capisco male.
«Mica tanto. Nel 1600 in Cina erano 100.000».
Rispetto alla popolazione cinese… Professore, come procede la sua battaglia in difesa del primato dei dati nudi e crudi?
«I dati non sono nudi e crudi, ma analizzati in anni di ricerche. Quelli che riguardano il rapporto tra immigrazione e criminalità sono complicati e non sempre immediatamente leggibili. Talvolta giungo a risultati che contraddicono le mie aspettative».
E i dati solidi sono testardi?
«Devono essere soprattutto affidabili, tanto più parlando di un settore particolarmente delicato. Un conto sono quelli che riguardano le nascite, le morti, gli alunni iscritti, un altro i dati relativi alla criminalità. Per esempio, solo una parte dei reati contro il patrimonio risultano nelle statistiche ufficiali».
La narrazione vince sulla realtà?
«Non sempre. Oltre il dibattito politico, ce n’è un altro che riguarda le riviste scientifiche e i ricercatori nei quali i dati fanno testo. Così, per esempio, a me succede di essere criticato dai partiti e da alcuni giornali della parte a cui appartengo e di suscitare interesse nella parte avversa. Ma io faccio il mio mestiere».
Tra i tanti temi dei quali si è occupato qual è quello in cui la distanza tra realtà e narrazione è più forte?
«Sono tanti. Prendiamo i suicidi, dei quali i giornali si occupano solo nel caso di persone celebri, come quello che sembra aver riguardato la giovane pallavolista Julia Ituma. Di solito i media non dicono che l’Italia è il Paese con il più basso tasso di suicidi in Europa, perché non ne hanno il tempo e ritengono che questa buona notizia non faccia notizia».
Nel suo saggio Immigrazione e sicurezza in Italia della fine degli anni Novanta, recentemente citato da Maurizio Belpietro, lei stabiliva una forte relazione tra immigrati e reati. È ancora così?
«Parliamo principalmente di spaccio e dei reati contro il patrimonio. Di questo tipo di reati, non le rapine alle banche o agli uffici postali che richiedono organizzazione, gli immigrati irregolari ne commettevano un numero maggiore in rapporto alla loro presenza in Italia. Nell’ultima versione del libro ho aggiunto un altro elemento: gran parte degli omicidi degli immigrati irregolari colpisce appartenenti alla loro stessa comunità. Fatte queste precisazioni, un numero dell’8% di irregolari presenti commetteva il 40% di questi reati. È una tendenza che non è più valida ancora oggi. Dal 2007 ad oggi il numero di omicidi degli immigrati irregolari è fortemente diminuito. Oggi l’Italia è il paese con il tasso più basso di omicidi dell’Unione europea».
Perché, come confessò a Stefano Lorenzetto, queste ricerche le causarono le critiche di alcuni esponenti della sinistra?
«Perché pensavano che non fossero vere o perché non avevano letto il libro che contrastava alcune credenze profonde, quasi come se gli immigrati irregolari fossero santi. Ma quel libro mostrava che il loro comportamento è variato nella storia. Per esempio, nel primo Novecento, negli Usa e nell’Europa settentrionale non commettevano questi reati».
Perché poi hanno iniziato a farlo?
«L’emigrazione nasce sempre dal confronto tra le condizioni del Paese d’arrivo con quelle del Paese da cui si parte. Fino al 1972 il forte sviluppo del mercato del lavoro in America e nell’Europa settentrionale ha alimentato una forte domanda di immigrati come operai nel settore industriale. Con la crisi petrolifera, invece, l’immigrazione è stata determinata soprattutto dalle cattive condizioni dei Paesi di partenza. Negli ultimi anni è ancora cambiata, alimentata di nuovo dalla domanda di lavoro. Ma i giornali e i politici non seguono queste variazioni, come se gli immigrati commettessero reati sempre o mai, mentre non è così».
Una scuola di pensiero ritiene che siano utili per pagare le nostre pensioni future.
«È la tesi sostenuta, in questa situazione di denatalità, dall’ ex presidente dell’Inps Tito Boeri. Inoltre, trattandosi in gran parte di persone giovani, gli immigrati riequilibrerebbero la composizione per età della popolazione lavorativa. Anche le organizzazioni industriali chiedono immigrati, ma per la manodopera attuale».
È una visione un po’ rosea, visto lo stato dell’arte?
«Anche il governo vuole favorire l’immigrazione regolare, creando dei flussi controllati. La discussione ora si è spostata sulla quantità di immigrati regolari di cui abbiamo bisogno per riequilibrare la popolazione lavorativa».
Cosa pensa dell’ultima polemica sulla riduzione della protezione speciale?
«Stiamo discutendo di numeri ridotti, circa 10.000 immigrati l’anno. La polemica avviene sulle vignette o su certe espressioni maldestre e questo fa parte del confronto politico. Purtroppo il problema reale è molto più grave del dibattito tra buoni e cattivi e finora, non solo noi, non siamo riusciti a risolverlo».
Il nodo è la diversa sensibilità tra gli schieramenti sul tema della sicurezza?
«Certo. Mentre la destra è sensibile al rischio di essere vittima di atti criminali, la sinistra è attenta alle problematiche della criminalità organizzata, ma lo è meno ai piccoli reati contro il patrimonio».
I suoi dati giustificano questa sensibilità?
«Per quanto riguarda gli omicidi, solo in parte. In Italia c’è una tendenza alla diminuzione ormai trentennale».
E i reati minori, quelli che citava prima?
«Dal 2019, a causa delle condizioni imposte dalla pandemia, rapine, furti negli appartamenti e borseggi registrano anch’essi un calo».
Un altro campo sottoposto alle interpretazioni è il calo della natalità: oggi il nostro indice di fecondità è di 1,25 per donna. Perché abbiamo questo primato?
«Lo abbiamo da tempo. È una tendenza che riguarda tutti i Paesi occidentali. L’eccezione più significativa è costituita dalla Francia che già nell’Ottocento favoriva la fecondità perché poche nascite significavano pochi soldati. Questo per dire che l’inversione della tendenza deve prevedere tempi lunghi, somme stratosferiche e grande continuità. I demografi ragionano sui decenni, i politici sul tg della sera. Apprezzo le intenzioni del ministro Giancarlo Giorgetti, pur rimanendo realista».
Si può parlare di questo argomento senza prendersi del fascista o del suprematista bianco?
«Questo appartiene al chiacchiericcio politico dal quale sono distante».
Anche se mi risulta che in passato sia stato criticato per averlo segnalato.
«Nel 1980 da consulente del comune di Bologna aiutavo un assessore sensibile all’argomento. Ma quando esposi le mie idee alcuni citrulli della sinistra, che ora negherebbero, dissero che erano argomenti di destra. Apprezzo le proposte del governo attuale in tema di detassazione e di servizi di sostegno al lavoro femminile. Ma dobbiamo sapere che si tratta di un impegno di cui non si vedono effetti immediati».
Nel nostro Paese l’omosessualità è in aumento?
«Non ci sono dati recenti che documentino la percezione delle persone che si dichiarano non eterosessuali. La ricerca più importante l’ho curata io e forniva un dato attorno al 3% della popolazione, analogo a quello di tutti i Paesi occidentali».
Sulla base di queste ricerche l’esposizione dei temi legati al mondo omosessuale è adeguata o in eccesso?
«C’è stato un grande cambiamento in Italia e oggi gli omosessuali sono molto più presenti nel dibattito. È uno dei grandi mutamenti avvenuti nei Paesi occidentali, un tempo erano fortemente discriminati. Ora hanno conquistato una serie di diritti, è cambiato l’atteggiamento della popolazione e dei media, in molti film vediamo personaggi omosessuali. Che si parli molto di loro è il segno della trasformazione in atto. Anche dal punto di vista dell’economia in alcuni settori c’è una domanda crescente. Chi vende determinati prodotti si rende conto che è una fetta di mercato che va tenuta presente».
Una fettina, stando ai suoi dati.
«Non possiamo fermarci al solito dibattito tra destra e sinistra su questi temi. Ci sono tendenze di lungo periodo».
E c’è il marketing. Se però in molti spot di automobili, telefonini, cioccolatini, vediamo omosessuali baciarsi, da uomo della strada mi vien da pensare che, più che ai dati, gli addetti al marketing si allineino a un’ideologia, o no?
«Lei mi fa divertire. Non credo seguano un’ideologia, più realisticamente penso che ignorino i dati reali».
Apprezzo l’assenza di malizia. Sociologi e analisti sono insoddisfatti della narrazione mediatica su alcuni temi, perché i virologi lo sono?
«Nemmeno loro sono soddisfatti. Hanno fatto polemiche terribili, si sono divisi. Qualcuno di loro è entrato in politica. È un tema complesso, con interpretazioni articolate».
Nel periodo acuto della pandemia i dati dei bollettini venivano riportati in modo corretto?
«I dati quotidiani riportati da tutti i media palesavano sicuramente alcuni difetti. Ciò di cui mi sono reso conto, ma era immodificabile, è che l’Istat è stata tagliata fuori dal processo di raccolta e diffusione dei dati che facevano capo a un gruppo di lavoro diverso, incardinato sul ministero della Salute. La situazione era più o meno quella, negativa, rappresentata. Però alcuni errori nella comunicazione dei dati sono stati fatti».
La Verità, 22 aprile 2023