«Gesù? Un vero influencer, lo dice pure la statistica»
Di Roberto Volpi in Rete ci sono pochissimi cenni. Statistico, direttore di uffici pubblici e ideatore del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. Pisano di nascita, fiorentino d’adozione.
Come mai, professore?
«Innanzitutto, non sono professore perché non ho mai insegnato. Ma appena uno scrive un libro lo si fa subito professore».
Lei ne ha scritti diversi. Il penultimo era Gli ultimi italiani – Come si estingue un popolo e l’ultimo s’intitola In quel tempo – Da Gesù a Paolo attraverso i numeri del Nuovo testamento, entrambi da Solferino. Ma torniamo alla scarsità di notizie online su di lei.
«È così perché non sono sui social, non ho siti. Vedo amici molto assorbiti da questa attività, io mi sento più libero così. Sono un uomo di un altro tempo».
Quanti anni ha?
«Sono del 1946, un prodotto della Liberazione».
Tempo in cui si facevano figli con più slancio, nonostante si stesse peggio.
«Ma si aveva l’idea di costruire il futuro. Oggi si sono divaricati l’individualismo e la famiglia, che sono i due elementi di spinta della civiltà».
Perché la famiglia è poco sponsorizzata?
«Qualche decennio fa la coppia eterosessuale godeva di maggiore considerazione sociale. Oggi l’individualismo si è allargato e prevale la voglia di realizzarsi da sé e per sé».
Io lo chiamerei egoismo: ci sono sia le fiere della maternità surrogata sia la pillola anticoncezionale gratuita.
«L’individualismo è anche una molla di crescita della società. Ha generato novità. Non bisogna annichilirlo, ma agganciarlo alla famiglia».
Sta seguendo gli Stati generali della natalità?
«Poco. Detesto questa kermesse enfatica e sbagliata nella formulazione. Il ministro Francesco Lollobrigida ha fatto un intervento sbagliato».
Gli Stati generali, titolo di memoria rivoluzionaria, servono a portare la denatalità al centro della riflessione nazionale?
«Su questi temi bisogna allargare, non restringere la platea».
Ci è andato anche papa Francesco.
«E questo è un bene. Ma dobbiamo partire dal fatto che nell’ultimo mezzo secolo il mondo è cambiato e la famiglia non può restare invariata».
A restare invariata è la natura, il modo in cui si fanno i figli.
«Certo, è la coppia eterosessuale a far avanzare l’umanità e la civiltà. Altresì dobbiamo sapere che oggi un figlio su due nasce fuori dal matrimonio. E che l’età media della donna madre è minore di due anni rispetto a quella della donna moglie. Prima arriva il figlio, poi ci si sposa. È stato un errore allungare i tempi dell’individualismo liceizzando tutta l’istruzione superiore e svalutando la laurea che è fagocitata dalla magistrale. Il risultato è stato ritardare il tempo della responsabilità».
Lei ha scritto Gli ultimi italiani – Come si estingue un popolo: finalmente ce ne stiamo accorgendo?
«Sì e no, contemporaneamente. Sì, perché c’è nuova una coscienza del problema nel governo. È il primo che ne parla espressamente, e non solo perché ha creato un dicastero per la Famiglia e la natalità».
E perché no?
«Glielo dico con dei numeri. Al primo gennaio di quest’anno le donne italiane in età feconda, fra 15 e 49 anni, erano 11.750.000, pari al 38,9% del totale. Dal primo gennaio 2009, quando erano 13.867.000, a oggi sono diminuite di 2,1 milioni, dal 47 a meno del 39%. Nei prossimi dieci anni, tra le bambine e ragazzine che entreranno nell’età feconda e le donne che ne usciranno, ci sarà un saldo negativo di 1.653.000 unità. Al primo gennaio 2033 avremo con una popolazione di donne in età feconda di poco superiore ai 10 milioni, il 34% del totale. Se si pensa che una buona natalità si ha con una percentuale vicina al 50% si capisce la situazione».
Soluzioni?
«Occorrono sia un’azione decisissima sulla natalità sia una gestione dei flussi migratori che la incrementino da subito. Con una gestione e un’integrazione oculate. Ripeto: il governo è cosciente, ma se le donne che possono fare figli sono quelle, le nascite continueranno a diminuire».
Come le è venuto in mente di applicare la statistica al Nuovo testamento? Perché è utile?
«Per provare a capire qual era lo scenario della vita pubblica di Gesù. Per questo occorreva servirsi di alcune stime».
Quali sono?
«Stime sull’estensione e sul numero di abitanti della Galilea dell’epoca. In base alle quali aveva un’area geografica di circa 1.300 chilometri quadrati, simile a una piccola provincia italiana, per circa 100-120.000 abitanti, circa 90 per chilometro quadrato».
Cambia qualcosa il fatto che lo scenario della vita pubblica di Gesù sia relativamente piccolo?
«Non cambia la qualità del messaggio dell’insegnamento di Gesù, ma le sue modalità».
Perché?
«A causa delle dimensioni contenute, Gesù parlava a folle che cambiavano poco. Molte delle persone a cui si rivolgeva tornavano ad ascoltarlo. Ma Gesù era un grande predicatore e, per non annoiare l’uditorio, variava la predicazione. Cioè inventava parabole sempre nuove per alimentare il fascino e la freschezza dell’insegnamento».
L’evangelista Marco parla di una «folla» che lo seguiva, circa 5.000 uomini si sfamarono grazie alla moltiplicazione dei pani e dei pesci.
«Marco è l’evangelista più concreto. Una volta parla di una folla di 5.000 e un’altra di 4.000, sempre in occasione dei miracoli dei pani e dei pesci. Si parla di uomini, senza contare donne e bambini, perciò, in realtà, presumibilmente si trattava di circa 7.000 persone. In quel tempo ci si spostava solo a piedi. La gente arrivava da un’area distante al massimo 10-12 chilometri percorribili in due o tre ore, alle quali bisogna sommare il tempo di ascolto e quello del ritorno. In totale fanno sei o sette ore. Perciò, la popolazione che poteva raggiungere Gesù in quell’arco di tempo era di circa 30-40.000 persone potenziali, alle quali vanno tolti i bambini più piccoli. Questo significa che circa una persona su 5 andava ad ascoltare, ripetutamente, Gesù».
Oggi lo si direbbe un influencer di successo?
«Un predicatore molto efficace che aveva capacità di radunare grandi folle».
Composte di follower, persone che lo seguono e tornano ad ascoltarlo?
«Dei fan. Nel libro azzardo un paragone, che non vorrei risultasse irrispettoso, con i cantanti che si esibiscono spesso nelle stesse piazze. Gesù aveva gente che lo seguiva quotidianamente».
I vangeli non si soffermano sugli spostamenti e sulla cronologia perché non sono dei diari?
«Gli evangelisti sono interessati a far conoscere la parola di Gesù. Nei loro testi non si trovano mai descrizioni dei luoghi, dei paesi, della gente. Lo scopo è far conoscere l’insegnamento di Gesù, il resto passa in secondo piano, questo spiega la mancanza di annotazioni cronologiche e geografiche».
Come predicatore Gesù registrò qualche insuccesso?
«I vangeli ci parlano della passione e della morte di Gesù che è l’insuccesso massimo. Avviene negli ultimi giorni, a Gerusalemme. Ma prima parlano poco delle difficoltà di Gesù perché il loro scopo è divulgare il suo fascino. Eppure si intuisce che questi momenti ci sono stati perché Gesù si incavola e manda i discepoli in missione a due a due, avvertendoli che, in caso di reazioni tiepide o indifferenti, devono scuotere la polvere dai calzari e andarsene. Dà istruzioni precise perché doveva esserci passato. Poi c’è un altro elemento significativo…».
Quale?
«Istruisce i discepoli a prendere solo una veste. E, non essendo Gesù un asceta come Giovanni il Battista che si vestiva con peli di cammello, questo comando si spiega con il fatto che le missioni degli apostoli durano al massimo un paio di giorni. Vanno e vengono, perché il territorio è piccolo».
Il ridimensionamento geografico e demografico e qualche insuccesso indeboliscono il metodo dell’incarnazione divina?
«Il libro parla della predicazione e della parola di Gesù, non dell’incarnazione. Cerco di collocarlo nel suo ambiente, parlo del Gesù terreno. Non a caso, nella sua geografia minima, i monti sono poco più che colli, il deserto sono piccoli territori senza villaggi e il Mare di Galilea in realtà è il Lago di Tiberiade».
Tra tutti i vangeli non analizza quello di Giovanni perché annuncia l’incarnazione?
«Domanda maliziosa. Insisto sul vangelo di Marco perché è il primo in ordine di tempo e perché era il segretario di Pietro. E sul vangelo di Luca perché è l’ultimo e lui era discepolo di Paolo, colui che universalizzerà il messaggio. Essendo il più mistico, il vangelo di Giovanni si presta meno a essere analizzato con la statistica».
A Gerusalemme, capitale dell’ebraismo, avviene il salto di qualità della missione di Gesù che diventa universale proprio quando viene messo a morte.
«Andando a Gerusalemme Gesù sa che vi troverà la morte. In Galilea predica a una popolazione rurale, la prima vera città che incontra è Gerusalemme, tre chilometri quadrati con 25.000 abitanti, classi sociali alte, ma anche molto basse».
Nei villaggi della Galilea lo accettano mentre nella città istruita e benestante lo rifiutano?
«Chi grida “crocifiggilo” a Pilato non è una folla di ceti elevati, ma il popolino. Gesù è estraneo alla città e la città è estranea a Gesù. Solo la sera dell’Ultima cena va dal tempio al Getsemani, viene portato nei palazzi del potere, percorre il sentiero verso il Golgota. Solo nella notte della passione il cristianesimo inizia a diventare una religione cittadina».
Cosa vuol dire?
«Che il salto del cristianesimo dalla dimensione rurale alla dimensione urbana avviene grazie a Paolo. Ma Gesù lo indica agli apostoli nel finale del vangelo di Luca: “Io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso: ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”».
Negli Atti degli apostoli la folla e il popolo diventano moltitudine e nelle lettere di Paolo l’universalità esistenziale del messaggio di Cristo diventa anche geografica. Perché descrive Paolo come «il braccio armato di Gesù» con una formula giornalistica?
«Perché se la merita. Paolo aveva coscienza di essere il braccio armato di Gesù da quando viene sbalzato da cavallo sulla via di Damasco. Da quel momento sa di dover essere lui a portare il cristianesimo nel mondo. Paolo è veramente cosmopolita. E si metterà in opposizione al cristianesimo rimasto a Gerusalemme per il quale, prima di diventare cristiani, si doveva passare dall’ebraismo attraverso la circoncisione che, per altro, assegnava un ruolo primario all’uomo. Invece per Paolo non c’è più bisogno della circoncisione. Il patto di sangue c’è stato con il sacrificio di Gesù sulla croce. E così rende il cristianesimo universale, parificando anche il ruolo della donna a quello dell’uomo».
La Verità, 13 maggio 2023