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Una storia d’amore nella quale ci ritroviamo tutti

Si legge d’un fiato senza perdere una parola perché parla di noi. Una grande storia d’amore di Susanna Tamaro (Solferino) è un romanzo schietto, solido, struggente. Che appiccica alla pagina con una scrittura scorrevole come un sorso d’acqua fresca. O come il sangue nelle nostre vene. Niente di più vitale. Eppure niente di più gratuito e, allo stesso tempo, di considerato ovvio, scontato, dovuto. Se per l’autrice questo libro è un ritorno alle origini di Va’ dove ti porta il cuore, al flusso del racconto che ha per protagoniste due persone che si mettono reciprocamente in gioco di fronte al destino, per il lettore è un ritorno a casa, alle domande fondamentali, il bisogno d’amore, la ricerca della felicità. Un posto dell’anima nel quale ci si riconosce, si ritrova la bussola delle cose che contano, lontano dalle mode, dalla fatuità, dalla superficie. Niente nuove ideologie, niente nuovi diritti, teorie gender o integralismi ambientalisti. Solo una storia d’amore tra un uomo e una donna: sembra poco, ma di questi tempi, a suo modo, è tanto.

Come in tutta la letteratura di Tamaro, anche qui il mistero da sondare sono le persone.

Edith – che significa «Colei che cerca la felicità» – e Andrea – «Fin da bambino sentivo l’esigenza di raggiungere il cuore vero delle cose» – si incontrano un giorno d’estate su un traghetto che da Venezia fa rotta sul Pireo. Lei, trasgressiva e sarcastica, è diretta in Grecia per festeggiare la maturità appena raggiunta. Lui, ligio e disciplinato, di dieci anni più vecchio, è il capitano della nave. Anche se il primo incontro è uno sfregare di spigoli – o forse proprio per questo – è destinato a lasciare nei pensieri di entrambi tracce che riaffioreranno nelle successive coincidenze. Ma in Una grande storia d’amore, nessuno di questi incontri, di questi «imbattimenti», è casuale. Pur nella palese differenza di temperamento e oltre l’attrazione reciproca, la ricerca di un di più, il non accontentarsi dell’effimero li porta a riconoscersi e a intrecciare i loro passi. Ora, molti anni dopo, mentre non sappiamo dove sia Edith e se ci sia ancora, troviamo Andrea nella grande casa su un’isola del Tirreno, «roccaforte di ricordi». Il suo racconto è un’altalena di prendersi e lasciarsi, di partire e tornare, da soli o accompagnati. Perché le inquietudini, il non appagamento, le perdite, i lutti, le resistenze all’amore, i malintesi e l’ambizione di farsi da sé portano strappi, fughe, sbagli. Come una figlia inattesa da una storia che prometteva e che invece era un bluff. O come la deriva nella quale annegare il dolore di un’assenza incolmabile.

Romanzo di pochissime persone come la maggior parte di quelli di Tamaro, appena i genitori e i figli dei due protagonisti, Una grande storia d’amore è ugualmente un libro di ampio respiro, che include la natura, le api di Edith, i cetacei di Andrea, la prospettiva del tempo. Una storia disseminata di perle sapienti, mimetizzate nel flusso di memoria di Andrea. A proposito del rapporto tra genitori e figli, paragonato a quello della metà del Novecento, quando la ribellione alla strada tracciata era una sfida seria e «si doveva essere davvero sicuri della nuova scelta per compiere un gesto di rottura», perché «i genitori avevano ancora il potere di ripudiarti per una decisione di vita non gradita». Oppure riguardo al dogma della natura che si autogestisce e che produce spontaneamente armonia. Bastava guardare il giardino incolto per accorgersi che «l’idea della saggezza autogenerante della terra poteva imporsi soltanto in un tempo in cui la maggior parte delle persone viveva in ambienti artificiali», non certo quando l’uomo doveva lottare per il cibo e la sopravvivenza. Son pagine in cui ricorre il verbo «domare», utile anche di fronte al disordine o agli istinti e alla rabbia distruttiva. Non c’è ideologia in tutto questo, ma quel buon senso che deriva dall’ascolto del cuore profondo, esercizio ben noto all’autrice. Come quando, a causa di una di quelle sviste nelle quali si può cadere per bisogno d’amore, Edith si trova con «un problema in più» nella pancia. E allora può bastare il suggerimento discreto di una madre – «di solito la vita porta con sé altra vita» – a evitare altri traumi e a credere nel futuro. Un romanzo che riflette sul senso del perdono, sulla possibilità di ricominciare dopo che si è subìto un torto, una slealtà, una ferita che ancora sanguina. Su come riabbracciare un figlio che se n’è andato, trafitto dal dolore. Un romanzo che contiene l’idea che la vita non è una passeggiata tra fiori e cristalli, ma una sfida continua, una provocazione quotidiana a chi siamo e a chi vogliamo essere. Senza alibi o pretese da scaricare all’esterno, sulla società, sui diritti da rivendicare, su ideologie vecchie e nuove. Un romanzo che dice semplicemente che è «difficile esistere quando non ci si rispecchia nello sguardo dell’altro». Perché, come scriveva il filosofo Romano Guardini, «nell’esperienza di un grande amore, tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».

 

La Verità, 6 ottobre 2020

«Il mercato dell’arte contemporanea è folle»

Le opere di Giovanni Frangi ti restano dentro. Ti fanno rimuginare a distanza di giorni. Fino al 17 giugno sono esposte a Villa Carlotta di Tremezzo, in faccia al lago di Como che le irrora e le cangia di luce e riflessi. Quadri, sculture, installazioni nello splendido parco. Frangi è un esploratore della natura. Della natura e del paesaggio che sono fuori di noi, ma che risuonano in noi. Noi stessi siamo natura. Foreste tropicali, cieli notturni, fiumi nel verde: che riverbero hanno, che emozione generano nell’essere? Sono opere che nascono dallo sguardo del cuore. Uno sguardo appreso da Giovanni Testori, che era suo zio. Anzi, è suo zio, visto che ne parla al presente. Diplomato all’Accademia di Brera, milanese di cinquantotto anni, artista contemporaneo completo, pittore, scultore, incisore, Frangi ha esposto nelle gallerie di tutto il mondo.

Com’è nata la collaborazione con Villa Carlotta?

«Con 220.000 visitatori l’anno, la Villa è una delle mete lombarde più frequentate da turisti e amanti dell’arte italiani e internazionali che vengono per ammirare opere di Antonio Canova, di Francesco Hayez e di altri autori dell’Ottocento. Da quest’anno l’Ente morale che la gestisce ha deciso d’inaugurare un rapporto nuovo con l’arte contemporanea e mi ha contattato».

Hanno scelto in base al fatto che le sue creazioni prendono vita nel rapporto con la natura?

«Credo di sì. Ho sempre cercato un ambito preciso nel quale lavorare, una forma precisa per rafforzare la mia identità. Sono partito dal paesaggio, le case, le aree industriali, le tangenziali. Negli anni la natura è diventata l’elemento nel quale mi trovo più a mio agio».

La ispira il luogo dove deve situare le opere oppure prima le crea e poi cerca gli spazi?

«I luoghi espositivi suggeriscono differenti modalità espressive. Qui ho tentato di costruire un rapporto tra il parco e le stanze della Villa. Ai margini della foresta delle felci che sembra una jungla giurassica ho adagiato due tronchi rossi, come fossero reperti. Oppure ho creato un serpente di stoffa colorata che abbraccia la douglasia, un gigantesco tronco disteso nel giardino. All’interno ho collocato i quadri su strutture autoportanti e mobili come quinte teatrali, in modo che i cambiamenti della luce nella giornata potessero modificarne la percezione».

Quanto è importante il colore nella sua arte?

«È un elemento fondamentale. Partendo da fotografie di posti che ho visto, realizzo una trasformazione cromatica della natura. Come nel ciclo chiamato Selvatico: una foresta tropicale reinterpretata con il rosso e il blu. L’immagine originale è reinventata con l’uso arbitrario del colore. Così, in qualche modo, nasce una nuova realtà. L’arte è creazione di qualcosa che prima non esisteva. Ciò che sorprende l’artista mentre lavora è proprio il risultato inaspettato. Questa imprevedibilità è un elemento quasi magico».

È ciò che si chiama ispirazione?

«L’ispirazione è anche frutto di una pratica artigianale. Un artigiano ha bisogno di ripetere più volte la stessa azione per essere sicuro di compiere quel gesto nel modo giusto. Per raggiungere questo stato di grazia occorre che il motore sia rodato».

Ha iniziato a dipingere da bambino: una vocazione innata?

«Ho iniziato presto a disegnare perché mi ero accorto che mi divertiva. Il piacere esecutivo è stato fondamentale. Quando qualche anno fa ho visto che Vincent Van Gogh corredava di disegni le lettere che spediva a suo fratello mi è tornato alla mente che da piccolo disegnavo con le matite Caran d’Ache e che per stendere il colore le bagnavo con la lingua. Provavo piacere vedendo che due colori funzionavano uno con l’altro».

Perché all’inizio dipingeva finestre, sedie, tavoli?

«Erano il tentativo di dare una mia rappresentazione del mondo in una chiave matissiana. Nel 1986 quei dipinti composero la prima personale a Milano curata da Achille Bonito Oliva. L’anno scorso alcuni di quei quadri sono stati riproposti a Palazzo Fabroni, per Pistoia capitale della cultura, insieme a lavori più recenti con i quali funzionavano bene».

Quest’anno sono 25 anni dalla morte di Testori. Per lei è stato un maestro, un testimone o un ispiratore?

«È una presenza fondamentale nella mia formazione. Con me e mio fratello Giuseppe ha sempre avuto un rapporto fraterno. È un uomo che ha portato la sua espressività al limite estremo. Questa drammaticità nei confronti dell’esistenza lo rende tuttora da scoprire, imprevedibile grazie alla sua complessità».

C’è un episodio, un fatto particolare, che la accompagna del suo rapporto con Testori?

«Nel 1988 ero presente alla prima di In exitu a Firenze, il dramma della morte di un drogato ambientato alla Stazione Centrale di Milano con Testori in scena a fianco del grande Franco Branciaroli. Dopo venti minuti il pubblico ha cominciato a gridare “basta, basta coi froci” e più di metà sala se ne stava andando mentre l’altra metà applaudiva… Io ero evidentemente tra questi, ma c’era un’atmosfera di grande stress. Pensavo che smettessero, invece alla fine mio zio era entusiasta. Lo scandalo lo esaltava e quella fu una serata mitica».

Nell’opera e nella lingua di Testori è centrale la carne. Lei hai scelto la via della materia. In che cosa l’ha influenzata dal punto di vista artistico?

«Nello sguardo sulle cose, nella capacità di sorprendersi. Nell’essere una persona sicura, ma anche, allo stesso tempo, una persona attratta da qualcosa che non è suo: questa è la dote della giovinezza. Aveva una grande saggezza, ma anche uno sguardo infantile. Il grande scultore francese Constantin Brâncusi diceva: “Quando non siamo più bambini siamo quasi morti”».

In che senso nelle sue immagini «entra qualcosa di infinito»?

«Urpflanze, il titolo di questa esposizione, è un termine usato nel Viaggio in Italia da Goethe per identificare la pianta originaria, quella da cui tutte discendono. È qualcosa che ci pervade, non una realtà esterna che guardiamo da spettatori. L’infinito entra nel particolare della natura. È lì che lo riconosco. Nei miei lavori cerco di rendere questa percezione. Che non è un’esperienza astratta, ma avviene attraverso un rapporto fisico, un contatto corporeo».

Come lavora un artista che dipinge, scolpisce, incide e usa materiali come la gomma piuma?

«La tecnica è fondamentale. Da qualche anno lavoro su tele con una base cromatica precisa. Cerco strade nuove, sperimentazioni nella scultura e nelle incisioni. Se rifai ciò che già conosci ti annoi. La bellezza di questo lavoro sta nella curiosità, nel mettersi alla prova, nel cercare l’inedito. Spesso sono i luoghi espositivi a suggerire prove diverse».

Cosa pensa della moda delle mostre? Sono diventate un fenomeno popolare, senza vera passione per l’arte?

«Il rischio della moda e del conformismo legata solo ad alcuni nomi è reale. L’abbiamo visto per la mostra di Caravaggio a Milano. C’era una coda continua, in pratica era impossibile entrare.  Ma è sbagliato pensare che l’arte sia per pochi».

Lo storico dell’arte Tomaso Montanari sostiene che ci sia un eccesso di offerta.

«Il pericolo delle mostre blockbuster esiste. È diventa una mania. La vastità dell’offerta penalizza la qualità. Tuttavia, non mi piace nemmeno lo snobismo di chi ritiene che l’arte sia un fatto di élite, che necessiti di una propedeutica. L’equilibrio tra pop e élite è difficile. Da artista faccio una selezione, non riesco a vedere tutto, anche se vorrei».

Quali sono le mostre che ha maggiormente apprezzato di recente?

«Mi è piaciuta Post Zang Tumb Tuuum allestita alla Fondazione Prada sull’arte del Ventennio. Andando controcorrente rispetto al pensiero anglosassone che ritiene la white cube, lo spazio bianco e neutro, il luogo migliore per fruire le opere, il curatore Germano Celant ha ricostruito le situazioni espositive in cui vennero proposte all’epoca. Così si sono potuti apprezzare Mario Sironi, Giorgio De Chirico, Umberto Boccioni uno accanto all’altro con il sapore di quando si sono visti per la prima volta. Anche la mostra di Damien Hirst dell’anno scorso è stata straordinaria. Hirst è un artista che si reinventa sempre e ha riportato a Venezia la narrazione nell’arte. In una mostra ci racconta una storia. Quando l’arte raggiunge questa capacità di comunicazione riesce a farsi comprendere anche dai bambini, oltre che dagli addetti ai lavori».

Le è mai capitato di raggiungere questo livello di comunicazione?

«Forse con Nobu at Elba a Villa Panza di Varese, dove ho realizzato un’installazione pittorica per una superficie di 40 metri in cui ricostruivo con l’ausilio di un’illuminazione variabile l’impressione di trovarsi di notte davanti a un fiume. Il messaggio era molto semplice. Ognuno di noi si emoziona all’arrivo della notte ai bordi di un fiume, ma non sempre si riesce a raggiungere quell’immediatezza».

Perché spesso l’arte contemporanea risulta incomprensibile? A volte sembra essere arte della provocazione?

«La provocazione è da sempre stata nel Dna dell’arte. Forse è la sua ragion d’essere. l codici devono essere sempre trasgrediti. La vera arte riguarda la sfera più profonda della nostra vita, le paure con cui dobbiamo confrontarci».

E che dire delle quotazioni esorbitanti? L’arte contemporanea è solo per miliardari?

«Penso solo che sia il sintomo di un meccanismo impazzito, un mercato completamente drogato con dei congegni perfetti. Ci sono artisti che non hanno quarant’anni che costano cifre assurde. Una speculazione, una gara senza senso che confonde i valori, gli equilibri della storia. Un’opera di Mario Sironi o di Filippo De Pisis costa 50 volte meno di un disegno di Marlene Dumas o di William Kentridge. Le sembra possibile?».

La Verità, 20 maggio 2018