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«L’emergenza perenne cancella ogni dissenso»

Una volta quelli come lui li chiamavano teste d’uovo. Basta leggere il suo La tirannia dell’emergenza (Liberilibri), condensato di filosofia, diritto, antropologia e scienze umane che illumina a giorno le cupezze contemporanee. Andrea Venanzoni è costituzionalista, consulente giuridico di importanti istituzioni pubbliche, ricercatore presso l’università Roma Tre, saggista, collaboratore di numerose testate giornalistiche tra le quali Il Foglio e Il Riformista.

Professore, perché ha scritto questo libro?

«Già qualche anno fa volevo occuparmi dei prefetti e dei sindaci che ricorrono spesso a ordinanze e atti speciali. Ma l’avvento della pandemia e dell’emergenza climatica sono diventati un movente ancora maggiore e ora la vera promozione di questo libro».

Le emergenze c’erano anche prima: con il Covid c’è stato un salto di qualità?

«Dal campo giuridico si è passati alla mobilitazione dell’intera società. Emblematico è che nel libro di Roberto Speranza frettolosamente ritirato, l’allora ministro della Sanità ringraziasse Mara Venier, Barbara D’Urso e le piattaforme social perché avevano contribuito a formare il “mantra di una nazione intera”. Una strategia che mi ha ricordato la Nazionalizzazione delle masse, dal titolo di un saggio di George L. Mosse, che analizzava i movimenti che portarono all’avvento del nazismo».

Poco rassicurante, siamo a questo?

«Prima con la pandemia e ora con l’isteria diffusa legata al cambiamento climatico siamo davanti a una pornografia della catastrofe che, oltre a non favorire un dibattito pubblico che avvicini una soluzione, finisce per terrorizzare la popolazione rendendola manovrabile. Per contro, abbatte anche la responsabilità dei diffidenti: se il mondo collasserà climaticamente nel 2025 come si legge, che possibilità c’è di porre rimedio all’apocalisse imminente?».

Facciamo un passo indietro e proviamo a definire l’emergenza?

«È la situazione di crisi che si afferma in un momento storico e cattura l’attenzione dell’opinione pubblica per la sua eccezionalità. Pur essendo difficilmente prevedibile o imprevedibile, richiede una risposta rapida».

Che può giustificare imposizione di regole e limitazione delle libertà individuali?

«Si tenta di prevenire il verificarsi dell’emergenza. Per questo si possono limitare in anticipo quei comportamenti che si ritengono rischiosi. Nel diritto ambientale si afferma per la prima volta il principio di precauzione, limitando azioni senza avere la certezza scientifica che provochino danni».

Per esempio?

«Quando si è verificato il disastro di Seveso tutte le attività industriali subirono restrizioni molto impattanti sull’attività d’impresa. Questa politica di limitazione ex ante è un grande freno all’innovazione. Poi ci sono le limitazioni quando l’evento si presenta, come avvenuto con la pandemia e le restrizioni di quasi tutte le libertà costituzionali, dalla libera circolazione fino al diritto all’istruzione gravemente limitato con la Dad».

Chi sarebbe il tiranno?

«Mentre la dittatura è legata al carisma di una persona, un magistrato nel diritto romano, nella tirannia prevale un sistema. Il burocrate è il vero trionfatore della tirannia dell’emergenza. Quando, nella fase acuta della pandemia sono cresciute certe forme di complottismo, il governo dell’emergenza è diventato sovranazionale: l’Oms diramava le direttive e gli Stati si adeguavano».

Il tiranno sono le élite o è più precisamente lo Stato?

«Lo Stato è un’organizzazione burocratica rappresentata da alti funzionari, governatori, ministri pro tempore… Un’emergenza può diventare laboratorio di ingegneria sociale. Sia durante la pandemia sia ora per il cambiamento climatico sentiamo ripetere che bisogna cambiare visione del mondo».

Il Grande reset?

«Evito questi termini che innescano l’accusa di complottismo. La risposta è più facile».

Cioè?

«L’emergenza è il paradiso del burocrate che finalmente può operare senza quelli che vede come intralci e che, in realtà, sono garanzie per il cittadino. I burocrati hanno codici espressivi analoghi in tutto il mondo. Sul loro treno, per scopi economici, possono salire parti di quelle che lei chiama élite».

L’emergenza senza intralci l’abbiamo vista all’epoca dei Dpcm e dei bollettini sanitari a reti unificate?

«Quei bollettini contribuivano a pacificare la coscienza collettiva della popolazione in quel momento tumulata dentro casa. Erano una sorta di liturgia, di mantra luttuoso quotidiano».

Che ha collettivizzato la morte?

«Lo Stato l’ha collettivizzato in un’accezione terrorizzante. Questa istituzionalizzazione della morte è diventata parte del dispositivo burocratico».

In che modo?

«Per esempio, con la burocratizzazione del lutto. Si è reso impossibile porgere l’ultimo saluto al morto per Covid, con conseguenze psicologiche serie in chi è ancora vivo».

Lei parla di «danza macabra»: siccome primum vivere, come dicono filosofi e giuristi, per scongiurare la morte si è pronti a sacrificare la libertà?

«Nel Medioevo la danza macabra era una raffigurazione artistica che moralizzava i costumi ricordando la fine. Oggi, nel cuore delle emergenze, la morte è ovunque. E ti viene detto che se non ti affidi alle cure dello Stato sei destinato a morire».

Si riferisce alla frase del premier Mario Draghi?

«In quella frase, “Non ti vaccini, ti ammali e muori”, è espunta ogni sfumatura intermedia».

La burocrazia promette guarigione e salvezza?

«Lo Stato e il burocrate si pongono in ultima istanza come la cura. Vien fatto credere che la salvezza, anzi, la salvazione in senso teologico, risieda tra le maglie del potere pubblico. Funziona come “hic sunt leones”, l’avvertimento delle vecchie mappe latine: oltre il confine ci sono pericolo e morte».

Questa tirannia è arrivata di colpo o è stata preparata?

«Il processo è risalente nel tempo. Le emergenze sono concatenate una con l’altra».

Quand’è iniziata la sequenza?

«Con il terrorismo politico degli anni Settanta. È proseguita con quello di matrice religiosa e jihadista degli anni Novanta e Duemila, poi con le prime emergenze sanitarie come l’Aviaria e con il cambiamento climatico che da anni procede con toni sempre più allarmistici. Sul piano amministrativo e burocratico queste emergenze si collegano le une con le altre».

Dalla pandemia all’emergenza climatica cambia il ruolo dell’uomo?

«Diventa lui stesso il virus in carne e ossa, la cellula infetta del mondo. L’ambientalismo estremo ha un sostrato concettuale malthusiano favorevole alla de-popolazione e vede nell’uomo un agente patogeno che danneggia l’ambiente. La mia impressione è che queste derive radicali stiano diventando maggioritarie. Un esempio concreto è la recente approvazione del regolamento europeo Nature restoration law, un oggettivo disastro per il mondo agricolo».

L’emergenza occupa l’intero orizzonte e omologa il linguaggio diventando intollerante al dissenso?

«L’emergenza è l’alibi per eliminare ogni possibilità di critica: dissenso equivale a tradimento. Da qui il ricorso a un linguaggio quasi bellico perché l’emergenza è come una guerra e in guerra si sta da una parte o dall’altra, non ci sono possibilità intermedie».

Però se non comandasse un’autorità superiore vincerebbero i terroristi, il virus e l’inquinamento globale.

«Concordo. Il problema non è l’emergenza in sé, che per sua natura è temporanea, ma la sua stabilizzazione. Per questo sottolineo che tendono a collegarsi tra loro. Il vero problema è l’assuefazione a vivere in perenne emergenza».

C’è anche un uso commerciale dell’emergenza sostenuta dai media e dai big dell’economica digitale?

«In alcuni casi i media hanno un interesse diretto. Alcuni editori e grandi marchi digitali operano nei settori delle energie rinnovabili o delle auto elettriche. Tendo a non ritenere casuale che certe testate utilizzino tutti i giorni termini come inferno e apocalisse. Inoltre, si fa anche da sponda al potere istituzionale».

L’emergenza aiuta la pedagogia dell’establishment verso le masse?

«Credo ci sia un insieme di fattori, non a caso si è molto parlato della creazione di una nuova normalità, un mondo pilotato dai migliori, demiurghi dell’epoca moderna».

Appartiene a questo contesto la difficoltà della sinistra a metabolizzare il nuovo scenario politico e le sue conseguenze?

«La sinistra ha un oggettivo problema quando non detiene direttamente il potere. Lo vediamo quando, pur sconfitta alle urne, cerca altri metodi per tornare al governo. Proprio per questo la destra deve guarire dal suo complesso di inferiorità e di ricerca di legittimazione».

Sul treno per Foggia l’élite che s’imbatte su un pezzo di mondo reale accusa il colpo?

«All’inizio mi ha fatto sorridere l’élite che intercetta il popolo come a un safari, di fronte a uno zoo umano. Poi, quando ho letto le repliche di alcuni intellettuali e del comitato di redazione di Repubblica con toni da collettivo maoista anni Settanta, mi è quasi venuto da empatizzare con Alain Elkann. Avrà anche vissuto fuori dal mondo, ma trovo più pericolosi quelli che rispolverano la lotta di classe. Il clima non è buono: oggi c’è chi per criticare Giorgia Meloni riesuma Toni Negri».

È giusto chiedersi come ha fatto Gian Paolo Serino su Dagospia come sia stato possibile che noi adulti abbiamo formato dei giovani «turisti della vita»?

«È giusto chiederselo pensando ai genitori che ricorrono al Tar quando i figli vengono bocciati o puniti perché autori di atti violenti. Una volta genitori e insegnanti erano presidi della formazione dei ragazzi. Di fronte alla disgregazione dell’autorità famigliare e scolastica e degli altri corpi intermedi rimane intatta solo quella dello Stato. Forse non è un caso».

Il termine negazionismo viene usato per equiparare il dissenso a proposito del clima e del Covid alla negazione dell’Olocausto o per gettare un anatema su chi dissente?

«È un’operazione oscena perché banalizza la tragedia dell’Olocausto. Accusando qualcuno di negazionismo lo uccido socialmente, rendendolo impresentabile, degradandolo alla stregua di nemico che non merita di essere riconosciuto come controparte».

Anche il Capo dello Stato Sergio Mattarella non gradisce la discussione su questi temi?

«L’intervento del Presidente della Repubblica, pur comprensibile in un’ottica di richiamo generale alla responsabilità, mi sembra abbia prestato il fianco al consolidamento di una narrazione a senso decisamente unico. Non a caso le sue parole sono state subito rilanciate da una precisa parte politica in ottica anti-governativa».

 

La Verità, 29 luglio 2023

«Follia parlare di negazionismo climatico»

Ruvido, cattivo, scapigliato, voce della Zanzara (con David Parenzo) su Radio 24 e volto dei talk show di Rete 4, Giuseppe Cruciani è il nemico pubblico degli ambientalisti apocalittici.

Cruciani, dove andrà in vacanza?

«In Trentino, come al solito. Precisamente a Madonna di Campiglio, uno dei miei eremi».

In mezzo agli orsi?

«Non ci penso. Capisco chi può avere disdetto e chi può avere delle perplessità. Io sto in posti non frequentati dagli orsi, faccio delle ferrate… Comunque, il freno al turismo è un motivo in più per abbattere gli orsi problematici».

Già l’espressione fa ridere.

«Vero. Orsi che possono mettere in pericolo la comunità. Li abbattono ovunque, da noi è un dramma di Stato».

Il turismo in Trentino ne risentirà?

«Spero di no. Per fortuna non c’è un pericolo costante. Sicuramente la campagna di protezione di questi mesi non aiuta».

Gli animalisti dicono che bisogna rispettare le loro abitudini: sono più importanti di quelle degli esseri umani?

«Per loro quelle degli uomini vengono dopo. Nel suo bellissimo Gli animali hanno diritti? Roger Scruton, un filosofo britannico morto di recente, scriveva che, siccome sono moralmente inferiori, proprio per questo vanno più protetti. Infatti, nelle società occidentali non c’è niente di più sofisticato e puntiglioso della normativa per la protezione degli animali. Ci sono tantissime leggi che li tutelano dalle sevizie e ci impegnano a coccolarli e accudirli in tutte le situazioni».

Gli animalisti si preoccupano anche delle abitudini delle nutrie e degli istrici che, scavando le tane, indeboliscono gli argini dei fiumi.

«Anche in quel caso ci vuole l’abbattimento selettivo e costante. Non capisco come si possa pensare di proteggere prima le nutrie e poi, eventualmente, il territorio. La controprova viene dai danni minori ai nostri fiumi e al nostro territorio se si adotta una sana politica di manutenzione degli argini. L’animalismo estremo produce solo danni».

Sul bellissimo litorale di Giovinazzo, in Puglia, la conversione di un ecomostro in un resort turistico è bloccata dalla Via (Valutazione impatto ambientale) preoccupata di tutelare la lenticchia di mare, una piccola pianta acquatica.

«Siamo alla follia. Spero che la vera motivazione del divieto non sia questa. La sopravvivenza della lenticchia di mare anteposta allo sviluppo economico… La penso al contrario: se per migliorare il territorio e creare lavoro serve cementificare, si cementifica. Il cemento non è sempre, automaticamente, male. La lenticchia di mare è la panna sopra le ciliegie dell’ambientalismo sfrenato. Non può essere così…».

E come può essere?

«Non lo so, magari con questa battaglia si creano dei bacini elettorali. La protezione dell’ambiente e una formula così generica che ci si può mettere dentro tutto. Ma è un grande ricatto: ma come, non vuoi proteggere l’ambiente? Elly Schlein ne parla di continuo, ma è un gigantesco alibi che produce divieti e immobilismo».

Sembra che non valga per il Ponte sullo stretto di Messina: è contento che si farà? Lei ci scrisse un libro 15 anni fa…

«Me lo sono quasi dimenticato. Non sono sicuro che si farà davvero, temo che per l’ennesima volta possa naufragare. Fare i ponti dovrebbe essere un fatto normale, invece in Italia è una battaglia ideologica».

Anche lì ci sono le Ong preoccupate per le sorti degli uccelli…

«La salute degli uccelli, la paura dei terremoti…».

Si dice che i problemi della Sicilia sono altri, che servono altre infrastrutture.

«Certo, le ferrovie. Ma non è che se non fai una cosa non devi fare l’altra. Perciò, finché non vedo, non dico la prima pietra, ma il taglio del nastro, non ci credo».

Che cosa pensa degli attivisti di Ultima generazione?

«Questi ragazzi, che io chiamo di Ultima degenerazione, imbrattando i monumenti o bloccando il traffico pensano di conquistare visibilità e andare nei talk show, credendoli utili per sensibilizzare mentre, in realtà, sono un tritacarne, una rappresentazione teatrale. Lo faccia dire a uno che li conosce».

Però, loro battaglie…

«Li trovo un po’ millenaristi e un po’ luddisti. E quindi un po’ contraddittori, perché poi si servono della tecnologia, cellulari, social e tutto il resto. Sono attaccati al mito della natura sacra e intoccabile, ciò che per loro l’uomo non è. Nessuno nega che gli idrocarburi inquinino, ma in questo momento, e non si sa per quanto ancora, non c’è alternativa. Poi li trovo fondamentalisti, incapaci di ammettere posizioni differenti, come quelle espresse da studiosi come Franco Prodi o Franco Battaglia».

Sono collegati ad A22 Network, finanziata dal Climate emergency fund.

«Può darsi che qualche soldo arrivi da questi fondi. Ma a me sembrano più degli scappati di casa, ragazzotti che fanno le loro molto discutibili proteste in modo autonomo. Se il Climate emergency fund si servisse di loro avrebbe scelto il cavallo sbagliato».

Se le capitasse di trovarli seduti sulla tangenziale che deve percorrere con la sua auto full electric…

«Ho un’auto diesel e non mi devono rompere le scatole».

… per raggiungere la sua meta, come si comporterebbe?

«Scenderei dalla macchina e direi che devo andare a lavorare: “Non mi cagare il c… alzati e smettila di fare il buffone per strada”».

Non si accorgono che è un errore attaccare l’Europa e sorvolare sui sistemi industriali di Cina e India?

«Quando si fa presente che sarebbe più giusto incatenarsi davanti all’ambasciata cinese o indiana, rispondono che quei Paesi inquinano perché producono merce per l’Occidente. La causa di tutti i mali siamo sempre noi che alimentiamo l’industria degli idrocarburi e siamo i consumatori più smodati del pianeta. Magari è vero…».

La soluzione è la decrescita?

«Qualcuno lo pensa. Di sicuro non si può imporla a tutti. Anche questi ragazzi non credo conducano vita monacale e lavino la biancheria nell’acqua del fosso. Anche loro sono immersi nella società occidentale che non sopportano. E intanto gridano alla fine del mondo vicina».

Le star di Hollywood e molti attori e intellettuali nostrani sono dalla loro parte.

«Ma questo è normale perché non c’è causa più nobile e indolore che volere un mondo meno inquinato. Questo lo vogliono tutti, è ovvio, come la pace nel mondo. I problemi nascono quando si devono individuare gli strumenti per raggiungere l’obiettivo. Perché, ricordiamolo, la vita in sé è inquinante».

L’ecologia è diventata una religione?

«Certe intransigenze lo fanno pensare. Ci sono intellettuali e testate giornalistiche che vogliono introdurre il reato di negazionismo climatico, come il negazionismo dell’Olocausto. Ci rendiamo conto?».

Questo è l’ambientalismo movimentista e dilettantista, poi c’è quello istituzionale e dirigista dell’Unione europea. Che cosa pensa della svolta green di Bruxelles?

«È una convergenza di interessi delle lobby dell’industria green che, con la scusa dell’emergenza, vogliono farci cambiare stili di vita e farci spendere di più. Nel modo che vogliono loro».

Dalle auto elettriche che dovremo acquistare nei prossimi anni all’efficientamento delle abitazioni, l’agenda green è fitta di nuovi adempimenti.

«Una serie di disagi e di costi. E i vantaggi quali sarebbero? Le nostre responsabilità per il peggioramento dello stato del pianeta sono inferiori a quelle che la narrazione apocalittica ci attribuisce, perciò mi sembra che qualsiasi sforzo virtuoso non sarebbe compensato da una miglior qualità della vita. Né nostra né di chi verrà dopo di noi».

E cosa pensa del cibo del futuro fatto di insetti e farine di grillo?

«Su questo sono libertario. Ognuno mangi quello che preferisce, l’importante è che non ci siano imposizioni e divieti. Da italiano, non penso che il nostro cibo debba temere la concorrenza di grilli e cavallette».

Con la possibile estensione del green pass all’emergenza climatica voluta dall’Ue potrebbero essere perseguiti i cosiddetti negazionisti ambientali?

«Non credo che il green passa verrà esteso all’ambiente. In ogni caso, non mi stupirei se i cosiddetti negazionisti verranno trattati come coloro che non si volevano vaccinare».

 

Il Timone, luglio-agosto 2023

«Macché record, troppi catastrofismi senza senso»

Il meteo con le stellette. Con l’autorevolezza delle previsioni dell’Aeronautica militare. Niente eccessi, niente svolazzi, niente citazioni di fantasia. Quando il tenente colonnello Guido Guidi spunta sui canali della Rai per dirci che tempo ha fatto e che tempo farà ci si può fidare. La meteorologia è materia complessa, perciò conviene seguire formule e registrazioni verificate per rendere comprensibili le tante variabili in campo. Fin da ragazzo, Guidi ha desiderato fare il meteorologo, ha partecipato a una spedizione in Antartide, collabora con il sito Climatemonitor.it. Questa intervista è stata autorizzata dallo Stato maggiore dell’Aeronautica militare.

Tenente colonnello Guidi, siamo nell’estate più calda della storia dell’umanità come si legge da più parti?

«La risposta è no. Se prendiamo in considerazione l’andamento delle temperature nei secoli in una zona piccola come la nostra è oggettivamente impossibile dire una cosa del genere».

Però ogni settimana c’è un nuovo record di caldo e si leggono bollettini di morte dovuti all’aumento delle temperature.

«Record è un vocabolo che deriva da registrare. Nel nostro caso, la registrazione riguarda le temperature in un luogo preciso realizzate con tecniche parametrabili nel tempo. Se modifiche ci sono state, anche nella morfologia del territorio, devono essere documentate e tenute presente per rendere solide e affidabili le serie storiche di cui ci serviamo. Fatta questa premessa, negli ultimi decenni si registra un aumento della temperatura media della superficie del pianeta. Ma i record veri sono rari e infrequenti».

Nel mese di giugno ci lamentavamo per le troppe piogge e il troppo fresco.

«Questo ci fa comprendere quanto sia complesso il sistema climatico. Nell’Europa del Sud i mesi di maggio e giugno sono stati piovosi e relativamente più freschi degli ultimi anni, ma mediamente più caldi rispetto agli ultimi decenni. A inizio luglio siamo entrati in una fase calda importante. Questa evoluzione descrive una stagione molto diversa dall’estate 2022, in cui si è registrata una persistenza delle onde di calore da maggio a settembre».

Che cosa vuol dire?

«Che nessun anno è uguale all’altro e che ogni stagione registra fasi più fresche e più calde che ne diversificano il clima. Invece il trend di lungo periodo si misura in un arco di almeno trent’anni. Un aumento di temperature non impedisce trend di raffreddamento e un aumento di piovosità o umidità non impedisce fasi calde».

Che studi ha fatto per diventare meteorologo?

«Sono entrato in Aeronautica a vent’anni e ho acquisito le competenze in meteorologia all’interno delle Forze armate».

Perché le evoluzioni del tempo sono diventate la sua professione?

«Sono un componente dell’Aeronautica di terza generazione. Sia mio padre che mio nonno facevano parte della Forza armata. Ho sempre avuto la passione per la meteorologia, già a 13 anni ho partecipato a un corso promosso dall’Aeronautica. Mi sono arruolato con lo scopo di esercitare la professione di meteorologo».

È cresciuto alla scuola di qualche maestro?

«Dovrei fare tanti nomi, non uno solo».

Se le dico Edmondo Bernacca e Mario Giuliacci?

«Bernacca esercitava prima che mi arruolassi, Giuliacci lasciò l’Aeronautica che io ero ancora acerbo».

Immaginava che il tempo potesse diventare terreno di scontro politico e culturale?

«Oggettivamente no. La società nella quale viviamo è sempre stata condizionata dall’evoluzione del tempo, pensiamo agli effetti sull’agricoltura e i raccolti. Oggi ce ne accorgiamo di più perché ogni aspetto della vita ne è pervaso. Un giorno di maltempo in una grande città modifica il traffico. Una stagione positiva o negativa ha impatto sul turismo. Lo sviluppo delle energie rinnovabili condiziona i mercati».

«Bolla di fuoco sul Mediterraneo», «Anticiclone Caronte», «Caldo record, pianeta in ginocchio»: c’è troppo allarmismo nell’informazione sul clima?

«Ci sono iperboli spesso prive di significato. L’evoluzione climatica è raccontata con un’accezione tutta mediatica e per certi aspetti speculativa».

Cosa vuol dire?

«Accentuare i toni è mediaticamente pagante. Ma sono toni che noi come Aeronautica militare disconosciamo. Ci sono i termini per definire le cose ed è sufficiente usare quelli».

Per esempio?

«Adesso stiamo attraversando una fase che si definisce onda di calore. Secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale c’è un’onda di calore quando si registrano temperature massime oltre 35° per più di sei giorni. Non c’è un altro modo di definirla. È così per tutti i servizi meteorologici del mondo. Non c’è nessuna ragione per usare altre terminologie».

Però c’è il mestiere dei giornalisti.

«Nulla in contrario. Ma se lei lo chiede a me, a un altro membro dell’Aeronautica o a un altro meteorologo di professione, per definire questi eventi tutti useremo l’espressione onda di calore e non altri termini. Meno che mai biblici o mutuati dalla letteratura».

Concorda con chi dice che siamo di fronte a forme di meteo-terrorismo?

«Sono forme d’imprecisione ingiustificata. Ci sono le parole per definire questi fenomeni. Le ragioni per cui si vogliono usarne altre non le conosco. Esiste un programma che coinvolge tutti i servizi meteorologici europei che si chiama “Storm naming”, denominazione delle tempeste. In base a questo programma, secondo regole precise, quando ci sono previsioni di eventi molto intensi come le tempeste, assegniamo un nome proprio e quel nome viene utilizzato in tutte le comunicazioni concernenti quell’evento. In questo programma non è previsto che si assegnino nomi alle onde di calore».

Perché?

«Non sono ritenute eventi con requisiti per una denominazione specifica. Basta definirli appunto onde di calore».

E Caronte e Lucifero?

«Sono termini che non provengono da fonti d’informazione istituzionali come l’Aeronautica o la Protezione civile».

Qualche giorno fa un quotidiano ha titolato: «Afa, allarme globale: nel sud Europa il clima del Sahara». È possibile?

«Non concordo. Nel Mediterraneo le onde di calore stanno aumentando come frequenza e durata. Ma il Sahara è il Sahara e il Mediterraneo è il Mediterraneo. Sicuramente non ci siamo ancora scambiati il clima».

Nell’autunno scorso un importante articolo del New York Times, da lei ripreso sul sito Climatemonitor.it, aveva smontato le tesi catastrofiste, poi cos’è successo?

«Si va nella direzione di quello che stiamo dicendo. Ovvero: è giusto prestare attenzione a questa evoluzione, senza esacerbare l’informazione con approcci millenaristici o catastrofisti controproducenti».

Riguardo a cosa?

«La spettacolarizzazione mediatica relativa a eventi tutti uguali che si ripetono rischia di annullare o relativizzare l’informazione stessa. Tutte catastrofi, nessuna catastrofe. Invece, il riscaldamento globale va affrontato con molta serietà».

La causa principale è l’uomo?

«Questo è quanto risulta allo stato dell’arte della ricerca scientifica che, però, è sempre in divenire. La maggior parte degli studiosi attribuisce del tutto o quasi del tutto il riscaldamento globale a cause antropiche. Ma questo dato può consolidarsi o ridimensionarsi nel tempo perché così funziona la scienza».

Come incide nell’aumento delle temperature il ritorno del Niño?

«Anche questo fenomeno evidenzia la complessità del sistema. L’aumento ciclico delle temperature dell’Oceano Pacifico intertropicale riguarda un’area molto vasta del globo che produce un passaggio di calore tra le acque, l’atmosfera e la superficie del pianeta. È un aumento delle temperature compensato dal fenomeno opposto della Niña, che ciclicamente produce una fase di mitigazione».

I geologi che hanno una prospettiva plurisecolare dicono che i cicli del clima si sviluppano in un arco di 400 anni.

«La geologia ha una prospettiva storica diversa dalla meteorologia e dalla climatologia. Non conosco questa ciclicità di quattro secoli. La storia del pianeta ha cicli anche millenari che possono coesistere per esempio con quelli del Niño che, invece, ha periodicità di qualche anno».

Secondo questi rilevamenti il Medioevo è stato molto caldo, poi si è verificato un calo delle temperature fino al 1680 quando hanno ripreso a innalzarsi, ben prima della Rivoluzione industriale e delle emissioni di Co2.

«Senza confermare né smentire queste ciclicità, nulla esclude che a un certo punto si sia aggiunto un contributo importante di natura antropica. Le diverse cause possono sommarsi».

Si potrebbe pensare che i meteorologi, che hanno una prospettiva più breve, siano più allarmisti. Invece lei, Mario Giuliacci e Paolo Sottocorona siete più pragmatici di quanto sia la narrazione prevalente?

«I meteorologi hanno un approccio pragmatico perché vedono quotidianamente la complessità del sistema previsionale. Questo ci rende più prudenti nel descrivere i fenomeni reali».

Nei tg rimbalzano continuamente espressioni come riscaldamento globale, emergenza climatica…

«In questo caso non ci troviamo nella meteorologia, ma nella sociologia. Come si diceva, quando tutto viene dipinto come anormale più nulla lo è. L’onda di calore di questi giorni è stata un fenomeno importante, ma non inedito. Un evento che andava comunicato con toni oggettivi, non con i toni dell’apocalisse, sul ricorso ai quali non mi pronuncio».

Cosa pensa del fatto che qualche politico, in base al dibattito di questi giorni, vuole proporre il reato di negazionismo climatico?

«I reati fanno riferimento a valutazioni oggettive, la scienza procede per confutazioni e verifiche. Quindi non mi sembra un ambito nel quale si possano introdurre elementi di natura penale».

L’Organizzazione metereologica mondiale è un ente affidabile?

«Assolutamente sì. È un ente emanazione delle Nazioni unite. Vi partecipano tutti i servizi meteorologici dei Paesi membri. Il capo del Servizio meteorologico dell’Aeronautica militare è rappresentante permanente nell’Omm, la collaborazione è totale».

Perché il presidente dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), anch’essa emanazione delle Nazioni unite, è un economista, il sudcoreano Hoesung Lee?

«Perché i temi climatici non riguardano solo la scienza del clima, ma anche quello dello sviluppo, i temi energetici ed economici. Quindi, ci sta che a presiedere un ente così non sia necessariamente un climatologo».

Personalmente, come si difende dall’onda di calore?

«Fa caldo, ma è luglio: se posso vado al mare. Non ho adottato contromisure di particolare significato meteorologico».

 

La Verità, 22 luglio 2023

«Non siamo più cittadini, ma solo degli ammalati»

Buongiorno Aldo Maria Valli, lei porta la mascherina?
Glielo chiedo per fugare eventuali dubbi su una sua sottovalutazione del pericolo determinato dal Covid-19.

«Sì, la indosso, secondo le norme stabilite. Non credo nella sua efficacia – un epidemiologo mi ha spiegato che è come pretendere di bloccare i moscerini con una staccionata – ma non ho nessuna intenzione di farmi multare. Già lo Stato mi tartassa con il fisco. La vera resistenza la faccio scrivendo».

L’ultima cosa che Valli ha scritto è Virus e Leviatano, un agile e lucidissimo saggio per l’editrice Liberilibri, nel quale offre una visione molto controcorrente del tempo della pandemia e soprattutto della sua gestione da parte della politica, dei media e anche della Chiesa. In questa intervista, l’ex vaticanista del Tg1 nonché autore del seguitissimo blog Duc in altum, si esprime anche sulle parole di papa Francesco a proposito delle coppie gay e il loro diritto di «essere in una famiglia».

Il primo capitolo del suo libro s’intitola «Un dispotismo statalista, condiviso e terapeutico». Come può un dispotismo essere condiviso?

«Non è la prima volta che una collettività si fa irretire. Étienne de La Boétie, nel suo Discorso sulla servitù volontaria, dice che sono i popoli stessi che si lasciano incatenare. “È il popolo che si fa servo, che si taglia la gola da solo”. Perché? Per paura, ignoranza, passività, vigliaccheria. Per scarso amore della libertà».

Per dispotismo terapeutico intende che il rapporto tra politico e cittadino somiglia a quello tra medico e paziente?

«Non siamo più cittadini, ma malati. Il politico ha assunto il ruolo del medico. La nazione è diventata un ospedale. Il rapporto medico-paziente è ben diverso da quello politico-cittadino: è asimmetrico. Ciò che il medico stabilisce, per il tuo bene, non lo metti in discussione. Ti assoggetti e lo ringrazi pure».

I cittadini diventano docili e pronti a rinunciare a quote di libertà sull’altare della salute?

«Nel mio saggio scrivo Salute con la maiuscola, perché questo è diventato il valore assoluto, a cui sacrificare tutto, compresi i diritti di libertà. Pretesa assurda e pericolosa. La salute è sì un bene primario, ma se viene trasformato in assoluto può essere usato, come di fatto sta avvenendo, in modo strumentale».

Come spiega il fatto che i famosi Dpcm contengano esortazioni a comportamenti virtuosi, a rispettare regole di convivenza, a restare in casa?

«Proprio con il dispotismo terapeutico, con questo paternalismo che tratta i cittadini come sudditi sciocchi, come bambini incapaci di gestirsi, per cui si arriva al punto di mettere il naso nelle abitazioni private, di voler regolare minuziosamente ogni comportamento. Precedenti pericolosissimi».

Che ruolo ha l’informazione nella creazione di questo scenario?

«Decisivo. Il dispotismo terapeutico per essere condiviso ha bisogno dei mass media, di una narrativa appropriata. Ha bisogno del terrore, e il terrore va diffuso mediante l’informazione».

Cosa indica che proprio ora sia nata la prima task force contro le fake news?

«Un provvedimento del tutto illiberale. Non può essere il governo a stabilire che cosa è vero e che cosa è menzogna, a priori. Di nuovo i cittadini sono trattati come bambini incapaci di giudicare. In una democrazia liberale il cittadino si forma le opinioni attraverso il libero confronto».

Sbagliano coloro che, rilevando i successi contro il Covid di Cina e Vietnam, hanno sottolineato i vantaggi delle dittature nei momenti di crisi?

«Mi sembra difficile parlare di successo nel caso della Cina, visto che il virus è stato un suo gentile omaggio. Nel caso del Vietnam c’è da dire che il paese, visti gli stretti legami con la Cina, ha giocato d’anticipo rispetto al resto del mondo, con provvedimenti ad hoc e stretti controlli sui cinesi, specie se in arrivo da Wuhan. Ma se diciamo che le dittature sono meglio delle democrazie nei momenti di crisi facciamo proprio il gioco di chi ci vuole incatenare».

Anche l’Oms avvalora la tesi che la Cina è il paese che ha risposto meglio all’epidemia.

«E lo credo! Il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, è amicissimo del regime cinese. È etiope, e la Cina sta facendo investimenti notevolissimi in Etiopia. Tra i grandi elettori di Ghebreyesus all’Oms la Cina ha svolto un ruolo decisivo».

Per la Chiesa cattolica la pandemia è stata un’occasione mancata?

«Purtroppo, sì. Non ha parlato di santificazione, ma solo di sanificazione. Si è lasciata contagiare dal terrore. Non ha detto nulla circa i grandi temi della morte e del peccato. Si è piegata ai diktat governativi. Non ha rivendicato la propria autonomia. Si è mostrata più realista del re. È diventata Chiesa di Stato. Va bene il senso di responsabilità, ma non ti puoi annullare. La liturgia ha assunto connotati grotteschi. Siamo diventati adoratori dell’amuchina. Abbiamo trattato Gesù come un untore».

Come spiega il fatto che, salvo rare eccezioni, abbia accettato in modo acquiescente il lockdown religioso imposto dalle autorità civili?

«Connivenza, paura, accettazione passiva, arrendevolezza. C’è di tutto. Ma sopra a tutto c’è una spaventosa mancanza di fede».

Condivide il giudizio di monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, che ha ravvisato il pericolo del diffondersi di «una visione paranoica della realtà»?

«Certamente. Siamo già paranoici. Parliamo dei positivi come se fossero malati. Siamo tutti terrorizzati. Non solo di beccarci il virus, ma anche di non saper rispettare le norme. Non esaminiamo i fatti, ma ci lasciamo prendere da mille suggestioni. La crisi della ragione procede parallelamente a quella della fede».

In questi giorni il mondo cattolico è agitato dalle parole di papa Francesco sul diritto delle coppie gay a «essere in una famiglia». Che idea si è fatto di queste dichiarazioni?

«Francesco è circondato da una potente lobby gay che ha lavorato per arrivare a questo risultato. Ma si tratta di dichiarazioni private di Bergoglio: il cattolico non è tenuto per nulla a farle proprie».

Ora sta emergendo la manipolazione cui sono state sottoposte le parole del Papa, fatto che si ripete. Ma sembra che Francesco accetti il rischio.

«Non solo lo accetta, ma lo favorisce. È un’operazione decisa a tavolino. Bergoglio provoca la parte sana della Chiesa così che qualcuno, vescovo o cardinale, lo accusi di apostasia. A quel punto lui avrebbe gioco facile, con l’appoggio della grande stampa amica, nel puntare il dito contro i “nemici della Chiesa” e gridare al complotto contro il povero Papa buono e tanto amato dal popolo».

Questi travisamenti ricorrenti riguardano una tecnica di comunicazione o la concezione stessa del ruolo della Chiesa nel mondo?

«Entrambe le cose. L’obiettivo è una religione mondialista sostenuta da una nuova Chiesa schierata con il mondo. La narrativa appropriata serve come strumento».

Meglio una Chiesa che si contamina e traffica il talento o una Chiesa austera ed estranea ai dibattiti della contemporaneità?

«La Chiesa è nella storia e si è sempre mescolata al mondo. Ma ben sapendo che pur essendo in questo mondo non è di questo mondo. Gli slogan sulla “Chiesa in uscita” sono banalizzazioni. La Chiesa è di per sé in uscita perché fa evangelizzazione. Il problema vero è rimettere al centro Gesù e la legge divina».

Tornando all’emergenza Covid, è possibile dissentire dal conformismo prevalente senza essere scomunicati con l’accusa di negazionismo?

«Sì, occorre resistere alla narrativa dominante. Dire chiaramente che essere tacciati di negazionismo è un’infamia. Nessuno nega l’esistenza del virus. Si vuole solo stare alla realtà e combattere l’uso strumentale della pandemia».

Certe manifestazioni di dissenso, condite di complottismo folcloristico quando non becero, avvalorano queste accuse?

«Temo di sì. Io non amo le manifestazioni di piazza: preferisco il ragionamento pacato. Comunque, se si organizza una manifestazione occorre farlo bene, evitando esiti controproducenti».

Si pensava che lo stato di emergenza servisse a snellire le burocrazie per migliorare i servizi al cittadino in condizioni di urgenza, ma non è avvenuto: a cosa serve realmente?

«Lo stato di emergenza serve a incatenare i cittadini, a farli sentire sudditi incapaci di gestirsi, bambini irresponsabili bisognosi di una guida paternalistica. È il frutto di un governo debole il quale, proprio perché avverte la propria debolezza, punta sull’autoritarismo».

Teme che questo stato di eccezione possa diventare norma?

«Questo timore è ciò che mi ha spinto a scrivere Virus e Leviatano. Stiamo dando vita a un precedente pericoloso. L’unione perversa di biopolitica e bioinformazione ha inferto un duro colpo al sistema democratico liberale di stampo parlamentare. Un vulnus che potrebbe diventare permanente».

Pensa che la sottomissione dei cittadini al nuovo dispotismo statalista sia un disegno perseguito o l’esito inevitabile del virus dell’ideologia mai davvero estirpato nell’establishment politico e culturale?

«Dopo tanti anni di giornalismo posso dire tranquillamente di essere complottista. Perché il potere complotta sempre. E tanto più grandi sono gli interessi tanto più ampio è il complotto. Che avviene lontano dai riflettori, in quelli che potremmo definire i “santuari” dei padroni del caos. Ma l’aiuto degli utili idioti è sempre di fondamentale importanza».

Come valuta il fatto che stiamo progressivamente tornando in una situazione di confinamento?

«Alla fin fine è un fatto culturale. Non si viene più educati alla libertà, all’amore per la libertà. Siamo narcotizzati. Abbiamo l’illusione di essere al corrente di tutto e non sappiamo niente. Non studiamo e ci lasciamo condizionare. Dobbiamo imparare di nuovo a pensare. Ma com’è possibile se passiamo tutto il tempo sui social o davanti a programmi televisivi beceri? Huizinga in La crisi della civiltà scrisse che se si vuole ripartire occorre essere consapevoli, per prima cosa, di quanto sia già progredita la dissoluzione».

 

La Verità, 24 ottobre 2020