«L’emergenza perenne cancella ogni dissenso»

Una volta quelli come lui li chiamavano teste d’uovo. Basta leggere il suo La tirannia dell’emergenza (Liberilibri), condensato di filosofia, diritto, antropologia e scienze umane che illumina a giorno le cupezze contemporanee. Andrea Venanzoni è costituzionalista, consulente giuridico di importanti istituzioni pubbliche, ricercatore presso l’università Roma Tre, saggista, collaboratore di numerose testate giornalistiche tra le quali Il Foglio e Il Riformista.

Professore, perché ha scritto questo libro?

«Già qualche anno fa volevo occuparmi dei prefetti e dei sindaci che ricorrono spesso a ordinanze e atti speciali. Ma l’avvento della pandemia e dell’emergenza climatica sono diventati un movente ancora maggiore e ora la vera promozione di questo libro».

Le emergenze c’erano anche prima: con il Covid c’è stato un salto di qualità?

«Dal campo giuridico si è passati alla mobilitazione dell’intera società. Emblematico è che nel libro di Roberto Speranza frettolosamente ritirato, l’allora ministro della Sanità ringraziasse Mara Venier, Barbara D’Urso e le piattaforme social perché avevano contribuito a formare il “mantra di una nazione intera”. Una strategia che mi ha ricordato la Nazionalizzazione delle masse, dal titolo di un saggio di George L. Mosse, che analizzava i movimenti che portarono all’avvento del nazismo».

Poco rassicurante, siamo a questo?

«Prima con la pandemia e ora con l’isteria diffusa legata al cambiamento climatico siamo davanti a una pornografia della catastrofe che, oltre a non favorire un dibattito pubblico che avvicini una soluzione, finisce per terrorizzare la popolazione rendendola manovrabile. Per contro, abbatte anche la responsabilità dei diffidenti: se il mondo collasserà climaticamente nel 2025 come si legge, che possibilità c’è di porre rimedio all’apocalisse imminente?».

Facciamo un passo indietro e proviamo a definire l’emergenza?

«È la situazione di crisi che si afferma in un momento storico e cattura l’attenzione dell’opinione pubblica per la sua eccezionalità. Pur essendo difficilmente prevedibile o imprevedibile, richiede una risposta rapida».

Che può giustificare imposizione di regole e limitazione delle libertà individuali?

«Si tenta di prevenire il verificarsi dell’emergenza. Per questo si possono limitare in anticipo quei comportamenti che si ritengono rischiosi. Nel diritto ambientale si afferma per la prima volta il principio di precauzione, limitando azioni senza avere la certezza scientifica che provochino danni».

Per esempio?

«Quando si è verificato il disastro di Seveso tutte le attività industriali subirono restrizioni molto impattanti sull’attività d’impresa. Questa politica di limitazione ex ante è un grande freno all’innovazione. Poi ci sono le limitazioni quando l’evento si presenta, come avvenuto con la pandemia e le restrizioni di quasi tutte le libertà costituzionali, dalla libera circolazione fino al diritto all’istruzione gravemente limitato con la Dad».

Chi sarebbe il tiranno?

«Mentre la dittatura è legata al carisma di una persona, un magistrato nel diritto romano, nella tirannia prevale un sistema. Il burocrate è il vero trionfatore della tirannia dell’emergenza. Quando, nella fase acuta della pandemia sono cresciute certe forme di complottismo, il governo dell’emergenza è diventato sovranazionale: l’Oms diramava le direttive e gli Stati si adeguavano».

Il tiranno sono le élite o è più precisamente lo Stato?

«Lo Stato è un’organizzazione burocratica rappresentata da alti funzionari, governatori, ministri pro tempore… Un’emergenza può diventare laboratorio di ingegneria sociale. Sia durante la pandemia sia ora per il cambiamento climatico sentiamo ripetere che bisogna cambiare visione del mondo».

Il Grande reset?

«Evito questi termini che innescano l’accusa di complottismo. La risposta è più facile».

Cioè?

«L’emergenza è il paradiso del burocrate che finalmente può operare senza quelli che vede come intralci e che, in realtà, sono garanzie per il cittadino. I burocrati hanno codici espressivi analoghi in tutto il mondo. Sul loro treno, per scopi economici, possono salire parti di quelle che lei chiama élite».

L’emergenza senza intralci l’abbiamo vista all’epoca dei Dpcm e dei bollettini sanitari a reti unificate?

«Quei bollettini contribuivano a pacificare la coscienza collettiva della popolazione in quel momento tumulata dentro casa. Erano una sorta di liturgia, di mantra luttuoso quotidiano».

Che ha collettivizzato la morte?

«Lo Stato l’ha collettivizzato in un’accezione terrorizzante. Questa istituzionalizzazione della morte è diventata parte del dispositivo burocratico».

In che modo?

«Per esempio, con la burocratizzazione del lutto. Si è reso impossibile porgere l’ultimo saluto al morto per Covid, con conseguenze psicologiche serie in chi è ancora vivo».

Lei parla di «danza macabra»: siccome primum vivere, come dicono filosofi e giuristi, per scongiurare la morte si è pronti a sacrificare la libertà?

«Nel Medioevo la danza macabra era una raffigurazione artistica che moralizzava i costumi ricordando la fine. Oggi, nel cuore delle emergenze, la morte è ovunque. E ti viene detto che se non ti affidi alle cure dello Stato sei destinato a morire».

Si riferisce alla frase del premier Mario Draghi?

«In quella frase, “Non ti vaccini, ti ammali e muori”, è espunta ogni sfumatura intermedia».

La burocrazia promette guarigione e salvezza?

«Lo Stato e il burocrate si pongono in ultima istanza come la cura. Vien fatto credere che la salvezza, anzi, la salvazione in senso teologico, risieda tra le maglie del potere pubblico. Funziona come “hic sunt leones”, l’avvertimento delle vecchie mappe latine: oltre il confine ci sono pericolo e morte».

Questa tirannia è arrivata di colpo o è stata preparata?

«Il processo è risalente nel tempo. Le emergenze sono concatenate una con l’altra».

Quand’è iniziata la sequenza?

«Con il terrorismo politico degli anni Settanta. È proseguita con quello di matrice religiosa e jihadista degli anni Novanta e Duemila, poi con le prime emergenze sanitarie come l’Aviaria e con il cambiamento climatico che da anni procede con toni sempre più allarmistici. Sul piano amministrativo e burocratico queste emergenze si collegano le une con le altre».

Dalla pandemia all’emergenza climatica cambia il ruolo dell’uomo?

«Diventa lui stesso il virus in carne e ossa, la cellula infetta del mondo. L’ambientalismo estremo ha un sostrato concettuale malthusiano favorevole alla de-popolazione e vede nell’uomo un agente patogeno che danneggia l’ambiente. La mia impressione è che queste derive radicali stiano diventando maggioritarie. Un esempio concreto è la recente approvazione del regolamento europeo Nature restoration law, un oggettivo disastro per il mondo agricolo».

L’emergenza occupa l’intero orizzonte e omologa il linguaggio diventando intollerante al dissenso?

«L’emergenza è l’alibi per eliminare ogni possibilità di critica: dissenso equivale a tradimento. Da qui il ricorso a un linguaggio quasi bellico perché l’emergenza è come una guerra e in guerra si sta da una parte o dall’altra, non ci sono possibilità intermedie».

Però se non comandasse un’autorità superiore vincerebbero i terroristi, il virus e l’inquinamento globale.

«Concordo. Il problema non è l’emergenza in sé, che per sua natura è temporanea, ma la sua stabilizzazione. Per questo sottolineo che tendono a collegarsi tra loro. Il vero problema è l’assuefazione a vivere in perenne emergenza».

C’è anche un uso commerciale dell’emergenza sostenuta dai media e dai big dell’economica digitale?

«In alcuni casi i media hanno un interesse diretto. Alcuni editori e grandi marchi digitali operano nei settori delle energie rinnovabili o delle auto elettriche. Tendo a non ritenere casuale che certe testate utilizzino tutti i giorni termini come inferno e apocalisse. Inoltre, si fa anche da sponda al potere istituzionale».

L’emergenza aiuta la pedagogia dell’establishment verso le masse?

«Credo ci sia un insieme di fattori, non a caso si è molto parlato della creazione di una nuova normalità, un mondo pilotato dai migliori, demiurghi dell’epoca moderna».

Appartiene a questo contesto la difficoltà della sinistra a metabolizzare il nuovo scenario politico e le sue conseguenze?

«La sinistra ha un oggettivo problema quando non detiene direttamente il potere. Lo vediamo quando, pur sconfitta alle urne, cerca altri metodi per tornare al governo. Proprio per questo la destra deve guarire dal suo complesso di inferiorità e di ricerca di legittimazione».

Sul treno per Foggia l’élite che s’imbatte su un pezzo di mondo reale accusa il colpo?

«All’inizio mi ha fatto sorridere l’élite che intercetta il popolo come a un safari, di fronte a uno zoo umano. Poi, quando ho letto le repliche di alcuni intellettuali e del comitato di redazione di Repubblica con toni da collettivo maoista anni Settanta, mi è quasi venuto da empatizzare con Alain Elkann. Avrà anche vissuto fuori dal mondo, ma trovo più pericolosi quelli che rispolverano la lotta di classe. Il clima non è buono: oggi c’è chi per criticare Giorgia Meloni riesuma Toni Negri».

È giusto chiedersi come ha fatto Gian Paolo Serino su Dagospia come sia stato possibile che noi adulti abbiamo formato dei giovani «turisti della vita»?

«È giusto chiederselo pensando ai genitori che ricorrono al Tar quando i figli vengono bocciati o puniti perché autori di atti violenti. Una volta genitori e insegnanti erano presidi della formazione dei ragazzi. Di fronte alla disgregazione dell’autorità famigliare e scolastica e degli altri corpi intermedi rimane intatta solo quella dello Stato. Forse non è un caso».

Il termine negazionismo viene usato per equiparare il dissenso a proposito del clima e del Covid alla negazione dell’Olocausto o per gettare un anatema su chi dissente?

«È un’operazione oscena perché banalizza la tragedia dell’Olocausto. Accusando qualcuno di negazionismo lo uccido socialmente, rendendolo impresentabile, degradandolo alla stregua di nemico che non merita di essere riconosciuto come controparte».

Anche il Capo dello Stato Sergio Mattarella non gradisce la discussione su questi temi?

«L’intervento del Presidente della Repubblica, pur comprensibile in un’ottica di richiamo generale alla responsabilità, mi sembra abbia prestato il fianco al consolidamento di una narrazione a senso decisamente unico. Non a caso le sue parole sono state subito rilanciate da una precisa parte politica in ottica anti-governativa».

 

La Verità, 29 luglio 2023