S’intitola Ancora spero l’autobiografia che Marina Cicogna ha appena pubblicato da Marsilio. È il racconto della vita, che sembra romanzesca, della contessa del cinema italiano, figlia di Cesare Cicogna Mozzoni (dinastia lombarda dal quattordicesimo secolo) e di Annamaria Volpi di Misurata (altro casato nobile) e nipote di Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, padrone della Compagnia italiana grandi alberghi (Ciga) e fondatore della Mostra del cinema di Venezia a cui sono tuttora intitolati i premi agli attori. È un’autobiografia (scritta con Sara D’Ascenzo) di case, dimore, vacanze, piscine, ricevimenti, party senza partiti, sciate al mattino presto, trasvolate oceaniche e trasgressioni senza pose, amori omosessuali. Di grandi armatori come Aristotele Onassis, di importanti produttori come David O. Selznick (Via col vento, i film di Alfred Hitchcock), di imprenditori visionari come Gianni Agnelli.
Marina Cicogna è una donna da primato, la prima a vincere l’Oscar per il miglior film straniero e la prima ad amare pubblicamente un’altra donna?
«Per quanto riguarda l’Oscar, sì. Il secondo primato non è mio, molte altre donne pubbliche mi hanno preceduto in questo tipo di relazione, soprattutto fuori dall’Italia».
Che cos’è per lei la libertà?
«Non andare controcorrente, perché vorrebbe dire lottare scientemente contro qualcosa o qualcuno. È seguire con una certa tranquillità i propri pensieri e le proprie convinzioni, senza guardarsi troppo in giro. La libertà te la fai tu, è dentro di te…».
Come si sta preparando a ricevere il David di Donatello alla carriera?
«Non faccio molti preparativi, cercherò dei vestiti che mi possano stare bene. Indosserò un abito di Valentino, come faccio nelle occasioni pubbliche. Per la sera è lo stilista più raffinato».
Se avendo lavorato solo dieci anni nel cinema le danno il David alla carriera vuol dire che ha seminato bene.
«Gli anni Sessanta e Settanta sono stati un periodo molto felice per il nostro cinema e non certo per merito mio. C’erano tanti talenti con i quali lavorare era gratificante. Se avessi continuato oltre quei dieci anni, considerati i cambiamenti, sarebbe stato diverso. Forse per la forza della televisione e per l’importanza delle nuove piattaforme il cinema ha perso un po’ di fascino».
Suo nonno fondò la Mostra di Venezia, suo padre vinse l’Oscar con Ladri di biciclette, ma la vera amante del cinema fu lei: perché sua madre affidò a suo fratello la direzione della Euro International?
«Mio nonno fondò la Mostra perché voleva attrarre più turisti all’Hotel Excelsior e al Des Bains del Lido. Mio padre produsse Ladri di biciclette perché cedette al fascino di Vittorio De Sica. Quando la acquistarono mia madre e mia zia, la Euro era solo una società di distribuzione, avrebbero ugualmente potuto comprare un’azienda che produceva yogurt. L’unica vera appassionata di quest’arte ero io».
E come mai non le affidarono le redini dell’azienda?
«Io volevo fare dei film, non occuparmi dei conti e mia madre pensò a mio fratello Bino. Mi opposi perché non lo ritenevo adatto. Il cinema era un mondo pericoloso per un ragazzo così giovane. Infatti, dopo un po’ tutto esplose e io me ne andai».
Non prima di conquistare l’Oscar nel 1971 con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Perché era convinta di non vincerlo tanto che nessuno del cast presenziò alla cerimonia?
«Al Festival di Cannes avevamo preso solo il Gran premio speciale della giuria. Elio Petri e Gian Maria Volontè erano stati iscritti al Pci e non potevano ottenere il visto per l’America, Florinda Bolkan era sul set di qualche film e io avevo grossi dubbi che gli americani apprezzassero quel film con problematiche distanti dalla loro sensibilità. Fu un errore non incaricare qualcuno di ritirare la statuetta just in case. Infatti, non l’ho mai vista».
Un vostro legale, Carlo Majno, parlando di suo nonno, «un incrocio tra Giulio Andreotti e John Ford», disse che la sua famiglia era «distaccata dalla realtà in modo esagerato»: un’alterigia che ha contagiato anche lei?
«Majno descriveva l’incapacità di mia madre di affrontare la quotidianità. Non credo ci sia alterigia in me, mi pare che il libro racconti la vita di una donna con i piedi per terra».
Scrive che durante la guerra i suoi genitori «non erano gli unici aristocratici a opporsi al fascismo», eppure suo nonno fu ministro nel governo Mussolini…
«Prima, con Giovanni Giolitti era stato governatore della Libia. Poi fu ministro delle Finanze, ma nutriva una certa antipatia per Mussolini. Mi raccontarono che una volta scomparve a Roma per 48 ore e dissero che era stato preso dai fascisti, che lo restituirono dopo averlo drogato. Mio nonno non fu certo antifascista, mentre lo furono in modo deciso i miei genitori».
Conferma che Gianni Agnelli è stato l’uomo più affascinante che ha conosciuto?
«Confermo. Gli telefonavo spesso al mattino presto per consultarlo su quello che succedeva e lui aveva sempre un’idea precisa e mai banale».
Però una volta, più del suo fascino valse la lealtà verso l’amica Marella, sua moglie… Oppure l’attrazione per gli uomini era già scemata?
«Ci sono uomini che mi hanno sempre interessato molto. Se non fosse stato sposato, un passaggio con lui ci sarebbe stato di sicuro. In quel momento mi era parso inopportuno».
Con Alain Delon invece non si ritrasse e anticipò l’amica Ljuba Rosa Rizzoli che condivideva con lei la stanza in hotel, dove spuntò un bigliettino nel quale Delon invitava nella sua camera, ma senza specificare il destinatario.
«Infatti Ljuba ha sempre detto che l’invito era per lei, più affascinante e sexy di me. Ma io allora avevo una passione particolare per Delon. Quando lo vedo ancora oggi penso che all’epoca non ci fosse uomo altrettanto seducente».
Nemmeno il Leone d’oro del 1967 a Bella di giorno convinse sua madre a darle pieni poteri?
«Credo che nemmeno seppe quello che era accaduto. L’espressione di Majno sul distacco di mia madre nacque proprio in quell’occasione».
Sebbene scriva di non aver mai prodotto film «per ragioni vagamente politiche» perché Franco Zeffirelli le rimproverava di fare solo film di sinistra?
«Si riferiva a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, uscito due mesi dopo la strage di Piazza Fontana, e a La classe operaia va in Paradiso che vinse a Cannes nel 1972. Zeffirelli era l’unico regista di destra del cinema italiano ed era convinto che chi aveva una certa formazione doveva pensarla come lui».
Oggi il cinema è più libero di allora?
«Allora c’era la censura e dovevamo tagliare delle scene, oggi non c’è. I registi sono davvero liberi se sono anche produttori. Poi molti lavorano con i fondi pubblici».
Prevalgono un certo conformismo e certi clan?
«Esatto. Negli anni Trenta c’era più libertà, la moglie di Franklin Delano Roosevelt frequentava un’amica. Oggi vedo più conformismo: questo non si può dire, questo non si può fare».
Quanto il suicidio di suo fratello in Brasile l’ha cambiata?
«È stata una ferita non rimarginabile, che mi ha cambiato in profondità. Anche la scoperta della malattia mi ha cambiato, perché implica davvero un’altra vita. Fino al giorno prima andavo a sciare, oggi il mio maestro di sci mi ha mandato una foto di qualche anno fa. Con la malattia le giornate sono totalmente diverse».
Se Gianni Agnelli era il più affascinante, come definirebbe Vittorio De Sica?
«Anche De Sica lo era, da napoletano. Gianni era figlio di militari torinesi, Vittorio di una famiglia di attori del Sud. Per lui ogni situazione era motivo di divertimento, di commedia».
Cosa la colpiva di Pier Paolo Pasolini?
«M’intimidiva, unico fra i tanti grandi registi con cui ho lavorato. Era un uomo che non si capiva bene a cosa pensasse. Aveva un fascino silenzioso».
E di Andy Warhol?
«È stato alcune volte mio ospite, ma non mi sono mai fatta ritrarre da lui. Era educato e di ottime maniere, molto diverso dall’immagine dell’artista ribelle che se ne aveva».
Chi è il più grande attore con cui ha lavorato?
«Direi Gian Maria Volontè, mentre con Marcello Mastroianni non ho mai lavorato. Erano di due scuole opposte: Marcello era credibile in qualsiasi ruolo, Gian Maria aveva bisogno di un personaggio in cui affondare i denti».
A quale regista o produttore di oggi si sente affine?
«Forse ad Andrea Occhipinti e Domenico Procacci di Fandango».
Il suo con Florinda Bolkan è stato uno dei primi amori omosessuali senza finzioni: come guarda alle rivendicazioni della comunità arcobaleno?
«Mi sembra che facciano parte di un mondo molto convenzionale nel quale c’è bisogno di definire le situazioni per farle accettare. Non sono a favore di queste posizioni, credo che sia inutile cercare di spiegarsi, di spiegare ogni comportamento. Ognuno di noi vive attrazioni e abitudini diverse. Forse per i trans è più difficile, ma penso che ognuno dovrebbe seguire la propria natura».
Perché anche nella vita privata ha sempre tenuto lontane l’ideologia e la politica?
«Perché non c’entrano. Ognuno può essere libero con sé stesso e vivere in modo spontaneo, senza costruzioni».
Non la pensano così i militanti del Metoo.
«Da sempre i produttori importanti a Hollywood hanno avuto rapporti bizzarri con attrici e attori. Non è un comportamento inventato da Harvey Weinstein, che pure aveva il dono di essere uno tra gli uomini più antipatici del mondo».
Che cos’è per lei l’amicizia?
«Anche gli amici sono ognuno diverso. Da ragazza c’era Franco Rossellini, poi mia grande amica è stata Jeanne Moreau e ancora Ljuba Rizzoli. Non conoscevo Sara D’Ascenzo che mi ha proposto il libro e così è diventata un’amica. Quando sei nel bisogno, gli amici sanno esserti vicino senza fartelo pesare. Sono anche quelli con i quali condividi le passioni».
Benedetta Gardona con cui convive è cattolica e devota…
«Lo era di più fino a quando una sua amica d’infanzia è morta di tumore, e questo le ha fatto un po’ perdere la fede».
Lei ne è mai stata sfiorata?
«Ho ricevuto un’educazione religiosa non formale. Pensi che quando avevo 15 anni mia madre si accorse che non avevo ancora fatto la prima comunione. Ora che non sono in salute alcune domande me le pongo, ma non sono riuscita a darmi delle risposte».
L’autobiografia s’intitola Ancora spero: in che cosa, signora?
«Non so… Spero che la vita rimanente sia abbastanza accettabile. Che il morire sia dolce e non comporti troppa sofferenza. Spero anche tante cose belle per gli altri. Ho scelto queste parole per il titolo perché sono nel motto di famiglia: mi sembra dicano che uno vuole vivere di speranza più che di certezza».
La Verità, 6 maggio 2023