«Guadagnino più scandaloso di Burroughs»
La strada del cinema è lastricata di buone intenzioni. «Ho letto Queer a 17 anni. E, dopo averlo letto, ho deciso che volevo cambiare il mondo attraverso il cinema». Tra applausi e gridolini di approvazione – gli stessi che hanno salutato la comparsa di «directed by Luca Guadagnino» alla proiezione per la stampa – il regista del film tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroghs, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, ha spiegato che quel libro «dal titolo diverso» conteneva il «romanticismo verso la persona che amiamo», la domanda di «chi siamo quando siamo soli, a prescindere dall’essere queer o no, a prescindere dall’essere a Città del Messico o altrove». Così, ha proseguito il cineasta più amato dalla comunità Lgbtq, «ho deciso che prima o poi avrei portato quel libro sul grande schermo».
Tuttavia, nonostante l’ossequio diffuso verso le ambiziose intenzioni del regista, una domanda rimane tuttora inevasa: pensando al pubblico dei cinema, a chi si rivolge realmente questo film? Chi andrà a vederlo? La comunità omosessuale? Chi è attratto dall’uso variegato di sostanze stupefacenti? Qualche gruppo di intellettuali? Chi assomma tutte queste caratteristiche? O, infine – e forse è la fetta più larga in omaggio all’astuzia della produzione (Fremantle, The Apartment, Frenesy Film Company) – il target composto dai curiosi di vedere come se la cava Daniel Craig, storico James Bond, nei panni di William Lee, l’omosessuale protagonista del racconto di Burroghs?
Questa curiosità, va detto, ha attraversato anche la sala stampa. Ci ha mai ripensato?, è stato chiesto a Craig. E poi, perché non immaginare anche un James Bond gay? Ma l’ex 007 non si è scomposto: «Non posso controllare le reazioni dei fan di James Bond. Mi era già capitato molti anni fa un ruolo gay, in un film sulla vita di Francis Bacon, faccio film da tanto tempo e di questo sono particolarmente orgoglioso. È una storia d’amore, di passione, di desiderio e di sentimenti perduti». Persino più retorico Guadagnino: «Ragioniamo da adulti, per cortesia. Nessuno può sapere quali siano i veri desideri di James Bond. Il fatto importante è che porti a termine le proprie missioni. Daniel è un attore che ammiro da tempo e ho sempre voluto lavorare con lui». A parte che una robusta cinematografia ci svela quali sono le vere inclinazioni di Bond, tuttavia la scelta di Craig è la parte vinta della scommessa del regista. Perché l’ex 007 si rivela efficace, perfettamente calato nella parte del «pervertito» – sua autodefinizione – tormentato e frustrato a causa della tiepidezza con cui Eugene Allerton, il giovane oggetto della sua concupiscenza (Drew Starkey), lo ricambia.
Il film si snoda in quattro capitoli come il romanzo scritto nel 1952, sequel di Junky (titolo italiano La scimmia sulla schiena), ma pubblicato solo nel 1985 perché ritenuto troppo scandaloso dallo stesso autore. Mentre il primo narra la sfrenatezza dell’uso di oppiacei, il secondo è attraversato dal desiderio e dall’astinenza. A innescarlo è l’uccisione nel 1951 a Città del Messico della moglie Joan Vollmer da parte dello stesso Burroughs, in circostanze mai chiarite (ubriachi, i due volevano imitare Guglielmo Tell con un bicchiere di cognac posto sulla testa della donna, ma il proiettile colpì lei. Burroughs, che non andò in galera, ne rimase traumatizzato per il resto della vita. La scena è citata anche nel film).
A Città del Messico, nel 1950, dov’è riparato per coltivare senza sbirri alle costole le sue dipendenze, vestito di bianco e con pistola alla cintola, Lee vive tra pub e locali gay per convincere Allerton a un rapporto stabile. Ma, tra desideri incompiuti, sogni e allucinazioni, l’incertezza cresce. Nessuno dei due, apparentemente, fa qualcosa che somigli a un lavoro. Al mantenimento del giovanotto, che si divide tra le nuove esperienze omo e le partite a scacchi con un’amica, provvede l’esperto partner. Che, coinvolgendolo in un viaggio in Ecuador, gli strappa la promessa di due amplessi settimanali. Ci si ritrova così a Quito, alla ricerca di nuove droghe. E poi nel rifugio nella jungla della dottoressa Cotter (Lesley Manville), specie di sciamana che inizia la coppia all’ayahuasca, decotto psichedelico che moltiplica gli effetti allucinogeni e favorisce la totale fusione dei corpi.
Andare oltre risulta obiettivamente complicato. Anche perché, complice la sceneggiatura di Justin Kuritzkes (autore pure del discusso Challenger), Guadagnino forza la mano del già forte Queer, introducendo scene di sesso ben più esplicite di quelle sostanzialmente abbozzate nel romanzo del padre della Beat generation. Il tormento che attraversa tutto il romanzo a causa della riluttanza dell’amante, qui è condensato in una sola, lunga, scena, forse la migliore del film, in cui Lee si prepara una dose di eroina (e lo stesso Craig si candida a qualche premio) per lenire il senso di solitudine che lo affligge. Per il resto, anche in conferenza stampa, tutto il cast parla di «gioia» e di «rapporti gioiosi». Altrimenti, se non fosse così, e prevalessero la frustrazione e l’abbandono del libro, come si giustificherebbero le varie scene di sesso estremo?
La Verità, 4 settembre 2024