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«La sinistra mi ha cacciato perché non sa più ridere»

Quello di Simone Lenzi, l’assessore alla Cultura di Livorno che si è dimesso a causa di un paio di post su X che hanno provocato la sconfessione del sindaco Pd Luca Salvetti, anziché spegnersi come una querelle di periferia, sta diventando, man mano che passano i giorni, uno di quei casi rivelatori di una patologia profonda. Ovvero: la mancanza di libertà di critica nella quale è precipitata una certa sinistra. In questa vicenda, l’ipocrisia è condita da un linguaggio distorto e da accuse fasulle di omofobia e transfobia. Che, letteralmente, significherebbero paura degli omosessuali e dei transessuali. Trattandosi poi di Livorno, la città dove nel 1921 fu fondato il Partito comunista italiano, la faccenda assume anche contorni simbolici. Andiamo, però, con ordine, dando la parola a un divertito Lenzi. Scrittore riconosciuto, sceneggiatore, front-man dei Virginiana Miller, rock band con un discreto seguito, e autore di canzoni, una delle quali (Tutti i santi giorni) vinse nel 2013 il David di Donatello come miglior brano originale del film omonimo di Paolo Virzì, per altro derivato da un suo romanzo.
La polemica non cessa: se l’è presa anche con Pierluigi Bersani, santone intoccabile della sinistra-sinistra.
«Ma no, non me la sono presa con Bersani… Solo che ha fatto un post sul libro di Piero Marrazzo riconoscendo che a volte si è più duri con chi si prende delle libertà sessuali che con chi ruba all’Inps. Naturalmente sono d’accordo con lui. Però gli ho fatto notare che non sono stati fatti grandi passi verso il pluralismo visto che il sindaco di Livorno, appoggiato dalla maggioranza Pd, mi ha fatto fuori per un commento estetico su una statua della Biennale d’arte contemporanea».
La stupisce che la accostino a Piero Marrazzo sebbene la sua vicenda sia parecchio diversa?
(Ride) «Personalmente, mi sono limitato a un commento estetico su una statua che giudicavo molto didascalica e, come tutta l’arte didascalica, profondamente noiosa».
Riavvolgiamo il nastro dall’inizio: lei si è dimesso o è stato fatto dimettere?
«Mi è stato chiesto di dimettermi e, per evitare al sindaco di rischiare una mozione di sfiducia, gli ho consegnato le mie dimissioni. Ho sempre pensato che il bene pubblico venga prima di quello privato».
Il motivo è il post contro la vignetta di Natangelo sul Fatto quotidiano sul massacro del 7 ottobre ordito da Hamas o sono i post precedenti, definiti transfobici?
«Quello contro la vignetta ha scatenato tutto. Poi sono andati a frugare nella timeline di X e hanno trovato cose vecchie per impacchettare il dossier».
Aveva scritto: «Ho uno champagne in frigo, pronto per quando chiuderà, sommersa dai debiti, la fogna del @fattoquotidiano, laboratorio di abiezione morale, allevamento di trogloditi, verminaio del nulla». Un po’ forte, lo riscriverebbe?
(Ride) «Visto che ha prodotto il mio licenziamento, magari no».
Sperava in un po’ più d’ironia dei suoi interlocutori?
«La cosa che più mi dispiace, non tanto per questo ma per gli altri post, è il fatto che la sinistra abbia smarrito la capacità di prendersi in giro, che era la sua più grande forza».
Si potrebbe pensare che lei sia scomodo in un momento in cui si lavora alla nascita del campo largo?
«Credo che lei sopravvaluti la mia influenza. Se poi me lo chiede, a me il campo largo non piace».
Questo mi era chiaro. Invece Elly Schlein le piace?
«Domanda tosta. È molto pop, come lo era Matteo Renzi ai suoi tempi. Ci sa fare. Resta però ancora indefinito quale popolo rappresenti».
Perché sono andati a ripescare il post in cui criticava la statua della Biennale che raffigura una donna con il pisello?
«Perché volevano costruire il dossier per procedere alla character assassination: prendi uno e lo metti alla gogna».
Sotto quella statua c’era una didascalia lapidaria: woman.
«Non mi piace l’arte che ti dice come devi pensarla su qualunque tema, non solo su questo».
Quell’unica parola era la provocazione?
«Infatti, ho scritto che non sono il borghese scandalizzato, ma il borghese annoiato da questa pedagogia».
Fobia significa paura e l’accusano di transfobia e omofobia: ha paura di trans e omosessuali?
«L’accusa di omofobia è assolutamente cretina, ma pure quella di transfobia. Perché: a) non ho paura di nulla; b) sono liberale e libertario e per me ogni adulto può fare ciò che vuole del proprio corpo».
A volte dando dell’omofobo si vuol dire che si odiano gli omosessuali: lei li odia?
«Assolutamente no».
Possibile che il sindaco Salvetti e Irene Galletti, capogruppo alla regione Toscana del M5s, non abbiano colto la sua autoironia sulle 28 identità sessuali?
«Infatti. A 56 anni provo sollievo nel non dovermi identificare in qualcuna di quelle 28 categorie. M’interessa più la buona cucina, ormai».
Livorno è sempre la città del Vernacoliere?
«Evidentemente non più».
È la città di Paolo Virzì e dei film in cui sbertuccia lo snobismo della sinistra?
«Speravo lo fosse ancora. Il problema è che quando prendi tutto sul serio, passa il bambino e dice “il re è nudo”. Ringrazio per la solidarietà Virzì, esponente di una sinistra che sa ancora prendersi in giro».
Nella lettera di dimissioni ha scritto che «alla sinistra, che avevo visto fin qui come la roccaforte di ogni libertà, della libertà autentica non interessa affatto». Giudizio pesante.
«Sì. Per sintetizzare ho coniato l’espressione “narcisismo etico”, che è quell’atteggiamento per cui è importante sembrare buoni e giusti, senza preoccuparsi di esserlo davvero».
Può precisare, sempre per l’importanza delle parole?
«L’unica cosa che conta è andare a letto la sera sentendosi parte della schiera dei buoni e dei giusti, anche se magari non abbiamo cambiato il mondo di una virgola».
Sostituendo all’eguaglianza l’inclusione come stella polare questa sinistra tende a escludere chi non si allinea al nuovo verbo?
«La metterei così: prima seguivamo grandi principi universalistici, venuti meno i quali è subentrato una sorta di tribalismo. E il tribalismo ha continuamente bisogno di capri espiatori».
Il narcisismo è un autocompiacimento, in fondo inoffensivo, nel quale ci si crogiola in una presunta superiorità?
«Esattamente questo».
Se fosse così i danni sarebbero contenuti: non le pare che la patologia della sinistra sia piuttosto l’esibizionismo etico?
«L’esibizionismo è una componente fondamentale del narcisismo».
Il sindaco che l’ha costretta a dimettersi l’ha fatto per avere l’approvazione dell’opinione pubblica?
«Questo andrebbe chiesto a lui. L’unica cosa che gli dico, con un po’ d’affetto, è che forse poteva gestire la conferenza stampa in un modo umanamente più… inclusivo anche nei miei confronti».
Narcisismo, esibizionismo: questo si può chiamare bullismo etico?
«Mmmh. Variazioni sul tema ce ne sono tante. Diciamo così: siccome nel tribalismo il capro espiatorio si sente in colpa e vorrebbe rimanere in un angolo sperando che tutti si dimentichino di lui, per carattere, io sono il capro espiatorio sbagliato».
Quindi gliela farà pagare?
«No. Continuerò a essere me stesso e a godere della mia libertà di pensiero e di espressione».
Lei ha parlato di psico-polizia del pensiero, un comportamento messo in atto anche da lei quando due anni fa vietò una conferenza sull’Ucraina al professor Alessandro Orsini dicendo «abbiamo denazificato» il teatro Goldoni?
«Anche quella era una battuta».
Però Orsini non parlò al Goldoni.
«Il punto è diverso e glielo spiego a mia volta con una domanda. Comunque la si pensi, Orsini ha parlato al Regio di Parma, alla Fenice di Venezia o alla Scala di Milano? No. Per questo non ha parlato nemmeno al teatro Goldoni, che è un antico teatro di tradizione».
Quello dove si svolgeva il congresso socialista dal quale uscirono Antonio Gramsci e compagni per fondare il Pci.
«Proprio quello. Per altro, qualche tempo prima Orsini aveva fatto un post pesantemente offensivo della memoria di Gramsci. Motivo in più per non farlo parlare al Goldoni».
Non mi ha convinto, lei non è un libertario?
«Al Regio di Parma o alla Fenice, Orsini non ha parlato».
Ma non ha chiesto di farlo.
«Se l’avesse fatto glielo avrebbero negato. Comunque, parlò al teatro Quattro Mori di Livorno, a mio avviso più adatto. Non concordo su nulla di quello che dice Orsini, ma sono un libertario e ritengo che ogni voce debba avere l’ambito adeguato».
Si aspettava che qualcuno dei vertici del partito si pronunciasse sulla sua vicenda?
«Qualcuno l’ha fatto, Pina Picierno mi ha espresso solidarietà».
In privato o in pubblico?
«In un post su X. Anche altri esponenti, non del Pd, l’hanno fatto. Ivan Scalfarotto, Anna Paola Concia e Chiara Valerio, che è una paladina dei diritti Lgbtq+».
Nessuno di loro è un dirigente Pd.
«Lo è la Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo. Comunque, il fatto è curioso perché poi fanno eleggere in Europa Marco Tarquinio che sull’aborto ha posizioni più vicine a quelle della destra, e defenestrano me per una battuta».
Livorno è la città dov’è nato il Pci: spera in un esame di coscienza, come direbbe Tarquinio, della sinistra su questa vicenda?
«Spero che si apra un reale dibattito».
Paolo Rumiz su Repubblica ha scritto che la sinistra si è fatta scippare dalla destra parole come patria, identità, tradizione. Concorda o queste sono sempre state parole di destra?
«Vorrei dire un’altra cosa che la sinistra si è fatta scippare dalla destra almeno su alcuni temi: il buonsenso. Che poi la destra usa come un randello».
La sua vicenda mostra che si toglie la parola a chi non parla come vogliono i custodi del pensiero?
«La mia vicenda è nota, poi ognuno ne trae le conclusioni che ritiene».
Adesso che farà? Scriverà un libro, magari il seguito ancora più sofferto del precedente In esilio?
«Credo che lo farò. Questa vicenda mi piacerebbe raccontarla e ora ho tutto il tempo per farlo. Per il resto, usando un’espressione che piacerebbe a Rumiz: Dio provvede».
Oltre alle dimissioni indotte dalla giunta, sta riflettendo a dimissioni spontanee dalla sua appartenenza storica?
«La verità è che ero un cane sciolto prima e un cane sciolto resto ora».

 

La Verità, 19 ottobre 2024

Il Corriere della Sera vuole chiudere Cartabianca

Anche i grandi critici televisivi hanno le loro piccole (o grandi) fissazioni. Un po’ come certi docenti universitari hanno le loro piccole (o grandi) predilezioni. Se poi sono la stessa persona la faccenda è ancora più bizzarra. Prendete Aldo Grasso, titolare della lettissima rubrica «A fil di rete» sul Corriere della Sera. Che non ami Cartabianca è risaputo. Ma ieri, dopo un insistente lavoro ai fianchi, il principe dei critici ha rotto gli indugi e ne ha chiesto la chiusura definitiva. «È finita Cartabianca e, in tutta sincerità, spero non torni più». Inequivocabile. Tassativo. Inelegante, anche. È noto che in questa stagione il talk show di Rai 3 condotto da Bianca Berlinguer ha attraversato momenti difficili, finendo nel mirino dei censori del Pd (Valeria Fedeli, Andrea Romano eccetera) e di svariati altri commissari vigilanti. Il casus belli è stata la partecipazione del professor Alessandro Orsini, disallineato al verbo draghiano sulla guerra in Ucraina (in precedenza altri ostacoli erano stati accatastati a causa della collaborazione con Mauro Corona). Ne è scaturita una polemica durata settimane che, sebbene camuffata sotto l’esigenza di adeguare i talk show a dei toni più decorosi, aveva in realtà come obiettivo la normalizzazione dell’unico spazio che ospita opinioni dissonanti. A ben guardare è proprio il dissenso a fare obiezione al critico del Corriere: «Ogni volta che il reale appare nella sua drammaticità, dobbiamo registrare come i talk inquinino il dibattito pubblico, creino <mostri>, diffondano menzogne e malafede, favoriscano l’indistinguibilità. Per questo, l’ospite più ricercato è quello considerato <scomodo>, l’intellettuale dai toni wagneriani, costantemente in dissenso». Insomma, meglio la noia, il calo degli ascolti, preoccupazione che appartiene alle «logiche volgari del mezzo» e alle tv commerciali, e il monopensiero piuttosto che «la contrapposizione, il tafferuglio, il parapiglia»: elementi che giustificano la richiesta di soppressione del programma.

Ovviamente la replica di Berlinguer non poteva farsi attendere: «Vi sembra normale che il critico televisivo del gruppo editoriale al quale appartiene la trasmissione mia diretta concorrente, DiMartedì, si auguri la chiusura d’autorità di Cartabianca?», ha scritto la conduttrice sulla sua pagina Facebook. «E dico <d’autorità> dal momento che gli ascolti ci hanno costantemente premiato». Oltre l’ineleganza, Berlinguer adombra il conflitto d’interessi. E si chiede: «Chi altri dovrebbe giudicare se non quegli stessi cittadini che pagano il canone e gestiscono il telecomando, della qualità e del gradimento di una trasmissione? O a decidere del destino di un programma… devono essere, in singolare sintonia, il critico televisivo del gruppo editoriale concorrente e una parte della classe politica?».

Per dissimulare una presunta ossessione per la conduttrice ed ex direttrice del Tg3 Grasso scrive che «per me Bianca Berlinguer potrebbe anche presentare Sanremo». In realtà, nel pieno della polemica di qualche settimana fa, intervistato dal Foglio – altra testata convinta della necessità di spianare le residue asperità dell’informazione tv – aveva detto: «Bianca Berlinguer segue uno schema fisso: vede uno strambo nelle trasmissioni altrui e subito lo paga. Corona, Scanzi e adesso Orsini».

Fortunatamente i palinsesti Rai della prossima stagione sono già stati decisi. In ogni caso non c’è da preoccuparsi: di solito gli interventi censori ottengono l’effetto opposto a quello che si prefiggono.

 

La Verità, 25 giugno 2022

«Macché spie, il rischio è demonizzare il dissenso»

Non indossando l’elmetto, Corrado Formigli si attira le critiche e le ironie dei media più atlantisti, ma il suo Piazzapulita su La7 è uno dei talk più problematici del panorama televisivo nostrano. Ospita voci diverse e innesta il dibattito in studio con immagini e reportage dal fronte, «40 o 50 minuti ogni puntata», sottolinea: «è il nostro marchio di fabbrica».

Come vanno gli ascolti dall’inizio della guerra?

«Fino a prima dell’invasione dell’Ucraina la nostra media era del 5,7% di share. Dal 24 febbraio a oggi si è assestata sul 6,3%, per noi un risultato eccellente».

Questa crescita ha un motivo preciso?

«Intanto, la mia passione personale per il tema. Fin dai tempi dei programmi di Michele Santoro ho sempre fatto l’inviato di guerra. Per Piazzapulita ho realizzato reportage su Kobane, in Siria, su Falluja e Mosul, in Iraq… Poi, ma non certo in secondo luogo, la passione, l’esperienza e le capacità di Gabriele Micalizzi, Alessio Lasta e Luciana Colluccello sono stati un altro nostro punto di forza. Siamo l’unico talk che propone reportage sul campo».

Però la guerra non si vede moltissimo.

«Non è proprio così, raramente si sono visti tanti cadaveri per le strade e missili schiantarsi sugli edifici. A Kramatorsk un pezzo di missile ha sfiorato la macchina sulla quale viaggiava Luciana Colluccello. È una guerra che si combatte con ordigni lanciati a distanza. Stare in prima linea con la fanteria vorrebbe dire rischiare la vita. Ma il nostro primo problema è un altro».

Quale?

«Evitare le fake news. I canali Telegram mostrano il conflitto girato dai soldati e bisogna sminare la propaganda per far affiorare i fatti. L’esempio dell’immagine della donna con il ventre marchiato da una svastica è significativo. Micalizzi aveva trovato quella foto a Mariupol, perciò si è pensato fosse opera del battaglione Azov. Qualche giorno dopo la stessa immagine è ricomparsa vicino a Kiev, collegata alle torture di Bucha, quindi gli autori potevano essere russi. Alla fine, non sappiamo chi ha commesso quella violenza, ma solo che quella donna è stata uccisa e mutilata».

Come scegliete gli ospiti delle puntate?

«Distinguiamo tra competenza e battaglia delle idee. In tema di diplomazia, di geopolitica o di strategia militare cerchiamo ospiti che abbiano esperienza sul campo. Alberto Negri è uno dei più importanti inviati di guerra degli ultimi 30 anni, il generale Vincenzo Camporini è stato capo di Stato maggiore della Difesa, Riccardo Sessa è stato ambasciatore in Cina e in Iran, per citarne alcuni. Sul piano delle idee, quando Michele Santoro e Paolo Mieli si confrontano esprimono visioni diverse, ma il loro dibattito è utile al telespettatore, oggi senza bussola».

Le capita di pagare qualche ospite?

«La stragrande maggioranza viene a titolo gratuito, altri te li assicuri in esclusiva per un certo tempo. È come un patto di fedeltà che anche il pubblico apprezza. Ma si tratta sempre di cifre modeste, corrisposte in cambio di una competenza e di un tempo che ti danno».

Sono mai stati contestati dal pubblico o da qualche esponente politico?

«La reazione più violenta l’ho registrata riguardo al professor Alessandro Orsini. Il giorno dopo, il mio telefono era intasato da commenti alla sua partecipazione provenienti da alti livelli della politica, della cultura e del mondo universitario. Perché fai parlare Orsini? Non sai chi è? Erano supposizioni ipotetiche, mai circostanziate».

Una volta invitato qualcuno ha mai avuto la sensazione che potesse trattarsi di un agente segreto?

«Macché. Orsini no di certo, lo conosco da diversi anni. Ma secondo lei un agente sotto copertura usa i talk show per fare propaganda? Perché accada ci vorrebbero un conduttore imbecille, un pubblico privo di capacità di discernimento e che gli altri ospiti fossero sotto anestetico».

Qualche telespettatore le ha contestato l’invito a Steve Bannon.

«L’ho trovato surreale. Stiamo parlando dell’ex capo stratega del presidente americano Donald Trump. Io non scelgo tra buoni e cattivi. Se fosse utile a comprendere ciò che c’è nella mente di Vladimir Putin inviterei pure il diavolo».

C’è qualcuno che vorrebbe intervistare e non le è ancora riuscito?

«Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino, ci ha già detto no due volte, mentre ho apprezzato l’intervista che gli ha fatto Christiane Amanpour sulla Cnn. Un altro che sto cercando di invitare è Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore della Novaja Gazeta, il giornale dove scriveva Anna Politkovskaja».

L’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes ha detto alla commissione di Vigilanza che i talk show non sono più adatti a una corretta informazione: cosa ne pensa?

«Penso che quelli fatti bene lo siano e quelli fatti male non lo siano. Trovo che usare la parola talk show in generale come metro di ogni nequizia sia sbagliato».

Che opinione ha dell’interesse del Copasir e della Vigilanza riguardo ai meccanismi dell’informazione?

«Per conto mio la Vigilanza andrebbe abolita. In tutto l’Occidente è un unicum che una commissione di politici indichi i criteri di fattura di un programma televisivo, di invito degli ospiti e se vadano pagati o meno. La ritengo una realtà di sapore sovietico».

In guerra si demonizza il nemico, nell’informazione si demonizza o ridicolizza il dissenso?

«Il rischio lo vedo molto forte. Non sto dicendo che chi dissente non abbia spazio perché ne ha. Il problema è ciò che avviene dopo: l’attacco concentrico dei soliti politici che guardano troppo la tv anziché fare cose più utili e del plotoncino dei social che si erge a tribunale dei talk. Quando questo attacco viene amplificato dai giornali si crea un clima avvelenato».

Piazzapulita mette di fronte bellicisti e pacifisti: può dire quali si dimostrano più intolleranti verso le posizioni altrui?

«Mi sono stupito quando Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari internazionali, con la quale avevo un accordo di partecipazione a quattro puntate, ha criticato su un giornale il fatto che avessi invitato il professor Carlo Rovelli, un grande intellettuale nonché uno dei maggiori fisici mondiali, su posizioni pacifiste».

Il Foglio ha scritto che Urbano Cairo appare un editore bifronte: governativo e bellicista con il Corriere della Sera, problematico o polifonico con La7. Cosa ne pensa?

«Se un editore è polifonico tanto di cappello, Cairo non ha bisogno che Il Foglio gli insegni il mestiere. L’articolo al quale si riferisce mi descriveva come putiniano dopo una puntata con Roberto Saviano e la figlia di Anna Politkovskaja. È il solito tentativo di etichettare qualcuno come serve a chi scrive. Quell’articolo citava un sondaggio sulla popolarità di Putin all’82% tra gli italiani, mentre si trattava di un rilevamento del suo gradimento presso i russi fatto dal Levada Center, un istituto di ricerche non governativo, di cui ho intervistato il direttore, Denis Volkov. Rifiuto la riduzione in burletta dei talk show. Non capisco perché invitare una sera Santoro è un crimine, ma delle sei puntate in cui ho mostrato la distruzione di Mariupol nessuno ha scritto una riga. Quelli che sostenevano il potere del telecomando e sminuivano la capacità della televisione di orientare i consensi ai tempi di Berlusconi premier oggi fanno esattamente il contrario».

Oltre a riproporre Santoro ha scoperto Orsini e la professoressa Donatella Di Cesare, invitato Bannon, ospitato il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio…

«Orsini l’ho lanciato perché ne avevo colto la forza dirompente, ma l’ho lasciato ad altri perché non amo costruire il programma su un solo ospite. Come detto, si citano solo gli ospiti che servono a costruire lo schema senza ricordare gli altri, Paolo Mieli, Mario Calabresi, Stefano Cappellini, Maurizio Molinari, la lista è lunga. Se invito Evgeniy Popov, deputato russo e, insieme con Vladimir Solovev, uno degli anchorman più influenti, mi serve per far capire come funziona la propaganda russa. Non conosco altre vie per capire cosa c’è nella testa di Putin se non parlare con le persone che gli sono vicine. Credo che il pubblico italiano comprenda questa operazione».

Che cosa pensa di #Cartabianca e della pressione cui è sottoposta Bianca Berlinguer?

«Penso che un editore abbia il diritto di cambiare o spostare nel palinsesto un programma sulla base di una sua valutazione. Vale sia nel pubblico che nel privato. Ma se il cambiamento, come mi pare stia avvenendo per #Cartabianca di Bianca Berlinguer, segue l’attacco proveniente da una parte politica, da un esponente del governo, da qualche componente della Vigilanza, a quel punto l’odore di censura è molto forte».

L’ha convinta Enrico Letta che ha intervistato giovedì sera?

«Ho colto la sua posizione gelida nei confronti di Giuseppe Conte, il quale pone un problema di unità della maggioranza. E, in secondo luogo, mi pare abbia iniziato un percorso di riallineamento alla nuova strategia del premier Draghi, meno schiacciata su Washington».

Per tornare alla domanda?

«Credo che Letta colga la nuova posizione più macroniana di Draghi con un certo sollievo perché agevola il rapporto con un pezzo importante della base del partito, contraria all’invio di armi in Ucraina».

Che cosa pensa della conversione atlantica del Pd?

«Credo che si fosse allineato a Draghi anche a scapito del necessario dibattito interno. Ha conquistato nuovi consensi ma spostandosi verso il centro, trascura temi come lo ius soli e i diritti civili che, personalmente, condivido».

Qual è la sua lettura della visita del premier alla Casa Bianca?

«Penso sia un uomo capace di comprendere la posta in gioco. Parla con Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Ursula von der Leyen. Credo abbia tentato di far capire che il negoziato è una condizione vitale per la sopravvivenza dell’Europa».

Alcuni osservatori vedono nelle sue mosse l’ambizione alla carica di segretario generale della Nato.

«Secondo me vuole rimanere abbastanza a lungo dov’è».

Si candiderà?

«No. Nel 2023 potrà coagularsi una coalizione di forze e Draghi potrebbe essere candidato a guidarla».

Così la politica continuerà a delegare la guida del Paese?

«Se Giorgia Meloni otterrà una grande maggioranza deciderà il centrodestra, se invece si concretizzerà una situazione più complessa Draghi sarà ancora un’opzione. L’alternativa è tra Meloni e Draghi, non vedo terze possibilità».

 

La Verità, 14 maggio 2022

«Pd indifferente ai poveri, meglio la destra»

Buongiorno Michele Santoro: le stanno facendo pagare di aver detto che la guerra è un nemico più mostruoso di Vladimir Putin?

«Mi sembra evidente che il nemico più grande sia la guerra. Una guerra che potrebbe essere nucleare e mettere in discussione l’esistenza della nostra specie».

Le fanno pagare di non demonizzare abbastanza Putin?

«Pago già un’emarginazione che non è cominciata con questa guerra. Mi sono battuto contro l’editto bulgaro di Silvio Berlusconi, ho raccolto voti per chi si dichiarava diverso da lui. Ma che alla prova dei fatti non lo è affatto».

Questa guerra finirà solo con la destituzione di Putin?

«Siamo di fronte al congelamento delle posizioni. L’ipotesi più sciagurata per l’Europa è l’allungarsi del conflitto. Ai morti e ai massacri si aggiungerà la situazione tragica dei profughi e di tutti coloro che già stanno sopportando le conseguenze della pandemia. Il numero dei poveri aumenterà enormemente».

Il vicesegretario della Nato Mircea Geoana ha teorizzato che più si arma l’Ucraina prima finisce la guerra.

«La traduzione pratica di questo linguaggio è il ricorso a sistemi sofisticati di contraerea e all’uso di missili a medio raggio. Quale sarebbe la risposta di Putin? Armi nucleari tattiche? Nessuno ricorda come iniziano le guerre che finiscono male».

Per esempio?

«Il bombardamento dell’Afghanistan giustificato dalla mancata consegna di Bin Laden, ucciso anni dopo in Pakistan. La guerra è continuata per altri undici anni e si è conclusa con una rovinosa ritirata. Oppure l’invasione dell’Iraq giustificata dalla presenza delle inesistenti armi chimiche che ha portato all’Isis e a milioni di morti».

Questi fatti giustificano l’azione di Putin?

«Ne creano le premesse. Putin chiede: perché gli americani possono perseguire unilateralmente i propri interessi strategici e io non posso perseguire quelli russi? La Nato non c’entra? Ma se i militari ucraini vengono addestrati in America vuol dire che l’Ucraina già si comporta come un paese della Nato».

Ha torto Biden quando dice che siccome Putin non vuole trattare, l’unica possibilità per riportare la pace è schiacciarlo militarmente?

«I fatti lo smentiscono. Le rivelazioni del Wall Street Journal sul tentativo del cancelliere tedesco Olaf Scholz dimostrano che chi non ha voluto trattare è Volodymyr Zelensky».

L’Europa e l’Italia hanno interesse a seguire l’America in questa strategia?

«Secondo me non ha interesse nemmeno l’America. È una strategia che si è dimostrata fallimentare in Iraq Afghanistan, Libia. Oggi Biden vuole creare un muro tra Europa e Russia. Ma questo spinge Putin in braccio alla Cina, creando un blocco asiatico in grado d’influire in maniera decisiva sul dollaro».

E l’Europa e l’Italia?

«L’economia europea sarà la più penalizzata. Quanti profughi e disoccupati avremo? Per me è grave che la destra appaia più sensibile alle condizioni degli strati disagiati. Cosa ci dice il voto in Ungheria e in Serbia? Non vince l’indignazione nei confronti di Putin. Perché Marine Le Pen recupera su Macron. Questi politici non sono certo nelle mie simpatie, ma si mostrano più preoccupati per le sorti dei più deboli. In Italia il Pd è totalmente indifferente alle conseguenze della guerra sui ceti più poveri. Mentre devo sentire Giorgia Meloni dire una cosa ovvia: chiudere il gas per noi è un suicidio».

Perché Mario Draghi è il più zelante nel seguire Biden?

«Temo che la mancata elezione al Quirinale l’abbia trasformato in un’anatra zoppa. Lo stesso governo è un’anatra zoppa. Prima non si poteva aprire una crisi per la pandemia ora per la guerra. Il governo sopravvive e basta. Draghi è l’alfiere della linea dell’<intervento armato umanitario>. Zero iniziativa».

Cosa pensa dell’alternativa pace o aria condizionata?

«La guerra la stanno facendo con i missili non con i condizionatori».

Forse ritiene risolutive le sanzioni.

«Allora perché ha approvato l’invio di armi, decisione che, per conto mio, offende la Costituzione. Dovremmo inviare armi a tutti i popoli aggrediti, come fa intendere Giuliano Amato?».

Il fatto che tutti i sondaggi diano una maggioranza contraria all’aumento delle spese militari avrebbe meritato più attenzione?

«Da 15 anni non abbiamo un governo espressione del voto popolare e meno della metà degli aventi diritto va alle urne. Questa democrazia che difendiamo anche con le armi non mi pare scoppi di salute».

Perché Letta e Draghi sembrano gareggiare in allineamento alle volontà americane? C’è qualche poltrona da conquistare?

«Credo che non riescano a concepire un pensiero diverso. Per Letta è più grave perché è un leader di un partito».

Il Pd ha il pensiero dei Dem americani.

«Biden e Letta si assomigliano, ma nel Pd non ci sono Ocasio-Cortez o Bernie Sanders».

I massacri di Bucha sono il punto di svolta della guerra: prima si parlava di negoziato ora c’è spazio solo per le armi?

«Quella strage, sulla quale restano molti dubbi, porta a concludere che con Putin che fa queste cose non si può trattare. Gli stupri, il missile per i bambini. Tutto viene narrato per arrivare a questa conclusione».

Non l’hanno convinta le intercettazioni dei servizi segreti tedeschi che svelano i dialoghi tra i militari russi che giustiziano i civili?

«Le intercettazioni e i morti sono veri. Metto in discussione la connessione tra gli elementi, trasformati in una comunicazione organica per trasformare tutto in uno scontro tra cattivissimi e buonissimi».

Per esempio?

«Chiamare fossa comune quella buca con i cadaveri davanti alla chiesa. Le fosse comuni servono ad occultare cadaveri giustiziati, non adagiati in attesa di essere sepolti. Si mostrano i corpi sulla strada, ma non si capisce quando e dove siano stati giustiziati. Poi si mostra una camera di tortura… Il video dell’ingresso a Bucha della milizia ucraina non mostra né la fossa comune né i morti per strada. Siccome i morti dovevano essere per forza visibili, qualcuno dovrebbe spiegare perché non sono stati mostrati subito».

Il sindaco di Bucha a Piazzapulita ha detto che i cadaveri erano in un’altra zona.

«Nel filmato con la milizia ucraina si vedono levarsi i droni. E i droni li avrebbero visti. E secondo me li hanno visti, ma hanno preferito tenerli al riparo per confezionare adeguatamente il racconto. Detto questo, i morti sono veri. C’è un altro fatto».

Cioè?

«Esiste una guerra civile tra russofili e ucraini. Una guerra combattuta non dagli eserciti regolari, ma da civili e bande avvezze a rappresaglie, torture, vendette di tutti i tipi, com’è sempre nelle guerre civili».

Questa è una guerra dominata dalla propaganda?

«Sicuramente. II linguaggio degli ucraini è molto efficace per gli occidentali, meno per la Cina o l’India. Come per l’esercito, i consulenti americani funzionano bene anche per la comunicazione».

Stiamo camminando su un piano inclinato? Come spiega la voglia di guerra dei nostri media?

«Il conformismo si era già steso ovunque con la pandemia. Perciò i nostri media erano già pronti… Se si deve arrivare a Mosca è necessaria un’escalation della comunicazione».

Ora si calcano i toni apocalittici e si parla di genocidio, forni crematori, stupri di bambini…

«Si usano termini che possono tradurre l’equazione tra Putin e Hitler, sovrapporre le due immagini. Ma mentre Hitler aveva la volontà di annientare gli ebrei, non credo che Putin voglia sterminare gli ucraini».

Letta ha risposto al suo invito di pronunciarsi per il diritto di Alessandro Orsini a partecipare ai programmi Rai?

«No».

Il professor Orsini a Cartabianca censurato da Andrea Romano e Valeria Fedeli, l’eurodeputata Francesca Donato zittita da Paola Picierno: oltre che della guerra il Pd è diventato il partito dell’intolleranza?

«Il Pd per nascondere il vuoto politico in cui si trova si rifugia nell’indignazione facile. Ma dimentica i 20 milioni di russi morti per combattere Hitler».

L’unica voce che prova ad affermare una visione diversa è papa Francesco?

«Mi ha colpito che a Fabio Fazio che gli chiedeva delle conseguenze della guerra sui bambini il Papa ha risposto che più che dei bambini dobbiamo parlare della guerra. Certo, muoiono i bambini, muoiono i civili. Non trascuriamo la sofferenza enorme di vedere questi morti. Però può essere fuorviante parlare dei bambini e delle morti piuttosto che del sacrilegio della guerra. Appena si palesa la possibilità di un accordo si torna a parlare delle atrocità dei bambini e non di come fermare la guerra».

Francesco ha detto che prevale lo schema della guerra sullo schema della pace.

«Bisogna che l’Unione europea si comporti diversamente dagli Stati Uniti e costringa Biden a cercare l’accordo. Perché fin quando non lo cercherà Biden la guerra continuerà».

Un’altra accusa è ai neutralisti. Come sostituire alla prospettiva Zelensky o Putin quella guerra o pace?

«Innanzitutto, non sono neutrale. Condanno l’invasione di Putin di uno stato sovrano. Sto decisamente dalla parte dell’Ucraina. Quelli che s’indignano nei dibattiti ci facciano capire quale obiettivo perseguono. Vogliono arrivare a Mosca e rendere la Russia un Paese simile all’Italia? Non avvertono il peso dei morti, non vogliono la fine del massacro? Vogliono che si concluda con un <lieto fine democratico>. Fra quanti mesi, quanti anni, quanti morti?».

Siamo sempre all’esportazione della democrazia?

«Se la esportiamo con la forza dell’esempio mi va benissimo. Se la vogliamo imporre con le bombe o con una possibile distruzione del mondo, mi va meno bene».

In questa situazione la priorità della pace rischia di aggiornare uno slogan storico: meglio russi che morti?

«L’idea che Putin possa invadere la Polonia è una favoletta buona per giustificare l’equazione con Hitler. I cosacchi non si abbevereranno alla fontana di San Pietro; ma se fosse possibile vorrei evitarmi anche le distruzioni e le radiazioni nucleari». 

 

 La Verità, 9 aprile 2022

«Il dissidente singolo rafforza la propaganda»

La propaganda non tollera il contraddittorio. Se lo fa, lo tratta da eccezione che conferma e rafforza la regola. Ovvero il pensiero unico. In tempi di pandemia: vaccinazioni, lockdown e green pass. In tempi di guerra: campagna belligerante e invio delle armi all’Ucraina. È questo il pensiero di Carlo Freccero che, nell’ora più buia del libero confronto delle idee, torna a esporsi sulla Verità dopo un periodo di silenzio.
Che cosa l’ha colpita in questi giorni sul fronte dell’informazione?

«Tg1 e giornaloni hanno taciuto l’invettiva di papa Francesco contro l’aumento delle spese militari perché, in tempi di propaganda bellica, è molto difficile sostenere contemporaneamente il pacifismo e l’incremento delle spese militari».

Due opzioni che faticano a convivere.

«Il tentativo di mediazione tra pacifismo e bellicismo è più diffuso di quanto si creda. Il Papa stesso, come il vostro giornale ha riportato, pur dichiarandosi a favore della pace, sostiene il diritto all’autodifesa dell’Ucraina. E nelle manifestazioni di piazza molti sostengono contemporaneamente la pace e l’invio di armi all’Ucraina, senza rendersi conto che una scelta del genere può provocare una guerra mondiale».
Come si spiega questa contraddizione?

«Con la propaganda. La propaganda non è necessariamente logica e ci chiede ogni giorno di azzerare le opinioni del giorno precedente, per allinearsi ai nuovi diktat delle autorità. L’abbiamo già visto durante la pandemia».

Cioè?

«L’abbiamo visto con le mascherine. Quando non c’erano erano sconsigliate in quanto inutili e controproducenti. Quando è partito il business sono diventate indispensabili. Così, a giorni alterni accettiamo e respingiamo la guerra».

Principalmente la si accetta e nel caso di alcuni grandi media e alcuni grandi statisti la si vuole proprio.

«Desta sconcerto l’incremento delle spese militari sino al 2% del Pil in un momento in cui il nostro Paese soffre una crisi post-pandemica che ha portato alla chiusura di moltissime attività economiche. I toni belligeranti del discorso di Mario Draghi in risposta all’intervento in Parlamento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky hanno destato nuove preoccupazioni».

In tv alcuni opinionisti dicono di rappresentare la gente, ma i sondaggi mostrano un’opinione pubblica divisa in materia di invio delle armi all’Ucraina.

«Gli italiani vorrebbero aiutare l’Ucraina, ma nello stesso tempo tenersi fuori dalla guerra. La propaganda che ha funzionato così bene per la pandemia ora sembra funzionare meno bene. La chiave interpretativa giusta è il concetto di paura di cui la propaganda si nutre. La paura ci ha reso docili di fronte alla pandemia e alla minaccia della morte per infezione. Ma la guerra è essa stessa fonte di paura. Spingere sulla guerra può provocare forme di dissociazione psicologica».

Qual è la sua valutazione del trattamento riservato dalle tv e dai giornali mainstream al professor Alessandro Orsini?

«Per avere senso, i talk show devono contemplare lo scontro diretto tra opinioni divergenti, altrimenti diventano propaganda. In questo contesto un’unica voce dissenziente rischia di fare il gioco dell’avversario».

Perché?

«Con la tecnica del panino le conclusioni spettano sempre al conduttore e l’effetto che il pubblico ricava dallo spettacolo del dissenso è la convinzione che dissentire non va bene, non conviene, dato che il dissenziente è sempre minoritario e viene messo a tacere. C’è il rischio di rinforzare la tesi che si vorrebbe combattere».

Sta dicendo che alle voci dissonanti converrebbe una sorta di Aventino dei media?

«In un contesto così squilibrato, l’opposizione finisce per fare da spalla al discorso della propaganda, dandole la possibilità di reiterare all’infinito le tesi che deve inculcare. Prima la pandemia, oggi la reductio ad Hitlerum di Putin».

Il trattamento del professor Orsini è dentro questo schema? In fondo ha avuto molta pubblicità…

«La censura è sempre da condannare. In questo caso però il discorso non è tanto di libertà di espressione, ma proprio di propaganda che non ammette contraddizione. Sembra di vivere nel contesto americano del maccartismo».

Addirittura.

«Non mi risulta che Orsini sia un pericoloso estremista. Ho letto un intervento di Giovanni Fasanella, storico e documentarista, che gli attribuiva un atteggiamento piuttosto convenzionale sul terrorismo. Però Orsini è un insegnante universitario, quindi, necessariamente deve dare una spiegazione argomentata del suo pensiero, valutando gli eventi senza fanatismo. Nel contesto attuale non è ammesso: chi cerca di capire viene presentato come un disertore ed un nemico della patria».

Secondo lei lo scandalo è stato generato dalle sue tesi o dal fatto di percepire un compenso come ospite?

«Quasi nessuno partecipa gratis. Alcuni virologi ricevevano ingaggi di tutto rispetto per intervenire nei talk. I compensi vengono ritenuti leciti e addirittura meritori se chi li riceve alimenta il coro del pensiero dominante. Del resto sono stati pubblicati gli aiuti elargiti dal governo alle emittenti private locali e ai giornali disposti ad assecondare l’emergenza. Si trattava di finanziamenti considerevoli, mai visti prima d’ora. Il governo ha raddoppiato il sostegno ai giornali “collaborativi”».

Erano finanziamenti per spazi destinati ad annunci e bollettini sui comportamenti da tenere durante la crisi, non necessariamente hanno influenzato la linea editoriale dei media che li hanno accettati.

«In tempo di caduta libera e crisi generalizzata delle vendite, è comprensibile che quei media si allineino alla versione ufficiale. Senza contare che spesso i giornali sono di proprietà di gruppi che nella pandemia e nella guerra hanno i loro principali interessi».
È un’insinuazione molto forte. Le chiedevo di Orsini.

«Orsini ha scelto di parlare gratis per difendere la sua libertà di espressione. A questo punto dobbiamo chiederci: perché siamo disposti a contenderci un professore nei talk? Perché, come ho detto, il format del talk richiede un contraddittorio per esistere. Il monologo e il coro unanime fanno precipitare gli ascolti secondo lo stesso meccanismo per cui i giornali allineati alle tesi ufficiali continuano a diminuire le vendite  e a perdere autorevolezza».

 

La Verità, 18 marzo 2022

Il caso Orsini e il regime soft dei migliori

La censura dei migliori. Operata dai migliori. I buoni, quelli che stanno dalla parte giusta della Storia. La vittima è il professor Alessandro Orsini, docente di Sociologia del terrorismo internazionale presso la Luiss (Libera università internazionale di studi sociali). Colpevole di avere posizioni non allineate al pensiero unico atlantico. E per di più colpevole di percepire 2.000 euro a puntata per sei puntate di #Cartabianca alle quali l’aveva invitato Bianca Berlinguer. È un filputiniano, così è stato marchiato, lo si può colpire. Dopo la prima ospitata e la levata di scudi, preventiva ma unanime, dal Pd a Italia viva, la Rai ha stracciato il suo contratto. Il direttore di Rai 3, Franco Di Mare, «d’intesa con l’amministratore delegato della Rai» ha deciso di non dar seguito all’accordo «originato dal programma #Cartabianca che prevedeva un compenso per la presenza del professor Orsini». È la Rai al tempo di Mario Draghi e di Carlo Fuortes. Eccezioni e dissonanze non sono tollerate. Almeno Silvio Berlusconi aveva il coraggio di diramare un editto. Ora si censura con un comunicato, in sordina. Con i modi del regime soft. «Mamma Dem comanda e la Rai ubbidisce», ha twittato Marcello Veneziani. Corradino Mineo ha parlato di maccartismo.

Lo scandalo è doppio. Innanzitutto che Orsini esponga critiche alla Nato e all’Unione europea a proposito della situazione che ha portato all’invasione di Putin dell’Ucraina. E poi che lo faccia essendo retribuito. Da Paola Picierno a Stefano Bonaccini, da Andrea Romano a Michele Anzaldi il senso del ragionamento è questo: se vuole dire le sue opinioni lo faccia gratis. Domanda: per essere pagati, come lo sono tutti gli opinionisti da Mauro Corona ad Andrea Scanzi, da Giampiero Mughini a Beppe Severgnini per citare i primi nomi che vengono, bisogna dire cose gradite al padrone del vapore? Berlinguer ha replicato che se si vuole approfondire il dibattito (i talk non si chiamavano programmi di approfondimento?) il contraddittorio è necessario. Escludere una voce rappresentativa di un’opinione presente nella società italiana lo mortificherebbe. «Serve la più ampia pluralità di idee. Non è forse questa la missione del servizio pubblico?», ha chiesto Berlinguer. Orsini si è detto pronto a partecipare al programma anche gratuitamente. Vedremo se il problema sono gli euro o i contenuti del professore. O magari la Berlinguer stessa, che la Rai draghiana vuole accantonare.

La gran cassa del monopensiero lavora a tempo pieno fin dalla pandemia. E con l’invasione dell’Ucraina ha serrato ancora di più le file. In pochi giorni abbiamo letto la lista di proscrizione di indegni filoputiniani, sorta di scomunica civile, redatta da Gianni Riotta. Abbiamo visto Beppe Severgnini accaldarsi nel dire «che bisogna leggere solo i giornali giusti e guardare solo i programmi giusti». Abbiamo letto Massimo Gramellini randellare tutti coloro che deviano dal sentiero bellico per dire che con costoro non ci può essere alcun dibattito. Abbiamo letto Antonio Polito scrivere scandalizzato che «in ogni talk show ce n’è uno». Sarebbe questo lo scandalo. Invece, mi verrebbe da dire: grazie a Dio. Anche se non condividessi nulla di ciò che questo «uno» sostiene. È un fatto di pluralismo, bandiera ammainata dalla sinistra. Di salute della democrazia, principio che ormai i dem disconoscono. Tutti allineati e coperti, si diceva da militare. E chi sgarra, in punizione. O censurati. Dai migliori.