Tag Archivio per: paura

Eugenio Borgna, grande psichiatra e anima gentile

È morto lo psichiatra Eugenio Borgna. Aveva 94 anni, viveva a Borgomanero, in provincia di Novara, dov’era nato nel 1930. Oltre a essere una delle autorità indiscusse della psichiatria italiana e internazionale, Borgna era una persona di enorme sensibilità d’animo. Umile, disposto all’ascolto, capace di farti sentire importante. Mancherà a tutti coloro che hanno a cuore la ricerca del bello e del vero. Di seguito ripubblico l’ultima intervista che ebbi il privilegio di fargli nel marzo del 2020 (nel sito se ne trova un’altra del 2017) a pandemia appena scoppiata.

«Che situazione». In due parole il professor Eugenio Borgna condensa stupore, tenerezza, partecipazione al dramma che stiamo vivendo. Lo si avverte nella vibrazione della voce. Nella preoccupazione paterna. Psichiatra e primario emerito di Psichiatria all’ospedale di Novara, nonché libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali all’università di Milano, prossimo ai novanta, Borgna mi ha sempre colpito per la sua profondità. L’ho intervistato altre volte. Una, nella casa di Novara, dove accettò di vedermi con brevissimo preavviso, spostando altri appuntamenti. Un’altra a Borgomanero, nella «casa dal grande giardino», come la descrive nell’autobiografia Il fiume della vita (Feltrinelli), l’abitazione storica, dove avremmo dovuto incontrarci anche stavolta, se le direttive del governo non l’avessero sconsigliato. È a persone come lui che ci si rivolge in momenti come questi.

Qual è il primo sentimento che le provoca questa situazione?

È un sentimento legato al fatto che non conosciamo ciò che sta avvenendo. Un moto dell’anima che deriva dall’improvvisa immersione in una vita sconosciuta, causata dal virus portatore di conseguenze imprevedibili. È il confronto con l’ignoto. Camminavamo su autostrade rettilinee e senza ostacoli, ora ci troviamo in un percorso oscuro.

Le è mai capitato di vivere un momento paragonabile a questo?

Avevo 13 anni quando fummo costretti a lasciare questa casa per fuggire in montagna, inseguiti dai tedeschi che avevano minacciato di sequestrarci. Mia madre guidava il gruppo di sei figli, l’ultimo di un anno. Mio padre, che non aveva aderito al partito fascista, era entrato nella Resistenza. Fino a quel momento il sentiero dell’adolescenza mi appariva rettilineo. Improvvisamente, era divenuto buio e tortuoso. Non capivo cosa ci stesse opprimendo. I militari tedeschi erano un nemico oscuro. Tutto poteva concludersi da un momento all’altro. Infine, eravamo soli, perché aiutarci significava esporsi alle minacce dei tedeschi.

C’è analogia con la situazione di oggi?

L’analogia è nell’inconoscibilità delle circostanze. Oggi nulla sappiamo del coronavirus e nulla sapevamo allora di quel nemico comparso, scomparso, incombente. Sono entrambe esperienze d’incertezza profonda, relativamente a ciò che può accadere nelle ore successive. Anche allora, come oggi, fede e speranza si alleavano per offrirci la possibilità di un cammino più sereno. E anche allora le campane della chiesa suonavano per offrire un rifugio alla paura.

La paura è causata dall’avvento dell’ignoto?

È un sentimento ineliminabile. Se non lo avvertissimo saremmo dei robot. Pensare di non provare paura o ansia non è giusto e nemmeno umano. La paura ha un oggetto identificato anche se non lo controlliamo. La proviamo dinanzi a un’entità oscura come questo virus, al quale non sappiamo dare una fisionomia scientifica sufficientemente precisa.

Il sociologo Zygmunt Bauman scrive che la paura più terribile è quella «diffusa, sparsa, indistinta», determinata dalla «minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente». Come si convive con questa paura?

Va rimodulata in un contesto più ampio, anche grazie a un’attività interiore che riconosca le risorse di cui disponiamo. La principale delle quali è la speranza per la vita. Senza speranza la paura ci condurrebbe a reazioni psicologiche e psicosomatiche negative. Non si può cancellare la paura, ma con la ragione si può svuotarla dei suoi eccessi e ricondurla in una dimensione più tollerabile. Per esempio, abbiamo ragione di aver paura quando scaliamo una montagna. Ma la gestiamo entro limiti razionali.

Quando non ci si riesce sfocia in angoscia?

L’angoscia è di qualcosa che non si conosce, mentre la paura riconosce la sua causa anche se non sempre ne controlla le dinamiche. È una distinzione sottile. L’angoscia è dentro di noi, come il timore della morte che non sappiamo quando arriva.

Stiamo vivendo un tempo sospeso, in cui non possiamo e non dobbiamo uscire di casa, non possiamo e non dobbiamo stare in gruppo. È anche un tempo in cui si può rientrare in sé stessi?

Nella vita di tutti i giorni siamo ostaggi del presente, privi di memoria e di speranza. Tutti concentrati sul qui e ora. Questa situazione, paradossalmente, ci permette di perdere tempo e di acquistare tempo, per cogliere ciò che avviene dentro di noi, per esempio incontrando gli altri, chi ci aiuta a conoscere noi stessi. Una improvvisa tempesta ci fa comprendere quanto siamo fragili, invitandoci a guardare non solo al nostro piccolo o grande interesse personale, ma a riflettere sul senso della vita. Per cercare di capire la nostra indole profonda, quali sono le nostre speranze e le nostre attese che abitualmente vengono bruciate nell’impulso del tutto e subito.

Di colpo siamo ricchi di tempo?

Queste restrizioni ne cambiano la percezione. È la geniale intuizione di Sant’Agostino, che supera la circolarità di passato presente e futuro, convertendo il tempo dell’orologio nel tempo interiore. In cui in apparenza non facciamo nulla di concreto o immediatamente produttivo, ma in cui possiamo andare al fondo di noi stessi. Inoltrandoci in un sentiero nuovo, sconosciuto come gli effetti della pandemia, ma che ci porta a scoprire il risvolto interiore di ciò che siamo e facciamo.

Che cosa direbbe ai giovani che faticano a rinunciare alle loro abitudini e ad accettare l’isolamento?

Questa «metànoia», questa conversione, mi sembra più difficile negli adulti, nelle persone cristallizzate in un modello di comportamento fatto di lavoro, denaro, lusso. Ci vorranno sforzi inauditi. Mi pare che i giovani possiedano maggiore creatività, generosità e capacità di cogliere l’essenza delle cose. È una convinzione che traggo da tanti incontri con gli studenti nelle scuole superiori. Senza generalizzare, mi pare che spesso rovesciamo sui giovani responsabilità che sono nostre.

Prima che ci fosse l’ultima ordinanza del governo abbiamo visto le foto degli aperitivi affollati. Nei suoi saggi cita Blaise Pascal: «Togliete ai giovani il divertimento e li vedrete inaridirsi di noia».

È vero, ma le faccio due controrepliche. La prima: che responsabilità hanno le famiglie, i genitori, i fratelli maggiori? In che misura incidono su questi comportamenti? Quali attenzioni trasmettono, che parole usano? La seconda obiezione riguarda la comunicazione tardiva della gravità di ciò che stava accadendo. E qui c’entrano i politici e i media. All’inizio si è minimizzato, si sono fatti i paragoni con l’influenza…

Ancora Pascal: «Tutta la infelicità degli uomini viene da una sola cosa che è quella di non saper rimanere in riposo in una stanza». Come possiamo trarre il meglio da questa situazione?

Pascal descrive in modo cinematografico quello che abbiamo provato a dire parlando del tempo interiore. Lui parla del divertimento come distrazione dall’io profondo. Lo stordirsi nelle piazze e nei locali… Fermarci può essere una opportunità anche per il dialogo con gli altri, vincendo l’indifferenza che può bruciare i cuori senza che ce ne accorgiamo.

Questa situazione così drammatica può diventare paradossalmente un’opportunità di crescita?

Crescita è una parola da pronunciare con il cuore in gola quando ci sono persone che muoiono. Oggi siamo tutti un po’ più soli e la solitudine ci obbliga a conoscerci meglio. Dunque ci può aiutare a crescere, se sapremo cercare quel significato che, nelle giornate affannate, è sempre rimosso, dimenticato. In quelle giornate, la stanza di Pascal rimane sguarnita, anonima, senza porte e finestre. Ora possiamo riempirla di silenzio, di ascolto, di dialogo vero. Anche di preghiera, che i credenti possono recitare in sostituzione della messa che non viene celebrata. Di letture, facendosi guidare da Simone Weil, da Rainer Maria Rilke, da Teresa d’Avila che osserva che «coloro che Dio ama molto, li conduce per sentieri di angoscia».

Che libri sta leggendo o rileggendo?

Mi rifugio nelle poesie. Rileggo Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, lo Zibaldone e le pagine sulla malinconia, Carlo Maria Martini. Sto leggendo anche Guarire le malattie del cuore, bellissime meditazioni dell’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi.

Lei che è autore di Saggezza, nella collana Parole controtempo del Mulino, può dirci che cosa vuol dire essere saggi oggi?

Essere consapevoli dei propri limiti. Sapere ciò che possiamo raggiungere e ciò che non possiamo raggiungere. Significa non farci stordire dalle apparenze, cercando di cogliere la sostanza più vera della realtà. Infine, guardare alla speranza come alla stella del mattino. La speranza è anche una medicina. Perché fa sgorgare risorse interiori addormentate.

La percezione della nostra provvisorietà può essere una risorsa anche per il dopo?

Certo, perché ci aiuta a guardare ai nostri giorni, alla nostra quotidianità, muovendo dall’idea che siamo parte di una comunità di destini che lega chi è ricco e chi non lo è, chi è sano e chi è malato.

 

Panorama, 18 marzo 2020

«Faccio sport estremi, ma so bene cos’è la paura»

Tuta alare, paracadute, mountain bike, kayak, deltaplano, immersione, arrampicata… Poi Antartide, deserto, oceano, Himalaya… Tutto questo, e anche altro, è Danilo Callegari: 39 anni, friulano, «avventuriero estremo», come si definisce, protagonista di Extremes adventures Italia, 5 episodi tutti i giovedì su Dmax prodotti da Ballandi per Discovery Italia (e già disponibili sulla piattaforma). Biglietto da visita: «Grazie agli anni passati a servire il mio Paese nelle forze armate sono allenato alla disciplina e alla sopravvivenza in qualunque condizione».

In quali forze armate?

«Ho fatto quattro anni in alcuni reparti della Brigata paracadutisti. Nella Folgore, insomma».

Come mai quattro anni?

«Ero fisso, ho combattuto in Iraq. Poi, per un problema fisico, sono stato costretto a lasciare. Ma su questo non vorrei dilungarmi. Mi sono curato e ho riacquistato il 100% dell’efficienza. A volte si trovano le strade sbarrate anche se i problemi sono risolvibili».

Ha dovuto lasciare l’esercito.

«Con dispiacere sono uscito, ma si è aperta un’altra porta. Da ragazzino avevo due grandi sogni. Il primo era entrare in questi reparti, il secondo fare l’avventuriero di professione. Uno è un lavoro riconosciuto, con un iter definito e un percorso impegnativo».

L’altro?

«L’avventuriero è un lavoro che non esisteva. Andava inventato, costruito da zero, anche se già a 10-11 anni avevo fatto alpinismo, kayak, voli… Però, una volta finito il liceo, ho deciso di arruolarmi».

A che età è uscito dalla Folgore?

«A 24 anni».

Qualcuno le ha trasmesso la passione per gli sport estremi, magari i genitori?

«Non ho genitori appassionati di montagna o avventura. Sono figlio unico, è nato tutto da me».

Una volta sfolgorato?

«Nel 2008 ho iniziato un percorso. Il primo viaggio è stato in Islanda. Parlo delle prime esperienze da avventuriero di professione, non delle performance per la televisione».

Cosa vuol dire avventuriero di professione?

«Mi definisco un avventuriero estremo. Combino i tre elementi, aria terra e acqua, in un’unica avventura composta di discipline estreme outdoor. Perché di professione? Perché faccio business. Da queste performance ricavo una rendita più o meno alta. Vivo facendo l’avventuriero. Ho la partita Iva e una mia società. Faccio formazione aziendale, speech motivazionali e attività di team building».

Altre fonti di rendita?

«La tv e la comunicazione nelle sue varie forme. Questa su Dmax è la terza stagione di Extremes adventures».

Com’è riuscito a realizzare questa scelta?

«Era chiaro che per avere delle entrate dovevo vendere qualcosa. Crearmi una faccia, un curriculum, una credibilità. Per i primi anni ho sempre cercato lavori a tempo determinato, qualsiasi lavoro. E quello che guadagnavo lo investivo nelle spedizioni. Dovevo costruire un’esperienza per riuscire a vendere le mie idee».

Per esempio?

«Mi sono chiesto a chi potevo vendere un’ascensione sull’Himalaya. Un’azienda propone la propria immagine, i propri strumenti. Io posso proporre la mia faccia, la mia idea di avventura, il mio modo di scalare una montagna. Perciò dovevo trovare delle aziende che sposassero la mia idea che, poco alla volta, doveva diventare un marchio. Non è tanto importante dove vado, ma cosa racconto andandoci. È la comunicazione che conta. Un tempo le imprese estreme si vendevano attraverso dati, numeri, record. Oggi si vendono come storie».

Cosa vuol dire precisamente?

«Una volta l’alpinista che batteva un record andava sui giornali e restava nella testa della gente. Adesso il mondo va talmente veloce che l’ascesa di un 8000 o l’attraversamento dell’oceano a remi si dimentica nel giro di una settimana. È la storia che costruisci attorno alla tua impresa che rimane. È quasi più proficuo non raggiungere l’obiettivo ma raccontar bene la storia, che battere un record senza saperci costruire niente attorno».

Lo storytelling. Lei ha scelto l’avventura perché non ama la vita comoda?

«Tutt’altro, amo anche la vita comoda».

Perché rifiuta lo stress cittadino?

«Nemmeno. In questa dimensione ho trovato il mio benessere interiore. In fondo, sono sfide con me stesso. È chiaro che per fare determinate cose devi mettere in conto un certo grado di sacrificio e di sofferenza. Devi accettare una componente di rischio, prepararti a sopportare il caldo, il freddo, mille imprevisti. Però, amando queste emozioni, sai che questa sofferenza verrà ripagata alla grande e con gli interessi».

Come sono gli allenamenti?

«Si dividono in tre aree. Prima di tutto c’è un allenamento specifico, mirato sull’avventura che vado a fare».

La seconda area?

«È quella che chiamo dei livelli tecnici. Per esempio, anche se l’anno prossimo dovrò attraversare il deserto a piedi, essendo un alpinista e uno che va in kayak, devo mantenere una preparazione media anche nelle mie discipline di base».

La terza?

«Sono gli ambientamenti, cioè l’adattamento fuori dalle mie zone di conforto. Abituarmi a temperature estreme, stare in circostanze inusuali per mantenere una disciplina mentale che mi aiuti a gestire situazioni impreviste».

Quanti battiti cardiaci ha a riposo?

«Anche la frequenza cardiaca si modifica in base agli allenamenti e alle situazioni. Per esempio, se devo andare in mezzo al ghiaccio ho bisogno di aumentare la massa grassa e questo cambia anche il battito cardiaco».

Comunque, in media?

«Diciamo meno di 60».

Le è sempre andata bene? C’è qualcuno che conosceva che non è tornato?

«Di amici ne ho persi tanti in questi anni, dal parapendio al paracadutismo alle imprese sott’acqua…».

E queste tragedie non la fanno pensare?

«Certo che sì. Ma penso che la morte arrivi inevitabilmente, arrivi in modo inaspettato. Non credo che dovrei smettere di fare una cosa che mi fa stare bene per paura di un evento ignoto. Non è detto che perché ti cimenti in un’avventura sei più a rischio. Muore inaspettatamente anche chi fa una vita sedentaria».

Qual è la situazione più estrema in cui si è trovato?

«Difficile scegliere, ne dico tre. La prima è stata la discesa dal Manaslu, 8163 di altitudine, l’ottava montagna più alta della terra. Fu una prova molto rischiosa per la stanchezza estrema, l’assenza di visibilità e la neve abbondante che aveva coperto la traccia. Poi nell’Antartide, da solo a 50 gradi sottozero e con venti che soffiavano a 80/90 km orari».

La terza?

«La traversata dall’isola di Zanzibar alla costa della Tanzania, 50 km a nuoto. Lì è stata messa alla prova la tenuta psicologica. Ho nuotato tutta la notte, tutto il giorno e parte della notte successiva. È una zona di mare dove ci sono gli squali, per fortuna non li ho trovati se no non sarei qui».

Erano imprese finanziate?

«Da vari sponsor. Non pagano l’avventura, pagano me. Poi io realizzo una storia importante legata all’avventura che vado a fare».

Cosa vuol dire?

«Per esempio, un piano pubblicitario dell’azienda o un piano per i social. Le forme possono essere tante».

Il posto più estremo dov’è stato?

«L’Antartide, più del deserto e dell’estremo Nord».

La parola paura vuol dire qualcosa per lei?

«Assolutamente sì. È l’emozione più bella che un essere umano possa provare».

Addirittura.

«È lo stato d’animo che riesce a farti essere vigile e attento a ciò che stai per fare. Quindi è l’emozione più bella che ti può capitare».

Diciamo paradossalmente?

«Sì, perché si tende a confondere paura con panico».

Invece?

«Il panico è la perdita del controllo della paura».

L’aspetto positivo della paura sparisce?

«Se non la controlli la paura diventa panico. Se riesci a controllarla ti fa restare vigile e attento a quello che fai».

Ha mai commesso un grave errore?

«Gli errori di calcolo fanno parte del gioco. Quello grave è quando non torni a casa».

Cosa vuol dire che non si deve confondere la rinuncia con il fallimento come dice in un video?

«Quando non si raggiunge un obiettivo spesso ci si sente dire: quindi hai fallito? Io toglierei la parola fallimento dal vocabolario. Una persona che s’impegna per un obiettivo per me ha fatto il 60% del lavoro. Quando sei costretto a rinunciare a qualcosa a cui tieni, comunque, per arrivare lì hai profuso energia e compiuto tanti sforzi: non sarà mai un fallimento perché arrivare fino a lì ti ha insegnato tante cose. Rinunciare non ti fa perdere quello che hai imparato».

Dice che superare i propri limiti «è sempre un’avventura estrema».

«Più che superare preferisco usare il verbo spostare».

Cioè, mettersi sempre alla prova?

«Sì, e vale per tutti a tutti i livelli. Ognuno deve affrontare le proprie prove».

«I limiti esistono soltanto nella nostra testa» è il suo dogma?

«Sì, ma non confondiamo. È ovvio che ci sono prove che l’età o altri limiti impediscono. Ma la maggior parte delle volte chiunque, non solo un atleta, si blocca più per un aspetto mentale che fisico. Per un blocco psicologico. Spesso i problemi sono frutto della nostra mente».

C’è chi, vedendo certe immagini, ha le piante dei piedi che gli friggono…

«Io parlo di un’altra cosa. Se una certa cosa mi fa paura e non la voglio fare, ok. Se invece mi dicessi che voglio farla, ma non ci riesco, allora ci si può lavorare».

Che rapporto ha con la natura, la montagna, il mare?

«La natura è il mio ufficio, il mio Dio. È la divinità che ci circonda, rappresenta tutto».

Non sempre è benevola.

«Per fortuna».

In che senso?

«Almeno ci insegna qualcosa».

Cosa ha pensato della tragedia della Marmolada?

«Il riscaldamento climatico incide su questi eventi, anche se non è stato prevedibile più di tanto. I ghiacciai si sciolgono in tempi lunghi, i seracchi si staccano all’improvviso. È stata una disgrazia enorme».

Cosa pensa di chi si fa i selfie sul cornicione di un grattacielo?

«Sono bravate senza senso. C’è differenza con il professionista che scala una parete e si è allenato mesi per farlo. Le nostre performance non sono una roulette russa, ma prove razionali alle quali ci prepariamo a lungo. All’inizio degli episodi di Extremes adventures si avverte che le attività contenute nel programma sono eseguite da professionisti: “Non imitateli”».

La sua prossima avventura?

«Non posso dire nulla. È un progetto molto delicato al quale sto lavorando. Sempre in solitaria».

 

La Verità, 16 luglio 2022

Anziani, cisgender, virologi Parolario del 2020

Il 2020, il più tragico bisestile dell’ultimo secolo, sarà ricordato come l’anno della pandemia, della nascita del movimento Black Lives Matter, delle morti di Diego Armando Maradona e di Paolo Rossi. Difficile che il parolario che lo riassume possa essere molto spensierato. Anche perché, alle tragedie vere, si aggiunge quella artificiale del politicamente corretto, nemico del buon senso.

 Anziani. Non è un paese per… Vecchi è troppo dispregiativo. Come ha scritto Ferdinando Camon in A ottant’anni se non muori t’ammazzano, nelle terapie intensive i medici sono indotti a scegliere morti più accettabili di altre. In generale, i vecchi sono messi al margine e accompagnati soavemente all’uscita. Ora a fare il lavoro sporco c’è il virus: l’età media dei decessi è 81 anni. Chiamati anziani, trattati da vecchi. Neolingua di George Orwell.

 App. Abbreviazione di applicazione che, a sua volta deriva da Apple… Anzi no, ma quasi. Apple, infatti, significa mela e avendone scelta per logo una morsicata, il marchio di Cupertino sbandiera il peccato originale. Quello mortale delle app «Immuni» e «Io», volute dal governo ancora in carica, è che t’infilano in un ginepraio districabile solo con l’ausilio di un tecnico della Nasa. Cashback o Crashback?

Balconi. Luogo di resistenza collettiva o solitaria durante il primo confinamento. Misto di folclore e conformismo colorito di bandiere arcobaleno, Andràtuttobene, Fratelli d’Italia e altri inni, non sempre nazionali. Desolatamente vuoti nella seconda ondata.

Bancoscontri. Ovvero i famigerati banchi a rotelle voluti dal ministro Lucia Azzolina. Plastico esempio del distacco dalla realtà del governo tuttora in carica. Dovrebbero servire al distanziamento tra gli alunni, ma arrivano fuori tempo massimo. Normali banchi monoposto pronti all’uso sono meno coreografici.

Black Lives Matter. Movimento nato in America dopo la morte di George Perry Floyd procurata da un poliziotto di Minneapolis. Il fatto suscita giusta indignazione in tutto il mondo. Negli Stati uniti il Black Lives Matter origina un secondo movimento, denominato Cancel culture, la cancellazione anche retroattiva di persone e realtà ritenute ostili alle minoranze di razza e di genere. Tra i suoi esiti l’abbattimento delle statue di Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt, l’eliminazione dagli archivi delle piattaforme streaming di Via col vento e l’epurazione dalle testate liberal dei giornalisti non allineati. In Svizzera l’azienda dolciaria Dobler cessa la vendita degli storici Moretti. Tragicomica senza riparo.

Cisgender. Neologismo inserito nell’aggiornamento del dizionario Devoto Oli. Indica quegli stravaganti esseri umani che, crescendo, confermano il sesso della nascita. Uomini che si sentono maschi e donne che si sentono femmine. Grazie alla cultura gender e alla narrazione arcobaleno, il mantenimento del sesso originale diventa una delle infinite varianti. In questi casi l’inglese viene sempre in soccorso.

 Crisi. Di governo. Ciclicamente evocata, minacciata, infine posticipata. Raramente paventata in modo meno credibile. Con l’epidemia in corso e la vaccinazione in arrivo non si può certo andare a votare. Per i partner di governo incollati alle poltrone dal terror panico della non rielezione e del successo del centrodestra l’alibi è perfetto. Vedi rimpasto.

Decrescita. Fiaba narrata da qualche pifferaio magico in disarmo che, tuttavia, ammalia frotte di politici dotati d’istruzione in modica quantità. Abbinata all’aggettivo «felice» forma l’ossimoro meno componibile del Terzo millennio. Lingua delle favole.

Discoteche. Luoghi del male. Focolai della seconda ondata. Quelle della Costa Smeralda, in particolare. Il Billionaire e i suoi gemelli. Per dire, nelle discoteche del Salento è filato tutto liscio. Ma in Puglia non c’è Flavio Briatore. E soprattutto a settembre ci sono le regionali.

Dpcm. Decreto del presidente del consiglio dei ministri. Uno dei tanti acronimi di cui consiste la comunicazione del governo in carica. Che di solito si estrinseca nel «Casalino show», format ordito dal portavoce di Palazzo Chigi nel quale il premier dovrebbe annunciare le prescrizioni per i cittadini, ma poi risponde alle domande sulle cene con la sua fidanzata. La decodifica delle norme è il sinistro rompicapo delle festività. Lingua della supercazzola.

Ecosostenibile. Parola magica che apre ogni porta. Secondo il verbo, condiviso anche da papa Bergoglio, del premio Nobel mancato Greta Thunberg, qualsiasi creazione, da una linea dell’Alta velocità a una pagnotta casalinga, dev’essere tassativamente ecosostenibile o almeno «bio». Ecologia nuova religione universale.

Ferragnez. Un tempo si sarebbe scritto Ferragni & Fedez. Ditta di influencer, fuoriclasse del marketing. La legge del privato che è pubblico non risparmia il di loro pargoletto. Versando 100.000 euro, avviano una raccolta fondi a sostegno del reparto di terapia intensiva del San Raffaele di Milano. Premiati con l’Ambrogino d’oro. Lui scivola nella beneficenza esibita filmandosi in Lamborghini mentre distribuisce 5.000 euro a 5 sconosciuti. Crasi milionaria e furbetta.

Giganti. Del web. Trionfatori della lotteria della pandemia. Chiusi in casa, siamo perennemente connessi. Tutto avviene online. Mentre il Pil mondiale crolla del 10% le 90 maggiori aziende dell’informatica aumentano il profitto di 800 miliardi. Pagando le tasse nei paradisi fiscali.

Inglaliano. O italiese. Lingua della quotidianità, misto di italiano e inglese. Ma non c’è integrazione perché, mentre la popolazione continua a usare l’italiano, il Palazzo comunica british. Sembra che dette così – Task force, Green New Deal, Recovery fund, Cashback, Next Generation Eu – siano realtà di simultanea realizzazione. Ma l’inglese non è la bacchetta magica di Harry Potter. Infatti lentezze, cavilli, conflitti interpretativi, burocrazie, ponti che crollano e vaffa sono sempre in italiano.

Involtini. Primavera. Addentati in favor di telecamera da alcuni conduttori di La7. Il nemico da sconfiggere è il razzismo anticinese, non il virus. Prelibatezza esotica per paladini della correttezza politica.

Mascherina. Dispositivo salvavita. Ora. All’inizio dell’epidemia è ritenuto inutile anche da certi soloni dell’Oms. Nel febbraio scorso ne abbiamo spedite gratuitamente parecchie tonnellate in Cina. Salvo poi cercarle invano quando sono divenute imprescindibili.

Negazionisti. Fino al 2019 erano coloro che negavano l’Olocausto. Con la comparsa del Covid sono anche le frange di complottardi no-mask e teorici da «è tutta una montatura». In ritirata dopo la seconda ondata. L’anatema viene riciclato contro chi eccepisce sulla gestione dell’emergenza.

Paura. Da emozione infantile e da film horror a sentimento planetario. Se non si trasforma in panico può essere salutare, suggerendo prudenza. A volte produce effetti collaterali positivi, come per il governo tuttora bizzarramente in carica, non a caso ribattezzato il governo delle tre paure: del Covid, di perdere la cadrega, dell’uomo nero Salvini. Fumetto dark.

Primula. È la forma dei gazebi dove sarà somministrato il vaccino. Un fiore di color ciclamino(?) ornerà i presidi per l’immunizzazione. Come nel caso dei banchi a rotelle, dei monopattini e delle app, il governo giallorosso tiene molto all’estetica. Si spera che sotto le primule si trovino anche le siringhe e le celle frigorifere.

Rimpasto. Rimpastino. Riassetto. Verifica. Tagliando. Adeguamento. Cambio di passo. Allargamento della squadra. Con il ritorno del teatrino della politica e del governo di palazzo si è rispolverato l’intero vocabolario della Prima repubblica. Tornano anche i pontieri, i tessitori, gli sherpa, i consigliori e i sussurratori come Goffredo Bettini e Gianni Letta. Rimpasti, rimpastini, rimpastati. Lessi, bolliti e ribolliti.

Sardine. Assembramento antisalviniano. Movimento detentore del record mondiale di anacronismo. Desaparecido.

Sessismo. Anatema intermittente a seconda dei soggetti coinvolti. Confronta il trattamento subito da Mauro Corona dopo il «taci gallina!» rivolto a Bianca Berlinguer nella concitazione di #cartabianca con quello avuto da Luciana Littizzetto per il pezzo su Wanda Nara nuda a cavallo che ha suscitato la domanda «il pomello della sella dov’è finito?». I buoni fanno satira e hanno sempre carta bianca.

Stati generali. Nel clima da Rivoluzione francese in cui ci ha catapultato il governo curiosamente in carica, politici, banchieri ed eurocrati sono stati convocati a Villa Pamphilj per «progettare il rilancio» del Paese. Per le indagini sulla scomparsa del piano redatto da Vittorio Colao è stata creata una task force che include Indiana Jones, Ultimo e Federica Sciarelli.

Task force. Organismo affiancato ai vari ministeri per velocizzare l’applicazione dei rispettivi programmi. In realtà, generatore di burocrazie parallele e nuove clientele. Teoricamente significa unità operativa, in pratica è causa d’inestricabili conflitti amministrativi. Ne servirà una nuova per coordinarle tutte?

Virologi. Neosacerdoti del Comitato di salute pubblica. Brancolano nel buio come gli investigatori, ma pontificano come oracoli. C’è il talebano della chiusura totale, il profeta delle ondate, il pasdaran dei tamponi, l’oltranzista del virus sconfitto. La pandemia trascolora in commedia dell’arte. E adotta la lingua di Totò quando il ministro degli Esteri, possibile futuro premier, parla di «vairus». La farsa continua.

 

Panorama, 20 dicembre 2020 (versione integrale)

«Provo a restare umano, nonostante il virus»

Buongiorno Enrico Montesano, o devo chiamarla Monteinsano?

«Mi chiami come vuole (ride). Un po’ di follia non guasta. Com’era quella frase di Friedrich Nietzsche… “Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella che danza”».

Sì, ma la sostanza è che ha una nuova popolarità negativa.

«Non tanto negativa».

Se la chiamano Monteinsano…

«Quando Massimo Gramellini scrive certe cose, quel suo “Caffè” diventa una ciofeca».

Figurarsi se Er Pomata di Febbre da cavallo non ha la battuta pronta. È o non è un pezzo di storia della commedia italiana? E non solo al cinema, pure a teatro e in televisione. Il suo Fantastico del 1988, in coppia con Anna Oxa, detiene ancora il record di ascolti e di vendita dei biglietti della Lotteria Italia. Record ne ha mietuti anche al boxoffice e l’elenco dei titoli memorabili sarebbe lungo. Regista, autore, attore, comico, la politica ha sempre stuzzicato Montesano. Ultimamente si è espresso in modo critico sulla gestione dell’epidemia da coronavirus e ha appoggiato la Marcia per la liberazione di sabato scorso a Roma. L’altro giorno, invece, è stato fermato dalle forze dell’ordine perché non portava la mascherina.

Montesano no-mask?

«L’ho detto anche da ospite di Barbara D’Urso su Canale 5: prima di tutto tengo alla salute del prossimo. Se stanno bene familiari e parenti, sto bene anch’io. Sono una persona di buon senso e mi comporto in modo responsabile».

Cosa vuol dire?

«Che non vado agli aperitivi, non frequento le discoteche ed evito i posti dove c’è confusione. Per strada, se qualcuno mi viene incontro cambio marciapiede e scelgo percorsi alternativi, ci sono tante strade vuote. Stamattina sono uscito per comprare il pane e non ho incontrato nessuno».

E la mascherina?

«Non la porto, ma la tengo in tasca. Entrando dal panettiere l’ho indossata».

All’agente che l’ha fermata perché non la indossava prima ha detto che non riesce a respirare e poi che il Dpcm contraddice una legge dello Stato che prescrive di essere riconoscibili.

«Con il cappello e gli occhiali, se metto la mascherina chi mi riconosce? La legge e il decreto si contraddicono, ma la legge prevale. Poi, dopo 52 anni di polvere di palcoscenico, ho un certo affaticamento dei bronchi. Perciò la mascherina la metto il necessario. Come ha detto il professor Matteo Bassetti, se sono a cinque o dieci metri di distanza, chi posso infettare?».

Fa ostruzionismo da attaccabrighe?

«Assolutamente. Caso mai è questo Dpcm che confligge con la legge».

Perché non è andato alla Marcia per la liberazione di sabato scorso mentre ha partecipato a quella per la liberazione di Chico Forti?

«Perché quella in favore di Chico Forti non si prestava a interpretazioni errate com’è successo per la Marcia per la liberazione, dove si è detto di tutto tranne ciò che importava agli organizzatori. Io non ci sono andato perché a queste manifestazioni a volte spuntano gruppi strani. Avevo detto da subito che aderivo, ma che non avrei partecipato».

Lei rifiuta la definizione di negazionista, preferisce il termine minimizzatore?

«Mi definisco critico. Il negazionismo riguarda l’Olocausto e significa negare una cosa accaduta. Io non nego che esista questo curioso virus. Purtroppo c’è».

Cosa intende per curioso?

«Sorvoliamo se sia naturale, determinato dal salto di specie o sviluppato artificialmente. Esiste. Quello che non trovo giusto è terrorizzare, spaventare la popolazione. La prima parola che sento quando accendo la tv è Covid, l’ultima quando spengo è lockdown. Che è una parola americana, lo sa che nel vocabolario inglese non si trova? Lo usano nei penitenziari americani quando mettono un detenuto in isolamento. Allora parlano di lockdown».

E lei lo rifiuta?

«Non mi rassegno al confinamento».

Il consulente del ministero della Salute Walter Ricciardi ha detto che è stata «una misura di cieca disperazione».

«Certamente molto rigida e senza che ne abbiamo avuto grandi risultati. Per contro, ora cominciamo a vederne le conseguenze economiche. Chi non l’ha adottata, come la Svezia, in percentuale sta più o meno come noi».

Forse se non avessimo chiuso staremmo peggio?

«Che ne sappiamo. Si potevano fare scelte diverse».

Per esempio?

«Lockdown localizzati. I nostri governanti sono in una situazione scomoda, non do loro addosso per partito preso. Però trovo strano che a Chiasso si debba indossare la mascherina e oltre il confine no. Paesi come la Svizzera stanno uscendo bene senza adottare misure così drastiche. D’accordo con il professor Giulio Tarro, la ricercatrice Antonietta Gatti, Alberto Zangrillo e Bassetti auspico che la seconda ondata abbia una carica virale più blanda e ci risparmi un’altra chiusura totale».

Si profila per il periodo natalizio.

«Manco potemo fa l’albero? Che palleee!».

Si fida di più dei virologi che ridimensionano il pericolo?

«Io non sono un esperto, ma leggo di tanti medici austriaci o inglesi che in alcuni documenti esprimono punti di vista meno allarmisti».

I dati non giustificano l’allarme?

«Non lo so… Parlare di casi mi sembra un’espressione generica. Molti medici dicono che una persona positiva asintomatica non è malata. Positivo a che cosa? Siamo pieni di virus, il nostro corpo reagisce… Perché tranne qualche medico di famiglia, nessuno dice: non vi intossicate, non fumate, mangiate sano, prendete le vitamine che aumentano le difese… Poi può capitare che una persona con altre malattie si contagi. Io credo che il virus esista eccome. Ma numerosi medici dicono che i pazienti che hanno la febbre e i primi sintomi si possono curare senza correre in ospedale. Questo mi conforta e non è invitare a fregarsene delle precauzioni. Gli italiani sono persone di buon senso».

Quando è nato il CanaleMontesano su YouTube dove legge brevi testi di Adolf Huxley, George Orwell, Michel Onfray?

«È nato durante il confinamento per fare compagnia a chi era chiuso in casa. Ho iniziato con i miei personaggi, Torquato il pensionato, Famo Blas, Il conte Tacchia, il Figlio di papà… Poi vedendo che queste letture avevano successo li ho lasciati un po’ in disparte».

Chi sono i suoi seguaci?

«Persone desiderose di aprire un po’ gli occhi. Mi suggeriscono letture, mi mandano i libri a casa… Questo rapporto col pubblico vuol dire che c’è bisogno di questi pensieri e che tanti sono stanchi delle urla dei talk show o dei reality».

È sempre stato un grande lettore?

«Abbastanza».

Ultimamente si è spostato su nuovi autori?

«Un po’ più mirati. Critici del pensiero unico. Poi un libro porta l’altro. Il filosofo Gunther Anders fa un riferimento a Hannah Arendt, un altro cita Elias Canetti… Non compro libri online perché voglio che i negozi del vicinato sopravvivano. Proviamo a rimanere umani, con i nostri pregi e difetti, e allontaniamo questo transumanesimo incombente».

Che cosa la preoccupa?

«Lo scienziato che vuole sostituirsi a Dio, vuole modificare la natura umana».

Cosa significa «Eretici e guerrieri», lo slogan con cui conclude i suoi video?

«È una frase di Carlos Castaneda che invita a mantenere una libertà di giudizio».

C’è troppo conformismo?

«Domina il politicamente corretto. Ne parlavo già nel mio spettacolo del 2007 intitolato È permesso? È permesso criticare il pensiero unico stimolandone uno alternativo?».

Legge La teoria della dittatura di Onfray, parla di terrorismo sanitario: estremismo?

«Forse per contrastare decisioni altrettanto estreme. La paura non è una buona compagna perché abbassa le difese immunitarie. Nella trasmissione della D’Urso ho citato una frase sul concetto di salute diffusa dall’Oms quando era un organismo affidabile: “La salute è uno stato dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale, non mera assenza di malattia”».

Cosa c’è dietro?

«In rete gira una battuta in romanesco sui prodotti esportati dalla Cina: “Ao’… er coronavirus è l’unica cosa cinese che dura tanto”».

È merito del governo se rispetto alla Francia, alla Spagna, alla Gran Bretagna abbiamo una percentuale di contagi inferiore?

«A maggior ragione questa diffusione della paura non è giustificata. E tutte queste restrizioni sono una contraddizione. Se i risultati sono buoni perché dobbiamo stringere la vite ancora di più? Forse non siamo noi i complottisti, ma qualcun altro. Faccio sempre salvi i nostri uomini di governo… Magari c’è qualcosa che viaggia al di sopra della Merkel, di Macron, di Conte».

Cosa vuol dire?

«La quarta rivoluzione industriale, il Nuovo ordine mondiale».

La globalizzazione, il 5G.

«Non ne sento il bisogno, stavo bene pure con il 3G. Vorrei un referendum per capire se ci serve davvero».

Vede molti effetti nocivi?

«Perché questa corsa senza interpellare i popoli? Giustamente ci preoccupiamo del Covid-19, ma non conosciamo i danni collaterali che il 5G può provocare. Ci sono studi che documentano che le grandi epidemie si presentano sempre in corrispondenza di rivoluzioni tecniche e tecnologiche».

In televisione la chiamano ancora? Con i suoi spettacoli, intendo.

«Forse c’è un po’ di timore. Potremmo fare un programma che stimolasse domande negli spettatori, ma forse non si vuole proprio questo. Ricorda quella massima: Castigat ridendo mores (corregge i costumi ridendo ndr)».

In questa crisi i lavoratori dello spettacolo sono stati tra i più penalizzati.

«Dopo la bellissima manifestazione di Milano ce ne vorrebbe una anche a Roma. Forse queste norme trascurano le reali necessità del mondo dello spettacolo. Dietro un primo attore c’è un indotto enorme, la scenografia, il trucco, il facchinaggio, i trasporti, il personale, tutti i servizi. Il teatro è vita e cultura. Un teatro accende la vita della via dove si trova. La gente ha anche bisogno di distrarsi, invece è tutto fermo».

Sugli aerei si sta gomito a gomito, negli stadi all’aria aperta possono entrare solo mille persone.

«L’Olimpico può tenerne fino a 70.000, possiamo farne entrare 30.000? Io capisco che non dobbiamo mettere in ginocchio le compagnie di volo, ma gli aerei sono anche abitacoli angusti con circolazione della stessa aria. Durante il lockdown, avevano chiuso persino i parchi ai bambini…».

Beppe Grillo è partito da un blog e poi ha fondato un movimento: il suo obiettivo qual è?

«Vorrà dire che se un comico vi ha distrutto un altro comico vi salverà. Guardi che è solo una battuta, niente più. Non voglio fondare nulla».

 

La Verità, 17 ottobre 2020

«L’opulenza non educa, la società austera sì»

Filostar: per Umberto Galimberti si può coniare un vocabolo ad hoc. I suoi video su YouTube contano centinaia di migliaia di visualizzazioni. Come le popstar, il filosofo antropologo piscoanalista va in tournée (in questi giorni Ancona, Montebelluna, Gavazzana, Brà…), riempie teatri, attira giovani e adulti. Ha partecipato alla conversazione con l’insigne psichiatra Eugenio Borgna al Meeting di Rimini intitolata «Le sfide del vivere nell’epoca del nichilismo». Il 15 settembre terrà una lectio su «I Greci, l’anima e l’amore» all’Arena di Verona nell’ambito del Festival della bellezza. «La filosofia non si studia più», osserva anche in questa intervista. Ma il pubblico accorre e forse politici e governanti dovrebbero trarne qualche conseguenza in materia di scuola.

Perché il nemico numero uno di oggi è il nichilismo?

«Il nichilismo è un dato di fatto. Per descriverlo, Friedrich Nietzsche ha usato tre parole fulminanti: “Manca lo scopo”. Manca la risposta al perché, tutti i valori si svalutano. Che i valori si svalutino non è particolarmente interessante perché essi non scendono dal cielo. Sono coefficienti sociali che una comunità adotta per ridurre la conflittualità».

Per esempio?

«Prima della Rivoluzione francese la convivenza era basata su criteri gerarchici, dopo si è strutturata sulla cittadinanza. I valori sono cambiati, ma la storia non è finita».

Se il nichilismo non è figlio della crisi di valori, lo è del pensiero debole o del primato della tecnica, come diceva Emanuele Severino?

«È figlio soprattutto della mancanza di futuro. Un tempo, essendo prevedibile, il futuro conteneva una promessa. Quando mi sono laureato nel 1965 sapevo che mi aspettavano il concorso e l’abilitazione: nell’ottobre dell’anno dopo ero in cattedra. Il futuro prevedibile è motivante, se è incerto demotiva. Questo è il nocciolo del nichilismo».

A soffrirne maggiormente sono i giovani?

«I giovani sono le vittime principali. Ma neppure gli adulti ne sono immuni perché sono diventati dei funzionari di apparato».

Cosa significa?

«Apparato sono i sistemi produttivi. La catena di montaggio, lo studio del notaio, un protocollo sanitario, i programmi ministeriali della scuola. L’adulto deve realizzare gli scopi dell’apparato nel quale opera a prescindere dal fatto che li condivida o no. Se è un funzionario di banca, entro una scadenza deve vendere mille titoli deteriorati. Se ascolta la sua coscienza che si ribella perde il posto di lavoro, se vuole conservarlo la mette a tacere e obbedisce all’apparato. Questo processo è iniziato con il nazismo».

La prevalenza della gerarchia e degli ordini.

«Gitta Sereny, una giornalista ungherese, fece ore di interviste a Franz Stangl, il direttore del campo di concentramento di Treblinka, chiedendogli per 170 volte cosa provasse quando mandava a morte migliaia di ebrei, ma Stangl non rispondeva mai. Finché una volta disse: perché continua a pormi questa domanda? Io non ero incaricato di provare qualcosa. Dovevo eseguire un programma: eliminare 3000 persone entro le undici del mattino e altre 5000 entro le cinque del pomeriggio: “Ero un funzionario, obbedivo agli ordini di un superiore”. Nell’età della tecnica questa è la risposta esatta. Vale per tutti, compresi gli operai delle acciaierie di Brescia che confezionano bombe antiuomo».

Perché sostiene che la tecnica genera nichilismo?

«La tecnica non si preoccupa del progresso dell’umanità, ma del suo stesso autopotenziamento. Già nel 1970 Pie Paolo Pasolini distingueva tra sviluppo e progresso. Il frigorifero, il computer, il cellulare sono tecnologia. La tecnica è la forma di razionalità più alta mai raggiunta dall’uomo e consiste nel raggiungere il massimo dei risultati con il minimo di mezzi. Questa razionalità è comune anche al mercato. Che però ha anche un tratto umanistico, la passione per il denaro, dal quale la tecnica è esonerata. Se si impone quest’unica forma di convivenza, l’uomo rischia l’estromissione dalla storia perché è fatto di componenti irrazionali come il dolore, l’amore, l’immaginazione, l’ideazione, il sogno, la fantasia. Per la tecnica questi fattori sono impacci».

Anche l’etica lo è?

«Nell’età della tecnica l’etica è patetica: può solo implorare la tecnica di non fare ciò che può».

Certi esperimenti estremi di laboratorio.

«Non cloniamo gli uomini, non facciamo la fecondazione eterologa… Ma se si può tecnicamente fare, prima o poi si farà».

La tecnica ha l’ultima parola.

«Per Platone era la politica, la “tecnica regia”, il luogo della decisione. Oggi la politica non decide, ma guarda all’economia che a sua volta si basa sulle risorse tecnologiche. La tecnica funziona e basta».

Dobbiamo temerla?

«È inutile temere. L’uomo deve rendersi conto che non è più il soggetto della storia, ma è la tecnica a farlo funzionare con i suoi parametri».

Droni, robot, intelligenza artificiale, transumanesimo.

«Da Oswald Spengler con Il tramonto dell’Occidente fino a Emanuele Severino, i filosofi ripetono queste cose. Ma nessuno ci bada e la filosofia sarà eliminata dai licei. Nel 1966 Martin Heidegger diceva a Der Spiegel: “Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra”. Si era spaventato vedendo le fotografie della terra scattate dalla luna. “Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto”. Lo diceva senza aver visto cos’è diventata la tecnica oggi».

Lei era l’ottavo di dieci figli, orfano di padre a 14 anni e si è laureato. Che cosa è cambiato rispetto a oggi?

«Niente è cambiato. Allora se volevi laurearti dovevi lavorare per comprarti i libri. Io sono andato in Germania… Allora si faceva oggi non si fa più».

Non è un dettaglio secondario.

«Siamo molto più ricchi, ma l’opulenza corrompe i costumi».

La movida obbligatoria, la cultura dello sballo e le dipendenze derivano da questo vuoto interiore?

«Droga, alcol e annessi sono anestetici contro l’angoscia del futuro. Con la sua essenza anestetica, la droga aiuta i giovani a vivere nell’assoluto presente».

In che cosa mancano gli adulti verso di loro?

«Mi pare che ormai le famiglie siano un disastro. C’è pochissimo dialogo, padri e madri non sanno che parlare serve finché i figli hanno meno di 12 anni. Dopo c’è solo l’esempio».

Padri e madri si vantano di essere loro amici.

«Altro disastro. Perché è una sottrazione di autorità. Gli amici i figli se li trovano da soli».

E la scuola, la formazione: la politica le dà lo spazio che le spetta?

«La politica non ha mai pensato la scuola in termini di educazione dei giovani, ma sempre di occupazione degli insegnanti. Se uno studente trova uno o due professori che sappiano affascinarlo può ritenersi fortunato. Gli altri sette son lì a prendere lo stipendio e a demotivare gli studenti».

Un errore della cultura contemporanea è stato far credere ai giovani che il progresso è illimitato e si è invulnerabili?

«Non abbiamo il senso della misura. I Greci dicevano che chi conosce il proprio limite non teme il destino. Abbiamo vissuto nell’illusione del progresso infinito. Per avere coscienza del limite non basta che i genitori dicano di no, cosa che per altro non fanno più. Il senso del limite deriva dallo stato di necessità, come accadeva negli anni Cinquanta. Non voglio dire che dobbiamo tornare al passato, ma che l’opulenza non educa, mentre una società austera sì. Per questo sono favorevole a reintrodurre il servizio civile obbligatorio: a vent’anni, 12 mesi ben lontano da casa».

La pandemia può essere un avvertimento. C’è sottovalutazione o enfatizzazione del pericolo?

«Direi sottovalutazione. Abbiamo centri di eccellenza sanitaria, ma abbiamo smantellato la medicina territoriale. Basta vedere le sorti toccate in questo periodo ai malati di diabete e di tumore».

Discoteche chiuse o aperte?

«Aprirle è stata un’imprudenza. È ovvio che quando si balla si sta uno addosso all’altro. E poi basta con questi giovani “poverini, hanno sofferto il lockdown”… Chi è morto l’ha sofferto di più. Qualche sacrificio possono farlo anche loro. Balli e danze torneranno quando il contagio sarà superato».

Ci sono i primi suicidi. Quanto possiamo resistere nel clima di emergenza senza che influisca sulla nostra psiche?

«Che la vita sia precaria non lo scopriamo adesso. Noi occidentali siamo la parte più rassicurata del pianeta. Ma non viviamo certo in stato di denutrizione, assediati da malattie inguaribili, privi di farmaci. Ci farebbe bene confrontarci di più con chi vive in condizioni davvero precarie».

L’assenza di senso oggi può essere colmata dall’ambientalismo, l’antirazzismo, l’antifascismo?

«Se sono espressioni individuali sì, meno se sono un fenomeno collettivo. Il Sessantotto, il Risorgimento, l’Illuminismo, anche l’attuale movimento di protesta in Bielorussia, danno un senso finché si raggiunge lo scopo. Negli anni Settanta i pazienti mi sottoponevano problemi sentimentali, affettivi, sessuali. Oggi nessuno mi parla di questo. Le persone si chiedono che senso ha la propria vita: è questa mancanza il vero disagio odierno. Che senso ha la mia esistenza se dal lunedì al venerdì sono un funzionario di apparato?».

Parteciperà al Festival della bellezza. Dove cercare una bellezza che aiuti ad affrontare la crisi nella quale ci troviamo?

«La bellezza vera è coniugata con la bontà, ha una valenza etica. I Greci abbinavano sempre bello e buono. È un concetto che si capisce bene osservando il suo contrario, cioè la mancanza di etica. Non è bello vedere gente che non paga le tasse, che inquina, che maltratta i più deboli. Una bellezza non coniugata con la bontà è evanescente come una nuvola che sparisce».

Cosa vuol dire che una società cambia a colpi di amore come ha detto al Meeting di Rimini?

«La vita avanza in forza dell’amore, non c’è altro motore. Le vite si spengono quando non sono più amate. Chi è innamorato ha una forza, una potenza maggiore. Si sta al mondo finché qualcuno ci ama».

 

La Verità, 29 agosto 2020

«Così la paura può aiutarci a essere migliori»

Che situazione». In due parole il professor Eugenio Borgna condensa stupore, tenerezza, partecipazione al dramma che stiamo vivendo. Lo si avverte nella vibrazione della voce. Nella preoccupazione paterna. Psichiatra e primario emerito di Psichiatria all’ospedale di Novara, nonché libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali all’università di Milano, prossimo ai novanta, Borgna mi ha sempre colpito per la sua profondità. L’ho intervistato altre volte. Una, nella casa di Novara, dove accettò di vedermi con brevissimo preavviso, spostando altri appuntamenti. Un’altra a Borgomanero, nella «casa dal grande giardino», come la descrive nell’autobiografia Il fiume della vita (Feltrinelli), l’abitazione storica, dove avremmo dovuto incontrarci anche stavolta, se le direttive del governo non l’avessero sconsigliato. È a persone come lui che ci si rivolge in momenti come questi.

Qual è il primo sentimento che le provoca questa situazione?

È un sentimento legato al fatto che non conosciamo ciò che sta avvenendo. Un moto dell’anima che deriva dall’improvvisa immersione in una vita sconosciuta, causata dal virus portatore di conseguenze imprevedibili. È il confronto con l’ignoto. Camminavamo su autostrade rettilinee e senza ostacoli, ora ci troviamo in un percorso oscuro.

Le è mai capitato di vivere un momento paragonabile a questo?

Avevo 13 anni quando fummo costretti a lasciare questa casa per fuggire in montagna, inseguiti dai tedeschi che avevano minacciato di sequestrarci. Mia madre guidava il gruppo di sei figli, l’ultimo di un anno. Mio padre, che non aveva aderito al partito fascista, era entrato nella Resistenza. Fino a quel momento il sentiero dell’adolescenza mi appariva rettilineo. Improvvisamente, era divenuto buio e tortuoso. Non capivo cosa ci stesse opprimendo. I militari tedeschi erano un nemico oscuro. Tutto poteva concludersi da un momento all’altro. Infine, eravamo soli, perché aiutarci significava esporsi alle minacce dei tedeschi.

C’è analogia con la situazione di oggi?

L’analogia è nell’inconoscibilità delle circostanze. Oggi nulla sappiamo del coronavirus e nulla sapevamo allora di quel nemico comparso, scomparso, incombente. Sono entrambe esperienze d’incertezza profonda, relativamente a ciò che può accadere nelle ore successive. Anche allora, come oggi, fede e speranza si alleavano per offrirci la possibilità di un cammino più sereno. E anche allora le campane della chiesa suonavano per offrire un rifugio alla paura.

La paura è causata dall’avvento dell’ignoto?

È un sentimento ineliminabile. Se non lo avvertissimo saremmo dei robot. Pensare di non provare paura o ansia non è giusto e nemmeno umano. La paura ha un oggetto identificato anche se non lo controlliamo. La proviamo dinanzi a un’entità oscura come questo virus, al quale non sappiamo dare una fisionomia scientifica sufficientemente precisa.

Il sociologo Zygmunt Bauman scrive che la paura più terribile è quella «diffusa, sparsa, indistinta», determinata dalla «minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente». Come si convive con questa paura?

Va rimodulata in un contesto più ampio, anche grazie a un’attività interiore che riconosca le risorse di cui disponiamo. La principale delle quali è la speranza per la vita. Senza speranza la paura ci condurrebbe a reazioni psicologiche e psicosomatiche negative. Non si può cancellare la paura, ma con la ragione si può svuotarla dei suoi eccessi e ricondurla in una dimensione più tollerabile. Per esempio, abbiamo ragione di aver paura quando scaliamo una montagna. Ma la gestiamo entro limiti razionali.

Quando non ci si riesce sfocia in angoscia?

L’angoscia è di qualcosa che non si conosce, mentre la paura riconosce la sua causa anche se non sempre ne controlla le dinamiche. È una distinzione sottile. L’angoscia è dentro di noi, come il timore della morte che non sappiamo quando arriva.

Stiamo vivendo un tempo sospeso, in cui non possiamo e non dobbiamo uscire di casa, non possiamo e non dobbiamo stare in gruppo. È anche un tempo in cui si può rientrare in sé stessi?

Nella vita di tutti i giorni siamo ostaggi del presente, privi di memoria e di speranza. Tutti concentrati sul qui e ora. Questa situazione, paradossalmente, ci permette di perdere tempo e di acquistare tempo, per cogliere ciò che avviene dentro di noi, per esempio incontrando gli altri, chi ci aiuta a conoscere noi stessi. Una improvvisa tempesta ci fa comprendere quanto siamo fragili, invitandoci a guardare non solo al nostro piccolo o grande interesse personale, ma a riflettere sul senso della vita. Per cercare di capire la nostra indole profonda, quali sono le nostre speranze e le nostre attese che abitualmente vengono bruciate nell’impulso del tutto e subito.

Di colpo siamo ricchi di tempo?

Queste restrizioni ne cambiano la percezione. È la geniale intuizione di Sant’Agostino, che supera la circolarità di passato presente e futuro, convertendo il tempo dell’orologio nel tempo interiore. In cui in apparenza non facciamo nulla di concreto o immediatamente produttivo, ma in cui possiamo andare al fondo di noi stessi. Inoltrandoci in un sentiero nuovo, sconosciuto come gli effetti della pandemia, ma che ci porta a scoprire il risvolto interiore di ciò che siamo e facciamo.

Che cosa direbbe ai giovani che faticano a rinunciare alle loro abitudini e ad accettare l’isolamento?

Questa «metànoia», questa conversione, mi sembra più difficile negli adulti, nelle persone cristallizzate in un modello di comportamento fatto di lavoro, denaro, lusso. Ci vorranno sforzi inauditi. Mi pare che i giovani possiedano maggiore creatività, generosità e capacità di cogliere l’essenza delle cose. È una convinzione che traggo da tanti incontri con gli studenti nelle scuole superiori. Senza generalizzare, mi pare che spesso rovesciamo sui giovani responsabilità che sono nostre.

Prima che ci fosse l’ultima ordinanza del governo abbiamo visto le foto degli aperitivi affollati. Nei suoi saggi cita Blaise Pascal: «Togliete ai giovani il divertimento e li vedrete inaridirsi di noia».

È vero, ma le faccio due controrepliche. La prima: che responsabilità hanno le famiglie, i genitori, i fratelli maggiori? In che misura incidono su questi comportamenti? Quali attenzioni trasmettono, che parole usano? La seconda obiezione riguarda la comunicazione tardiva della gravità di ciò che stava accadendo. E qui c’entrano i politici e i media. All’inizio si è minimizzato, si sono fatti i paragoni con l’influenza…

Ancora Pascal: «Tutta la infelicità degli uomini viene da una sola cosa che è quella di non saper rimanere in riposo in una stanza». Come possiamo trarre il meglio da questa situazione?

Pascal descrive in modo cinematografico quello che abbiamo provato a dire parlando del tempo interiore. Lui parla del divertimento come distrazione dall’io profondo. Lo stordirsi nelle piazze e nei locali… Fermarci può essere una opportunità anche per il dialogo con gli altri, vincendo l’indifferenza che può bruciare i cuori senza che ce ne accorgiamo.

Questa situazione così drammatica può diventare paradossalmente un’opportunità di crescita?

Crescita è una parola da pronunciare con il cuore in gola quando ci sono persone che muoiono. Oggi siamo tutti un po’ più soli e la solitudine ci obbliga a conoscerci meglio. Dunque ci può aiutare a crescere, se sapremo cercare quel significato che, nelle giornate affannate, è sempre rimosso, dimenticato. In quelle giornate, la stanza di Pascal rimane sguarnita, anonima, senza porte e finestre. Ora possiamo riempirla di silenzio, di ascolto, di dialogo vero. Anche di preghiera, che i credenti possono recitare in sostituzione della messa che non viene celebrata. Di letture, facendosi guidare da Simone Weil, da Rainer Maria Rilke, da Teresa d’Avila che osserva che «coloro che Dio ama molto, li conduce per sentieri di angoscia».

Che libri sta leggendo o rileggendo?

Mi rifugio nelle poesie. Rileggo Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, lo Zibaldone e le pagine sulla malinconia, Carlo Maria Martini. Sto leggendo anche Guarire le malattie del cuore, bellissime meditazioni dell’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi.

Lei che è autore di Saggezza, nella collana Parole controtempo del Mulino, può dirci che cosa vuol dire essere saggi oggi?

Essere consapevoli dei propri limiti. Sapere ciò che possiamo raggiungere e ciò che non possiamo raggiungere. Significa non farci stordire dalle apparenze, cercando di cogliere la sostanza più vera della realtà. Infine, guardare alla speranza come alla stella del mattino. La speranza è anche una medicina. Perché fa sgorgare risorse interiori addormentate.

La percezione della nostra provvisorietà può essere una risorsa anche per il dopo?

Certo, perché ci aiuta a guardare ai nostri giorni, alla nostra quotidianità, muovendo dall’idea che siamo parte di una comunità di destini che lega chi è ricco e chi non lo è, chi è sano e chi è malato.

 

Panorama, 18 marzo 2020