«Faccio sport estremi, ma so bene cos’è la paura»
Tuta alare, paracadute, mountain bike, kayak, deltaplano, immersione, arrampicata… Poi Antartide, deserto, oceano, Himalaya… Tutto questo, e anche altro, è Danilo Callegari: 39 anni, friulano, «avventuriero estremo», come si definisce, protagonista di Extremes adventures Italia, 5 episodi tutti i giovedì su Dmax prodotti da Ballandi per Discovery Italia (e già disponibili sulla piattaforma). Biglietto da visita: «Grazie agli anni passati a servire il mio Paese nelle forze armate sono allenato alla disciplina e alla sopravvivenza in qualunque condizione».
In quali forze armate?
«Ho fatto quattro anni in alcuni reparti della Brigata paracadutisti. Nella Folgore, insomma».
Come mai quattro anni?
«Ero fisso, ho combattuto in Iraq. Poi, per un problema fisico, sono stato costretto a lasciare. Ma su questo non vorrei dilungarmi. Mi sono curato e ho riacquistato il 100% dell’efficienza. A volte si trovano le strade sbarrate anche se i problemi sono risolvibili».
Ha dovuto lasciare l’esercito.
«Con dispiacere sono uscito, ma si è aperta un’altra porta. Da ragazzino avevo due grandi sogni. Il primo era entrare in questi reparti, il secondo fare l’avventuriero di professione. Uno è un lavoro riconosciuto, con un iter definito e un percorso impegnativo».
L’altro?
«L’avventuriero è un lavoro che non esisteva. Andava inventato, costruito da zero, anche se già a 10-11 anni avevo fatto alpinismo, kayak, voli… Però, una volta finito il liceo, ho deciso di arruolarmi».
A che età è uscito dalla Folgore?
«A 24 anni».
Qualcuno le ha trasmesso la passione per gli sport estremi, magari i genitori?
«Non ho genitori appassionati di montagna o avventura. Sono figlio unico, è nato tutto da me».
Una volta sfolgorato?
«Nel 2008 ho iniziato un percorso. Il primo viaggio è stato in Islanda. Parlo delle prime esperienze da avventuriero di professione, non delle performance per la televisione».
Cosa vuol dire avventuriero di professione?
«Mi definisco un avventuriero estremo. Combino i tre elementi, aria terra e acqua, in un’unica avventura composta di discipline estreme outdoor. Perché di professione? Perché faccio business. Da queste performance ricavo una rendita più o meno alta. Vivo facendo l’avventuriero. Ho la partita Iva e una mia società. Faccio formazione aziendale, speech motivazionali e attività di team building».
Altre fonti di rendita?
«La tv e la comunicazione nelle sue varie forme. Questa su Dmax è la terza stagione di Extremes adventures».
Com’è riuscito a realizzare questa scelta?
«Era chiaro che per avere delle entrate dovevo vendere qualcosa. Crearmi una faccia, un curriculum, una credibilità. Per i primi anni ho sempre cercato lavori a tempo determinato, qualsiasi lavoro. E quello che guadagnavo lo investivo nelle spedizioni. Dovevo costruire un’esperienza per riuscire a vendere le mie idee».
Per esempio?
«Mi sono chiesto a chi potevo vendere un’ascensione sull’Himalaya. Un’azienda propone la propria immagine, i propri strumenti. Io posso proporre la mia faccia, la mia idea di avventura, il mio modo di scalare una montagna. Perciò dovevo trovare delle aziende che sposassero la mia idea che, poco alla volta, doveva diventare un marchio. Non è tanto importante dove vado, ma cosa racconto andandoci. È la comunicazione che conta. Un tempo le imprese estreme si vendevano attraverso dati, numeri, record. Oggi si vendono come storie».
Cosa vuol dire precisamente?
«Una volta l’alpinista che batteva un record andava sui giornali e restava nella testa della gente. Adesso il mondo va talmente veloce che l’ascesa di un 8000 o l’attraversamento dell’oceano a remi si dimentica nel giro di una settimana. È la storia che costruisci attorno alla tua impresa che rimane. È quasi più proficuo non raggiungere l’obiettivo ma raccontar bene la storia, che battere un record senza saperci costruire niente attorno».
Lo storytelling. Lei ha scelto l’avventura perché non ama la vita comoda?
«Tutt’altro, amo anche la vita comoda».
Perché rifiuta lo stress cittadino?
«Nemmeno. In questa dimensione ho trovato il mio benessere interiore. In fondo, sono sfide con me stesso. È chiaro che per fare determinate cose devi mettere in conto un certo grado di sacrificio e di sofferenza. Devi accettare una componente di rischio, prepararti a sopportare il caldo, il freddo, mille imprevisti. Però, amando queste emozioni, sai che questa sofferenza verrà ripagata alla grande e con gli interessi».
Come sono gli allenamenti?
«Si dividono in tre aree. Prima di tutto c’è un allenamento specifico, mirato sull’avventura che vado a fare».
La seconda area?
«È quella che chiamo dei livelli tecnici. Per esempio, anche se l’anno prossimo dovrò attraversare il deserto a piedi, essendo un alpinista e uno che va in kayak, devo mantenere una preparazione media anche nelle mie discipline di base».
La terza?
«Sono gli ambientamenti, cioè l’adattamento fuori dalle mie zone di conforto. Abituarmi a temperature estreme, stare in circostanze inusuali per mantenere una disciplina mentale che mi aiuti a gestire situazioni impreviste».
Quanti battiti cardiaci ha a riposo?
«Anche la frequenza cardiaca si modifica in base agli allenamenti e alle situazioni. Per esempio, se devo andare in mezzo al ghiaccio ho bisogno di aumentare la massa grassa e questo cambia anche il battito cardiaco».
Comunque, in media?
«Diciamo meno di 60».
Le è sempre andata bene? C’è qualcuno che conosceva che non è tornato?
«Di amici ne ho persi tanti in questi anni, dal parapendio al paracadutismo alle imprese sott’acqua…».
E queste tragedie non la fanno pensare?
«Certo che sì. Ma penso che la morte arrivi inevitabilmente, arrivi in modo inaspettato. Non credo che dovrei smettere di fare una cosa che mi fa stare bene per paura di un evento ignoto. Non è detto che perché ti cimenti in un’avventura sei più a rischio. Muore inaspettatamente anche chi fa una vita sedentaria».
Qual è la situazione più estrema in cui si è trovato?
«Difficile scegliere, ne dico tre. La prima è stata la discesa dal Manaslu, 8163 di altitudine, l’ottava montagna più alta della terra. Fu una prova molto rischiosa per la stanchezza estrema, l’assenza di visibilità e la neve abbondante che aveva coperto la traccia. Poi nell’Antartide, da solo a 50 gradi sottozero e con venti che soffiavano a 80/90 km orari».
La terza?
«La traversata dall’isola di Zanzibar alla costa della Tanzania, 50 km a nuoto. Lì è stata messa alla prova la tenuta psicologica. Ho nuotato tutta la notte, tutto il giorno e parte della notte successiva. È una zona di mare dove ci sono gli squali, per fortuna non li ho trovati se no non sarei qui».
Erano imprese finanziate?
«Da vari sponsor. Non pagano l’avventura, pagano me. Poi io realizzo una storia importante legata all’avventura che vado a fare».
Cosa vuol dire?
«Per esempio, un piano pubblicitario dell’azienda o un piano per i social. Le forme possono essere tante».
Il posto più estremo dov’è stato?
«L’Antartide, più del deserto e dell’estremo Nord».
La parola paura vuol dire qualcosa per lei?
«Assolutamente sì. È l’emozione più bella che un essere umano possa provare».
Addirittura.
«È lo stato d’animo che riesce a farti essere vigile e attento a ciò che stai per fare. Quindi è l’emozione più bella che ti può capitare».
Diciamo paradossalmente?
«Sì, perché si tende a confondere paura con panico».
Invece?
«Il panico è la perdita del controllo della paura».
L’aspetto positivo della paura sparisce?
«Se non la controlli la paura diventa panico. Se riesci a controllarla ti fa restare vigile e attento a quello che fai».
Ha mai commesso un grave errore?
«Gli errori di calcolo fanno parte del gioco. Quello grave è quando non torni a casa».
Cosa vuol dire che non si deve confondere la rinuncia con il fallimento come dice in un video?
«Quando non si raggiunge un obiettivo spesso ci si sente dire: quindi hai fallito? Io toglierei la parola fallimento dal vocabolario. Una persona che s’impegna per un obiettivo per me ha fatto il 60% del lavoro. Quando sei costretto a rinunciare a qualcosa a cui tieni, comunque, per arrivare lì hai profuso energia e compiuto tanti sforzi: non sarà mai un fallimento perché arrivare fino a lì ti ha insegnato tante cose. Rinunciare non ti fa perdere quello che hai imparato».
Dice che superare i propri limiti «è sempre un’avventura estrema».
«Più che superare preferisco usare il verbo spostare».
Cioè, mettersi sempre alla prova?
«Sì, e vale per tutti a tutti i livelli. Ognuno deve affrontare le proprie prove».
«I limiti esistono soltanto nella nostra testa» è il suo dogma?
«Sì, ma non confondiamo. È ovvio che ci sono prove che l’età o altri limiti impediscono. Ma la maggior parte delle volte chiunque, non solo un atleta, si blocca più per un aspetto mentale che fisico. Per un blocco psicologico. Spesso i problemi sono frutto della nostra mente».
C’è chi, vedendo certe immagini, ha le piante dei piedi che gli friggono…
«Io parlo di un’altra cosa. Se una certa cosa mi fa paura e non la voglio fare, ok. Se invece mi dicessi che voglio farla, ma non ci riesco, allora ci si può lavorare».
Che rapporto ha con la natura, la montagna, il mare?
«La natura è il mio ufficio, il mio Dio. È la divinità che ci circonda, rappresenta tutto».
Non sempre è benevola.
«Per fortuna».
In che senso?
«Almeno ci insegna qualcosa».
Cosa ha pensato della tragedia della Marmolada?
«Il riscaldamento climatico incide su questi eventi, anche se non è stato prevedibile più di tanto. I ghiacciai si sciolgono in tempi lunghi, i seracchi si staccano all’improvviso. È stata una disgrazia enorme».
Cosa pensa di chi si fa i selfie sul cornicione di un grattacielo?
«Sono bravate senza senso. C’è differenza con il professionista che scala una parete e si è allenato mesi per farlo. Le nostre performance non sono una roulette russa, ma prove razionali alle quali ci prepariamo a lungo. All’inizio degli episodi di Extremes adventures si avverte che le attività contenute nel programma sono eseguite da professionisti: “Non imitateli”».
La sua prossima avventura?
«Non posso dire nulla. È un progetto molto delicato al quale sto lavorando. Sempre in solitaria».
La Verità, 16 luglio 2022