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«Sono impaziente, però dico sempre la verità»

È il Signornò della politica italiana. Mai che qualcosa gli vada bene, che gli si senta promuovere qualcuno o qualcosa. Nei talk sbuffa, manifesta insofferenza, tutti lo temono. In questa intervista con Panorama, Massimo Cacciari parla dei 100 giorni del governo Meloni, dello sprofondo del Pd, della Chiesa post-Ratzinger e dei giovani di Ultima generazione, bocciati anche loro come le sardine.

Professor Cacciari, è una mia impressione o è più critico con il Pd che con Giorgia Meloni?

È una sua impressione. Sul Pd ho critiche radicali, con la Meloni una distanza culturale complessiva, il che non significa che non sappia apprezzare il valore storico di una donna per la prima volta presidente del consiglio in Italia, e il valore della persona per avercela fatta.

Siamo arrivati a 100 giorni di governo, sta per finire la luna di miele con gli italiani?

Le lune di miele finiscono per legge di natura. La durata del governo dipenderà da come saprà affrontare i nodi della crisi, ben oltre la stessa finanziaria.

Le sembra che si pratichino troppe correzioni di rotta?

Rispetto alle promesse elettorali. Nella sostanza si procede sul «binario Draghi» – e si sapeva bene che non poteva essere diversamente. Su quei binari mi sembra si proceda con l’accelerato.

Sapersi correggere è anche una dimostrazione di forza?

Certamente sì. Ma, le ripeto, si è corretto ben poco. Sulle accise? Ma, appunto, ogni persona ragionevole sapeva già distinguere promesse da possibilità reali. Le vere questioni riguardano come «garantire« un debito che si aggrava di giorno in giorno, e come realizzare il Pnrr.

Perché c’è poca attenzione anche da parte delle opposizioni al Pnrr?

Perché neppure loro avrebbero saputo come portarlo avanti. Soprattutto per il Sud, dove andrebbero investite il 40% delle risorse messe a disposizione.

Pandemia, guerra in Ucraina, inquinamento e riscaldamento globale: si passa da un’emergenza all’altra?

È lo «stato dell’emergenza». Questa è la questione davvero epocale. Che mette in crisi i funzionamenti elementari dello Stato democratico. Tutto sembra avvenire, come per la pandemia, per cause «naturali» – e allora è necessario siano gli «scienziati» o i «competenti» a decidere, e che le decisioni siano rapidissime -così ogni confronto e discussione si trasformano in «perdita di tempo». La verità è che occorre reinventare la nostra democrazia. Meglio però far finta di nulla e sopravvivere, come fa la nostra politica.

Gli Stati nazionali decidono sempre meno?

Sopravvivono. Contano ancora, eccome, perché nessun organismo sovra-nazionale funziona davvero, a partire dall’Onu. Ma sulle questioni globali e di fronte allo strapotere delle multinazionali e degli scambi finanziari sono, singolarmente presi, del tutto impotenti. La nostra chance è sempre quella: l’unità politica europea. Unità che si allontana sempre più.

Perché ha stupito quando ha detto che questo governo ha meno bisogno di ingraziarsi la Chiesa perché su questioni come la famiglia e l’aborto c’è già una sintonia di fondo?

Perché è ovvio sia così; sulla carta, almeno. Poi, questo governo, se vuole mantenere buoni rapporti col Vaticano, dovrà radicalmente cambiare tono su altre questioni, a partire dalla tragedia degli immigrati.

Anche sull’inverno demografico c’è intesa?

Certo. La Chiesa non può che essere per una famiglia «che generi». E così penso dovremmo essere tutti consapevoli che una civiltà che non genera più è destinata a scomparire, a prescindere dalla nostra fede o dalle nostre filosofie.

Perché le sue affermazioni spiazzano i suoi interlocutori e anche lei si irrita di fronte a certe domande?

Perché ho questo grave difetto: l’impazienza. Me ne scuso con i miei interlocutori. Per quanto riguarda le mie idee, penso che spiazzino soltanto gli ipocriti: spesso non faccio che affermare come stanno le cose puramente e semplicemente.

In un’altra occasione ha detto che Giorgia Meloni è un’esponente di destra ma non è la Le Pen, sempre spiazzando i suoi interlocutori.

La destra francese ha caratteri propri che vengono da molto lontano. Non ha da «farsi perdonare» regimi fascisti perché non ce l’ha fatta a formarli – in compenso ha pienamente collaborato coi nazisti, come i repubblichini nostrani. Ma per certi versi – integralismo, nazionalismo, anti-semitismo – è stata anche peggio di quella italiana. Io credo che Giorgia Meloni mostri di aver pienamente superato tutta questa ideologia, a differenza della Le Pen.

C’è discrepanza tra i sondaggi su Giorgia Meloni, per ciò che valgono, e l’atteggiamento prevalente dei media?

Forse. Ma i sondaggi valgono ancora meno dei media che ormai, forse con l’eccezione della tv, non formano in alcun modo l’opinione pubblica. Gli italiani da vent’anni vanno cercando qua e là un’offerta politica decente. Assaggiano Renzi, poi i 5 Stelle, poi Salvini, ora la Meloni. I voti, fuorché residui zoccoli duri, come per il Pd il quadrilatero emiliano, sono mobili qual piuma al vento.

Ha avuto qualche contraccolpo a livello di visibilità e nei rapporti personali per le posizioni critiche assunte nel pieno della pandemia?

Di visibilità e popolarità, glielo assicuro, non me ne importa nulla. Ho criticato la gestione politica della pandemia, e non certo i vaccini. E credo che i fatti mi abbiano dato ampia ragione. Ora per fortuna abbiamo svoltato, e non ha più senso parlarne.

Studiosi e intellettuali come Giorgio Agamben e Carlo Rovelli ora sono visti con diffidenza, mal tollerati?

Agamben è il filosofo italiano più conosciuto al mondo. Non ha certo bisogno della tolleranza dei media italici.

La crisi della sinistra italiana è tutta figlia di quella europea o ci mette anche del suo?

Ci mette del suo, perché la sua è una storia del tutto particolare. Non si tratta della storia di una socialdemocrazia, come più o meno in tutti gli altri Paesi europei, ma di quella di forze diverse e per un lungo periodo anche divise; non solo Pci e Psi, ma anche sinistra Dc. Comporle non era difficile, era semplicemente impossibile. Il Pd poteva nascere soltanto da un nuovo progetto, e cioè dal riconoscimento da parte di tutti i soci della conclusione delle loro rispettive esperienze. È mancata ogni analisi storica e critica, e di conseguenza ci si è arrangiati a sopravvivere sull’eredità. Ciò ha condotto a una crescente subalternità, prima culturale e poi anche pratica, alle potenze economiche e politiche che guidano i processi di globalizzazione.

Dopo la sconfitta elettorale Enrico Letta ha detto: non siamo riusciti a connetterci con chi non ce la fa. Secondo lei come può avvenire questa riconnessione?

Come si può credere a un segretario che esce con simili battute dopo una generazione che se le sente dire da tutti coloro che hanno ragionato sull’involuzione del suo partito?

Guardando al cammino intrapreso per il congresso le sembra che il Pd sia sulla buona strada?

Faccia un congresso aperto, serio, con tutto il gruppo dirigente dimissionario, con un programma che preveda un partito a struttura federale, che punta a un nuovo rapporto col territorio. Faccia tutto quello che non si sta facendo.

Per chi voterà tra i quattro candidati?

Non andrò a votare. Avrei votato Gianni Cuperlo se si fosse impegnato in questi anni in una battaglia interna dura e esplicita, formando una sua corrente.

A che cosa si deve il fatto che quasi tutti gli ultimi segretari del Pd o hanno lasciato la politica o hanno lasciato il Pd: Veltroni, Renzi, Martina, Epifani, Bersani.

In alcuni casi ai raggiunti limiti di età. Renzi non ha lasciato nulla, anzi, credo che ne sentiremo parlare ancora a lungo. Veltroni ha sbagliato tutto lo sbagliabile, lasciamo perdere. Martina mi sembrava in gamba. Ha forse i limiti caratteriali di un Cuperlo, non ama battersi.

Aprire al ritorno di D’Alema e Bersani è una buona mossa?

Non torna nessuno, mi creda.

Che cosa perde la Chiesa con la morte di Joseph Ratzinger?

La grande speranza della nuova evangelizzazione d’Europa e quella ancora più grande di una pace tra cristianesimo d’Oriente, russo, e d’Occidente.

Che cosa pensa delle proteste dei ragazzi di Ultima generazione?

Ci sono sempre stati movimenti giovanili. Emergono e affondano come le sardine… primavere senza estate. Le forme stesse della comunicazione inducono tale precarietà. Non sta a me dare consigli – odiosissimo mestiere – ma direi loro: organizzate gruppi di discussione, di studio, date vita all’interno di scuole e università a iniziative autonome. Senza pensiero critico non ci si oppone al politichese regnante.

Conserva qualche elemento di speranza o è totalmente scettico sul futuro dell’Italia?

Disperare è impossibile. Anche il suicida, diceva Giacomo Leopardi, spera qualcosa; magari di distruggere la vita di chi gli sopravvive.

Approva il presidenzialismo?

Non sono mai stato contrario al presidenzialismo in sé. Sono contrario a riforme spot, ora le Regioni, domani il Parlamento, dopodomani il presidenzialismo. Una riforma istituzionale è di sistema o non è. Mi dicano che cosa col presidenzialismo deve mutare per Parlamento, Regioni e autonomie, e poi discutiamo.

Può essere un modo per irrobustire il processo decisionale e resistere alla globalizzazione degli stati di emergenza?

Potrebbe esserlo, sì. Ma alle condizioni che ho detto.

Ha mai pensato di tornare in politica?

Forse nell’aldilà, ormai.

 

Panorama, 25 gennaio 2023

«Il Pd è una setta, pensa già al suo congresso»

Indisciplinato, ingenuo, inquieto. Si descrive così Tommaso Cerno, senatore uscente del Pd. Friulano, giornalista, già direttore dell’Espresso, presidenzialista convinto, è l’unico gay dichiarato in Parlamento. Ma al momento del voto di fiducia sul ddl Zan si è astenuto.

Come mai il suo nome non è comparso nella bagarre delle candidature?

«Tre mesi fa avevo chiesto a Enrico Letta di non considerarmi perché sapevo che non l’avrebbero fatto».

Motivo?

«Pago il mio quattro in condotta. Ciò che io chiamo libertà di pensiero per loro è incapacità di stare in comunità. Avrei potuto crederci se non avessero candidato Luigi Di Maio».

Con lui si sono smentiti?

«Era uno che diceva “mai con il partito di Bibbiano”.  Eliminata la condotta, potevano bocciarmi in filosofia, dove però ne so più di loro».

Come definirebbe il suo rapporto con il Pd ?

«Quello di un uomo ingenuo che credeva di essere saggio».

Spieghi.

«Pensavo di entrare in un luogo dove parlare della sinistra fosse la cosa più importante. Invece ho scoperto che si può parlare solo come vogliono loro. È così nelle sette».

Per lei è stata una prigione mentale?

«Più un deserto mentale. Mi sono sentito abbandonato mentre la carovana prendeva la sua direzione. Mesi senza ricevere una telefonata. Il senso di esclusione è ciò che mi ha fatto più male».

Pietra sopra definitiva?

«Certo. Ma continuerò a parlare più di prima della mia idea di sinistra con la scrittura e la voce di cittadino e giornalista».

Come giudica la composizione delle liste?

«È lo specchio dell’identità politica di Enrico Letta e della sua segreteria».

Ovvero?

«Ricordavo che il Pd era fatto di primarie, di gazebo, di dibattiti di piazza. Poi è arrivato Nicola Zingaretti che almeno si è portato dietro un congresso. Ora c’è il primo segretario eletto con un applauso, come al televoto. La selezione di queste elezioni si è svolta sul suo telefonino».

Letta ha ceduto alla voglia di vendetta contro i renziani?

«La cosa incredibile è che non se n’è reso conto. Letta è fuggito in Francia ed è tornato come se un congresso del Pd si fosse aperto nel 2014 e il suo compito fosse quello di chiuderlo. Peccato perché ha avuto l’occasione di rifondare la più grande e variegata sinistra che i cocci della Seconda Repubblica gli avevano messo davanti».

La vendetta è l’esclusione di Luca Lotti?

«Lotti è il diversivo. Serviva un nome forte da far sembrare il capro espiatorio. La realtà è che l’accordo con Carlo Calenda è saltato per il timore di avere uno sfidante moderato alle primarie che seguiranno il voto».

Al prossimo congresso?

«Certo. È lo stesso motivo per cui è saltato Giuseppe Conte. La prospettiva è interna al Pd perché sanno già che le elezioni sono perse. Ma questo è un tradimento delle famiglie italiane. Se togli Lotti, devi spiegarmi perché candidi Elly Schlein».

Perché?

«Per depotenziare Stefano Bonaccini, sempre in vista del congresso. L’altra donna che poteva guidare il Pd è Debora Serracchiani. Letta ha escluso Lotti e ha trasformato nel suo alter ego l’ex vicesegretaria di Matteo Renzi. Sono logiche politiche democristiane che ammiro, ma che umanamente non condivido».

Anche Monica Cirinnà è stata punita con un collegio a rischio.

«Più che Monica Cirinnà è stato punito il suo cane e mi spiace perché le bestie non hanno colpa. Le racconto un aneddoto».

Prego.

«Io sono l’unico gay dichiarato in Senato. Bene: non ho mai ricevuto una telefonata per chiedermi cosa pensassi del ddl Zan. Da finocchio in Parlamento…».

Già questo termine è un’autoesclusione.

«Lo uso perché non ho bisogno di nascondermi dietro alle parole per essere orgogliosamente me stesso».

Non si sarà astenuto sulla fiducia per ripicca?

«Il ddl Zan contiene l’85% di cose necessarie al Paese, a cominciare dalla parte contro l’odio. In Italia la legge Mancino tutela le minoranze, cita i mafiosi e le persone di colore, ma non i gay. È quasi un’istigazione di Stato a delinquere».

Insomma. Il restante 15%?

«Il 10% sono idee di sinistra culturalmente discutibili, che la destra non voleva. Infine, c’è un 5% di errore madornale sulla libertà di parola che un giornalista non avrebbe mai potuto approvare».

Infatti lei non l’ha fatto.

«Il Pd e Letta sapevano benissimo che con una piccola modifica sarebbe passato. Invece decisero che Zan era Mosè e che la legge che il Dio dei gay gli aveva consegnato era immodificabile. Il vero motivo era avere un’idea da spendere in campagna elettorale. Di fronte a questo gioco, ho provato a dire “ma” e sono subito diventato un conservatore di destra. Questi comportamenti sono delle sette, non dei partiti».

Cosa vuol dire candidare sia Andrea Crisanti che Roberto Speranza?

«Certificare due errori. Il primo è ammettere che sul Covid si è fatta una politica casuale. Se candidi il responsabile delle politiche del governo e l’uomo che lo ha più criticato vuoi la moglie ubriaca e la botte piena».

Oppure applichi il «ma anche» veltroniano?

«Io vedo il tentativo d’infondere nel corpo elettorale la sensazione di essere in pericolo, mentre pensavo che si volesse rassicurarlo».

Il secondo errore?

«Presentarsi guardando indietro, dicendo che il Covid può ancora cambiare la nostra vita».

Rimettere la pandemia al centro, vedi il «Destra no vax» di Repubblica, giova alla sinistra?

«Visto dal Nordest il titolo di Repubblica è un falso. In Friuli con Massimiliano Fedriga e in Veneto con Luca Zaia le zone gialle sono arrivate prima che altrove. La Lega di governo è stata più speranzosa di Speranza».

Come giudica la gestione della pandemia di Speranza?

«Per sistemare i guai di Speranza il prossimo governo avrà bisogno del ministro Carità. Speranza non ha capito che il diritto alla salute s’inserisce nel diritto alla vita. Non possono servire tre anni per trovare equilibrio tra salute ed economia. L’esasperazione del contrasto al virus me l’aspetto da un medico non da un politico».

Una volta il Pd candidava i magistrati oggi i virologi.

«Candidare Crisanti contro l’emergenza salute non è molto diverso da candidare Cicciolina per affermare l’autogestione del corpo. Anziché tracciare la sua strada, la politica ricorre agli specialisti. È l’ammizzione di un’inadeguatezza. Per risolvere la quadruplicazione della bolletta elettrica bisognerebbe candidare Elon Musk».

Perché firmò con Dario Parrini, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, un ddl che introduceva il presidenzialismo?

«Perché la sinistra aveva perso le elezioni e si poteva davvero pensare di favorire un processo che permettesse ai cittadini di scegliere “tra noi e loro”, come dice ora Letta. I cittadini devono poter scegliere su tutto, non solo su un pezzetto. È quello che voleva fare Berlusconi quando mise il nome sul simbolo. Oggi se vince Salvini governa Conte, se Salvini si dimette governa ancora Conte, se cade Conte spunta Draghi».

Pur di attaccare Berlusconi, che forse è stato improvvido, il Pd nasconde quel progetto di legge?

«Berlusconi ha detto quello che ha sempre detto. Se un Paese sceglie il presidenzialismo l’eletto col sistema precedente decade. Se la riforma istituzionale diventa una trovata elettorale avremo sempre una legge fatta per sconfiggere qualcuno. Salvo poi essere smentiti come avvenne con il Rosatellum che doveva fermare i 5 stelle, che invece stravinsero. Democrazia è far decidere ai cittadini da chi vogliono essere governati».

Che cosa pensa degli accordi e disaccordi nel centrosinistra?

«Letta poteva andare da solo e provare a essere davvero il primo partito italiano. Avrebbe potuto dire ai cespugli: voi fate quello che volete, io faccio “la grande alleanza delle due P”, palazzo e piazza, con quello che resta del popolo viola, dei girotondi, del Vaffa di Grillo. Oppure poteva fare il contrario: mettere dentro tutti, da Conte a Calenda. Entrambe le strade avevano pro e contro. Il peggio è la via di mezzo, qualcuno sì e qualcuno no, perché il messaggio è confuso».

La comunicazione è efficace?

«Siamo passati da smacchiare il giaguaro ad avere gli occhi della tigre. Il fatto è che sono entrambi animali in via d’estinzione».

L’agenda Draghi è scomparsa?

«Non è mai esistita. Era la sintesi minima di un governo di emergenza nazionale nato per spendere dei soldi, quelli del Pnrr. In questo Draghi è bravo. Quando l’emergenza è diventata mondiale e i soldi bisognava trovarli, il governo è caduto».

I diritti civili, lo ius scholae, la dote per i diciottenni finanziata dalla patrimoniale sono idee vincenti?

«Sono temi su cui la sinistra dibatte da anni. Lo ius scholae è il minimo sindacale. Il ddl Zan andava bene vent’anni fa. Oggi ci sono necessità più avanzate del matrimonio egualitario. Sembrano gli esami di riparazione di una sinistra superata».

La sinistra avanzata non sarà quella del politically correct?

«La sinistra è morta allontanandosi dai poveri e dalle parolacce. Negli anni Settanta era la destra a indossare la cravatta e il doppiopetto. La sinistra era per la libertà d’espressione e chiamava la realtà col linguaggio del popolo. È la sinistra che ha sporcato i giornali, le vignette, il linguaggio… Pensare di parlare con stecca e squadra mi fa venire i brividi».

Francesco Piccolo su Repubblica ha scritto che il Pd è vittima del fuoco amico: perché secondo lei?

«Non esiste il fuoco amico, esiste la franchezza amica. Io non so se la destra stia decidendo le candidature col bastone o cantando. Credo che la sinistra abbia bisogno di qualcuno che le dice come stanno le cose. La capacità di autocritica è sempre stato un grande patrimonio della sinistra».

Chi crede davvero alle ingerenze di Medvedev sul voto italiano?

«Solo chi non capisce che la vera ingerenza arriva per posta e si chiama bolletta. Il resto sono tweet ininfluenti».

Come andrà a finire?

«Penso che gli italiani non abbiano ancora scelto. Che Giorgia Meloni sia l’unica realtà nuova è un fatto oggettivo. Tutti gli altri, da Berlusconi a Letta, da Salvini a Conte e perfino a Calenda, li abbiamo già visti governare. Gli italiani devono decidere se provarla o no, senza troppi fantasmi».

La sinistra come digerirebbe la Meloni prima donna premier?

«Con invidia. Ci riuscirebbe la destra senza quote multicolore».

Lei tornerà al giornalismo?

«Essere un libero pensatore in Parlamento non è gratificante. Ma i giornali e i libri sono anch’essi dei parlamenti dove continuerò a esprimermi con l’abituale franchezza. Sperando che i miei amici la prendano come un contributo costruttivo».

 

La Verità, 20 agosto 2022

 

 

 

 

 

 

 

«Ecco perché sarebbe meglio un Mattarella bis»

Il pregio maggiore di Michele Ainis, uno dei più autorevoli costituzionalisti che la nostra Repubblica dei presidenti può vantare, è la capacità di rendere comprensibile la materia opaca dell’architettura delle istituzioni, gli incastri dei palazzi, le competenze degli organi dello Stato. L’ultimo suo saggio, pubblicato da La nave di Teseo, s’intitola Presidenti d’Italia – Atlante di un vizio nazionale. Secondo il sito Dagospia un suo recente editoriale su Repubblica sta facendo tentennare Sergio Mattarella sulla possibilità di un secondo mandato.

Una bella soddisfazione, professore?

«Non ho nessun riscontro diretto. Se così fosse, dimostrerebbe la sensibilità del presidente Mattarella ai problemi costituzionali. Del resto, è professore di diritto costituzionale».

Il suo ragionamento era più o meno questo: siamo in emergenza e questo Parlamento è inadeguato a nominare un nuovo presidente, perciò meglio allungare l’attuale settennato e scegliere l’inquilino del Colle con le prossime camere?

«Non esattamente, un mandato a tempo sarebbe una sgrammaticatura istituzionale. Io sono partito dalla constatazione di un Parlamento in crisi di legittimità. Non ultimo a causa di un referendum che ha benedetto la scelta di amputarne il numero dei componenti. Questo deficit di legittimità potrebbe indebolire il nuovo presidente, mentre non lo farebbe con il vecchio, che risolverebbe il problema».

Il ragionamento fila, la strada è spianata?

«No, perché si aggiungono due riflessioni contrapposte. La prima è la sacrosanta indisponibilità di Mattarella. Il raddoppio della durata rischierebbe di trasformare la presidenza in una monarchia costituzionale e l’eccezione, sperimentata con Giorgio Napolitano, in regola. Di contro, la condizione di emergenza pone un interrogativo: può un regime straordinario generare la massima carica ordinaria che è appunto la presidenza della Repubblica?».

Lei come si risponde?

«Mi limito a osservare che questo profilo istituzionale, finora ignorato, va invece considerato. Questa elezione del presidente della Repubblica si inserisce in un quadro eccezionale che può peraltro falsare la stessa elezione, attraverso la lotteria dei contagiati e dei quarantenati».

Con la permanenza di Mattarella quali problemi si risolverebbero?

«Innanzitutto la difficoltà delle forze politiche a convergere su un nome condiviso. Poi l’esigenza di stabilità che proviene dall’intera società italiana. Siamo tutti spaventati per questa pandemia che va a ondate. Cambiare timoniere mentre la nave è in tempesta può essere pericoloso».

Draghi resterebbe dov’è?

«Molto probabilmente. Anche se questo potrebbe deludere qualche leader politico e queste delusioni potrebbero inoculare tossine sulla stabilità del governo. Mi riferisco a Berlusconi».

Un secondo mandato di Mattarella risolverebbe qualche problema, ma ne creerebbe altri: il centrodestra lo voterebbe?

«Sono ipotesi che appartengono ai retroscena dei giornali».

Potrebbero esserci contraccolpi sul governo?

«È un’ipotesi impossibile. Mattarella non potrebbe essere eletto senza i voti del centrodestra o almeno di una sua parte importante».

Quanto complica la situazione la candidatura di Berlusconi?

«Al di là dei giudizi sulla persona e sul suo operato, il problema è il ruolo. Finora mai un leader politico è salito al Quirinale a eccezione di Giuseppe Saragat, che però era segretario di un piccolo partito di sinistra che guardava a destra e aveva presieduto la Costituente. I presidenti hanno sempre avuto una precedente legittimazione istituzionale. Carlo Azeglio Ciampi era stato governatore della Banca d’Italia, Mattarella era giudice costituzionale al momento della nomina, altri avevano presieduto la Camera o il Senato».

Nel 2013 Romano Prodi fu candidato senza che si obiettasse sulla sua leadership.

«Forse fu proprio questa la causa della mancata elezione».

I franchi tiratori non appartenevano al suo schieramento?

«È un fatto che si potrebbe ripetere anche nel caso di Berlusconi. In politica il tuo peggior nemico spesso è il tuo miglior amico».

E la candidatura di Draghi?

«Non so se complichi. Il suo è un profilo assimilabile a quello di Ciampi, che è stato un ottimo presidente della Repubblica. Se venisse eletto ci sarebbe qualche slalom procedurale inedito per la ragione che mai nessun presidente del Consiglio è diventato Capo dello Stato».

Come si dovrebbe procedere?

«Non potendosi dimettere nelle mani di sé stesso, Draghi dovrebbe farlo in quelle di Mattarella. Che però dovrebbe rendere immediatamente efficaci le dimissioni».

Ci sarebbe un vuoto di potere?

«Un momento in cui Draghi non è più a palazzo Chigi e non è ancora al Quirinale. Il governo verrebbe presieduto da Renato Brunetta, il ministro più anziano».

Subito dopo sarebbe corretto indire elezioni?

«Credo che chiunque diventi o ridiventi presidente della Repubblica difficilmente come primo atto scioglierebbe le camere, perché è il potere più forte di cui dispone. Sarebbe quasi come se Biden appena eletto capo degli Stati uniti tirasse una bomba atomica sulla Corea del nord».

Un nuovo governo senza legittimazione popolare saprebbe tenere alta la guardia contro la pandemia e proseguire il percorso delle riforme necessarie per l’ottenimento dei fondi del Pnrr?

«Quello in carica è il terzo governo della legislatura e nessuno dei tre ha avuto diretta investitura popolare. È il Parlamento la cucina dei governi».

Davanti a un’emergenza drammatica servono basi più solide?

«Le elezioni sarebbero un passaggio complicato perché significherebbero assenza di governo per alcuni mesi proprio durante l’emergenza».

In questa ipotesi la pandemia promuoverebbe il raddoppio del mandato a Mattarella ma non la convocazione dei seggi elettorali. Si protrarrebbe una situazione istituzionale emergenziale?

«La Costituzione reclama elezioni ogni cinque anni. Quindi, evitando lo scioglimento anticipato, prevarrebbe la normalità costituzionale».       

Questa situazione rende più che mai urgente la riforma istituzionale?

«La rende urgente e allo stesso tempo impossibile».

Dalla Bicamerale dalemiana al referendum di Matteo Renzi, parecchi tentativi sono stati abortiti: queste forze politiche riusciranno mai a ridisegnare il sistema?

«Qui ci viene in aiuto “il paradosso delle riforme” illustrato da Ernst Fraenkel. Quanto più un sistema istituzionale è malato tanto più ha bisogno delle riforme, ma siccome è malato, è impotente a esprimere la maggiore decisione che le riforme richiedono».

L’elezione diretta del presidente della Repubblica sarebbe una soluzione?

«In questo momento non ci sono le condizioni. Il prossimo Parlamento forse potrebbe lavorare a una riforma in profondità. Personalmente credo che le regole costituzionali siano figlie della storia di un Paese. Perciò, un conto è introdurre un sistema presidenziale in un Paese che non ha mai conosciuto dittature o curvature autoritarie come gli Stati uniti, un altro sarebbe farlo in Italia dove ne abbiamo fatto una triste esperienza».

Perché, come scrive in Presidenti d’Italia, nei livelli bassi della politica, sindaci e governatori, vige l’elezione diretta e per il Capo dello Stato non è prevista?

«Perché abbiamo un sistema schizofrenico e perché, tutto sommato, le riforme le facciamo senza scriverle».

In che senso?

«Nel senso che anche il livello di vertice dello Stato sta diventando presidenzialista di fatto. Basta pensare alla stagione dei Dpcm di Giuseppe Conte».

E all’uso dello stato di emergenza?

«Anche l’esperienza di Draghi mostra che si sta imponendo qualcuno con un potere superiore a quello del Parlamento. Il ruolo del presidente del Consiglio si è potenziato anche se formalmente i suoi poteri restano gli stessi».

Là dove servirebbe il presidenzialismo non c’è, mentre è diffuso dov’è superfluo?

«Potremmo dire così. Abbiamo in circolo un presidenzialismo straccione, una folla di presidenti nei molti gangli delle amministrazioni pubbliche».

Più di 70.000 enti che generano altrettanti presidenti.

«Più esattamente 70.000 presidenti perché esistono istituzioni che ne hanno più di uno. Basti pensare ai comuni, che hanno il presidente del consiglio comunale, della giunta comunale, il sindaco, delle varie commissioni e dei gruppi consigliari. Così anche le regioni».

È un vizio solo italiano?

«Chiamiamolo presidentismo. Dipende dalla moltiplicazione delle cariche, che deriva dalla moltiplicazione degli enti pubblici, che deriva dalla moltiplicazione delle leggi».

Con i suoi tre collaboratori ha censito tutti questi enti per fotografare la nomenclatura o per suggerire una terapia?

«Immaginavo che ci sarebbe stata molta attenzione sul Quirinale. Perciò, mi divertiva offrire un punto di vista laterale, indagando i presidenti ai vari livelli. Poi ho provato a capire l’etimologia della parola, che s’impone nei periodi repubblicani. Tant’è che la usano Tacito e poi Boccaccio, durante le Repubbliche marinare. Mentre ora, con la nostra Repubblica, si afferma questo presidentismo».

Siamo un popolo malato più di vanità o di burocrazia?

«Forse potremmo dire di burocrazia vanesia».

Parlando di eccessi legislativi e burocrazia, quanti decreti per la semplificazione sono stati varati nel ventunesimo secolo?

«Non credo sia stato inventato un computer tanto potente da poterli calcolare».

Negli enti pubblici si diventa presidenti più per meriti o più per anzianità?

«Per fortuna ci sono delle eccezioni, ma in generale la meritocrazia è una parola disgraziata in Italia».

L’articolo 34 della Costituzione che la stabilisce nel diritto allo studio è rispettato in modo soddisfacente?

«Assolutamente no. Lo dimostra la condizione difficile che vivono i giovani: la paura del futuro che si è sostituita all’attesa del futuro».

Vicino a giovani e futuro starebbe bene la parola speranza, ma questo scenario ci consegna al pessimismo.

«Nella Russia di Breznev circolava una battuta sulla differenza tra il pessimista e l’ottimista: il primo pensa che peggio di così le cose non possono andare, mentre il secondo pensa che possono andare anche peggio».

Proviamo a chiudere in leggerezza con un suo pronostico.

«A parte Ainis, tutti gli italiani sopra i 50 anni sono candidabili».

 

La Verità, 15 gennaio 2022