«Il Pd è una setta, pensa già al suo congresso»
Indisciplinato, ingenuo, inquieto. Si descrive così Tommaso Cerno, senatore uscente del Pd. Friulano, giornalista, già direttore dell’Espresso, presidenzialista convinto, è l’unico gay dichiarato in Parlamento. Ma al momento del voto di fiducia sul ddl Zan si è astenuto.
Come mai il suo nome non è comparso nella bagarre delle candidature?
«Tre mesi fa avevo chiesto a Enrico Letta di non considerarmi perché sapevo che non l’avrebbero fatto».
Motivo?
«Pago il mio quattro in condotta. Ciò che io chiamo libertà di pensiero per loro è incapacità di stare in comunità. Avrei potuto crederci se non avessero candidato Luigi Di Maio».
Con lui si sono smentiti?
«Era uno che diceva “mai con il partito di Bibbiano”. Eliminata la condotta, potevano bocciarmi in filosofia, dove però ne so più di loro».
Come definirebbe il suo rapporto con il Pd ?
«Quello di un uomo ingenuo che credeva di essere saggio».
Spieghi.
«Pensavo di entrare in un luogo dove parlare della sinistra fosse la cosa più importante. Invece ho scoperto che si può parlare solo come vogliono loro. È così nelle sette».
Per lei è stata una prigione mentale?
«Più un deserto mentale. Mi sono sentito abbandonato mentre la carovana prendeva la sua direzione. Mesi senza ricevere una telefonata. Il senso di esclusione è ciò che mi ha fatto più male».
Pietra sopra definitiva?
«Certo. Ma continuerò a parlare più di prima della mia idea di sinistra con la scrittura e la voce di cittadino e giornalista».
Come giudica la composizione delle liste?
«È lo specchio dell’identità politica di Enrico Letta e della sua segreteria».
Ovvero?
«Ricordavo che il Pd era fatto di primarie, di gazebo, di dibattiti di piazza. Poi è arrivato Nicola Zingaretti che almeno si è portato dietro un congresso. Ora c’è il primo segretario eletto con un applauso, come al televoto. La selezione di queste elezioni si è svolta sul suo telefonino».
Letta ha ceduto alla voglia di vendetta contro i renziani?
«La cosa incredibile è che non se n’è reso conto. Letta è fuggito in Francia ed è tornato come se un congresso del Pd si fosse aperto nel 2014 e il suo compito fosse quello di chiuderlo. Peccato perché ha avuto l’occasione di rifondare la più grande e variegata sinistra che i cocci della Seconda Repubblica gli avevano messo davanti».
La vendetta è l’esclusione di Luca Lotti?
«Lotti è il diversivo. Serviva un nome forte da far sembrare il capro espiatorio. La realtà è che l’accordo con Carlo Calenda è saltato per il timore di avere uno sfidante moderato alle primarie che seguiranno il voto».
Al prossimo congresso?
«Certo. È lo stesso motivo per cui è saltato Giuseppe Conte. La prospettiva è interna al Pd perché sanno già che le elezioni sono perse. Ma questo è un tradimento delle famiglie italiane. Se togli Lotti, devi spiegarmi perché candidi Elly Schlein».
Perché?
«Per depotenziare Stefano Bonaccini, sempre in vista del congresso. L’altra donna che poteva guidare il Pd è Debora Serracchiani. Letta ha escluso Lotti e ha trasformato nel suo alter ego l’ex vicesegretaria di Matteo Renzi. Sono logiche politiche democristiane che ammiro, ma che umanamente non condivido».
Anche Monica Cirinnà è stata punita con un collegio a rischio.
«Più che Monica Cirinnà è stato punito il suo cane e mi spiace perché le bestie non hanno colpa. Le racconto un aneddoto».
Prego.
«Io sono l’unico gay dichiarato in Senato. Bene: non ho mai ricevuto una telefonata per chiedermi cosa pensassi del ddl Zan. Da finocchio in Parlamento…».
Già questo termine è un’autoesclusione.
«Lo uso perché non ho bisogno di nascondermi dietro alle parole per essere orgogliosamente me stesso».
Non si sarà astenuto sulla fiducia per ripicca?
«Il ddl Zan contiene l’85% di cose necessarie al Paese, a cominciare dalla parte contro l’odio. In Italia la legge Mancino tutela le minoranze, cita i mafiosi e le persone di colore, ma non i gay. È quasi un’istigazione di Stato a delinquere».
Insomma. Il restante 15%?
«Il 10% sono idee di sinistra culturalmente discutibili, che la destra non voleva. Infine, c’è un 5% di errore madornale sulla libertà di parola che un giornalista non avrebbe mai potuto approvare».
Infatti lei non l’ha fatto.
«Il Pd e Letta sapevano benissimo che con una piccola modifica sarebbe passato. Invece decisero che Zan era Mosè e che la legge che il Dio dei gay gli aveva consegnato era immodificabile. Il vero motivo era avere un’idea da spendere in campagna elettorale. Di fronte a questo gioco, ho provato a dire “ma” e sono subito diventato un conservatore di destra. Questi comportamenti sono delle sette, non dei partiti».
Cosa vuol dire candidare sia Andrea Crisanti che Roberto Speranza?
«Certificare due errori. Il primo è ammettere che sul Covid si è fatta una politica casuale. Se candidi il responsabile delle politiche del governo e l’uomo che lo ha più criticato vuoi la moglie ubriaca e la botte piena».
Oppure applichi il «ma anche» veltroniano?
«Io vedo il tentativo d’infondere nel corpo elettorale la sensazione di essere in pericolo, mentre pensavo che si volesse rassicurarlo».
Il secondo errore?
«Presentarsi guardando indietro, dicendo che il Covid può ancora cambiare la nostra vita».
Rimettere la pandemia al centro, vedi il «Destra no vax» di Repubblica, giova alla sinistra?
«Visto dal Nordest il titolo di Repubblica è un falso. In Friuli con Massimiliano Fedriga e in Veneto con Luca Zaia le zone gialle sono arrivate prima che altrove. La Lega di governo è stata più speranzosa di Speranza».
Come giudica la gestione della pandemia di Speranza?
«Per sistemare i guai di Speranza il prossimo governo avrà bisogno del ministro Carità. Speranza non ha capito che il diritto alla salute s’inserisce nel diritto alla vita. Non possono servire tre anni per trovare equilibrio tra salute ed economia. L’esasperazione del contrasto al virus me l’aspetto da un medico non da un politico».
Una volta il Pd candidava i magistrati oggi i virologi.
«Candidare Crisanti contro l’emergenza salute non è molto diverso da candidare Cicciolina per affermare l’autogestione del corpo. Anziché tracciare la sua strada, la politica ricorre agli specialisti. È l’ammizzione di un’inadeguatezza. Per risolvere la quadruplicazione della bolletta elettrica bisognerebbe candidare Elon Musk».
Perché firmò con Dario Parrini, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, un ddl che introduceva il presidenzialismo?
«Perché la sinistra aveva perso le elezioni e si poteva davvero pensare di favorire un processo che permettesse ai cittadini di scegliere “tra noi e loro”, come dice ora Letta. I cittadini devono poter scegliere su tutto, non solo su un pezzetto. È quello che voleva fare Berlusconi quando mise il nome sul simbolo. Oggi se vince Salvini governa Conte, se Salvini si dimette governa ancora Conte, se cade Conte spunta Draghi».
Pur di attaccare Berlusconi, che forse è stato improvvido, il Pd nasconde quel progetto di legge?
«Berlusconi ha detto quello che ha sempre detto. Se un Paese sceglie il presidenzialismo l’eletto col sistema precedente decade. Se la riforma istituzionale diventa una trovata elettorale avremo sempre una legge fatta per sconfiggere qualcuno. Salvo poi essere smentiti come avvenne con il Rosatellum che doveva fermare i 5 stelle, che invece stravinsero. Democrazia è far decidere ai cittadini da chi vogliono essere governati».
Che cosa pensa degli accordi e disaccordi nel centrosinistra?
«Letta poteva andare da solo e provare a essere davvero il primo partito italiano. Avrebbe potuto dire ai cespugli: voi fate quello che volete, io faccio “la grande alleanza delle due P”, palazzo e piazza, con quello che resta del popolo viola, dei girotondi, del Vaffa di Grillo. Oppure poteva fare il contrario: mettere dentro tutti, da Conte a Calenda. Entrambe le strade avevano pro e contro. Il peggio è la via di mezzo, qualcuno sì e qualcuno no, perché il messaggio è confuso».
La comunicazione è efficace?
«Siamo passati da smacchiare il giaguaro ad avere gli occhi della tigre. Il fatto è che sono entrambi animali in via d’estinzione».
L’agenda Draghi è scomparsa?
«Non è mai esistita. Era la sintesi minima di un governo di emergenza nazionale nato per spendere dei soldi, quelli del Pnrr. In questo Draghi è bravo. Quando l’emergenza è diventata mondiale e i soldi bisognava trovarli, il governo è caduto».
I diritti civili, lo ius scholae, la dote per i diciottenni finanziata dalla patrimoniale sono idee vincenti?
«Sono temi su cui la sinistra dibatte da anni. Lo ius scholae è il minimo sindacale. Il ddl Zan andava bene vent’anni fa. Oggi ci sono necessità più avanzate del matrimonio egualitario. Sembrano gli esami di riparazione di una sinistra superata».
La sinistra avanzata non sarà quella del politically correct?
«La sinistra è morta allontanandosi dai poveri e dalle parolacce. Negli anni Settanta era la destra a indossare la cravatta e il doppiopetto. La sinistra era per la libertà d’espressione e chiamava la realtà col linguaggio del popolo. È la sinistra che ha sporcato i giornali, le vignette, il linguaggio… Pensare di parlare con stecca e squadra mi fa venire i brividi».
Francesco Piccolo su Repubblica ha scritto che il Pd è vittima del fuoco amico: perché secondo lei?
«Non esiste il fuoco amico, esiste la franchezza amica. Io non so se la destra stia decidendo le candidature col bastone o cantando. Credo che la sinistra abbia bisogno di qualcuno che le dice come stanno le cose. La capacità di autocritica è sempre stato un grande patrimonio della sinistra».
Chi crede davvero alle ingerenze di Medvedev sul voto italiano?
«Solo chi non capisce che la vera ingerenza arriva per posta e si chiama bolletta. Il resto sono tweet ininfluenti».
Come andrà a finire?
«Penso che gli italiani non abbiano ancora scelto. Che Giorgia Meloni sia l’unica realtà nuova è un fatto oggettivo. Tutti gli altri, da Berlusconi a Letta, da Salvini a Conte e perfino a Calenda, li abbiamo già visti governare. Gli italiani devono decidere se provarla o no, senza troppi fantasmi».
La sinistra come digerirebbe la Meloni prima donna premier?
«Con invidia. Ci riuscirebbe la destra senza quote multicolore».
Lei tornerà al giornalismo?
«Essere un libero pensatore in Parlamento non è gratificante. Ma i giornali e i libri sono anch’essi dei parlamenti dove continuerò a esprimermi con l’abituale franchezza. Sperando che i miei amici la prendano come un contributo costruttivo».
La Verità, 20 agosto 2022