Tag Archivio per: professori

Tamaro: «Perché la scuola di oggi è da bocciare»

L’appello di Susanna Tamaro parte da un grido d’allarme: la scuola italiana è agonizzante, ha perso per strada l’ambizione di formare i giovani e di creare la classe dirigente del futuro. E un Paese che non si occupa dell’educazione dei ragazzi è un Paese perdente. Nel pamphlet Alzare lo sguardo – Il diritto di crescere, il dovere di educare appena pubblicato da Solferino l’autrice di Va’ dove ti porta il cuore scrive a una professoressa 52 anni dopo la «lettera» di don Lorenzo Milani, denunciando le storture di un sistema arrivato a fine corsa. E propone di costruire un patto tra generazioni per capire di quale sapere abbiamo bisogno nel Terzo millennio e come tornare a comunicare ai bambini l’amore per le domande e per la ricerca delle risposte che contano.

Che cosa l’ha spinta a scrivere un pamphlet sulla scuola?

Vedere il degrado che negli ultimi decenni ha invaso tutti gli ambiti dell’insegnamento. E vedere i ragazzi che escono dalle superiori senza una preparazione adeguata. Dopo cinque anni vengono congedati con un diploma che ha scarsissimo potere contrattuale nel mondo del lavoro.

«Alzare lo sguardo» da che cosa, da dove?

Da un’idea d’istruzione che ha dimenticato il concetto di educare. Un concetto complesso, com’è complesso l’essere umano. Che non è una somma matematica di elementi, ma un’entità in possesso di un’anima che si interroga sui perché della vita.

Il corpo insegnante è la categoria più mortificata della nostra società?

Assolutamente. È una categoria di martiri ed eroi. Conosco insegnanti straordinari che continuano ad amare la loro professione. Ma sono costretti a lottare contro una burocrazia allucinante, contro l’invadenza dei genitori e dei gruppi di mamme su WhatsApp, contro il disprezzo sociale ed economico derivato da regole d’ingaggio folli. Professori che cambiano continuamente sedi, mansioni, metodi d’insegnamento. Gli effetti di questa situazione sono l’ignoranza dei nostri ragazzi, vere vittime di questo fallimento.

Per questo ha scritto una «lettera a una professoressa» 52 anni dopo quella di don Milani?

A suo tempo mi aveva colpito e dopo averla riletta, insieme ad alcune cose interessanti, ne ho trovate altre più discutibili. Perciò ho pensato di proporre un aggiornamento, sfruttando lo spunto di una professoressa che mi ha scritto raccontandomi che all’inizio di ogni anno scolastico regala a tutti i suoi alunni una copia di Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke. Questi sono gli esempi positivi su cui si regge la scuola oggi. Ma la generosità alla lunga non può bastare.

Una delle regole della scuola di Barbiana era non bocciare.

Poteva avere un senso negli anni Sessanta. Oggi la soluzione non è bocciare, ma far sì che le superiori diventino un corso di studi vero anziché un parcheggio a tempo determinato. Negli anni si è creata una divisione per cui solo i licei sono scuole di serie A. Invece chi frequenta gli istituti tecnici o professionali non ha meno dignità. Conseguire il diploma in modo automatico, senza doversi impegnare è fuorviante. Non abitua i ragazzi a raggiungere il risultato attraverso il lavoro e la dedizione. In un paese come la Germania gli istituti tecnici perseguono l’eccellenza nel loro settore, da noi si fatica a trovare chi svolga lavori tecnico-manuali.

Danneggia maggiormente gli studenti la demotivazione dei professori o la struttura scolastica oppressiva?

Una struttura malata che umilia gli insegnanti. Molti professori si spengono nel tentativo di sopravvivere in un mondo che li priva della forza di fare il loro lavoro. Li vedo vagare con zainetti pieni di carte. Nella scuola di oggi il vecchio nozionismo si accompagna a un eccesso di democrazia nel rapporto con gli studenti. È una miscela micidiale, a causa della quale oggi chi esce dal liceo o dall’università spesso parla un italiano povero, non sa far di conto, non ama la letteratura…

Perché la scuola-azienda è meno efficiente di quando era solo un posto dove si imparava?

Questo è il grande paradosso. La burocrazia soffoca il rapporto educativo. Gli studenti sono clienti da accontentare e convincere a colpi di open day. Perciò non si può bocciare, altrimenti le iscrizioni calano e, alla lunga, ogni singolo istituto, in competizione con altri più permissivi, rischia la chiusura. Si sente ripetere che dobbiamo «migliorare l’offerta formativa». Così c’è chi propone una settimana di tedesco al pomeriggio – come se si potesse imparare il tedesco in una settimana –  chi il corso di cha cha cha degli anni Sessanta… Tutto fumo negli occhi delle famiglie.

Eppure ogni nuovo governo promette una nuova riforma.

Perché ogni ministro vuole distinguersi. Invece di aggiungerli, l’ultimo governo ha tagliato 4 miliardi. Una delle ultime riforme è stata la riduzione del corso di laurea a tre anni. Con il risultato che poi bisogna fare il master e che fino a trent’anni non si entra nel mondo del lavoro. L’alternativa è andare all’estero.

Accennava all’invadenza dei genitori e ai gruppi di whatsapp: perché l’alleanza tra famiglia e scuola si è dissolta?

Tutto è iniziato negli anni Settanta con i decreti delegati che hanno dato più potere alle famiglie. Anziché fare squadra con gli insegnanti, i genitori proteggono i figli dalla scuola: guai se incontrano qualche difficoltà, qualche ostacolo da superare. I papà-spazzaneve spianano la strada davanti ai loro bambini perché abbiano la discesa facile. È l’anticamera del nichilismo, che alleva senza educare.

Questo accade perché il bambino è un essere intoccabile che non ha bisogno di essere indirizzato?

Questa concezione deriva dall’Emilio, il testo sull’educazione nel quale Jean Jacques Rousseau sosteneva che l’uomo è naturalmente buono e portato al bene. Un testo che ha fatto danni tremendi. Per questa cultura ogni accenno di disciplina va eliminato e la stessa idea di ordine è considerata deleteria. Il bambino non è un essere in fieri che ha bisogno di sostegno come avviene per i cuccioli in tutte le specie animali, ma è un essere puro e già sapiente.

L’abolizione della maestra unica ha dimenticato che nell’infanzia il processo di apprendimento ha una componente affettiva?

Quello è stato il primo disastro. L’introduzione delle tre maestre ha favorito il passaggio dall’educazione all’istruzione a un’età troppo precoce. Troppi referenti danneggiano l’apprendimento che invece si giova di un rapporto stabile e continuativo. Il frazionamento delle figure educative genera insicurezza.

Dopo la scuola-azienda con le tre i – inglese, impresa, informatica – è arrivata «la buona scuola».

L’alternanza scuola-lavoro che è stata introdotta è un’esperienza positiva perché mette alla prova su ciò che si vuole fare. Gli stage permettono di capire se il lavoro che si ha in mente piace e se si è adatti a svolgerlo. In Germania si è sempre fatto.

Soluzioni?

Basterebbe cominciare a mettere i professori nelle condizioni d’insegnare con passione la propria materia, senza costringerli a disperdere energie in mille corsi di aggiornamento, contro il bullismo…

Qualcuno pensa che la soluzione siano i tablet e gli smartphone.

O la lavagna interattiva. Non scherziamo. Una riverniciata digitale e tutto va a posto? Il nostro cervello risponde a precisi processi di conoscenza. Si studia sulla carta, si sottolinea, si fanno delle piccole note sul libro. Il tablet porta a una smaterializzazione del sapere che non aiuta, soprattutto nei primi anni di vita.

Se avesse carta bianca quali sarebbero i suoi primi tre interventi?

Rimetterei la maestra unica al centro della scuola elementare, estrometterei i genitori e riporterei l’università a quattro anni, abolendo corsi e master post laurea. Le pare possibile che una maestra di scuola materna debba avere la laurea magistrale quinquennale?

Una delle cause di questa situazione è l’eliminazione del principio di autorità?

Certo. È il frutto di un’ideologia nichilista e della società liquida e liquefatta. Anzi, gassosa. Dare ai bambini il potere decisionale è un errore grave perché trasmette loro un’idea distorta della realtà e non li prepara alla vita.

 

Panorama, 11 settembre 2019

 

«Io, obiettore di coscienza dei social network»

«Testimone di una trasformazione portentosa». Si definisce così Mauro Covacich, 53 anni, scrittore triestino che vive a Roma nel quartiere Flaminio. Autore schivo e profondo, com’è nel temperamento della gente di quel confine martoriato. Un confine crogiuolo. Il suo ultimo libro, La città interiore (per La Nave di Teseo che ha deciso di ripubblicare il «Ciclo delle stelle»: A perdifiato, Fiona, A nome tuo, Prima di sparire), è entrato nella cinquina finale del Campiello. In giugno ha ricevuto il premio intitolato a Fulvio Tomizza, uno dei tanti scrittori che hanno segnato la sua formazione. Gli articoli che Covacich scrive sul Corriere della Sera illuminano sempre qualcosa di cruciale, uno stato d’animo, una svolta culturale, le ragioni di una differenza. Come quello sulla tranquilla rinuncia ai social network per privilegiare rapporti in carne e ossa. Oppure quello sul cambio dello scenario psicologico che ha portato ai nuovi equilibri della politica. Nell’ultimo ha dipinto «la plaga dei coetanei», nonni che giocano a calcio, padri di cinquantenni con la tartaruga, a loro volta genitori di adolescenti che vestono da sciantose: «Tutti coetanei, che incubo».

In quell’articolo ha demolito un mito su cui sfreccia la nostra società da mezzo secolo: forever young, per sempre giovani.

«È uno strano per sempre, perché poi si muore».

Subito al dunque…

«Credo che l’illusione di restare giovani peggiori la vita perché le fa perdere forma. Una delle forme della vita è data dall’età. Essere bambino, poi adolescente, adulto, anziano. Questo non significa che uno non cerchi di stare meglio che può. Ma se sono un padre è giusto che mio figlio mi percepisca come un’altra cosa, diversa da lui. Quando vivevo con i miei genitori, le parole di mio padre le ascoltavo come provenienti da un altro mondo. Non erano le parole di un mio amico».

Da sempre i ragazzini vogliono diventare presto adulti e i vecchi ringiovanirsi: cosa c’è di male?

«Non mi sembra sia così. Fino a qualche anno fa i vecchi e i genitori erano figure autorevoli. Ora sembra che da 10 a 80 anni partecipiamo tutti alla stessa gara. È una pretesa che falsa la realtà, la adultera. Dobbiamo imparare ad accettare il momento in cui siamo fuori gara, senza che questo significhi essere morti. Oggi essere pensionati è una colpa, un tempo era uno stato in cui, non essendo più nell’agone, si poteva elargire la propria sapienza. Il vecchio le cose le aveva fatte e ora trasmetteva un pensiero. Adesso i bambini sono pressati dall’obbligo di diventare adulti, soprattutto le bambine bramano diventare ragazze, donne fatte».

Combattere il mercato globale e la pubblicità che vivono sull’industria anti invecchiamento, sulla smania di prolungare la giovinezza, la prestanza e l’avvenenza è una battaglia di Don Chisciotte?

«Definirla battaglia significa pensare che possa persuadere qualcuno invece sono rassegnato. Questo non m’impedisce di protestare. L’ossessione che abbiamo per il corpo ne annuncia anche la dissoluzione. Da una parte, non ipotizzando un dopo, è la nostra ultima certezza e cerchiamo di mantenerlo il più bello possibile come un’urna sacra. Dall’altra si è moltiplicata un’idea di amicizia che prescinde dall’incontro».

Invece?

«Penso che amicizia significhi anche avere a che fare con il corpo dell’altro. Se tradisco un amico devo aspettarmi che mi tiri un ceffone. Nella comunità digitale, pur parlando continuamente del corpo – alimentazione, diete, palestre – il corpo non c’è. È tutto virtuale. Anche l’amore si fa a distanza. L’esperienza sessuale mostra questa contraddizione».

In che senso?

«Il sesso si è trasformato in una prova atletica. Ci sono i tutorial per imparare le tecniche e diventare bravi. L’elemento personale, psicologico, l’arrischiamento, anche l’imbarazzo, l’emozione e la titubanza non ci sono più».

Convivere come coetanei azzera il carisma degli adulti?

«Se non c’è distanza tra l’adulto e il ragazzo non c’è prospettiva. La fine dell’autorevolezza dei professori comincia qui. Magari c’è l’eccezione di quello che irradia ancora fascino, ma dalla maggioranza dei ragazzi gli insegnanti sono considerati degli sfigati. Non perché siano più stupidi di una volta, ma perché si sono abbassati al livello degli studenti. Fanno parte della plaga dei coetanei di figli, genitori amici, studenti, allenatori, tutti nella stessa gara».

Tutti nei social network.

«Fanno i simpaticoni. Sperano di conquistare ascendente con la complicità. Danno il numero di cellulare ai ragazzi… Mi sembra aberrante che un ragazzino possa accedere al cellulare di un professore. È questione di status, non di problematiche sessuali. Come si fa a scambiarsi l’amicizia su Facebook? Se sei mio amico non sei più interessante. Tuttalpiù posso darti una pacca sulla spalla, ma non ti ascolto più con attenzione».

La categoria degli insegnanti è svalutata per colpa loro o della politica?

«Non credo sia colpa della politica. Certo, hanno fatto mille riforme e non se la sono cavata bene. Ma l’errore è il fatto che per i ragazzi il professore è diventato uno di loro. Posta le foto, aggiorna il profilo… L’eccesso di democratizzazione è fuorviante. Sono sparite autorità e autorevolezza. Le materie sono le stesse, ma ai miei tempi il professore suscitava un sentimento misto di paura e fascino. Non c’è più soggezione perché non c’è più differenza».

Le donne sono più vulnerabili al passare del tempo?

«Credo di sì. Ma credo che la vulnerabilità delle donne sia causata dall’aver assunto i tratti virili dei comportamenti sessuali e sociali degli uomini. L’emancipazione della donna ha preso una strada imprevista. Non credo che le femministe degli anni Settanta pensassero che meritare lo stesso trattamento degli uomini comportasse la mascolinizzazione della donna».

E per converso la femminilizzazione del maschio.

«Ci sono dati evidenti. Gli uomini hanno più attenzione per la cosmesi, i ragazzi si depilano, usano meno la macchina e si fanno venire a prendere a casa dalla ragazza. Una volta farsi la patente per andare a prendere la ragazza era motivo di orgoglio».

Nel libro La città interiore ricostruisce la mappa storica, esistenziale e psicologica dalla quale lei stesso scaturisce. Perché si è sottoposto a una ricerca così impegnativa?

«Ognuno di noi ha la propria città interiore, ognuno di noi è quello che gli altri lo hanno fatto diventare. Poi ci si mette del proprio. I genitori e i maestri che abbiamo avuto, i viaggi, i libri, le esperienze che abbiamo fatto determinano quello che siamo. Covacich è un cognome sloveno di una persona italiana. Per me è stato un lavoro e solo successivamente un libro necessario. Una sorta di resa dei conti. Avevo raccolto vari giacimenti, quello della famiglia e della storia, quello degli scrittori… È una ricostruzione anche topografica, una mappa d’identità».

Un’identità che contempla la rottura di confini ideologici e esperienze contrastanti come fare il bagnino e scrivere di notte oppure amare gli sport pensando all’Isef e iscriversi a filosofia.

«Alcuni contrasti si sono risolti. Ora conduco una vita dedicata con continuità alla scrittura. Negli ultimi 15 anni mi sembra di aver scavato nello stesso buco. Ho scritto libri molto autobiografici, romanzi con persone più che con personaggi. Persone vere in carne e ossa, mia madre, la mia compagna, i miei amici. Si sta definendo questa identità di scavatore, di uomo che cerca. Solo apparentemente è una vita risolta».

Da giovane con i suoi amici discuteva di gettatezza, l’essere venuti al mondo inopinatamente in una data epoca e in un dato luogo, rispetto alla quale c’è chi crede al caso e chi al destino: lei?

«Sono contento di vivere in quest’epoca di cambiamenti radicali. Personalmente credo al caso. Se si cresce in una bella famiglia a Stoccolma o in un campo profughi in Sudan nessuno può farci niente. Ma il secondo ha tutti i diritti di incazzarsi».

Quanto contribuisce la cosiddetta società dell’immagine, ora con i social network ancor più pervasiva, al rifiuto della vecchiaia e alla rimozione della morte?

«Non so se sia una delle cause o uno degli effetti di questa rimozione. Ma non si può fermare il mare con le mani. Io ho una posizione considerata snob, da obiettore di coscienza dei social. Il mondo dominante è questo, pochi privilegiati possono permettersi di starne fuori. Mi basta vedere i miei amici la cui vita nella maggioranza dei casi batte su altri ritmi. Non ho l’ansia di stare al passo con i tempi. Rivendico la libertà di essere antiquato, senza che questo significhi essere retrogrado o antimoderno. Mia madre a 78 anni ha scoperto Facebook ed è diventata un’altra persona. A me semplicemente non interessa».

I sociologi parlano di cultura del narcisismo.

«Non è rimasto altro che rispecchiarsi nella propria immagine. Il gesto stesso del selfie ha modificato il modo di guardare il mondo: davanti ci sei tu e il mondo – i paesaggi, i monumenti – è in secondo piano alle tue spalle».

L’io si è sostituito a Dio?

«Non credo. Il luogo di Dio è rimasto vuoto, ma si prova a riempirlo con altri palliativi: l’ambientalismo, il veganesimo. Credo che in modo inconscio a nessuno sfugga la propria fragilità. Il bisogno di certezze ce l’abbiamo tutti. I fanatismi, dal pornoshop alla militanza nell’Isis, sono risposte alla vacillazione dell’io».

A lei che cosa dà speranza?

«Io non ho speranza… Ma l’intervista non può finire così… In realtà, sono contento di vivere il presente, curioso di quest’epoca. Mi sento testimone di una trasformazione portentosa. Un po’ come un cronista alla fine dell’Impero romano. Non si sa cosa verrà dopo, ma la caduta dell’Impero è un momento molto stimolante».

 

La Verità, 18 novembre 2018