«Sostituire il merito con i like è il disastro di oggi»
L’intervista a Stefano Zecchi è terminata, ma quando arriva la notizia della morte di Maurizio Costanzo, il professore, filosofo, docente di estetica, scrittore e volto televisivo non si sottrae a un ricordo personale dell’unico giornalista italiano che ha trasformato in show il suo nome e cognome: «Maurizio Costanzo è stato un grande innovatore del linguaggio. Ho partecipato alla sua ultima puntata, nel novembre scorso, quando mi chiese di andare con mio figlio, al quale mostrò la prima volta che mi aveva invitato, nel maggio del 1988. Era un fuoriclasse nel senso pieno della parola perché non seguiva i modelli della comunicazione del tempo. Disarticolava i luoghi comuni, rifiutava le formule. Ho la presunzione di aver intuito subito queste doti e di essere andato al suo show tutte le volte che mi chiamava. Ho già ascoltato frasi di circostanza, ma forse chi ora lo incensa non ricorda le violente critiche alle quali fu sottoposto negli anni. Anch’io che lo frequentavo ero attaccato e guardato con sospetto».
Professore, circola il suo nome come assessore alla Cultura della regione Lombardia in quota Fdi: cosa c’è di vero?
«Sarei onorato di servire un territorio così importante e di collaborare a un progetto politico altrettanto importante come quello di Fratelli d’Italia».
Che cosa pensa della polemica che partendo dagli scontri davanti al liceo di Firenze ha coinvolto il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara?
«Penso che il ministro abbia fatto bene a far capire che il suo non è un ruolo burocratico, ma d’indirizzo. Non è lì a mettere timbri come, per certi versi, è stato negli ultimi anni. È giusto dare un indirizzo, perciò non ha sbagliato a intervenire. D’altro canto, anche la preside che ha scritto agli studenti non è una figura burocratica, ma portatrice di un indirizzo. Forse nella sua lettera avrebbe potuto offrire un’interpretazione meno unilaterale dei fatti, ma più articolata e aperta alla complessità».
Da qualche giorno è in atto una sorta di offensiva contro la meritocrazia?
«Sì e gli attaccanti sono gli studenti. Però va detto che prima di tutto lo studente è un ragazzo, un figlio. Che ha due fonti formative: la famiglia e la scuola. Ma se entrambe queste istituzioni sono in crisi egli è privo di una vera guida e sbanda».
Troppa competizione?
«Ci sono famiglie che premono sulla formazione qualitativa dei ragazzi e, senza che ce ne sia bisogno, li mandano a studiare all’estero con l’idea di renderli più competitivi. A sua volta, la scuola sottolinea che la competitività è un punto fermo: se vuoi puntare in alto devi essere più preparato».
Sbagliato?
«È una comunicazione distorta. Lo studente non riesce a gestire questa situazione perché da un lato il mondo sta diventando più competitivo, dall’altro lui si trova spesso solo».
Lo si è visto nel gesto tragico di un’universitaria di Milano che si è tolta la vita denunciando il proprio fallimento nel corso di studi?
«Certo. Evidentemente era una ragazza sola, non abbastanza sostenuta dalla famiglia e dalla scuola. Un caso estremo che, se ci fosse un minimo grado di buon senso, nella vita di uno studente non dovrebbe mai verificarsi».
Emma Ruzzon, un’universitaria di Padova, ha denunciato: «Siamo stanchi di piangere coetanei uccisi dalla competizione». Quanti sono questi ragazzi morti di meritocrazia?
«A me quell’espressione pare un’esagerazione. Secondo questa enfasi, la competitività e il perseguimento del merito porterebbero alla morte. Prima e dopo il Sessantotto si diceva che il merito creava disuguaglianza. Ma lo slogan “abbasso la meritocrazia” ha creato guasti giganteschi».
Che cosa le fa pensare il fatto che questa studentessa abbia subito conquistato visibilità sui media?
«Il problema è reale. Nelle società totalitarie e ugualitarie verso il basso dei Paesi del socialismo reale tutti avevano un lavoro, guadagnavano poco e vivevano nella miseria diffusa. Oggi nelle società capitalistiche la competitività esiste ed è impensabile eliminarla».
Questa offensiva contro il merito contiene una critica al ministero dell’Istruzione che lo ha aggiunto tra le sue competenze?
«Forse sì. Personalmente avrei preferito chiamarlo ministero dell’Istruzione e delle competenze. Per assumere un ruolo, acquisirne il merito è scontato, lo è meno averne le competenze».
Nei giorni scorsi il Corriere della Sera ha pubblicato La tirannia del merito di Michael Sandel che sottolinea le differenze sociali strutturali e la difficoltà a modificare il censo di nascita…
«Oggi è obiettivamente difficile salire sul cosiddetto ascensore sociale».
Eppure gli Stati Uniti ci hanno abituato al sogno americano, all’uomo che si fa da sé…
«La società americana consente di sognare perché garantisce libertà nel mercato del lavoro. Il sogno è perseguibile perché non ci sono gabbie nelle quali si è obbligati a muoversi. In un Paese con un’amministrazione pesante e burocratica come il nostro la realizzazione di qualsiasi progetto è molto più complicata. La fuga dei cervelli è il corrispettivo del sogno americano. In Italia non si sogna più».
Per quali motivi?
«Proprio perché non c’è il merito. L’universitaria che denuncia la competitività sembra un’eroina perché, se ci fosse vera meritocrazia, non ci sarebbe contestazione del merito in quanto si vedrebbero appagate le proprie aspirazioni. Invece, c’è il merito senza meritocrazia, senza il premio. Si butta la croce addosso ai ragazzi che non hanno ciò che una società aperta dovrebbe garantire loro».
Per questo cresce il ricorso dei giovani agli psicologi?
«Questi ragazzi sono sempre meno ascoltati dai genitori che faticano a comprenderne le problematiche. Si parla con WhatsApp e attraverso i social, ma resta tutto in superficie. Se non si approfondiscono e non si controllano le proprie vicende emotive, psicologiche, esistenziali, si va da qualcuno che ce le spiega. La maggioranza dei ragazzi va dallo psicologo per problemi di comunicazione».
Da cosa deriva questa maggiore fragilità?
«Sono immersi nell’esperienza virtuale. Parlando del lavoro, se non si accetta la sfida del mercato non si impara a vivere il successo o l’insuccesso. L’esperienza virtuale toglie concretezza al reale, al quotidiano. Con un click possiamo eliminare o eludere ciò che è sgradito. Perciò, quando nella vita vera si incontra un ostacolo ci si trova disarmati, spiazzati».
Il like è una gratificazione immediata mentre il merito è conquista faticosa e di lungo periodo?
«Il like instaura una superficialità emotiva. Il merito è figlio di una continua ricerca esistenziale e culturale».
Un territorio poco famigliare alle giovani generazioni?
«A quelle che vivono davanti a uno schermo. Se poi a questa tendenza aggiungiamo l’avvento della figura dell’influencer…».
Cosa succede?
«I ragazzi hanno bisogno di una guida per fare le loro scelte. L’influencer imperversa quando dall’altra parte non c’è consapevolezza della vita reale».
Bel paradosso che questi ragazzi vadano dallo psicologo per problemi di comunicazione pur essendo sempre connessi.
«Perché è una connessione effimera. Sono sommersi da informazioni superficiali».
Un altro paradosso è la parola condivisione che imperversa ovunque…
«Tutta superficie emotiva. C’è un eccesso di comunicazione virtuale che tocca solo minimamente ciò di cui i ragazzi hanno davvero bisogno. Le farò un esempio personale».
Prego.
«Ai miei tempi per telefonare a una ragazza senza farsi scoprire dai genitori ci si dotava di un sacchetto di gettoni, si usciva alla ricerca di una cabina telefonica, si trovava la prima occupata, la seconda inservibile… Quella telefonata comportava massimo coinvolgimento. Una volta che la facevi eri connesso in profondità. Oggi è tutto istantaneo…».
Questa situazione è stata acuita dalla pandemia, dai corsi online e dalla riduzione dei rapporti in presenza?
«Credo che la pandemia non sia stata la causa scatenante, ma abbia sottolineato situazioni già in atto. È il mondo del lavoro a dettare le regole della socialità. Pensiamo a cosa accadde a metà del secolo scorso con il riversamento dalle campagne alle città. Oggi con le nuove tecnologie ci si può connettere con le biblioteche di Berlino o di Sidney. Voglio dire che il mondo virtuale è un mezzo e non un fine se lo si utilizza sulla base della propria esperienza di vita».
Pensa che gran parte dei giovani respinga l’esperienza del sacrificio?
«Lo penso. Ancora una volta perché la vita virtuale consente la sublimazione della fatica e risparmia la necessità di mettersi in gioco. Guardiamo all’esperienza dell’amore. Finché ci si mandano le foto e i messaggini va tutto bene, quando s’incontra davvero l’altro mancano le parole. E si va dallo psicologo che risolve poco perché dovrebbe dire: “Butta via il cellulare, esci e dai un appuntamento alla tua amica…”».
Quanto sono dannosi i genitori elicotteri e i genitori spazzaneve che sgombrano la strada dagli ostacoli?
«Sia i genitori spazzaneve che, al contrario, quelli assenti, partoriscono la stessa grande fragilità dei ragazzi che, al primo ostacolo, sono smarriti. Per un motivo o per l’altro una vera educazione famigliare latita. Si sentono decantare le famiglie aperte e libere, ma in realtà non si sa bene di cosa si parla».
Ha vinto la figura del padre amico?
«È giustamente stata abbandonata la figura del padre-padrone, ma non vorrei si fosse caduti in quella del padre coglione. Se togli il padre togli la storia. Ho grande rispetto di certe madri, compresa la mia, che nelle difficoltà si sono sdoppiate rappresentando entrambe le figure genitoriali. Ma queste dovrebbero restare eccezioni. Il padre rimane indispensabile perché è l’autorità che porta il figlio dentro il mondo. Non può farlo né il genitore spazzaneve né il padre assente».
Le nuove generazioni sono state danneggiate anche dalla scuola buonista e da professori troppo accondiscendenti?
«C’è una situazione schizofrenica, con alcuni docenti quasi commoventi per dedizione nonostante gli stipendi da fame, e altri menefreghisti. La scuola è l’altra Cenerentola della nostra società, sempre all’ultimo posto nella gerarchia delle risorse. Basterebbe poco per rimetterla in piedi e rendere appetibile la professione dell’insegnante con selezioni accurate e profonde. La stragrande fetta dei fondi del Pnrr per l’istruzione andranno all’edilizia scolastica, che è pure importante. Ma dobbiamo ricordarci che dentro le classi prima di tutto ci sono gli insegnanti e gli studenti. Cioè, le risorse umane».
La Verità, 25 febbraio 2023