«Io, obiettore di coscienza dei social network»
«Testimone di una trasformazione portentosa». Si definisce così Mauro Covacich, 53 anni, scrittore triestino che vive a Roma nel quartiere Flaminio. Autore schivo e profondo, com’è nel temperamento della gente di quel confine martoriato. Un confine crogiuolo. Il suo ultimo libro, La città interiore (per La Nave di Teseo che ha deciso di ripubblicare il «Ciclo delle stelle»: A perdifiato, Fiona, A nome tuo, Prima di sparire), è entrato nella cinquina finale del Campiello. In giugno ha ricevuto il premio intitolato a Fulvio Tomizza, uno dei tanti scrittori che hanno segnato la sua formazione. Gli articoli che Covacich scrive sul Corriere della Sera illuminano sempre qualcosa di cruciale, uno stato d’animo, una svolta culturale, le ragioni di una differenza. Come quello sulla tranquilla rinuncia ai social network per privilegiare rapporti in carne e ossa. Oppure quello sul cambio dello scenario psicologico che ha portato ai nuovi equilibri della politica. Nell’ultimo ha dipinto «la plaga dei coetanei», nonni che giocano a calcio, padri di cinquantenni con la tartaruga, a loro volta genitori di adolescenti che vestono da sciantose: «Tutti coetanei, che incubo».
In quell’articolo ha demolito un mito su cui sfreccia la nostra società da mezzo secolo: forever young, per sempre giovani.
«È uno strano per sempre, perché poi si muore».
Subito al dunque…
«Credo che l’illusione di restare giovani peggiori la vita perché le fa perdere forma. Una delle forme della vita è data dall’età. Essere bambino, poi adolescente, adulto, anziano. Questo non significa che uno non cerchi di stare meglio che può. Ma se sono un padre è giusto che mio figlio mi percepisca come un’altra cosa, diversa da lui. Quando vivevo con i miei genitori, le parole di mio padre le ascoltavo come provenienti da un altro mondo. Non erano le parole di un mio amico».
Da sempre i ragazzini vogliono diventare presto adulti e i vecchi ringiovanirsi: cosa c’è di male?
«Non mi sembra sia così. Fino a qualche anno fa i vecchi e i genitori erano figure autorevoli. Ora sembra che da 10 a 80 anni partecipiamo tutti alla stessa gara. È una pretesa che falsa la realtà, la adultera. Dobbiamo imparare ad accettare il momento in cui siamo fuori gara, senza che questo significhi essere morti. Oggi essere pensionati è una colpa, un tempo era uno stato in cui, non essendo più nell’agone, si poteva elargire la propria sapienza. Il vecchio le cose le aveva fatte e ora trasmetteva un pensiero. Adesso i bambini sono pressati dall’obbligo di diventare adulti, soprattutto le bambine bramano diventare ragazze, donne fatte».
Combattere il mercato globale e la pubblicità che vivono sull’industria anti invecchiamento, sulla smania di prolungare la giovinezza, la prestanza e l’avvenenza è una battaglia di Don Chisciotte?
«Definirla battaglia significa pensare che possa persuadere qualcuno invece sono rassegnato. Questo non m’impedisce di protestare. L’ossessione che abbiamo per il corpo ne annuncia anche la dissoluzione. Da una parte, non ipotizzando un dopo, è la nostra ultima certezza e cerchiamo di mantenerlo il più bello possibile come un’urna sacra. Dall’altra si è moltiplicata un’idea di amicizia che prescinde dall’incontro».
Invece?
«Penso che amicizia significhi anche avere a che fare con il corpo dell’altro. Se tradisco un amico devo aspettarmi che mi tiri un ceffone. Nella comunità digitale, pur parlando continuamente del corpo – alimentazione, diete, palestre – il corpo non c’è. È tutto virtuale. Anche l’amore si fa a distanza. L’esperienza sessuale mostra questa contraddizione».
In che senso?
«Il sesso si è trasformato in una prova atletica. Ci sono i tutorial per imparare le tecniche e diventare bravi. L’elemento personale, psicologico, l’arrischiamento, anche l’imbarazzo, l’emozione e la titubanza non ci sono più».
Convivere come coetanei azzera il carisma degli adulti?
«Se non c’è distanza tra l’adulto e il ragazzo non c’è prospettiva. La fine dell’autorevolezza dei professori comincia qui. Magari c’è l’eccezione di quello che irradia ancora fascino, ma dalla maggioranza dei ragazzi gli insegnanti sono considerati degli sfigati. Non perché siano più stupidi di una volta, ma perché si sono abbassati al livello degli studenti. Fanno parte della plaga dei coetanei di figli, genitori amici, studenti, allenatori, tutti nella stessa gara».
Tutti nei social network.
«Fanno i simpaticoni. Sperano di conquistare ascendente con la complicità. Danno il numero di cellulare ai ragazzi… Mi sembra aberrante che un ragazzino possa accedere al cellulare di un professore. È questione di status, non di problematiche sessuali. Come si fa a scambiarsi l’amicizia su Facebook? Se sei mio amico non sei più interessante. Tuttalpiù posso darti una pacca sulla spalla, ma non ti ascolto più con attenzione».
La categoria degli insegnanti è svalutata per colpa loro o della politica?
«Non credo sia colpa della politica. Certo, hanno fatto mille riforme e non se la sono cavata bene. Ma l’errore è il fatto che per i ragazzi il professore è diventato uno di loro. Posta le foto, aggiorna il profilo… L’eccesso di democratizzazione è fuorviante. Sono sparite autorità e autorevolezza. Le materie sono le stesse, ma ai miei tempi il professore suscitava un sentimento misto di paura e fascino. Non c’è più soggezione perché non c’è più differenza».
Le donne sono più vulnerabili al passare del tempo?
«Credo di sì. Ma credo che la vulnerabilità delle donne sia causata dall’aver assunto i tratti virili dei comportamenti sessuali e sociali degli uomini. L’emancipazione della donna ha preso una strada imprevista. Non credo che le femministe degli anni Settanta pensassero che meritare lo stesso trattamento degli uomini comportasse la mascolinizzazione della donna».
E per converso la femminilizzazione del maschio.
«Ci sono dati evidenti. Gli uomini hanno più attenzione per la cosmesi, i ragazzi si depilano, usano meno la macchina e si fanno venire a prendere a casa dalla ragazza. Una volta farsi la patente per andare a prendere la ragazza era motivo di orgoglio».
Nel libro La città interiore ricostruisce la mappa storica, esistenziale e psicologica dalla quale lei stesso scaturisce. Perché si è sottoposto a una ricerca così impegnativa?
«Ognuno di noi ha la propria città interiore, ognuno di noi è quello che gli altri lo hanno fatto diventare. Poi ci si mette del proprio. I genitori e i maestri che abbiamo avuto, i viaggi, i libri, le esperienze che abbiamo fatto determinano quello che siamo. Covacich è un cognome sloveno di una persona italiana. Per me è stato un lavoro e solo successivamente un libro necessario. Una sorta di resa dei conti. Avevo raccolto vari giacimenti, quello della famiglia e della storia, quello degli scrittori… È una ricostruzione anche topografica, una mappa d’identità».
Un’identità che contempla la rottura di confini ideologici e esperienze contrastanti come fare il bagnino e scrivere di notte oppure amare gli sport pensando all’Isef e iscriversi a filosofia.
«Alcuni contrasti si sono risolti. Ora conduco una vita dedicata con continuità alla scrittura. Negli ultimi 15 anni mi sembra di aver scavato nello stesso buco. Ho scritto libri molto autobiografici, romanzi con persone più che con personaggi. Persone vere in carne e ossa, mia madre, la mia compagna, i miei amici. Si sta definendo questa identità di scavatore, di uomo che cerca. Solo apparentemente è una vita risolta».
Da giovane con i suoi amici discuteva di gettatezza, l’essere venuti al mondo inopinatamente in una data epoca e in un dato luogo, rispetto alla quale c’è chi crede al caso e chi al destino: lei?
«Sono contento di vivere in quest’epoca di cambiamenti radicali. Personalmente credo al caso. Se si cresce in una bella famiglia a Stoccolma o in un campo profughi in Sudan nessuno può farci niente. Ma il secondo ha tutti i diritti di incazzarsi».
Quanto contribuisce la cosiddetta società dell’immagine, ora con i social network ancor più pervasiva, al rifiuto della vecchiaia e alla rimozione della morte?
«Non so se sia una delle cause o uno degli effetti di questa rimozione. Ma non si può fermare il mare con le mani. Io ho una posizione considerata snob, da obiettore di coscienza dei social. Il mondo dominante è questo, pochi privilegiati possono permettersi di starne fuori. Mi basta vedere i miei amici la cui vita nella maggioranza dei casi batte su altri ritmi. Non ho l’ansia di stare al passo con i tempi. Rivendico la libertà di essere antiquato, senza che questo significhi essere retrogrado o antimoderno. Mia madre a 78 anni ha scoperto Facebook ed è diventata un’altra persona. A me semplicemente non interessa».
I sociologi parlano di cultura del narcisismo.
«Non è rimasto altro che rispecchiarsi nella propria immagine. Il gesto stesso del selfie ha modificato il modo di guardare il mondo: davanti ci sei tu e il mondo – i paesaggi, i monumenti – è in secondo piano alle tue spalle».
L’io si è sostituito a Dio?
«Non credo. Il luogo di Dio è rimasto vuoto, ma si prova a riempirlo con altri palliativi: l’ambientalismo, il veganesimo. Credo che in modo inconscio a nessuno sfugga la propria fragilità. Il bisogno di certezze ce l’abbiamo tutti. I fanatismi, dal pornoshop alla militanza nell’Isis, sono risposte alla vacillazione dell’io».
A lei che cosa dà speranza?
«Io non ho speranza… Ma l’intervista non può finire così… In realtà, sono contento di vivere il presente, curioso di quest’epoca. Mi sento testimone di una trasformazione portentosa. Un po’ come un cronista alla fine dell’Impero romano. Non si sa cosa verrà dopo, ma la caduta dell’Impero è un momento molto stimolante».
La Verità, 18 novembre 2018