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Montecristo aggiorna gli storici sceneggiati Rai

In fondo, la faccenda è semplice. Quando la base di partenza, ovvero l’opera originale da cui si deriva il prodotto secondario, è solida e potente, è sufficiente aderirvi, non tradirla, non eccedere in invenzioni e licenze autoriali per godere di quella stessa solidità e di quella stessa potenza. Sembra ovvio, ma non lo è, basta vedere con quanta presunzione si «rivisitano» biografie di figure storiche per offrirne «un ritratto inedito» fino a travisarne valore e significato. Niente di tutto ciò hanno fatto i produttori (Palomar, Rai Fiction e France télévisions), gli sceneggiatori (Sandro Pretaglia e Greg Latter) e il regista (Bille August) di Il conte di Montecristo, miniserie in otto episodi in onda il lunedì sera su Rai 1, tratta dal celebre romanzo di Alexandre Dumas padre. Risultato: i primi due capitoli hanno oltrepassato il tetto dei 5 milioni di telespettatori, sfiorando il 27% di share, ascolti sempre più rari per una fiction.
La storia è nota. Il marinaio Edmond Dantès (Sam Claflin), promosso capitano del Pharaon dal vecchio comandante morente e da lui incaricato di recapitare una lettera a Parigi a un nobile filo-napoleonico, viene accusato di tradimento della corona di Francia. A ordire la trama sono il marinaio rivale che aspirava alla medesima promozione e un soldato che ambiva a sposare Mercédès Herrera (Ana Girardot), invece promessasi a Dantès. Recluso nelle segrete del castello d’If, nella tetra isola fortezza al largo di Marsiglia, il marinaio sopravvive all’ingiustizia, confortato dalla memoria dell’amata fin quando incontra l’abate Faria (Jeremy Irons), erudito compagno di prigionia che, prima di morire, lo istruisce sulle possibilità di fuga e su come impossessarsi del tesoro nascosto nella vicina isola di Montecristo. Il desiderio di ritrovare la promessa sposa e la sete di vendetta su chi lo ha fatto incarcerare sono le solide basi di una resistenza che durerà 15 anni. Ma finalmente il momento propizio arriva e Dantès può mettere in atto i suoi piani di riscatto.
Girata con disponibilità di mezzi e la priorità di rimanere fedeli al testo senza dimenticare la cornice storica della vicenda, la miniserie di Palomar si distingue per qualità di scrittura e regia, per la splendida fotografia e la recitazione del cast internazionale nel quale spiccano il protagonista e l’abate Faria del carismatico Jeremy Irons. Una produzione che non teme il confronto con Il conte di Montecristo del 1966 in cui Andrea Giordana era Dantès e che, oltre le formule della serialità contemporanea, richiama la tradizione degli storici sceneggiati Rai.

 

La Verità, 15 gennaio 2024

Noi, tra buoni sentimenti e cliché prevedibili

Scommessa ardita portare su Rai 1 la storia di This is Us, una delle serie di maggior successo degli ultimi anni, giunta sulla Nbc americana alla sesta e ultima stagione. Al centro della vicenda di Noi ci sono Pietro e Rebecca Peirò (Lino Guanciale e Aurora Ruffino), una coppia che vive a Torino la cui vita si fa impegnativa quando lei rimane incinta di tre gemelli. Il giorno del parto, uno di loro non ce la fa. Ma su consiglio del ginecologo (Massimo Wertmüller) che li assiste, decidono di adottare un neonato di colore soccorso da un vigile del fuoco che l’ha trovato abbandonato vicino all’ospedale. Così Pietro e Rebecca tornano a casa con i bambini destinati alle culle già pronte ad attenderli sotto il festone dei «Fantastici 3». La realtà, però, è diversa dalla favola. Sia perché Rebecca fatica comprensibilmente a superare il trauma della perdita di uno dei tre cresciuti nel pancione. Sia perché avverte come estraneo il bimbo che ne ha preso il posto e che, invece, ha diritto a essere rispettato in tutta la sua specificità. Ma le complicazioni sono solo all’inizio.

L’originalità della serie è nell’intreccio delle storie dei ragazzi che troviamo ultra trentenni, alla ricerca della propria identità. Un intreccio che si snoda attraverso ben calibrati flashback, avanti e indietro nei decenni, utili a cogliere le sfumature psicologiche del terzetto e dei loro genitori. I due gemelli, un attore in cerca di consacrazione e una cantante mancata con problemi di obesità, sono molto legati tra loro. Quello più razionale sembra però il figlio adottato, sposato, padre di due bambini e professionalmente realizzato. Tuttavia, anche per lui le cose si complicano quando scopre che al padre biologico, finalmente ritrovato, è stata diagnosticata una grave malattia.

Prodotta da Cattleya per Rai Fiction, la versione italiana segue in modo molto fedele la trama ideata dal creatore americano (Rai 1, domenica, ore 21,30, share del 18,7%, 3,9 milioni di telespettatori). Scritta da Sandro Petraglia, Flaminia Gressi e Michela Straniero e diretta da Luca Ribuoli, il suo pregio migliore è nella qualità dei dialoghi e nell’incalzare della storia, favorito dai frequenti cambi d’epoca e dal sovrapporsi delle vicende. Ma mentre nell’originale la trama si distende su numerose stagioni, qui la concentrazione drammatica risulta particolarmente elevata. Non a caso la commozione è sempre in agguato. Come pure lo è il rischio di perdere l’equilibrio tra buoni sentimenti e sconfinamento nei cliché prevedibili del momento.

 

La Verità, 8 marzo 2022

Gassman e Sansa salvano la serie dagli stereotipi

C’è ancora Roma, con le sue periferie e i suoi paesi satelliti, al centro della nuova serie di Rai 1, Io ti cercherò, otto episodi coprodotti da Rai Fiction con Publispei e Verdiana Bixio, diretti da Gianluca Maria Tavarelli e interpretati da Alessandro Gassman, Maya Sansa, Luigi Fedele e Andrea Sartoretti (lunedì, ore 21,30, share del 20, 7%, 4,8 milioni di telespettatori). La capitale trasmette sempre un certo fascino e continua a svelare scorci inediti, soprattutto nei quartieri. Perciò, perché no? L’originalità non dev’essere l’asso nella manica di Rai Fiction, così, in queste nuove produzioni, si ha una percezione di déjà vu o forse, ancor più, di déjà entendu. Per esempio nella sigla e nell’accompagnamento musicale, efficace ma insistente.

Nella vita di un ex poliziotto (Gassman) ora benzinaio precario, i fantasmi del passato affiorano con il dolore della perdita dell’unico figlio per suicidio. Questa, almeno, è la versione fornita dagli inquirenti e dai medici legali. Dopo una rapida visita nell’abitazione dove il ragazzo risiedeva: «Non era la casa di uno che aveva in mente di uccidersi», al vicequestore ed ex fiamma (Sansa) bastano poche verifiche per scoprire che quella versione fa acqua da tutte le parti e convincere l’ex collega a scavare più a fondo.

Costruito su una buona sceneggiatura che alterna le parti investigative ai passaggi psicologici e sentimentali spesso proposti attraverso dosati flashback, Io ti cercherò si giova anche dell’ottima interpretazione di Sansa e Gassman. Nei misteri nascosti nel passato del protagonista – dall’espulsione dalla polizia al divorzio dalla moglie fino al distacco dal figlio – risiede verosimilmente il segreto della fine violenta del ragazzo. Proprio nel dipanarsi progressivo di queste ombre e del complesso rapporto tra padre e figlio, reso attraverso una lettera-confessione del ragazzo, si esprime il meglio della storia. Che invece tende a sbandare dove affiorano i tratti di una sociologia modaiola. Riesce infatti difficile immaginare come un ventenne che si pagava l’università consegnando pizze a domicilio, che portava i dreadlocks fino alle spalle, che appiccicava adesivi pro legalizzazione della marijuana, che in vacanza al mare, dopo aver visto affondare un barcone, si era fermato con la fidanzata alcuni giorni in un centro di prima accoglienza, in realtà fosse, come lei racconta al padre, «un salutista» che «andava a correre tutti i giorni, mangiava solo sano, niente salumi, niente dolci e sveniva se vedeva una goccia di sangue». Vedremo il seguito, ma già fin d’ora lo stereotipo sembra perfetto.

 

La Verità, 7 ottobre 2020

Dopo Eco aspettiamo un Medioevo più vero

«Giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questa pergamena testimonianza degli eventi mirabili e tremendi cui mi accadde di assistere in gioventù, sul finire dell’anno 1327». Si apre sul filo della memoria il racconto de Il nome della rosa, protagonisti il frate francescano Guglielmo da Baskerville (John Turturro) chiamato a indagare nell’abbazia benedettina immersa nelle Alpi, e il novizio Adso da Melk (Damian Hardung), testimone e voce narrante degli intrighi che riempiranno gli otto episodi, divisi in quattro serate per Rai 1 (lunedì, ore 21,30, share del 27.38%, 6,5 milioni di telespettatori). L’epoca della vicenda è quanto di più complicato: il papato ha sede ad Avignone, il conflitto tra potere spirituale della Chiesa e Impero causa continue guerre, l’Inquisizione incombe e gli ordini religiosi sono agitati da contrasti e rivalità. Quando nell’abbazia vengono trovati morti prima frate Adelmo e poi Venanzio, Guglielmo deve anticipare con la sua indagine l’arrivo della delegazione papale guidata da Bernardo Gui (Rupert Everett), capo dell’Inquisizione. L’investigazione nella biblioteca e nei chiostri tra le omertà e gli ostruzionismi dei frati eleva Guglielmo da Baskerville su un piedistallo intellettuale: «Esiste un solo modo per combattere ignoranza e odio: usare la conoscenza per aiutare la razza umana», declama. Peccato che poco prima si era avventurato in un improbabile «cercare le connessioni essenziali dei piccoli affari del mondo». Licenze attribuibili a un eccesso di attualizzazione dell’opera, per il resto ragguardevole per ambientazione, fotografia e cast.

Come già visto in L’amica geniale, con la trasposizione del romanzone di Umberto Eco, la Rai ritrova capacità di pensare in grande. Prima che dalla qualità della confezione, il segnale arriva dalle collaborazioni che presiedono alla produzione, già venduta in tutto il mondo (Bbc compresa): con Rai Fiction, 11 Marzo Film, Palomar e Tele Munchen Group. La regia di Giacomo Battiato e la sceneggiatura di Andrea Porporati, ideatore, Nigel Williams e Turturro oltre che dello stesso Battiato ci regalano l’innegabile piacere del grande e misterioso romanzo storico. Ma, senza nulla togliere alla qualità dell’operazione, dispiace che, in mancanza di narrazioni alternative, si perpetri e si consolidi l’identificazione tra Medioevo e oscurantismo. Quando una serie sui Costruttori di cattedrali o, per esempio, sull’opera di San Benedetto che quel tipo di abbazie e biblioteche creò?

La Verità, 6 marzo 2019

 

 

Una Compagnia del cigno senza centro narrativo

Da L’amica geniale a La Compagnia del Cigno il salto è notevole. In basso, purtroppo. Siamo su Rai 1 e dietro c’è sempre Rai Fiction, ma le uguaglianze finiscono qui. La serie diretta da Saverio Costanzo era tratta da un bestseller, quella scritta e diretta da Ivan Cotroneo è nata per la tv. Però, chissà, forse la differenza principale, causa di tutte, è proprio quella che intercorre tra Costanzo e Cotroneo. Se si ha l’ambizione di introdurre nella fiction di Rai 1 linguaggi e formule nuove come il musical e il fantasy catartico, tanto più bisogna essere impeccabili nella narrazione elementare. Là dove, invece, La Compagnia del Cigno evidenzia qualche debolezza, la principale delle quali è la modica quantità di coinvolgimento del telespettatore (lunedì, ore 21.30, share del 24.03% nei primi due di dodici episodi).

Nel conservatorio Giuseppe Verdi di Milano l’esageratamente severo maestro Luca Marioni (Alessio Boni) sta tentando di creare un’orchestra con gli allievi più promettenti. Al gruppo in cerca di affiatamento si aggiunge strada facendo Matteo (Leonardo Mazzarotto), violinista di talento proveniente dalla terremotata Amatrice. Ospite dello zio gay (Alessandro Roja) cui l’hanno affidato il padre e la madre separati (Stefano Dionisi e Giovanna Mezzogiorno), il nuovo arrivato viene aiutato a integrarsi nell’orchestra dalla «compagnia del cigno» (in omaggio a Verdi, il Cigno di Busseto), composta da sei ragazzi scelti dal tenebroso maestro. Intanto s’intrecciano le storie sentimentali di giovani e adulti.

Finalmente ambientata al nord dopo tante storie romane e napoletane, La Compagnia del Cigno ha anche il pregio di indagare il rapporto tra il talento e la necessità di una disciplina che comporta sacrifici per corrispondere alle ambizioni. L’idea di affidare a piccole dosi di musical il racconto degli stati d’animo è congeniale alla narrazione fluida di moda. Tuttavia, a causa del lungo prologo necessario a tratteggiare i profili dei coprotagonisti, finora priva di un centro affettivo, la storia stenta a decollare. Alla coralità dei ragazzi si contrappone il maestro soprannominato «il bastardo», nel tentativo di farne l’antagonista sblocca trama. Con questa serie Cotroneo, navigato autore di programmi (Parla con me, Stasera casa Mika) e di fiction, nonché regista al cinema, esordisce dietro la cinepresa anche in tv, frequentando i temi prediletti come i rapporti omosessuali più o meno metabolizzati (È arrivata la felicità, Una grande famiglia, Io e lei) e l’integrazione del diverso. Temi politicamente corretti, cari alla Rai renziana.

 

La Verità, 9 gennaio 2019

Un «Principe libero» più adatto per il cinema

Operazione riuscita. Va detto, non era facile. Restituire la complessità e la vitalità di Fabrizio De André, probabilmente il più geniale dei cantautori italiani, non era impresa semplice. De André, uno cui stanno strette tutte le definizioni, compresa quella di cantautore, è stato un artista, uno spirito libero che ha vissuto pienamente il suo tempo e la sua condizione. Non era facile rendere tutto questo in tre ore di televisione, ma bisogna dire che, per una volta, con Fabrizio De André – Principe libero Rai fiction e Bibi film di Angelo Barbagallo ci sono riuscite (Rai 1, martedì e mercoledì, ore 21.30, share del 24.3% nel primo episodio). Sceneggiatura (Francesca Serafini e Giordano Meacci) e regia (Luca Facchini) si sono tenute lontane da ambizioni riassuntive e antologiche per privilegiare la storia, la formazione dell’uomo e dell’artista, interpretato da un bravissimo e molto somigliante, anche se in bello, Luca Marinelli, attraverso l’intenso rapporto con il padre (Ennio Fantastichini), le notti nei bordelli del porto di Genova, l’amicizia con Luigi Tenco (Matteo Martari), i primi spettacoli per gli amici nelle bettole e nei teatri. Poi l’incontro con la prima moglie Enrica Rignon, i primi versi scritti senza convinzione, incoraggiato dall’amico Paolo Villaggio (Gianluca Gobbi): «Tu sei un genio»; «Perché ci sia un genio bisogna che ce ne sia un altro che lo riconosce…»; il primo disco, l’interpretazione di Mina della Canzone di Marinella, tratta da una storia di cronaca raccontata dall’amico cronista; l’amore per Dori Ghezzi, la riluttanza ai concerti, il successo, il rapimento dell’Anonima sequestri dalla tenuta dell’Agnata in Sardegna, che apre la narrazione con un lungo flashback. Infine, l’anarchia ponderata e non ideologica («Anarchia è darsi delle regole prima che te le diano gli altri») che attraversa tutto il racconto, restituendo al protagonista il carisma gentile che rifluiva nei testi delle canzoni, sempre imprevedibili e anticipatori, scelti con accurata ricerca filologica e resi dalla voce di Faber.

Operazione riuscita, dunque. Anche se, forse, proprio la difficoltà del personaggio di stare dentro etichette e definizioni statiche, lascia la sensazione che la fruizione cinematografica sia più consona a un prodotto come Principe libero.

La Verità, 15 febbraio 2018

Maltese, una buona serie che poteva essere ottima

Chissà se nel 1976 per definire che una donna accogliente con un ospite si diceva che era stata «inclusiva». E chissà se, sempre all’epoca, le prostitute si nei bordelli si avvinghiavano al palo della lap dance. Sono interrogativi suscitati dalla visione di Maltese – Il romanzo del commissario, la nuova fiction in quattro episodi in onda su Rai 1 (lunedì e mercoledì, ore 21.30, share del 23,65% nel secondo episodio). Piccole imprecisioni, forse. Pignolerie. Perché, nel complesso, il meccanismo della serie realizzata dalla Palomar di Carlo Degli Esposti, «il produttore di Montalbano», funziona.

Dario Maltese, un credibile Kim Rossi Stuart, è un commissario che torna a Trapani, sua città natale, per partecipare al matrimonio del grande amico di gioventù. A Roma, dove si è trasferito, si è fatto una carriera e una vita. Che, però, è già piena di cicatrici: un matrimonio fallito e l’unica figlia che adesso lo chiama al telefono dall’America, dove vive con la madre; la morte traumatica del padre, anche lui commissario di polizia, impiccatosi a causa di un’inchiesta, non si sa quanto comprovata, che lo aveva incriminato per una relazione con una minorenne, coetanea di Dario stesso. La terza ferita si apre, invece, la vigilia del matrimonio dell’amico, pure lui poliziotto, assassinato sotto i suoi occhi insieme alla compagna incinta. Il ritorno a Trapani per indagare sull’assassinio diventa la porta spalancata su un passato da ricostruire e medicare. Compito non facile, però, perché il commissario s’imbatte nell’ostilità del Procuratore capo e nella diffidenza di alcuni dei poliziotti del comando. L’ostacolo principale, tuttavia, è il depistaggio architettato dai mandanti dell’omicidio.

Diretta da Gianluca Maria Tavarelli, la serie ha il suo maggior fascino nel personaggio di Kim Rossi Stuart, il commissario maltrattato dalla vita ma retto e che conosce il nome del bassista dei Weather Report. fascino al quale, piuttosto prevedibilmente, cede la fotografa tedesca (molto simile all’amica di Montalbano), chissà perché trapiantata in quest’angolo di Sicilia. Anche ambientazioni e costumi sono un discreto punto di forza. Dopo la città di Matera per Sorelle, la scelta di Trapani mostra la cura di Rai Fiction nel trasformare la location in una protagonista aggiunta delle storie. Dove, invece, sembra mancare un pizzico di attenzione è nell’intento eccessivamente didascalico di certi spiegoni che tolgono curiosità e mistero alla trama. E, a proposito di preoccupazioni didascaliche, sarebbero invece state certamente utili, e forse doverose per un servizio pubblico, delle brevi sottotitolazioni per rendere comprensibili anche nel resto del Paese alcuni dialoghi in siciliano stretto. Chissà se è dovuto a questa mancanza il considerevole calo di ascolti tra il primo e il secondo episodio.