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«La scuola deve tornare a essere difficile»

Grazie a una recente intervista al Foglio, abbiamo finalmente scoperto il lato nascosto di Luca Ricolfi, rigoroso docente di Analisi dei dati all’università di Torino e presidente e direttore scientifico della Fondazione David Hume. Ha un passato da rivoluzionario nelle file dei gruppi extraparlamentari dai quali si allontanò nel 1971, dopo un violento scontro a una manifestazione tra militanti del Psiup e di Lotta continua. Ricolfi pensava che per cambiare il mondo, prima, bisognasse conoscerlo e studiarlo, i suoi compagni no. Ora, non a caso, il suo nuovo libro s’intitola La rivoluzione del merito (Rizzoli), e muove da un fatto di oltre 70 anni fa. Quando, parlando a una platea di maestri e professori, Piero Calamandrei definì la scuola «organo costituzionale» perché si prefigge la «formazione della nuova classe dirigente». Per lui l’articolo 34 della Costituzione – «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» – era il più importante perché, grazie alle borse di studio per i meno abbienti, doveva assicurare il ricambio della classe dirigente.

Professore, quanto lontani siamo da quella consapevolezza?

Anni luce, direi. La classe dirigente è stata ed è tuttora ben felice di autoriprodursi senza la concorrenza dei ceti popolari. Il degrado della scuola e dell’università serve precisamente a questo: togliere ai figli dei poveri l’unica arma, il sapere, con cui potrebbero competere efficacemente con i figli dei ricchi.

Le persone degne di guidare una nazione devono poter affiorare da tutti i ceti sociali: perché gran parte dei nostri politici hanno smarrito un ideale così alto?

Che lo abbiano smarrito i partiti conservatori è comprensibile. Che lo abbiano smarrito i socialisti e i comunisti è meno ovvio. Richiede una spiegazione. Tutto risale alla svolta del 1962, quando il Partito comunista abbandonò definitivamente la dottrina di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Concetto Marchesi, morto pochi anni prima, per i quali la cultura umanistica era la via maestra per l’elevazione e l’emancipazione dei ceti popolari. Al suo posto, anche grazie all’azione dei socialisti, subentrò l’idea che la scuola dovesse diventare meno gentiliana, più scientifica, ma soprattutto più facile. In poche parole: si preferì abbassare l’asticella, piuttosto che adoperarsi perché tutti – anche gli strati popolari – fossero in grado di superarla. E lo strumento per questa svolta venne individuato nella scuola media unica, con l’annacquamento del latino e il progressivo, inesorabile, abbassamento degli standard. Poi è stato tutto un susseguirsi di riforme «facilitanti», dalla liberalizzazione degli accessi all’università, alla abolizione degli esami di riparazione, fino al 3 +2 e alla dottrina del «diritto al successo formativo».

Perché l’abbinamento della parola merito a istruzione nella definizione del ministero oggi presieduto da Giuseppe Valditara ha scandalizzato soprattutto a sinistra?

Un po’ perché, agli occhi di una sinistra cieca e pavloviana, qualsiasi cosa piaccia alla destra diventa automaticamente e istantaneamente non-progressista, se non reazionaria. Un po’ perché comunque, da tempo, a sinistra era in corso un attacco al merito in nome di un malinteso egualitarismo, come se una scuola seria fosse intrinsecamente anti-popolare. Mi ha moto colpito che, fra i personaggi pubblici che contano solo pochissimi abbiano difeso l’idea di merito, a dispetto della sua adozione da parte del Ministero dell’istruzione. Fra questi pochissimi: Concita De Gregorio, Dacia Maraini, Massimo Recalcati.

Quali guasti ha causato l’illusione egualitarista nella scuola italiana?

Ha allargato il fossato fra ceti alti e ceti bassi, come abbiamo dimostrato con strumenti matematico-statistici, in uno studio recente condotto con la Fondazione Hume (Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La nave di Teseo, ndr).

Nel suo libro critica don Lorenzo Milani e Lettera a una professoressa che molti studiosi considerano un testo sacro. Quali sono le sue responsabilità nel peggioramento del nostro sistema scolastico?

Quello che io critico è soprattutto il «donmilanismo», ovvero l’andazzo ribassista della scuola negli ultimi 50 anni, non don Milani. Se letta con attenzione, Lettera a una professoressa si rivela un testo bifronte. Da una parte c’è la svalutazione della cultura alta, e in particolare della letteratura. Ma dall’altra c’è un’idea di scuola del tutto opposta a quella di oggi: una scuola seria, senza vacanze e svaghi, in cui si studia tantissimo, e che offre il tempo pieno ai figli dei ceti popolari. Il donmilanismo ha recepito la prima faccia, e respinto la seconda.

Si pensa che l’idea dei genitori difensori a oltranza dei figli contro gli insegnanti sia una svolta recente, invece…

Il punto di svolta si situa verso la metà degli anni Novanta, è allora che i genitori hanno rotto l’alleanza con gli insegnanti.

Alcune formazioni studentesche hanno attribuito all’eccesso di pressione e di arrivismo nelle università alcune patologie e qualche suicido tra gli studenti: è davvero così?

Non esistono dati in grado di supportare questa ipotesi. Però, se devo esprimere un’opinione, ritengo che la vera competizione, specie nella scuola, non sia per il voto più alto, o per assecondare le ambizioni dei genitori, ma per il prestigio nel gruppo dei pari. Che si consegue con i like su internet, le imprese spericolate, le conquiste in materia sessuale. Non certo con un esame di maturità brillante.

Il killer più spietato della meritocrazia scolastica è il frequente ricorso dei genitori al Tar dopo l’esito degli scrutini?

Sì, i genitori sono una sciagura, perché il rischio del ricorso alla magistratura ha l’effetto di intimidire e umiliare gli insegnanti. Un effetto amplificato dal fatto che raramente i dirigenti e le istituzioni stanno dalla parte degli insegnanti.

Che differenza c’è tra meritocrazia e reale sostegno al merito?

Il principio del merito implica che una posizione, sia essa un posto di lavoro o un bel voto, sia assegnata a chi possiede maggiori capacità, e che la valutazione delle capacità sia effettuata, in modo accurato e imparziale, da chi – singolo o commissione – possiede gli strumenti per valutare: il docente che ha seguito uno studente, l’artigiano che ha lavorato con un apprendista, il manager che intervista un candidato. Meritocrazia, invece, significa affidare la selezione e la formazione delle graduatorie a test impersonali, quasi sempre a crocette, somministrati da sedicenti agenzie di valutazione. La mia tesi è che il primo sistema, quello del merito, sia ragionevolmente accurato, e che il secondo, quello dei test, non lo sia quasi mai.

La sua proposta di istituire un fondo «congruo» per sostenere i meritevoli senza possibilità, è anche un modo per rispondere alla «carenza di invenzioni» di cui ci si lamenta per il ristagno economico italiano? 

Certamente. Se si allarga l’accesso agli studi superiori anche ai membri dei ceti popolari, si accresce automaticamente il potenziale di innovazione del sistema.

È sufficiente l’aumento medio a 700 euro delle borse di studio per il 2024 previsto dal ministro per l’università Anna Maria Bernini?

Apprezzo l’intervento, ma lo considero solo un primo passo. Oggi, in media, le borse universitarie si aggirano sui 3.000 euro l’anno, con enormi differenze da regione a regione. La mia valutazione è che dovrebbero essere portate a circa 12.000 euro, e a 15.000 nelle città afflitte dal caro affitti, come Milano, Roma, Bologna. Inoltre, occorrerebbe perfezionare i criteri di individuazione degli idonei.

Un’altra correzione nell’intestazione di un ministero ha stupito molti: quello per la famiglia, la natalità e le pari opportunità. Perché?

La correzione ha una sua logica, perché i problemi sono strettamente interconnessi.

Esiste un legame tra mancato riconoscimento del merito e denatalità?

Non direi, la denatalità ha cause economiche e culturali profonde. La promozione del merito produce molti e importanti vantaggi, ma non è la soluzione per qualsiasi problema.

Gli ultimi casi di stupri del branco in Italia si sono verificati a Caivano e a Palermo. È il sintomo che minore scolarizzazione e minor benessere causano criminalità giovanile e rapporti deviati con le donne?

No, i dati suggeriscono che la violenza sulle donne sia trasversale, se non addirittura più diffusa nelle aree considerate più progredite.

Ci sono più stupri e femminicidi nei paesi dove c’è più parità di genere?

Tendenzialmente è così, anche se è difficile proporre un’interpretazione solida di questo paradosso.

Qualche giorno fa ha detto che in Italia esiste una sola idea di civiltà, quella progressista, alla quale la destra sa solo reagire. E la visione del mondo che deriva dal cristianesimo?

Conta poco. Un po’ perché i veri credenti sono pochi, un po’ perché alcuni comandamenti sono in disuso (onora il padre e la madre, non desiderare la donna d’altri, non desiderare la roba d’altri, non commettere atti impuri). Ma un po’, anche, perché qualsiasi presa di posizione anti-moderna viene tacciata di bigottismo, e nessuno oggi sopporta di passare per bigotto. La realtà è che la destra in Italia gioca di rimessa: non condivide molti valori della sinistra, ma non è in grado, per ora, di opporre una visione del mondo e un’idea di civiltà realmente alternative.

 

Panorama, 20 settembre 2023

«Le battaglie della sinistra ora le fa la destra»

Ogni suo libro è una piccola «bibbia». Un testo definitivo della materia di cui si occupa. Presidente e responsabile scientifico della Fondazione Hume, Luca Ricolfi è docente di Analisi dei dati all’università di Torino. Probabilmente proprio il fatto che il suo punto di vista siano i dati – i numeri, i fatti – e non l’ideologia, ne fanno uno degli intellettuali più indipendenti e autorevoli del panorama scientifico italiano. Leggere La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, appena uscito da Rizzoli e già tra i più venduti su Amazon, è come puntare il phon contro uno specchio appannato.

Professore, il vizio della sinistra ufficiale sta nell’ambizione originale del partito democratico di «rappresentare la parte migliore dell’Italia»?

Sì, anche se non è l’unico. C’è anche, fin dai tempi del partito comunista, l’incapacità di analizzare la realtà in modo scientifico, e quindi spregiudicato. Di qui la tendenza a chiedersi, di qualsiasi proposizione empirica, non se sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa alla causa. La conseguenza è stata una sorta di cecità progressiva, nel doppio senso della parola: crescente e progressista. Con un esito finale: la totale incapacità di guardare la realtà con lenti non ideologiche.

Cosa nasconde la convinzione che la destra parli alla pancia del Paese?

Uno strano modo di pensare: se abbiamo ragione, e il popolo non ci capisce, allora vuol dire che il popolo non usa la ragione.

Spesso i politici progressisti denunciano la crescita del populismo: come va interpretato l’uso di questo termine?

Le rispondo con la definizione della parola «populista» proposta da Jean Michel Naulot: «Populista: aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle». Una definizione interessante anche perché risale al 1996, quando pochi vedevano il problema del divorzio fra la sinistra ufficiale e i ceti popolari.

La sinistra ufficiale si accorgeva dello scambio delle basi sociali in atto fra i due schieramenti?

Alcuni studiosi avevano segnalato il problema all’inizio degli anni Novanta, quando in fabbrica fece la sua prima comparsa la doppia tessera: operai iscritti alla Cgil & militanti della Lega. Poi ci sono stati diversi studi che hanno mostrato che la base del Pci-Pds-Ds stava diventando sempre più borghese. Infine, le analisi dei flussi elettorali hanno evidenziato il paradosso della Ztl che vota a sinistra e delle periferie che votano a destra.

A quel punto la sinistra ha scelto consapevolmente l’establishment?

Ha preferito non vedere. Sapevano, ma non volevano prendere atto. Sempre per il motivo che dicevo poco fa: l’incapacità di guardare la realtà con un atteggiamento scientifico, ossia il primato dell’utile sul vero.

Il fatto che Giorgia Meloni nel primo discorso in Parlamento si sia presentata come underdog che rappresenta gli sfavoriti è la certificazione di questo scambio?

In un certo senso sì, anche se il termine underdog, di solito, designa gli sfavoriti in una competizione elettorale, cosa che Giorgia Meloni e il suo partito sono stati in passato, non certo nell’ultimo anno. Io piuttosto noterei una cosa: la novità di Giorgia Meloni non è solo che è la prima donna premier, ma che è il primo premier di umili origini. Tutti i premier della seconda Repubblica, oltre a essere maschi, erano di origine sociale elevata, talora elevatissima o nobiliare. Per trovare un premier di origini modeste dobbiamo risalire al 1988, quando venne eletto Ciriaco De Mita, nato a Nusco, un piccolo comune montano dell’avellinese, con un padre sarto e portalettere, e una madre casalinga. Credo che il carisma di Giorgia Meloni – oltre che alla sua bravura, alla sua integrità e alla sua passione – sia dovuto all’ampiezza dei segmenti sociali per i quali può risultare naturale specchiarsi in lei.

Quali segmenti ha in mente?

Le donne, ovviamente, ma anche gli strati popolari, ossia le persone che non possono contare su una famiglia di origine ricca, benestante, protettiva.

Persa la rappresentanza dei deboli, la sinistra si è concentrata sui diritti delle minoranze Lgbt+ che coinvolgono i ceti medio alti. Perché, al contempo, è così intransigente nella difesa degli immigrati?

Proprio perché ha abbandonato i ceti popolari. La difesa degli immigrati è una sorta di polizza di assicurazione contro la perdita della propria identità. Grazie agli immigrati, la sinistra può ancora pensare sé stessa come paladina degli ultimi. E grazie alla difesa delle rivendicazioni Lgbt+ può pensarsi come campionessa di inclusione.

Perché la sinistra liberal appare tendenzialmente individualista, mentre la destra mantiene una tiepida dimensione comunitaria?

Perché la sinistra liberal, ovvero la sinistra ufficiale, crede che l’aumento senza limiti dei diritti individuali sia l’essenza del progresso, mentre la destra – e una parte del mondo femminile – vede il lato oscuro del progresso, a partire dalla distruzione dei legami comunitari e familiari.

Perché oggi la sinistra ufficiale parla più di inclusione che di eguaglianza?

Lo spiegò Alessandro Pizzorno una trentina di anni fa: parlare di inclusione rende più facile conferire un valore morale alla scelta di essere di sinistra, e assegnare un disvalore all’essere di destra: noi buoni vogliamo includere, voi cattivi volete escludere…

Il giudizio di Enrico Letta sul risultato elettorale del Pd è che «non è riuscito a connettersi con chi non ce la fa»: quanto tempo gli servirà per tornare a farlo?

Non è un problema di connessione con chi non ce la fa, è un problema di comprensione della realtà.

Prima che completi il processo di revisione, può perdere ancora consensi? E a vantaggio del Terzo polo o del M5s?

I consensi li sta già perdendo. Secondo i dati che ho potuto analizzare, l’emorragia è bilaterale, ma un po’ più grave verso i 5 stelle che verso il Terzo polo.

Il catechismo politicamente corretto rende la nostra società più illiberale?

Sì, nella nostra società vengono predicate tolleranza e inclusione, ma il dissenso verso il politicamente corretto non è tollerato.

Come mai gli intellettuali, che fino agli anni Settanta erano contro la censura e per la libertà di espressione, oggi sono in gran parte schierati a difesa dell’establishment?

Perché ne fanno parte, specie nelle istituzioni culturali e nel mondo dei media. Difendendo l’establishment difendono sé stessi.

In Italia la battaglia sul politicamente corretto si è applicata al ddl Zan: perché nonostante il parere contrario di giuristi, femministe e intellettuali progressisti il Pd ne ha fatto un simbolo intoccabile?

Per il solito motivo, l’incapacità di accettare la realtà quando va contro l’utile di partito. In questo caso: l’incapacità di ammettere il fatto che il ddl Zan limita la libertà di espressione.

Perché l’introduzione del merito tra le competenze del ministero della Pubblica istruzione ha destato scandalo?

Un po’ per il mero fatto che ne ha parlato la destra, un po’ perché nella mentalità della sinistra c’è l’idea che premiare il merito di qualcuno significa umiliare il non-merito di qualcun altro. È questa mentalità che, negli ultimi 50 anni, ha distrutto la scuola e l’università.

Nel Novecento l’istruzione era considerata uno strumento di elevazione sociale, oggi non è più così?

No, la trasmissione del patrimonio culturale, cara ad Antonio Gramsci e a Palmiro Togliatti, non interessa più.

Sta passando a destra anche l’idea di emancipazione dei deboli attraverso la cultura?

Più che a destra, sta passando nel partito di Giorgia Meloni, secondo cui «eguaglianza e merito sono fratelli».

In questo contesto, che cosa può significare la nascita del primo governo di destra in Italia?

La fine dell’egemonia culturale assoluta della sinistra.

Se dovesse dare un solo consiglio non richiesto alla premier cosa le suggerirebbe?

Dica che vuole, finalmente, che venga applicato l’articolo 34 della Costituzione, e vari un grande piano di borse di studio per «i capaci e meritevoli» privi di mezzi.

 

Panorama, 9 novembre 2022

 

 

L’autismo dei migliori avvelena ogni dialogo

Siamo diventati un Paese autistico. Cioè, lo siamo da tempo, ma è come se la pandemia da Covid-19 avesse radicalizzato e accelerato una tendenza in atto. Forse era inevitabile. Era inevitabile che l’avvento di un fatto inedito come un’epidemia planetaria portasse a esasperare le differenze, a divaricare le weltanschauung, le diverse visioni del mondo. Da una parte c’è infatti l’ideologia con i suoi derivati, il primo dei quali è il complesso di superiorità strisciante nell’area progressista. Dall’altra c’è il pragmatismo, magari un po’ qualunquista del buon senso. Le conseguenze delle due concezioni sono uno spettacolo quotidiano sotto gli occhi di tutti. Parlando della pandemia, nel primo caso si pontifica a reti e giornali pressoché unificati, sicuri di essere dalla parte giusta della storia. Nel secondo si rischia di amplificare posizioni poco credibili e spesso molto rudimentali. Tuttavia, considerando il fatto che, come si è soliti dire, la scienza procede per approssimazioni e giunge a regole definitive solo dopo infinite prove sul campo, forse sarebbe il caso di non distribuire certezze e imporre comportamenti come fossero dogmi assoluti e incontrovertibili. Lo dico da vaccinato fino alla terza dose.

Questa lunga premessa serve solo per sottolineare che le guerre di religione hanno fatto il loro tempo. Purtroppo, però, spesso accade che l’autismo dei buoni avveleni i pozzi del dibattito, riducendo drasticamente gli spazi del dialogo fin quasi a renderlo impossibile. L’abbiamo visto in modo esemplare l’altra sera quando, mentre stava tentando d’illustrare dei dati, l’ex presidente di Pubblicità Progresso e consigliere Rai, Alberto Contri, è stato costretto ad abbandonare #cartabianca per non sottostare alla gragnuola d’insulti scagliati dal giornalista saltafila Andrea Scanzi. Il tutto con l’approvazione degli altri ospiti (tranne uno) e nonostante il tentativo di Bianca Berlinguer di sedare gli animi. È un copione che si rifrange all’infinito, come l’immagine tra due specchi, nelle strisce d’informazione quotidiana di La7, di cui Otto e mezzo è l’esempio più plastico. La conduttrice, infatti, con i suoi cortigiani abituali, è la campionessa assoluta di questo autismo dei migliori. Quello che mal tollera le voci dissenzienti, le depotenzia nella loro capacità espressiva. Il catalogo è ricco. Nonostante la giornalista-scrittrice si spertichi negli inviti pubblici ad abbassare il grado di testosterone in politica per dare finalmente spazio all’empatia femminile, appena si appropinquano alla sua cattedra Giorgia Meloni o Maria Elena Boschi subiscono un trattamento da posto di polizia venezuelano. Al di là dell’appartenenza di genere, la discriminazione riguarda diffusamente le posizioni di tipo conservatore e si applica ai temi etici, alla giustizia, alla gestione dei flussi migratori oltre che, ovviamente, al Covid. Il problema è che la conduttrice di Otto e mezzo prolifera dentro e fuori la rete di appartenenza dove, non a caso, la tentazione di promuovere «un’informazione meno democratica» è di casa.

Secondo Ernesto Galli della Loggia il peccato è già ampiamente commesso: «Nell’arena pubblica specie radiotelevisiva», ha scritto restando voce solitaria sul Corriere della Sera, «capita quasi sempre, infatti, che il punto di vista culturalmente conservatore sia implicitamente spogliato di qualunque contenuto e dignità ideali, e quindi preliminarmente stigmatizzato come indegno di vera considerazione». Nel dibattito televisivo «la modernità diviene un feticcio da adorare» e a illustrarne le meraviglie, ha proseguito lo storico, viene regolarmente «chiamato il noto scrittore X o il brillante filosofo Y, a obiettare ad esse, invece, un qualche maldestro parlamentare della Lega o di Fdi, al massimo il giornalista di qualche foglio di destra». Regolarmente maltrattato.

Il trampolino di lancio è sempre quello, l’autismo dei buoni. Cioè l’incapacità di mettersi in discussione e di ascoltare visioni diverse. Come definire per esempio il comportamento del Fatto quotidiano in materia di giustizia? La sequela di smentite alle sue tesi giunte dalle sentenze sulla mega tangente Eni o sulla trattativa Stato-mafia sono per caso servite a ridurre il digrignar di denti che attraversa le pagine del quotidiano diretto da Marco Travaglio? Ancor più testardi dei fatti, si prosegue monoliticamente nella medesima direzione.

Dubbi non sono ammessi. Dopo esser stato contestato da larga parte dei movimenti femministi e fermato in Parlamento, ora il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia viene riesumato dalla rete Re.a.dy (Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazioni) che unisce regioni ed enti locali a guida progressista attraverso «azioni informative e formative» rivolte «a tutta la popolazione» per promuovere iniziative di sostegno dell’agenda Lgbt. In pratica, Re.a.dy opera per affermare un ddl Zan strisciante e mascherato in appoggio alle giornate del Gay Pride, nell’ambito del quale l’associazione stessa è nata. Siccome si è dalla parte del giusto, si procede imperterriti. Lo stesso si può dire per le campagne per la legalizzazione della cannabis e il suicidio assistito promosse in pieno stato d’emergenza. Il quale, evidentemente, ha importanza intermittente. Come ha ben reso il tweet di Gavino Sanna (presidente dell’Associazione consumatori del Piemonte): «Maestà, il popolo ha fame. Dategli bagni inclusivi e linguaggio gender neutral». Ma forse l’esempio più involontariamente comico di autismo dei buoni è la recente intervista concessa da Carmen Consoli al Corriere della Sera. Dopo aver spiegato di aver scelto il padre di suo figlio in un catalogo per la fecondazione assistita praticata in una clinica specializzata a Londra, rispondendo a Walter Veltroni che le chiedeva quale fosse oggi «la virtù che sta sparendo più pericolosamente», la cantante siciliana ha detto: «Empatia. Una notevole diminuzione di empatia, una grande rimonta del narcisismo. Crea sterilità. È tutto usa e getta. Le persone si trattano come se fossero un telefonino». Testuale. L’autismo è inscalfibile e impedisce di pensare a sé stessi in modo critico. Nel caso non ha aiutato a farlo nemmeno l’intervistatore, autore a sua volta anche del pamphlet Odiare l’odio, il cui titolo postula da solo che c’è un odio buono e uno cattivo. E, ovviamente, quello buono è il suo.

Recita il vocabolario Treccani alla voce autismo: «In psichiatria, la perdita del contatto con la realtà e la costruzione di una vita interiore propria, che alla realtà viene anteposta, come condizione propria della schizofrenia e di alcune manifestazioni psiconevrotiche».

Post scriptum Per fortuna esistono piccole, ma significative eccezioni. Esempi di rottura dell’impermeabilità nei confronti del reale e di chi la pensa in modo diverso. Li enumero sinteticamente. La convention di Atreju, dove sono sfilati i leader di tutti i partiti. La decisione di Repubblica di arruolare Luca Ricolfi tra i suoi editorialisti. La revisione dei toni critici di Antonio Socci su papa Francesco. Non è detto che dietro questi esempi ci siano intenzioni romantiche. Di sicuro non ci sono complessi di superiorità.

 

La Verità, 16 dicembre 2021

 

Ricolfi: «Vi spiego perché non è andato tutto bene»

È l’oppositore più implacabile del governo Conte sull’epidemia. Non un oppositore politico o ideologico. Ma scientifico, analitico, forte di dati e cifre. Se i numeri non li sa interpretare lui che insegna Analisi dei dati all’Università di Torino, chi altro? Luca Ricolfi, sociologo, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, ha appena mandato in libreria La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia (La nave di Teseo). È un saggio che inizia con un apologo. Moltiplicandosi con progressione esponenziale, improvvisamente, dalla sera alla mattina, le ninfee saturano l’intero stagno e, se prima al contadino bastavano pochi minuti per disinfestarlo, ora serve una giornata di lavoro. Il contrasto al virus è una questione di tempestività. Anziché fermarlo prima che dilaghi, lo rincorriamo affannati. L’indecisionismo ci è costato alcune decine di migliaia di morti e qualche punto di Pil.

Professore, la terza ondata è inevitabile?

In realtà in Italia stiamo già assistendo, da tempo, a una sovrapposizione fra la seconda, che aveva cominciato faticosamente a regredire a fine novembre, e una sorta di terza ondata che si è manifestata da due mesi scarsi, grosso modo dal Black Friday del 27 novembre a oggi.

Arriva fatalmente o la stiamo incoraggiando noi?

La circolazione del virus, presumibilmente, è alimentata da due fattori distinti. Il primo è l’aumento della trasmissibilità, legata alla progressiva diffusione di nuove varianti del virus. Il secondo è il complesso delle scelte e non-scelte governative.

Quali scelte e non scelte?

Soprattutto tre: l’inerzia sul problema dei trasporti e delle scuole; il ritardo, di almeno due mesi, con cui si è proceduto alle chiusure; la scelta suicida, da metà novembre, di abbattere il numero di tamponi.

Riavvolgiamo il nastro: per lei la seconda ondata era evitabile, mentre tutti, politici, media, molti analisti pensano il contrario.

Se per «analisti» intendiamo fisici, matematici, statistici, epidemiologi, studiosi di processi di diffusione – ossia le categorie che hanno gli strumenti per analizzare la dinamica di un’epidemia – non ne conosco neppure uno che abbia negato l’evitabilità della seconda ondata, se non altro perché ci sono almeno una decina di paesi – su una trentina di società avanzate – che nell’autunno 2020 hanno subito solo una modesta fluttuazione.

La metafora delle ninfee spiega che lo stagno si riempie velocemente, ma il contadino-governo ne rinvia la ripulitura per non inimicarsi i pescatori, cioè gli operatori economici. Quanto conta la tempistica nel contrasto all’epidemia?

Enormemente: se intervieni quando oltre metà dello stagno è già ricoperta di ninfee impieghi tantissimo tempo a ripulire. In un paese come l’Italia, con 60 milioni di abitanti, 1-2 settimane di ritardo possono costare più di 10.000 morti non necessarie, oltre a un raddoppio dei tempi del lockdown.

Usando un’espressione a effetto si può dire che invece di adottare il 5G il nostro governo avrebbe dovuto applicare il piano delle 5 T: tamponi, tracciamento, terapie intensive, territorialità, trasporti?

Aggiungerei alle 5 T almeno un punto molto importante: controllo delle frontiere di terra e di mare, limitazione dei voli legati al turismo internazionale. Tomas Pueyo, che a mio parere è il più autorevole studioso della pandemia, ha dimostrato che il governo delle frontiere è assolutamente necessario, se si vuole bloccare la diffusione della pandemia. Da solo non basta, ma se lo si dimentica non si può vincere la sfida del Covid.

Perché l’omissione più grave è stata il numero ridotto di tamponi?

Perché il numero di morti dipende strettamente, molto strettamente, dal numero di tamponi, secondo una relazione matematica inversa. Si può discutere se raddoppiando il numero di tamponi il numero di morti si dimezzi, o più che dimezzi, ma l’impatto è difficilmente contestabile. Il dramma è che i nostri governanti hanno fatto esattamente il contrario: fra metà novembre e le vacanze di Natale anziché raddoppiarli li hanno dimezzati, moltiplicando così il numero dei nuovi morti.

Quanto hanno inciso le elezioni regionali di settembre nella narrazione del «modello Italia»?

Tantissimo, ma non sono state il fattore decisivo. L’elemento cruciale, a mio parere, è stata l’incompetenza – o la timidezza? – degli esperti scelti dal governo, che hanno preferito illudere i politici, anziché dire chiaro e forte quel che stava succedendo. Fino un certo punto i politici davvero non avevano capito, altrimenti Roberto Speranza il suo libro autocelebrativo non l’avrebbe scritto.

La lentezza di Conte nel decidere si spiega con la ricerca del consenso?

Fino a un certo punto, visto che la lentezza gli è costata cara, proprio in termini di consenso. Il comportamento di Conte si spiega con il fatto che né lui né i suoi ministri né i suoi esperti hanno voluto vedere la realtà. Ha presente la regina cattiva della fiaba di Biancaneve? «Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella di questo reame?». Di fronte alla domanda, gli esperti-specchio hanno preferito rispondere quel che la regina-Conte voleva sentirsi dire, ossia che il modello italiano era il più bello del mondo.

Oltre che i turisti, il dogma delle frontiere aperte riguarda anche gli immigrati. Perché non si sa nulla dell’incidenza dell’immigrazione nella diffusione dei contagi?

Perché mancano dati analitici, e perché se ci fossero la risposta sarebbe imbarazzante. La colpa dell’epidemia non è certo degli immigrati, ma non vi è dubbio che senza l’isteria pro-cinese iniziale, e senza la tolleranza successiva verso gli sbarchi, avremmo avuto numeri inferiori.

La seconda ondata deriva più dalle movide e dalle discoteche o dalla mancanza di potenziamento dei trasporti per l’apertura delle scuole?

Impossibile dirlo con certezza, ma le mie analisi suggeriscono che la saturazione dei mezzi di trasporto abbia contato di più.

Scrive che «tergiversare costa». Si può quantificare in numero di morti e in percentuali di Pil?

Dipende da che cosa si intende per non tergiversare, e dal periodo preso in considerazione. Se consideriamo entrambe le tergiversazioni, prima e seconda ondata, direi che sarebbe molto difficile, per uno studioso serio, sostenere che i morti di troppo siano meno di 20.000, e i punti di Pil persi siano meno di 3.

Che idea si è fatto della mancata chiusura di Alzano e Nembro? Che ne è dell’inchiesta giudiziaria relativa alla vicenda?

Nel libro faccio l’ipotesi che Conte abbia capito la gravità della situazione solo l’8 marzo, ossia troppo tardi. Della vicenda giudiziaria non so a che punto siamo, e mi sento in contraddizione con me stesso: sono ostile alle incursioni della magistratura nella politica, ma al tempo stesso penso che – dopo 10 anni in cui ci è stato impedito di scegliere chi ci governa, e dopo un anno di compressione delle nostre libertà fondamentali – dobbiamo prendere atto che la magistratura sta diventando l’ultimo baluardo contro l’irresponsabilità dei governanti.

Che cos’è la strategia del formaggio svizzero, quello con i buchi, come la nostra groviera?

L’idea è che nessuna arma di difesa da sola funziona perfettamente, ma se ne usiamo molte contemporaneamente, come fette di formaggio svizzero sovrapposte disordinatamente una sull’altra, possiamo tenere il numero di contagiati assai vicino a zero. Siccome nessuna fetta è senza falle, se il virus riesce a oltrepassare uno strato prima o poi ne incontra un altro che lo blocca.

Scrive che «la gestione di un’epidemia si fa agendo contro il senso comune». La nostra classe dirigente possiede credibilità sufficiente per adottare misure impopolari?

Assolutamente no. E vale anche per l’opposizione, purtroppo. Si trattava di ripulire lo stagno quando le ninfee – i contagiati – erano poche decine, senza aspettare che diventassero migliaia. E di spiegarlo alla gente, anziché cercarne a tutti i costi il consenso.

Dal suo punto di vista che rapporto si è realizzato tra i politici e gli esponenti della comunità scientifica?

Come sempre si sono circondati di quelli meno indipendenti. Soprattutto hanno scelto di non rispondere mai alle domande e alle proposte degli studiosi indipendenti.

Perché l’espressione «dobbiamo imparare a convivere con il virus» non la convince?

Perché se provi a convivere, nel giro di qualche settimana il virus prende il sopravvento e ti costringe a richiudere tutto. L’economia si salva sradicando il virus, non venendo a patti con lo stop and go.

Nel frattempo l’imprenditoria italiana è terra di conquista di paesi stranieri.

Sarebbe il meno. Il problema è che, pietrificando l’economia per un anno, ci ritroveremo con una base produttiva amputata e una «società parassita di massa» che, in un colpo solo, prenderà il posto della «società signorile di massa» (come s’intitolava il precedente libro di Ricolfi ndr) che eravamo diventati.

Come si combatte la paura che blocca l’economia?

Tenendo il numero di contagiati molto vicino a zero, il che vuol dire intervenire quando quasi nessuno ne vede la necessità. Altre strade non ce ne sono, per ora.

Il vaccino risolverà tutto?

In Israele probabilmente sì, in Italia quasi certamente no. Come Fondazione Hume pubblichiamo settimanalmente l’indice DQP (Di Questo Passo ndr), che calcola fra quanto tempo l’Italia raggiungerà l’immunità di gregge procedendo «di questo passo». L’ultimo calcolo, relativo alla settimana dal 4 al 10 gennaio, fornisce: nel mese di ottobre del 2023.

 

Panorama, 20 gennaio 2021

Le migliori teste italiane: l’apocalisse si avvicina

L’allarme è unanime. Le menti più lucide, i cervelli più autorevoli e disincantati lo ripetono all’unisono: la ripresa che speriamo per questa povera Italia non può essere guidata dal governo attuale. È un dato di formazione, di attrezzatura culturale, di inesperienza. Bisogna cambiare rapidamente pilota, dicono i migliori economisti, sociologi e filosofi, se non vogliamo che il pullman finisca nel precipizio della povertà e della protesta sociale violenta. Lo intonano da settimane senza che nei media, in gran parte omologati al pensiero mainstream, il loro invito superi il livello delle voci isolate. Provando ad avvicinarle ne scaturisce un coro. Giorgio Agamben, Quodlibet: «È evidente – e le stesse autorità di governo non cessano di ricordarcelo – che il cosiddetto “distanziamento sociale” diventerà il modello della politica che ci aspetta». Luca Ricolfi, intervista all’Huffington post: «La nostra società, se non si cambia rotta molto molto alla svelta è destinata a trasformarsi in una società parassita di massa». Giulio Sapelli, intervista alla Verità: «All’ora della verità arriviamo governati da eterni disoccupati». Massimo Cacciari, La Stampa: «Serve una cultura politica esattamente opposta a quella che si è manifestata in questi mesi». Giuseppe De Rita, intervista alla Verità: «La ripartenza non si fa con le sovvenzioni ad personam». Carlo Galli, La Parola: «Il Paese è chiamato a grandi scelte per ripartire a guerra finita, ma anche prima, a breve». Marcello Veneziani, La Verità: «Non possiamo lasciare la ricostruzione in mano ai nani».

Incurante del ridicolo, qualche giorno fa il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ha presentato un piano strategico per trasformare «questa crisi in opportunità» sulle stereofoniche colonne del Corriere della sera e del Fatto quotidiano. Una fogliata di «profonde» riforme volte alla modernizzazione del Paese che va dalla sburocratizzazione alla capitalizzazione delle imprese e delle start up, dal sostegno green economy alla digitalizzazione dell’offerta formativa, dalla riforma dell’abuso d’ufficio all’introduzione di una nuova disciplina fiscale. Un vasto programma che abbiamo già orecchiato in altre solenni occasioni con «Giuseppi» in piedi dietro a un leggio su come verranno usati i molto promessi fondi europei. Un Recovery plan così altisonante che non l’ha sentito nessuno, non un approfondimento né una ripresa se si eccettua quella, obbligata, del ministro per gli Affari europei Enzo Amendola. Del resto, la credibilità, quando la si è persa è difficile riconquistarla. Mesi di conferenze stampa abborracciate, di decreti affastellati, di proclami labili e provvedimenti volubili, di alluvioni di fantastilioni e casse integrazioni mai arrivate, di rilanci futuri al tavolo da poker che i presentissimi sprofondi rossi hanno smascherato come l’ennesimo bluff, dando al «piano strategico» l’attendibilità di un desiderio da Miss Italia neoeletta.

Intanto l’apocalisse incombe. La tratteggia Agamben citando Patrick Zylberman: un certo «terrore sanitario» ci ha precipitato in una situazione «da fine del mondo. Dopo che la politica era stata sostituita dall’economia, ora anche questa per poter governare dovrà essere integrata con il nuovo paradigma di biosicurezza, al quale tutte le altre esigenze dovranno essere sacrificate. È legittimo chiedersi», conclude il filosofo, «se una tale società potrà ancora definirsi umana o se la perdita dei rapporti sensibili, del volto (con le mascherine ndr), dell’amicizia, dell’amore possa essere veramente compensata da una sicurezza sanitaria astratta e presumibilmente del tutto fittizia». Più che mai urgente è un cambio di direzione copernicano. Ma per Ricolfi, docente di Analisi dei dati all’università di Torino, può essere persino «già tardi». Di sicuro è improbabile che chi comanda ora sia in grado di guidarlo. «Questo governo è il primo governo esplicitamente e risolutamente iper-statalista della storia della Repubblica. In esso», osserva «le peggiori pulsioni del mondo comunista ed ex comunista, rappresentato da Pd e Leu, confluiscono e si saldano con l’ideologia della decrescita felice propria dei Cinque stelle». Lo scenario tracciato dal responsabile scientifico della Fondazione Hume è cupo: «Nella società parassita di massa la maggioranza dei non lavoratori diventa schiacciante, la produzione e l’export sono affidati a un manipolo di imprese sopravvissute al lockdown e alle follie di Stato, e il benessere diffuso scompare di colpo, come inghiottito dalla recessione e dai debiti». Anche Sapelli, insigne economista, parla di società parassitaria: «In autunno saremo circondati dai poveri come Buenos Aires negli anni Ottanta o il Perù negli anni Novanta. Grazie a questi politici l’Europa si sta sudamericanizzando. E come in Sudamerica avremo le zone dei ricchi e le zone dei servi, sorvegliati dalle torrette con le mitragliatrici». Non bastano sussidi e detassazioni, «sono indispensabili gli investimenti e la sburocratizzazione». Sapelli ha presentato un appello affinché si perseguano questi obiettivi, perché «nell’ora della verità» siamo governati da «una classe di ricchi globalizzati o di eterni disoccupati». Lo pensa anche Giuseppe De Rita: «Sarebbe interessante che qualche giornalista consultasse la Navicella parlamentare per studiare i curricula di ministri e sottosegretari e vedere cosa tornerebbero a fare se non rieletti». Quanto alla ripresa, prosegue il presidente del Censis, «non si fa con le sovvenzioni ad personam. Ma è frutto di un processo socio economico complesso che rimetta in moto filiere produttive, gruppi di imprese e territori. Se i cittadini non hanno fiducia e non escono di casa, se non arrivano i turisti, i ristoranti restano chiusi anche se gli si dà il bonus per riaprire». Ancora più ultimativa l’analisi di Cacciari: «Interventi assistenziali non basteranno più, anche ammesso e non concesso che ci siano stati finora, tempestivi ed efficaci. Non ci saranno neppure le risorse per incerottare tutti. Interventi a pioggia – e per di più, per necessità, ben avari – moltiplicheranno soltanto diseguaglianze e proteste». Se vogliamo davvero cambiare rotta, incalza l’ex sindaco di Venezia, serve «una cultura politica esattamente opposta a quella che si è manifestata in questi mesi, preda di quell’irresistibile impulso ministerial-centralistico e statalistico, capace di decreti più voluminosi della Recherche proustiana». In questo contesto si ripete che non è il momento di fare polemiche. «E invece di dialettica politica, e di elezioni, ci sarà presto bisogno», sottolinea Galli, analista del Mulino. «Il Paese è chiamato a grandi scelte, per ripartire a guerra finita – per quanto questa possa dolorosamente trascinarsi – ma anche prima, a breve», osserva il professore di Dottrine politiche a Bologna. «Una di queste è sulla Ue che, in coerenza con le proprie logiche e strutture, si appresta a sferrare un altro colpo alla nostra autonomia offrendoci come unica risorsa economica il Mes: prestiti (pochi) in cambio della Troika e di una nuova austerità». Soggiacendo ai diktat dell’eurotecnocrazia come sembrano voler fare gli attuali governanti, risulterà velleitaria la risalita post-pandemia, «un’opera gigantesca», scrive Veneziani. «Per fondare uno Stato sociale ci vuole il lavoro di un popolo, di una classe dirigente, di ministri e primi ministri che sanno rispondere davvero alla storia, ai popoli, e non si limitano a sceneggiare numeri di teatrino in tv, con la regia di uno del Grande fratello… Affidereste mai la rifondazione di uno Stato al collasso, di una società con una crisi economica e vitale senza precedenti, di un modello sociale di ricostruzione a gente così? L’ultimo che lo fece, dopo una catastrofe, si chiamava Alcide De Gasperi, il Recovery fund allora si chiamava piano Marshall».

Il Recovery plan invece propinatoci dal premier serviva ad avvisarci che non ha intenzione alcuna di spoltronarsi da Palazzo Chigi, né per la restante parte della legislatura e auspicabilmente neanche per la prossima. Ma chi conserva un residuo briciolo di speranza crede che la massima autorità statale cominci a considerare l’appello trasversale che giunge da molte tra le voci più autorevoli e disinteressate del nostro Paese. Le quali tutte, in coro, dicono, come usa a Milano, che per il governo Conte si è fatta una certa…

 

La Verità, 31 maggio 2020

Ricolfi: «Italiani gran signori… ancora per poco»

Una radiografia. Anzi, una risonanza magnetica. Uno di quegli esami medici dove si vede tutto: apparato osseo, fasce muscolari, legamenti. È questo La società signorile di massa (La nave di Teseo, pagine 272, euro 18), il nuovo saggio di Luca Ricolfi, sociologo e docente di Analisi dei dati all’università di Torino, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. Un libro che, dietro l’apparente ossimoro, ci fa capire l’attuale stato di salute dell’Italia. Che, forse, sarebbe più corretto definire stato di malattia. Una malattia più unica che rara.

Le caratteristiche della Società signorile di massa sono la maggioranza di non occupati sugli occupati, la ricchezza diffusa, la stagnazione economica. Come possono coesistere tre variabili così alternative?

Una società può accedere a consumi, nonostante l’economia non cresca e i suoi cittadini lavorino poco, grazie a quattro meccanismi fondamentali: il ricorso alla ricchezza accumulata dalle generazioni precedenti, l’aumento del debito pubblico, la riduzione del risparmio e degli investimenti a favore del consumo, il ricorso a quella che nel libro chiamo l’infrastruttura paraschiavistica.

Che cos’è l’infrastruttura paraschiavistica?

È un insieme di segmenti della società italiana, costituiti in misura notevole ma non esclusiva da immigrati, che assicurano servizi, legali e illegali, a basso costo. Nel libro li definisco uno a uno, giungendo ad una stima di 3-4 milioni di soggetti.

L’Italia è l’unica società signorile di massa al mondo. Perché dobbiamo preoccuparci?

Perché non può durare. Se non si fa nulla, la stagnazione di oggi è destinata a trasformarsi in decrescita. E, con la decrescita, i soldi finiranno.

Contestando la narrazione vittimistica prevalente, afferma che il benessere è ben distribuito. Ma quel signorile, tratto dalle società medievali, ha una forte venatura di decadenza e passività: è corretto?

Veramente io non dico che il benessere è «ben distribuito», ma che è molto diffuso nella popolazione nativa, ossia fra i cittadini italiani. Il che non vuol dire che tutti abbiamo accesso al benessere, ma che – fra chi vive in Italia e ha la cittadinanza italiana – tale accesso riguarda circa 2 famiglie su 3. Quanto alla venatura della mia ricostruzione, sì è vero, vedo un po’ di decadenza in una società che riesce a mantenere i suoi standard di vita solo indebitandosi e sperperando la ricchezza accumulata dai predecessori. Ma si potrebbe ribaltare il giudizio, specie se guardiamo al Mezzogiorno: c’è qualcosa di ingegnoso, per non dire di invidiabile, nella capacità di una parte del Paese di appropriarsi di più surplus di quanto ne riesce a produrre. Il problema è solo che il gioco non può durare in eterno: quando anche la locomotiva del Centronord smetterà di tirare, dovremo tutti rivedere il nostro modo di vita.

Perché proprio l’Italia detiene il primato dei Neet, giovani che non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione, battendo anche la Grecia, il Paese che più si avvicina alla nostra situazione?

Domanda difficile, perché le ragioni sono tante. In Italia si sono concentrate e stratificate varie condizioni che disincentivano il lavoro. Vorrei ricordarne quattro: la cultura cattolica, meno incline al lavoro di quella protestante; una ricchezza accumulata molto ingente, specie in proporzione al reddito; le scelte assistenziali delle classi dirigenti, che hanno assuefatto vaste porzioni del Paese a vivere di rendita e di sussidi; la scuola e l’università, che rilasciano certificati ingannevoli, creando nei giovani aspettative irrealistiche. Qualcuno, a questa lista, ama aggiungere la cultura e la mentalità degli italiani, che sarebbero per natura o per storia mammoni e schizzinosi. Personalmente ho dei dubbi su questa lettura, perché i fattori oggettivi che ho elencato mi paiono più che sufficienti a spiegare la nostra bassa propensione al lavoro.

Perché il mondo della scuola ha abbassato le sue ambizioni mentre il mondo del lavoro le ha mantenute?

È semplice. Se una scuola, per malinteso senso di benevolenza verso gli studenti, certifica competenze che non ci sono, la scuola stessa non subisce alcun contraccolpo. Mentre, se un’impresa, per analogo senso di benevolenza verso gli aspiranti a un lavoro, assume personale impreparato, l’impresa stessa va gambe all’aria.

Com’è stato possibile che la politica abbia lasciato scivolare così in basso il sistema scolastico?

La spiegazione è ancora più elementare: la severità toglie voti, l’indulgenza li porta. Inoltre c’è anche una ragione ideologica: abbiamo pensato che per aiutare i deboli si dovesse abbassare il livello culturale dell’istruzione: così sarebbero arrivati a un titolo più ragazzi. Peccato che ci arrivino senza una buona preparazione, e quindi siamo da capo: abbiamo ulteriormente indebolito i deboli, invece di rafforzarli perché avessero, attraverso la scuola, le stesse opportunità dei più fortunati.

Siamo un popolo che vive troppo di rendite?

Certo, se – seguendo i classici – con il termine rendite indichiamo tutto ciò che non è né salario né profitto. Ma non si tratta solo del fatto che, nel bilancio di una famiglia, hanno un peso spropositato le pensioni di vecchiaia, i sussidi, gli interessi, le vincite – o le perdite – al gioco, quattro voci che da sole coprono circa metà del consumo totale. L’altra anomalia è il flusso successorio, ovvero l’immissione continua nel circuito economico di ricchezza che piove dal cielo, in quanto qualcuno, per lo più anziano, muore, e trasmette un’eredità. Difficile indicare una cifra esatta, ma si può tranquillamente affermare che il flusso successorio annuale vale almeno 5 leggi finanziarie.

La società a somma zero comporta che alla crescita mia corrisponda la decrescita tua. La prospettiva è un forte aumento della conflittualità sociale? Si espanderanno fenomeni come quello dei gilet gialli in Francia?

Dipende dal governo. Ci sono mosse che possono incendiare il Paese, come ad esempio imporre il Pos a tutti i venditori di beni e servizi, compresi i banchetti del mercato. Ma, a mio parere, nessun governo le attuerà, perché tutti i governi – anche quelli che venerano le tasse – sanno perfettamente che, con le aliquote attuali, almeno 70-80 miliardi di evasione sono fisiologici. Io ritengo assai più probabile uno scenario in cui aumentano l’invidia sociale e la frustrazione, con il loro corredo: espansione del mercato degli stupefacenti e del gioco d’azzardo, moltiplicazione dei comportamenti aggressivi e/o autolesionistici. Insomma, più anomia che conflitto sociale, per dirla con Émile Durkheim.

A che cosa si deve il fatto che, a fronte di un notevole progresso tecnologico, la produttività degli italiani è rimasta la stessa della fine degli anni Novanta?

I fattori sono tanti, ma secondo me il più importante è l’espansione ipertrofica della legislazione, specie a partire dal 1997 con la legge Bassanini e dalla riforma del titolo V della Costituzione del 2001.

Keynes e Bertrand Russell auspicavano che i cittadini avrebbero usato il maggior tempo libero per arricchirsi sul piano spirituale e culturale. Sta andando così?

No, lo spazio della cultura in senso proprio, distinta dallo spettacolo e dall’evasione, è in costante regresso.

Siamo «un Paese che non studia, non legge e gioca». Che cosa dice la diffusione crescente della spesa nazionale in tutte le varie forme di gioco d’azzardo?

Dice due cose, e cioè: primo, la gente non è più disposta a differire le gratificazioni; secondo: la gente si è convinta che gli strumenti tradizionali di ascesa sociale, lavoro e studio, non funzionino più. Di qui le due vie di uscita canoniche: il gioco d’azzardo per i ceti bassi, l’emigrazione all’estero per i figli dei ceti medio-alti.

Perché critica la narrazione dominante sull’insistenza dell’ampliamento delle diseguaglianze sociali?

Perché è incompatibile con i dati. In Italia la concentrazione del reddito è oggi più o meno quella di vent’anni fa: un po’ maggiore che negli anni Ottanta, molto minore che alla fine degli anni Sessanta, quelli del «compromesso socialdemocratico». In compenso è esplosa la diseguaglianza fra chi ha un lavoro o due e chi non ne ha nessuno.

Quanto la filosofia della decrescita felice fa da cornice ideologica a questa cultura del disimpegno e alla facoltatività del lavoro?

Poco, direi, perché la maggior parte delle persone preferisce rimuovere dalla coscienza la prospettiva del declino. La decrescita felice è l’ideologia dei super-ricchi, come la moglie di Bill Gates, che vuole pagare più tasse: chi ha tantissimi soldi sa perfettamente che nulla scalfirà mai il proprio tenore di vita, mentre chi è benestante ma non straricco teme, giustamente, un abbassamento del tenore di vita.

Come vanno interpretate le proposte di dare il voto ai sedicenni e toglierlo agli anziani emerse contemporaneamente in questi giorni?

Sono solo dimostrazioni di superficialità di chi le avanza.

Commentando il duello tv fra Renzi e Salvini ha osservato che ha evidenziato l’esigenza di una forza politica anti-assistenzialista in politica economica e non cieca sull’emergenza immigrazione e la sicurezza. Il centrodestra non è o vorrebbe essere questa forza?

Certo che il centrodestra vorrebbe essere qualcosa del genere, il problema è che non ne è capace: la sua forza principale, la Lega, ha dimostrato di essere assistenzialista, vedi quota 100, e semplicista nella gestione dei flussi, vedi rimpatri mancati.

Dopo i gravi errori di questa estate e nella prospettiva di un governo giallorosso che, salvo gravi tracolli alle regionali, durerà fino all’elezione del prossimo Capo dello Stato, la stella di Salvini è destinata a offuscarsi lentamente?

Secondo me sì, perché Salvini è adatto a guidare un partito, ma non ha la maturità per guidare un governo. Molto del destino di Salvini, comunque, dipenderà dalla traiettoria di Giorgia Meloni, che a mio parere è di gran lunga il miglior leader di cui disponga il centrodestra.

Renzi prima o poi farà cadere il governo o abbaierà solo?

Renzi non avrà alcuno scrupolo a far cadere il governo, ma si deciderà solo quando la congiunzione astrale sarà favorevole. Ovvero: quando legge elettorale e umori dell’elettorato gli garantiranno abbastanza scranni e abbastanza potere in Parlamento.

In chiusura lei prospetta il pericolo della «argentinizzazione lenta» dell’Italia. Che cos’è concretamente? E come scongiurarla?

L’argentinizzazione è un declino sufficientemente lento da non suscitare reazioni apprezzabili nei declinanti. Sul piano economico, si può evitare solo facendo ripartire la produttività, ferma da vent’anni. Ma per fare questo ci vorrebbe una classe dirigente decente che – prima ancora di abbassare le tasse – smantellasse la burocrazia e la selva delle leggi e dei regolamenti. In breve: mission impossible.

 

Panorama, 29 ottobre 2019

«La capriola di Renzi record di spregiudicatezza»

È una delle menti più lucide del panorama scientifico italiano. Sociologo, docente di analisi dei dati all’università di Torino, Luca Ricolfi è presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume: leggere le sue riflessioni aiuta a diradare la nebbia che avvolge il paesaggio politico nostrano. In questi giorni sta completando la stesura di La società signorile di massa, il saggio in uscita a ottobre per La nave di Teseo, ma ha ritagliato un po’ di tempo per rispondere alla Verità sulla crisi più anomala della storia della Repubblica.

La differenza tra i due populismi è venuta al pettine. Quello del Nord e del fare e quello del Sud e della decrescita. Si aspettava che il governo gialloblù durasse più a lungo?

«No, pensavo che sarebbero andati avanti ancora un po’, dal momento che Salvini poteva dettare l’agenda».

Secondo lei che cosa davvero ha fatto rompere gli indugi a Matteo Salvini? I no ribaditi del M5s, la prossima manovra (flat tax o salario minimo?), il nodo giustizia, i sondaggi segreti…

«Nessuna di queste cose. Secondo me, ma posso sbagliare, Salvini ha puntato sul voto per altri due motivi. Primo: il delirio di onnipotenza che verrebbe anche a me e a lei se andassimo in costume da bagno in una spiaggia e la folla andasse in visibilio per noi. Secondo: l’imminente arrivo al pettine del nodo dell’autonomia, che gli avrebbe alienato il consenso del Sud. Il progetto di Salvini era incassare anche i voti del Sud, e questo poteva farlo solo prima di scoprire le carte antisudiste sull’autonomia».

Con questa decisione ha messo all’angolo le opposizioni?

«No, ha messo all’angolo sé stesso».

Non crede che se si voterà in ottobre raccoglierà percentuali superiori a quelle delle europee, mentre se si rinvierà a primavera, con in mezzo un esecutivo di scopo, del Presidente, di garanzia ecc. potrebbe avere un consenso ancora superiore?

«In realtà potrebbe anche andare in tutt’altro modo. A mio parere una parte del consenso di Salvini, specie al Sud, è legato al suo essere al comando, al suo essere percepito come vincente. È quello che i sondaggisti chiamano bandwagon: saltare sul carro del vincitore. Se l’effetto bandwagon finisce, e la vicenda della sfiducia a Conte finisce malamente, il consenso a Salvini potrebbe tornare sotto il 30%».

Il leader leghista non potrà condurre la campagna elettorale da ministro dell’Interno. Come pensa che Mattarella supererà questo vincolo?

«Ritengo improbabile che si vada al voto, e tutto sommato marginale il problema che al Ministero dell’interno ci sia Salvini. O qualcuno pensa che potrebbe manipolare i risultati?».

Tutti si affidano all’equilibrio del Capo dello Stato e ognuno lo tira dalla propria parte. Concorda con la sensazione che non si abbasserà a legittimare accordi artificiosi di Palazzo?

«No, non concordo. E non penso nemmeno che sia un abbassarsi. Certo, io ritengo più saggio e più giusto andare al voto, ma è una mia personale convinzione. Finché la Costituzione è quella che è, non è solo legittimo, ma è doveroso che il Capo dello Stato verifichi se esistono altre maggioranze in Parlamento. Il problema non è Mattarella, il problema è il trasformismo di Pd e Cinque stelle».

Si può dire, in astratto, che questa crisi coglie tutti tranne Lega e FdI a metà del guado?

«Sì, tutti sono a metà del guado, ma Lega e Fratelli d’Italia sono a loro volta impelagati: rischiano di essere sommersi dall’attaccamento di tutti gli altri ai seggi parlamentari».

Solo ritornando forza d’opposizione il M5s può far risalire le sue azioni? O ha altre alternative davanti? Un accordo con il Pd potrebbe diventare un boomerang alle prossime elezioni, quando saranno?

«Non so rispondere, perché il M5s è un ectoplasma cangiante, forse per riconquistare i voti perduti dovrebbe innanzitutto darsi una linea non ondivaga».

Che giudizio dà delle mosse di Matteo Renzi?

«La capriola di Renzi sul governo con i Cinque stelle è la più spregiudicata della storia della Repubblica».

Che consenso e che credito potrà avere la sua Azione civile o un’altra sigla analoga se dovesse varare un nuovo partito?

«Secondo me, allo stato attuale, un partito di Renzi non andrebbe oltre il 5%. E questo per una precisa ragione politica, non solo perché il ragazzo è ancora parecchio antipatico a buona parte degli italiani».

Quale ragione?

«Renzi è la destra del Pd sulla politica economica, vedi jobs act, ma è la sinistra sulla politica migratoria: ancora oggi difende “mare nostrum” e l’accoglienza senza se e senza ma. Credo che sia per questo che ha bloccato la candidatura di Marco Minniti alla segreteria del Pd. Difficile che tanti elettori votino un ircocervo come il partito di Renzi».

Quanto è demagogica l’imprescindibilità della riduzione dei parlamentari proclamata da Luigi Di Maio, e abbracciata da Renzi, dopo l’annuncio della crisi?

«Diciamo che se la demagogia va da 0 a 100, siamo a 90».

È stato un errore da parte di Salvini aprire al taglio dei parlamentari dopo aver deciso la sfiducia a Conte?

«Più che un errore è stata una mossa inutile. L’errore è stato fatto prima, e secondo me non è un errore di tempi, ma di sottovalutazione degli avversari. Salvini credeva di essere lui il più spregiudicato, ma ha dovuto prendere atto che c’è chi è più spregiudicato di lui».

Quante probabilità di riuscita ha un accordo di largo respiro tra Pd e 5 stelle?

«Le probabilità di un accordo mi paiono altissime. Quelle di un accordo “di largo respiro” un po’ meno, ma comunque non sono trascurabili. Perché il Pd e il movimento Cinque stelle potevano sembrare due animali politici molto diversi prima delle elezioni del 2018, quando al timone del Pd non c’era Nicola Zingaretti, e al governo non c’era ancora Di Maio. Ma ora si assomigliano moltissimo, e credo che se faranno un governo avranno il problema opposto a quello che hanno avuto Salvini e Di Maio».

In che senso?

«Salvini e Di Maio dovevano lottare per trovare qualcosa che li unisse, Di Maio e Zingaretti dovranno ingegnarsi a trovare qualcosa che li differenzi».

La strategia «Tutti tranne Salvini» è il modo più efficace per fermarlo?

«Non so se è il più efficace, ma è comunque molto efficace, come lo è stata contro Berlusconi. È in fondo anche l’unico possibile, in mancanza di vere idee e veri progetti politici».

Allargando l’alleanza a Berlusconi e Giorgia Meloni, Salvini dimostra di aver capito che sarebbe un errore giocare «io contro tutti»?

«Non so, Salvini mi sembra estremamente confuso».

Contro i giornali, contro gli altri partiti, l’Europa, le banche, la magistratura. Rischio deriva plebiscitaria, rischio Paese spaccato, tensioni sociali… Anche contro il Papa. Come valuta i pronunciamenti di Bergoglio in tema di Europa e sovranismi? Possono avere un’influenza importante?

«Bergoglio fa il Papa, l’errore è nostro che lo ascoltiamo come fosse un politico. La sua testa funziona come quella di un terzomondista degli anni Sessanta, che una macchina del tempo ha trasportato ai giorni nostri».

Berlusconi accetterà un ruolo subalterno nella coalizione di centrodestra?

«Sì, se gli daranno abbastanza collegi sicuri».

Se si votasse in autunno vede il pericolo di una deriva antieuropea?

«No, semmai vedo il pericolo di una deriva proeuropea. La paura per le reazioni dei mercati finanziari rinforza i partiti tradizionali, e rischia di far dimenticare i problemi che le forze sovraniste hanno sollevato, dai migranti al ristagno economico. Il dramma dell’Italia è che, per i problemi principali del Paese, né i sovranisti né i loro nemici hanno soluzioni che funzionerebbero».

Quanto crede alle tentazioni politiche di Urbano Cairo? Anche per lui le prossime elezioni sono premature?

«Sì, se si vota in ottobre nessuno, non solo Cairo, riesce a creare un partito competitivo. Forse l’unico che potrebbe combinare qualcosa è De Luca, il governatore della Campania, che sta preparando una lista sudista per stoppare l’autonomia delle regioni del Nord».

Anche questo spiega la contrarietà del Corriere della Sera alle elezioni in autunno?

«Il Corriere è istintivamente per la stabilità. Credo che, per come è fatta la loro forma mentis, i giornalisti del Corriere non facciano grandi sforzi per autoconvincersi che le elezioni in autunno, con la legge di bilancio alle porte, siano un rischio».

Come giudica la narrazione poco istituzionale del Papeete Beach?

«A me piace il popolo quando mette le élite di fronte a problemi veri, non quando sta al gioco dell’élite – Salvini è élite a tutti gli effetti – che si fa acclamare fingendosi popolo. Non sta scritto da nessuna parte che per essere amati dal popolo si debbano assumere atteggiamenti trash, o da spaccone. Non sono mai stato comunista, ma se devo indicare un modello di rapporto fra élite e popolo penso a Berlinguer, non ai commedianti di terz’ordine che oggi passa il convento».

In che senso Salvini è élite?

«Lo considero élite per il reddito, è stato parlamentare europeo, è per il potere: ministro e capo del primo partito italiano. Nelle scienze sociali, diversamente da quel che accade in alcuni media, il termine élite è avalutativo, o addirittura connotato positivamente».

Ogni volta che le sinistre attaccano, sempre con una dose di superiorità morale con il tono di rimprovero, torna il boomerang e Salvini sembra non patire questi attacchi. È accaduto con il Papeete, Carola Rackete, il Russiagate…

«Potrebbe non accadere di nuovo, e solo per colpa di Salvini. Una parte del suo consenso è dovuto alla tendenza degli italiani a stare con il più forte, e potrebbe svanire quando cambierà il vento».

Sembra che quella supponenza diventi un lievito che fa risaltare il carattere pop del leader leghista.

«C’è pop e pop. Si può essere pop senza essere volgari e offensivi».

Concorda con il fatto che, mai come questa volta, fotografa ciò che sta accadendo la famosa frase di Bertolt Brecht: «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo»?

«Concordo. Però la riformulerei così: “Poiché il popolo non è d’accordo, e noi non siamo in grado di nominarne uno nuovo, meglio togliere la parola al popolo”».

 

La Verità, 18 agosto 2019

«Il governo? Dipende da quanti Pd ci saranno»

«È molto probabile che, la sera del voto, non avremo la minima idea di che governo si potrà insediare da lì a qualche settimana»: previsione di Luca Ricolfi, datata 3 marzo. Sociologo, docente di Analisi dei dati all’università di Torino, editorialista del Messaggero, osservatore tra i più lucidi delle cose della politica, allergico agli sconti a destra come a sinistra (vedi le sue analisi sul sito della Fondazione David Hume). Ci siamo rivolti a lui per interpretare le più clamorose elezioni anti establishment degli ultimi decenni e tracciare qualche scenario futuro.

Per trovare un altro risultato così dirompente bisogna tornare al 1994. Allora iniziò la Seconda repubblica, sta nascendo la Terza?

«No, stiamo tornando alla Repubblica “di mezzo” (fra la prima e la seconda), quella che è esistita fra le elezioni politiche del 1992 e le elezioni del 1994, al tempo in cui tutto cominciò a cambiare, grazie al referendum sulla preferenza unica, a Mani pulite, all’esplosione della Lega, alla nuova legge elettorale (il compianto Mattarellum). Non tutti lo ricordano ma, allora, gli studiosi di comportamenti elettorali congetturarono che l’Italia fosse ormai divisa in tre: la Padania, egemonizzata dalla Lega (Forza Italia non era ancora nata), l’Etruria, egemonizzata dal Pds, il Mezzogiorno, ancora saldamente in mano alla Dc. Oggi la carta geopolitica è tornata a essere quella di allora, con i 5 stelle al posto della Dc».

Quali sono i fattori di maggior novità del voto del 4 marzo?

«C’è molta più chiarezza di prima: il Centronord vuole proseguire sulla via della modernizzazione del Paese, timidamente intrapresa in questi anni, ma lo fa con sensibilità diverse, rappresentate dal centrodestra e dal Pd. Il Sud vuole continuare a sussistere nell’unico registro che un ceto dirigente irresponsabile è stato in grado di prospettargli: assistenza, assistenza, assistenza».

Concorda con chi sostiene che le urne ci consegnano un’Italia geograficamente e socialmente bipolare: nel Sud della disoccupazione e della povertà ha vinto il M5s, nel Nord dove si teme per la sicurezza ha vinto la Lega.

«Concordo, ma solo in parte. Oggi il voto del nord sembra ad alcuni soprattutto anti-immigrati, ma a mio parere esprime invece, molto di più, l’ennesima rivolta antifisco e anti burocrazia».

Sarà difficile mantenere le promesse di flat tax e reddito di cittadinanza. È per questo che, sotto sotto, né Lega né M5s smaniano di governare?

«Non so se davvero esitano, a me sembrano piuttosto smaniosi entrambi. Il mancato mantenimento delle promesse penso sia messo in conto da tutti, tanto basterà dire: noi volevamo ma gli alleati, ma l’Europa, ma la situazione, eccetera eccetera».

Code all'indomani del voto per richiedere il reddito di cittadinanza

Code all’indomani del voto per richiedere il reddito di cittadinanza

Si è votato in marzo, quando non ci sono sbarchi d’immigrati. Se si fosse votato in maggio, la Lega avrebbe superato anche il Pd di Matteo Renzi?

«L’ho sostenuto in un’intervista a Sky pochi giorni fa. Votare a marzo ha attutito i danni subiti dal Pd, checché ne dica Renzi, che si è lamentato di non aver potuto votare prima: se si fosse votato la primavera scorsa non avrebbe potuto giocare la carta Marco Minniti».

Che però, a sorpresa, è stato sconfitto.

«Il fatto ha stupito anche me, ma forse io ho un pregiudizio positivo nei confronti di Minniti, che mi pare uno dei pochissimi ministri che sanno di che cosa parlano».

Con Lega e M5s è nato anche un nuovo bipolarismo politico che sostituisce quello composto da Forza Italia e Pd, ora residuali?

«No, il sistema per ora è quadripolare e instabile. Lega e M5s rappresentano solo la dialettica interna alle forze antieuropee. Un vero bipolarismo richiederebbe il compattarsi di due aggregazioni più ampie e robuste: ad esempio centrodestra contro mutanti».

Chi sono i mutanti?

«Pd e 5 stelle, Organismi politicamente modificati (Opm) costruiti a partire dal ceppo antico del socialismo e del comunismo».

Un ceppo che germoglia sempre meno. La sinistra è in declino dovunque in Occidente. La crisi di quella italiana ha fattori specifici più gravi?

«La sinistra non è affatto in declino, semplicemente sta assumendo forme che i media (e pure gli studiosi, devo ammettere) si rifiutano di riconoscere per quello che sono. Quella che continuiamo a chiamare sinistra è semplicemente la sinistra ufficiale, ovunque amata e votata dai ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, e dal mondo della cultura. Ma esiste anche un’altra sinistra, trasgressiva e populista, prediletta dai giovani e da una parte dei ceti popolari, che si esprime in forme nuove: Podemos in Spagna, Syriza in Grecia, 5 stelle in Italia, France insoumise oltralpe, per citare i casi più importanti. Quel che sta succedendo è che, in molti paesi, tranne il Regno Unito, la sinistra populista sta diventando più forte di quella ufficiale, riformista, benpensante, assennata e politicamente corretta».

Com’è possibile che non ci si interroghi sul fatto che il Pd tiene nei centri storici e scompare nelle periferie e tra i lavoratori?

«Me lo sono chiesto anch’io, e ne è venuto fuori un libro (Sinistra e popolo, Longanesi 2017). Però la vera domanda forse è anche quest’altra: perché del problema ci accorgiamo solo ora visto che il distacco fra sinistra e popolo è in atto da almeno 40 anni?».

Augusto Del Noce diceva che il partito comunista sarebbe diventato un grande partito radicale di massa. L’apparentamento con Emma Bonino ne è stata l’ultima piccola conferma?

«Sì, quello di partito radicale di massa è un concetto che descrive a pennello l’evoluzione del comunismo dal Pci al Pd renziano. Ne parla anche Marcello Veneziani nel suo ultimo libro (Imperdonabili, Marsilio 2017). Il Pd è diventato una sorta di macchina per proclamare diritti, e anche un rifugio identitario per i ceti alti e medi, bisognosi di impegno per espiare la colpa di non essere poveri. Una mutazione che l’alleanza con la Bonino ha reso evidente, per non dire plateale. Ma a questo tipo di evoluzione (o involuzione?) ha contribuito anche una certa dose di stupidità autolesionista, una quasi inspiegabile incapacità di capire il punto di vista della gente comune: come si può pensare, nell’Italia di oggi, di attirare consensi con l’antifascismo e lo ius soli? Se ci fossero pulsioni fasciste e nostalgiche Casa Pound e Forza Nuova avrebbero avuto un risultato decente, non i pochi decimali (0.9 e 0.37%) che qualsiasi simbolo buttato sulla scheda finisce per raccogliere».

Emma Bonino alla convention del Pd al Lingotto di Torino

Emma Bonino alla convention del Pd al Lingotto di Torino

Che responsabilità hanno gli intellettuali nel distacco tra la classe dirigente del Pd e la sua area tradizionale di riferimento?

«Negli ultimi 30 anni, intellettuali e mondo della cultura molto si sono preoccupati di veder rappresentati loro stessi e i loro interessi, e pochissimo di convincere il Pd a rappresentare anche i ceti popolari. Questa è una delle differenze fra Prima e Seconda repubblica: gli intellettuali della prima pretendevano di conoscere meglio dei dirigenti del Pci quali fossero i veri interessi della classe operaia; a quelli della seconda è premuto assai di più che gli eredi del Pd rappresentassero il loro mondo incantato. Ci sono riusciti benissimo».

Che giudizio dà di Renzi come amministratore, comunicatore e stratega politico?

«Non voglio infierire, l’ho già criticato a sufficienza in questi anni. Anzi, voglio dire che, se solo avesse fatto meno il bullo e avesse provato ad ascoltare chi lo criticava stando dalla sua parte, oggi ricorderemmo le non poche buone cose che ha fatto, dal jobs act a industria 4.0. Il dramma dell’Italia è che questo modesto Pd è pur sempre la miglior sinistra disponibile sul mercato, visto quel che offrono 5 stelle e Leu».

Cosa pensa dell’esperienza di Liberi e uguali? A chi è maggiormente attribuibile la colpa della scissione?

«Un’operazione politica penosa, nei contenuti e nelle persone. Quello che non capisco è perché abbiano scelto come capo una figura scolorita come quella di Pietro Grasso: chiunque altro, tranne forse il demonizzatissimo Massimo D’Alema, avrebbe portato a casa più voti. Quanto alla scissione, non so se è stata una colpa, forse è stata un atto di chiarezza».

Quanto il successo di M5s e Lega complica il rapporto con l’Europa?

«Meno di quanto si pensi. Noi continuiamo a fare uno sbaglio: pensare che il problema siano le autorità europee. No, il problema sono i mercati, come si è visto nel 2011, quando le autorità europee lodavano Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi, e sono bastati tre mesi di impennata dello spread per capovolgere tutto».

Che scenario intravede? Se la sente di fare delle percentuali dei possibili governi?

«No, non me la sento. Credo che molto dipenderà dal Pd, ovvero da quanti Pd vi saranno fra qualche mese. Se ve ne sarà uno solo, non si potrà che tornare al voto. Se ve ne saranno due, vedremo se la spunterà quello assistenzialista, che vuole dare una mano al sud (e ai 5 stelle), o quello sviluppista, che vuole dare una mano al centronord (e quindi al centrodestra)».

Quanto un governo a guida Di Maio con il sostegno del Pd aggraverebbe il bilancio dello Stato?

«Molto, perché anche il Pd è tentato dalla spesa in deficit».

Dobbiamo rassegnarci all’ennesimo governo del Presidente?

«Speriamo di no, abbiamo già dato. E poi Sergio Mattarella mi pare più arbitro di Giorgio Napolitano, che era chiaramente un giocatore in campo».

Quali sono le prime riforme che suggerirebbe al nuovo governo?

«Sgravi fiscali sui produttori, alimentati da una lotta senza quartiere contro gli evasori totali».

Che cosa consiglierebbe a Silvio Berlusconi che si chiede «adesso dove si va»?

«Di decidersi a scovare un successore».

Se si rivotasse entro un anno le tendenze del 4 marzo uscirebbero radicalizzate o ridimensionate?

«Dipende: se nel frattempo non succede nulla avremo un Parlamento fotocopia. Ma qualcosa succederà. Basta che non sia un nuovo 2011».

 

La Verità, 11 marzo 2018