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Tutto molto bello. Addio alla voce narrante calcio

Pacata e un po’ nasale, ce l’abbiamo ancora nella testa la voce di Bruno Pizzul che ci ha salutato ieri, pochi giorni prima di compiere 87 anni. Ce l’abbiamo nelle orecchie e nella memoria, quella voce narrante di decine, centinaia di partite e di tante imprese della Nazionale, esclusa la conquista dei Mondiali, solo sfiorata a Pasadena negli Usa, era il 1994, dopo il rigore fallito da Roberto Baggio: «Ecco… Alto! Il campionato del mondo è finito. Lo vince il Brasile». Antipersonaggio com’era, non si fece un cruccio di non aver potuto gridare: «Campioni del mondo!». Espressione di modestia, restia alle impennate, raramente la voce di un telecronista è stata il marchio di un’epoca sportiva come la sua lo è stata per trent’anni. Talmente inconfondibile e complice da essere molto imitata e molto usata negli spot e nei trailer promozionali.

Uomo del Nordest, sposato con Maria detta «la Tigre», padre di tre figli e nonno di 11 nipoti, numero perfetto, Bruno Pizzul è stato l’incarnazione di un protagonismo laterale, fedele all’understatement, mai prevaricante sui fatti. Il Friuli è da sempre terra di calciatori: «Siamo figli di contadini, alti, robusti, abituati ai sacrifici, disponibili agli allenamenti», mi spiegò quando andai a intervistarlo a Cormons, nella sua villa affacciata sul Collio. E anche terra di allenatori: Nereo Rocco, Enzo Bearzot, Cesare Maldini, Dino Zoff, Gigi Delneri, Edy Reja. «Rocco parlava di razza Piave. Anche se precisava: “Mi son de Francesco Giuseppe”. E siccome le nostre famiglie avevano due macellerie e si conoscevano per lavoro, mi stuzzicava: “Te go tegnùo sui zenoci”… Se facevo un buon commento mi elogiava, altrimenti: “Bruto mona de furlàn, traditor de l’impero”».

Come calciatore iniziò nella Pro Gorizia che lo vendette al Catania, poi passò all’Ischia e all’Udinese, dove la carriera terminò a causa di un infortunio a un ginocchio («ma anche senza infortunio non sarei diventato un campione»). Dopo gli studi in giurisprudenza, lo convinsero a presentarsi al concorso per programmisti Rai. Non si presentò nessuno e lo presero perché laureato. Ma Paolo Valenti, che lo conosceva come calciatore, lo dirottò sul concorso per radio-telecronista, suoi compagni erano Bruno Vespa e Paolo Frajese. Mai presa la patente, a Milano si muoveva in bicicletta. «Ero il più puntuale di tutti, perché scansavo il traffico». Salvo al primo incarico ufficiale, Juventus Bologna, spareggio di Coppa Italia, 8 aprile 1970. Beppe Viola lo convince che per arrivare a Como, il campo neutro dove si disputa la partita, basta un’ora. Non aveva previsto il traffico dei tifosi bianconeri in rotta verso lo stadio. La trasmissione in differita non evitò un’inchiesta interna. Evaporata quando si seppe che c’era lo zampino di Viola: compagno di merende scrivania e tribune, anche quelle dell’ippodromo («sempre senza soldi, scommettitore incallito»). Di suo, Bruno amava le sigarette che potevano rovinargli la voce e infatti fumava di nascosto dalla Tigre. E poi il buon vino e il tresette, tavolo fisso all’osteria a due passi dalla sede Rai di Corso Sempione.

Cresciuto alla scuola di Niccolò Carosio e Nando Martellini, non gli piacevano né le telecronache a due o tre voci («a volte ho l’impressione che la televisione racconti sé stessa più della partita»), né l’enfasi di moda – «miracolo», «magia», «numero» – che abbonda nei commenti («un narcisismo che oscura quello che avviene sul terreno di gioco»). Competente e riflessivo ma sempre sul pezzo, era cronista e opinionista ad un tempo, inventore di espressioni («ha il problema di girarsi»; «tutto molto bello») divenute proverbiali anche lontano dal calcio. Dal canto suo preferiva seguire le partite alla radio: «Le radiocronache sono più coinvolgenti. La fantasia aiuta a ricostruire l’ambiente. Paradossalmente le immagini della tv ti schiacciano».

Anche lui era quasi rimasto schiacciato dalla tragedia quando gli era toccata la telecronaca più drammatica di sempre dallo stadio Heysel di Bruxelles dove, il 29 maggio 1985, nonostante la morte di 39 persone (32 italiani) provocate dai disordini della tifoseria inglese, si disputò la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. L’anno dopo, andato in pensione Nando Martellini, divenne la voce della Nazionale. Ma ai mondiali in Messico l’Italia uscì agli ottavi, eliminata dalla Francia di Michel Platini. Quattro anni più tardi i Mondiali si giocavano in Italia e doveva essere l’occasione buona. I gol di Totò Schillaci accendevano di speranza le notti magiche. E la voce di Pizzul accompagnava le imprese dei ragazzi di Azeglio Vicini. Come la serpentina con gol alla Cecoslovacchia di «Baggio, Baggio, Baggio…», ripetuto otto volte in pochi secondi. Quella volta fu Diego Armando Maradona a batterci in semifinale.

Il calcio che amava era quello sorridente, senza sponsor, senza procuratori, senza esclusive e l’imperio dei diritti tv. Quello in cui, dopo l’allenamento a Milanello o ad Appiano Gentile, i calciatori si fermavano a giocare a biliardo con i cronisti. Amava l’eleganza di Pelè e l’intelligenza di Gianni Rivera. Le sue squadre preferite erano la Honved di Puskas, il Brasile che vinse in Svezia e il Grande Torino per il quale tifava. «Nel dopoguerra qui c’erano le truppe titine. La gente spariva, le famiglie si dividevano tra Italia e Jugoslavia», raccontò. «Il prete dell’oratorio aveva affidato la gestione dell’unico pallone ai ragazzi di qualche anno più vecchi di noi. Erano tutti juventini. Diventammo torinisti per protesta contro quelli che non ci davano il pallone. Un po’ alla volta , vedendo che i figli giocavano insieme, anche il clima tra le famiglie si stemperò».

Campione di modestia, era orgoglioso di non essersi mai preso troppo sul serio: «Il mestiere del telecronista è affascinante, ma anche insidioso», diceva, «perché ti dà una grande notorietà. Se ti lasci andare puoi dimenticarti di essere una persona e diventi un personaggio».

Tra le tante dichiarazioni di persone che ieri l’hanno voluto salutare merita ricordare quella di Baggio: «Ciao Bruno, mancherai a tutti. La tua voce riecheggia per l’eternità».

 

La Verità, 6 marzo 2025

«Le partite? Preferisco seguirle alla radio»

Qualche sera fa un milione di telespettatori ha rivisto su La7 Italia Francia, finale mondiale del 2006, con la sua telecronaca. Era il giorno dell’inaugurazione di Russia 2018, esclusiva Mediaset. Quale occasione migliore per colmare un triplo sentimento orfano? Gli italiani senza Nazionale, La7 senza partite, i telespettatori senza la voce di Bruno Pizzul. Il quale, com’è noto, non è mai riuscito a commentare in diretta la vittoria italiana di un mondiale. L’ha fatto, in replica, per Germania 2006, quand’era già in pensione dalla Rai.

Da un anno Pizzul è tornato a Cormons, Gorizia: terra di confine, di buoni vini e di allenatori. Quando arrivo alla sua villetta con vista sul Collio, la troupe di Telecapodistria, storica emittente slovena, si sta congedando al termine dell’intervista. Come si fa tra colleghi ci diamo del tu.

Ti sei riascoltato su La7?

«No, non sapevo che avrebbero ritrasmesso Italia Francia. Non mi riascoltavo neanche quando lavoravo».

Da quanto sei tornato quassù?

«Da un anno. Avevo sempre in animo di tornare, anche se il cordone ombelicale non si era mai reciso. Una volta al mese ci venivamo anche prima».

Nonostante la provincia, hai sempre una vita movimentata…

«Ho tanti amici ai quali è difficile dire di no. L’altra mattina mia moglie borbottava: ≤Esiste la Provvidenza… perché sei nato uomo. Se fossi nato donna, con i sì che dici a tutti si potrebbe pensar male…≥».

La vita di provincia più tranquilla è un’idea da sfatare?

«È tranquilla, ma vivace. Ogni paese ha la sagra, il torneo di calcio, tante manifestazioni. Poi c’è il Collio».

Patria del vino.

«I vignaioli della mia generazione lavoravano le viti e poi aspettavano i triestini in gita. Adesso hanno capito che, oltre che farlo bene, il vino bisogna promuoverlo con le tecniche del marketing moderno. Il Collio si è riempito di tedeschi e inglesi come il Chianti in Toscana».

Viva la provincia, ma le trasferte continuano. Nell’ultima hai ricevuto il Premio Ischia per il giornalismo sportivo.

«Un premio che mi ha lusingato. Quando mi hanno chiamato pensavo fosse come calciatore, perché da giovane ho giocato nell’Ischia».

Come accadde?

«Al Catania, serie B, mi ero infortunato a un ginocchio. Così mi mandarono in prestito a Ischia, dove c’era un’équipe specializzata per la riabilitazione. Anche senza infortunio non sarei diventato un campione».

Come mai un ragazzo di Cormons finisce al Catania?

«Mi vendette la Pro Gorizia. I calciatori friulani andavano di moda. Un anno in Serie A c’erano sei calciatori di San Lorenzo Isontino, neanche mille abitanti. Al Catania invece eravamo 6 o 7 friulani: in spogliatoio si parlava furlàn. Il cronista sportivo della Sicilia brontolava: “Va bene che ci hanno sempre invaso… turchi, arabi, normanni. Ma minchia! Ci mancavano i friulani…”.  Era Candido Cannavò».

Perché il Friuli è stato laboratorio di calciatori?

«Abbiamo sopportato le invasioni. Siamo figli di contadini, alti, robusti, abituati ai sacrifici, disponibili agli allenamenti».

E terra di allenatori? Nereo Rocco, Enzo Bearzot, Cesare Maldini, Fabio Capello, Dino Zoff…

«Gigi Delneri, Edy Reja… Rocco parlava di razza Piave. Anche se precisava: “Mi son de Francesco Giuseppe”. Nel dopoguerra c’era tanta povertà. È la fame che ti fa fare bene le cose. Il calcio è stato un riscatto. Oggi con la pancia piena e i telefonini in mano ci si impigrisce. I giocatori più forti sono meridionali».

Quanto è scomodo fare questo mestiere senza la patente?

«Abbastanza. Però, non sono un caso isolato. Non ce l’avevano Indro Montanelli, Maurizio Mosca, Adriano De Zan. È un fatto di pigrizia e di circostanze. A 18 anni, quando hai la fregola della macchina, ero a Catania e non ce la facevano usare. A Ischia non serviva. E nemmeno da militare. A un certo punto è diventato un vezzo. A Milano ero il più puntuale perché con la bicicletta non patisci il traffico».

Parlando di puntualità, alla prima telecronaca, Juventus Bologna, finale di Coppa Italia a Como, arrivasti un quarto d’ora in ritardo.

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