«Io scartato da Sanremo? Mai mandato canzoni»
Caro Edoardo Bennato, anche lei scartato a Sanremo?
«Non è una cosa che mi riguarda».
Il sito mowmag.com, rilanciato da Dagospia, l’ha inserita tra i grandi esclusi, insieme a Samuele Bersani, Manuel Agnelli e altri.
«Non ho mai proposto canzoni al Festival di Sanremo, né in tempi andati né adesso. Ho sentito qualche giorno fa Amadeus che ha allargato le braccia, dicendo che viviamo in una situazione in cui escono notizie senza capo né coda».
Per sciatteria o per una strategia con bersagli precisi? In altre parole, ce l’hanno con lei?
«Figuriamoci, le emergenze di oggi sono ben più serie, dalla sanità al crescente squilibrio tra Nord e Sud. Queste cose Totò le definiva “quisquilie, bazzecole, pinzillacchere”».
Restando alle quisquilie, è curioso che esca una notizia così destituita di fondamento.
«Questo non mi preoccupa. Ciò che conta è la stima che posso avere di me stesso e del lavoro che faccio».
A 76 anni, Edoardo Bennato è sempre bello carico. Come il suo rock e la sua voce che dimostrano una vitalità e un’energia da patto col diavolo. Se gli si scrive un messaggio chiedendogli come sta, risponde: «Si crea, si produce, si prega e si spera». E poi t’inonda di video, compreso quello della sua ultima canzone.
Come mai ha pubblicato un brano rock sul Natale che peraltro s’intitola A Natale?
«Per divertirmi, sperando di divertire anche gli altri. L’ha ascoltato?».
Certo. Parafrasando Adriano Celentano, il Natale è rock o lento?
«Personalmente, declino tutto nello schema del rock, che significa essere fuori dai luoghi comuni, dalle frasi fatte e dalle convenzioni».
Il brano finisce con l’invito via megafono ad «affrettarsi alle casse» e «rispettare la fila»: vince sempre il consumismo?
«È un finale che appartiene all’ironia e all’iconografia del rock».
Cita «chi finanzia la guerra per vivere in pace» e «chi noleggia i gommoni a chi è costretto a scappare», un testo molto attuale.
«Tutto quello che faccio lo è. Le mie canzoni riguardano le emergenze del presente».
E le contraddizioni dell’essere umano.
«I paradossi e le schizofrenie di noi come singoli e come collettività».
Le radio hanno trasmesso questo brano?
«Non mi sono posto il problema».
Scrivendolo, ma poi?
«Non me lo sono posto perché, come dicevo, mi limito a fare cose che divertano me e spero gli altri».
Se agli altri arrivano.
«Non dev’essere un mio problema».
Vabbè. Com’è andato il concerto che ha tenuto l’ultimo dell’anno a Matera?
«Il castello di Matera può contenere fino a 5.000 persone, bisognerebbe chiederlo a loro».
Intanto lo chiedo a lei, avrà avuto delle sensazioni…
«Quando salgo sul palco l’obiettivo è sempre dare buone vibrazioni e riceverne da chi mi ascolta».
Matera non è molto lontana da Crotone, dove la notte di Capodanno c’era Rai 1 con molti riflettori, invece del suo concerto non si è saputo molto.
«Questa è un’analisi che dovrebbe fare la stampa, non io».
Lei cantava «Nisida è un’isola e nessuno lo sa»: c’è qualcosa che non si deve sapere oggi?
«Forse è un meccanismo che è in atto da sempre, da che mondo è mondo».
Cioè?
«Come quelli che si affrontano, per esempio, nelle aule universitarie. Come è capitato il mese scorso alla Sapienza di Roma, dove si è parlato di problemi di geopolitica».
Ovvero?
«Quei temi che riguardano il nostro rapporto con il pianeta, il nostro futuro. Ma gran parte della gente comune è impegnata a sbarcare il lunario e a fronteggiare le difficoltà causate dalla crisi del sistema sanitario, quindi è difficile portare la sua attenzione su ciò che le viene nascosto».
Ci sono temi e persone che si vogliono tenere in ombra?
«Qualche tempo fa, quando dopo La Torre di babele e Buoni e cattivi, in cui parlavo dei problemi dell’umanità, mi si chiedeva quale argomento avrei trattato nel prossimo album, rispondevo che avrei affrontato le eterne domande: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo».
Le grandi domande censurate?
«Quando rielaborai la favola di Peter Pan, intitolai l’album Sono solo canzonette: bisogna sempre essere ironici».
Senza coltivare ambizioni messianiche.
«Io non sono un vate, un profeta o uno che scruta la sfera di cristallo. Sono solo uno che ha avuto la fortuna di girare il mondo. Non avevo compiuto 13 anni che ero già in America e suonai in tv con i miei fratelli. Poi nei primi anni Settanta ho potuto partecipare al festival di Viña del Mar, in Cile. Negli anni Ottanta sono andato più volte a Cuba, poi in Gran Bretagna, in Scandinavia, in Africa. Il consiglio che posso dare ai ragazzi è di viaggiare, oltre che accumulare dati nelle aule universitarie. È l’unica possibilità di difesa».
Difesa da cosa?
«Dagli imbonitori, dai persuasori occulti, dai gatti e le volpi, dai grilli parlanti. Da tutta quella fauna collodiana che tenta d’indottrinarci e asservirci».
Si ritiene scomodo per qualcuno o per qualcosa?
«Anche se fosse, non lo confesserei nemmeno sotto tortura».
Lì, nella sua isola, nel suo pianeta, di che cosa si nutre, quali sono le sue risorse?
«In questo momento, la simbiosi con mia figlia Gaia che, oltre ad avere un nome che rimanda al pianeta Terra e a essere energetica dall’alto dei suoi 19 anni, mi stimola a essere ottimista e propositivo in tutti i miei discorsi, in tutti i miei atteggiamenti, in tutti i miei testi, in tutti i miei pensieri».
Lei è altrettanto stimolante per lei?
«Sì, è uno scambio reciproco».
Mentre parliamo arriva la foto della premiazione di Bennato ragazzino, «capitano della squadra vincitrice del campionato di calcio del circolo Canottieri di Bagnoli e capocannoniere».
Perché me l’ha mandata?
«Perché nello sport è sempre un numero a sancire il nostro valore, sia che si tratti di correre i 100 metri, di saltare in lungo o in alto, o nelle discipline del nuoto. E anche negli sport di squadra, dal calcio alla pallacanestro, un numero definisce il nostro valore rispetto agli altri. Lo sportivo è colui che stringe la mano all’avversario che l’ha superato e poi ricomincia ad allenarsi per superare l’avversario che l’ha superato. Lo sport non è solo un’arte nobile, ma anche educativa».
Tutto questo per dire?
«Che nell’arte è completamente diverso. Tutto deve passare per le forche caudine delle radio, della stampa e della tv. È una regola che sono stato costretto a imparare in nove anni di gavetta nelle case discografiche con Mare Maionchi, Lucio Battisti, Mogol e tanti altri. Alla fine riuscii a pubblicare l’album Non farti cadere le braccia che conteneva brani come Un giorno credi e Campi Flegrei».
E poi cosa accadde?
«Dopo qualche settimana il direttore della Ricordi mi disse che loro non erano finanziati dal ministero della Pubblica istruzione e dovevano far quadrare il bilancio. I programmisti della Rai gli avevano comunicato che la mia voce era radiofonicamente sgradevole per cui le emittenti non avrebbero trasmesso le mie canzoni. Fui licenziato».
A quel punto?
«Non mi sono fatto cadere le braccia, appunto. E son diventato musicista di strada con tamburello a pedale, armonica, chitarra e kazoo, alla maniera degli one man band che avevo visto a Londra. Mi piazzai davanti alla Rai, perché lì passavano gli addetti ai lavori. Infatti, incrociai il direttore di Ciao 2001 che m’iscrisse al festival indipendente di Civitanova Marche. Era il 1973, c’erano Claudio Rocchi, Claudio Lolli, Franco Battiato… Cantai dei pezzi punk come Ma che bella città, Salviamo il salvabile, Uno buono, che era uno sfottò al presidente della Repubblica di allora (Giovanni Leone ndr), Affacciati affacciati, dedicato al Papa (Paolo VI ndr). Ebbi un discreto successo e dopo poche settimane il direttore della Ricordi mi richiamò».
Vorrei carpirle altri segreti dal suo pianeta al riparo dagli imbonitori. Che cosa legge, quali sono le sue fonti?
«Il brano A Natale è punk. Il punk è un genere musicale provocatorio e insolente verso la società perbenista, affermatosi con i Ramones, i Sex Pistols e i Clash, che avevo inconsapevolmente anticipato. Ma, oggi come allora, tutto dipende da come viene promosso quello che fai».
Comandano la comunicazione e il marketing?
«Nostro malgrado».
Anche gli artisti sono burattini nelle mani di qualcun altro?
«Tutti corriamo il rischio di esserlo».
Poi però accade che le contraddizioni affiorino anche nell’impero della regina del marketing: che cosa pensa della vicenda di Chiara Ferragni?
«Non è importante, ho cose più importanti a cui pensare».
Non si vuole sbilanciare?
«La mia fortuna è aver girato il mondo».
L’abbiamo detto, le parlo del presente.
«A proposito del presente, e di come ora mi si presenti nel presente, vorrei puntualizzare che non ho mai avuto un manager o un agente e che quel ruolo l’hanno svolto i miei amici e compagni di cortile. Con loro nel 1980 inventammo per primi l’estate dei 15 stadi, uno ogni due giorni, tutti sold out. Il fatto di non avere un manager è sempre stata, ed è tuttora, un’anomalia mal sopportata dall’establishment musicale. Se ha visto il film su di lui, avrà visto che anche il leggendario Elvis Presley era diventato una marionetta nelle mani dell’agente, il colonnello Tom Parker».
Tornando ai giovani, che cosa pensa del loro impegno per l’emergenza climatica?
«Su questo tema ho scritto Io vorrei che per te».
Che dice cosa?
«Bisogna ascoltare la canzone».
Vogliamo ricordarla ai lettori senza costringerli a connettersi a Spotify?
«Dice: “Finché nel cielo c’è il sole/ finché nell’aria c’è il vento/ non resteremo mai al buio/ e nessun motore sarà spento”. E il ritornello: “Io vorrei che per te quell’isola che non c’è/ diventasse realtà/ non solo l’isola esclusiva di Peter Pan”».
Un auspicio utopistico.
«È il mio manifesto dell’ecologia. Così come Le ragazze fanno grandi sogni è il manifesto della femminilità».
Esprime un metodo un po’ diverso da quello scelto dagli attivisti di Ultima generazione che imbrattano monumenti, fermano il traffico e le funzioni religiose?
«Mi limito a fare canzoni ed è giusto così. C’è già tanta gente che ne parla…».
Pensavo potesse dire la sua anche su situazioni in cui ci imbattiamo da fruitori di opere d’arte, cittadini che usano l’auto e fedeli che vanno a messa.
«Su questi temi ho scritto Signore e signori».
Vabbé… Buon ascolto.
La Verità, 13 gennaio, 2024