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«Io scartato da Sanremo? Mai mandato canzoni»

Caro Edoardo Bennato, anche lei scartato a Sanremo?

«Non è una cosa che mi riguarda».

Il sito mowmag.com, rilanciato da Dagospia, l’ha inserita tra i grandi esclusi, insieme a Samuele Bersani, Manuel Agnelli e altri.

«Non ho mai proposto canzoni al Festival di Sanremo, né in tempi andati né adesso. Ho sentito qualche giorno fa Amadeus che ha allargato le braccia, dicendo che viviamo in una situazione in cui escono notizie senza capo né coda».

Per sciatteria o per una strategia con bersagli precisi? In altre parole, ce l’hanno con lei?

«Figuriamoci, le emergenze di oggi sono ben più serie, dalla sanità al crescente squilibrio tra Nord e Sud. Queste cose Totò le definiva “quisquilie, bazzecole, pinzillacchere”».

Restando alle quisquilie, è curioso che esca una notizia così destituita di fondamento.

«Questo non mi preoccupa. Ciò che conta è la stima che posso avere di me stesso e del lavoro che faccio».

A 76 anni, Edoardo Bennato è sempre bello carico. Come il suo rock e la sua voce che dimostrano una vitalità e un’energia da patto col diavolo. Se gli si scrive un messaggio chiedendogli come sta, risponde: «Si crea, si produce, si prega e si spera». E poi t’inonda di video, compreso quello della sua ultima canzone.

Come mai ha pubblicato un brano rock sul Natale che peraltro s’intitola A Natale?

«Per divertirmi, sperando di divertire anche gli altri. L’ha ascoltato?».

Certo. Parafrasando Adriano Celentano, il Natale è rock o lento?

«Personalmente, declino tutto nello schema del rock, che significa essere fuori dai luoghi comuni, dalle frasi fatte e dalle convenzioni».

Il brano finisce con l’invito via megafono ad «affrettarsi alle casse» e «rispettare la fila»: vince sempre il consumismo?

«È un finale che appartiene all’ironia e all’iconografia del rock».

Cita «chi finanzia la guerra per vivere in pace» e «chi noleggia i gommoni a chi è costretto a scappare», un testo molto attuale.

«Tutto quello che faccio lo è. Le mie canzoni riguardano le emergenze del presente».

E le contraddizioni dell’essere umano.

«I paradossi e le schizofrenie di noi come singoli e come collettività».

Le radio hanno trasmesso questo brano?

«Non mi sono posto il problema».

Scrivendolo, ma poi?

«Non me lo sono posto perché, come dicevo, mi limito a fare cose che divertano me e spero gli altri».

Se agli altri arrivano.

«Non dev’essere un mio problema».

Vabbè. Com’è andato il concerto che ha tenuto l’ultimo dell’anno a Matera?

«Il castello di Matera può contenere fino a 5.000 persone, bisognerebbe chiederlo a loro».

Intanto lo chiedo a lei, avrà avuto delle sensazioni…

«Quando salgo sul palco l’obiettivo è sempre dare buone vibrazioni e riceverne da chi mi ascolta».

Matera non è molto lontana da Crotone, dove la notte di Capodanno c’era Rai 1 con molti riflettori, invece del suo concerto non si è saputo molto.

«Questa è un’analisi che dovrebbe fare la stampa, non io».

Lei cantava «Nisida è un’isola e nessuno lo sa»: c’è qualcosa che non si deve sapere oggi?

«Forse è un meccanismo che è in atto da sempre, da che mondo è mondo».

Cioè?

«Come quelli che si affrontano, per esempio, nelle aule universitarie. Come è capitato il mese scorso alla Sapienza di Roma, dove si è parlato di problemi di geopolitica».

Ovvero?

«Quei temi che riguardano il nostro rapporto con il pianeta, il nostro futuro. Ma gran parte della gente comune è impegnata a sbarcare il lunario e a fronteggiare le difficoltà causate dalla crisi del sistema sanitario, quindi è difficile portare la sua attenzione su ciò che le viene nascosto».

Ci sono temi e persone che si vogliono tenere in ombra?

«Qualche tempo fa, quando dopo La Torre di babele e Buoni e cattivi, in cui parlavo dei problemi dell’umanità, mi si chiedeva quale argomento avrei trattato nel prossimo album, rispondevo che avrei affrontato le eterne domande: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo».

Le grandi domande censurate?

«Quando rielaborai la favola di Peter Pan, intitolai l’album Sono solo canzonette: bisogna sempre essere ironici».

Senza coltivare ambizioni messianiche.

«Io non sono un vate, un profeta o uno che scruta la sfera di cristallo. Sono solo uno che ha avuto la fortuna di girare il mondo. Non avevo compiuto 13 anni che ero già in America e suonai in tv con i miei fratelli. Poi nei primi anni Settanta ho potuto partecipare al festival di Viña del Mar, in Cile. Negli anni Ottanta sono andato più volte a Cuba, poi in Gran Bretagna, in Scandinavia, in Africa. Il consiglio che posso dare ai ragazzi è di viaggiare, oltre che accumulare dati nelle aule universitarie. È l’unica possibilità di difesa».

Difesa da cosa?

«Dagli imbonitori, dai persuasori occulti, dai gatti e le volpi, dai grilli parlanti. Da tutta quella fauna collodiana che tenta d’indottrinarci e asservirci».

Si ritiene scomodo per qualcuno o per qualcosa?

«Anche se fosse, non lo confesserei nemmeno sotto tortura».

Lì, nella sua isola, nel suo pianeta, di che cosa si nutre, quali sono le sue risorse?

«In questo momento, la simbiosi con mia figlia Gaia che, oltre ad avere un nome che rimanda al pianeta Terra e a essere energetica dall’alto dei suoi 19 anni, mi stimola a essere ottimista e propositivo in tutti i miei discorsi, in tutti i miei atteggiamenti, in tutti i miei testi, in tutti i miei pensieri».

Lei è altrettanto stimolante per lei?

«Sì, è uno scambio reciproco».

Mentre parliamo arriva la foto della premiazione di Bennato ragazzino, «capitano della squadra vincitrice del campionato di calcio del circolo Canottieri di Bagnoli e capocannoniere».

Perché me l’ha mandata?

«Perché nello sport è sempre un numero a sancire il nostro valore, sia che si tratti di correre i 100 metri, di saltare in lungo o in alto, o nelle discipline del nuoto. E anche negli sport di squadra, dal calcio alla pallacanestro, un numero definisce il nostro valore rispetto agli altri. Lo sportivo è colui che stringe la mano all’avversario che l’ha superato e poi ricomincia ad allenarsi per superare l’avversario che l’ha superato. Lo sport non è solo un’arte nobile, ma anche educativa».

Tutto questo per dire?

«Che nell’arte è completamente diverso. Tutto deve passare per le forche caudine delle radio, della stampa e della tv. È una regola che sono stato costretto a imparare in nove anni di gavetta nelle case discografiche con Mare Maionchi, Lucio Battisti, Mogol e tanti altri. Alla fine riuscii a pubblicare l’album Non farti cadere le braccia che conteneva brani come Un giorno credi e Campi Flegrei».

E poi cosa accadde?

«Dopo qualche settimana il direttore della Ricordi mi disse che loro non erano finanziati dal ministero della Pubblica istruzione e dovevano far quadrare il bilancio. I programmisti della Rai gli avevano comunicato che la mia voce era radiofonicamente sgradevole per cui le emittenti non avrebbero trasmesso le mie canzoni. Fui licenziato».

A quel punto?

«Non mi sono fatto cadere le braccia, appunto. E son diventato musicista di strada con tamburello a pedale, armonica, chitarra e kazoo, alla maniera degli one man band che avevo visto a Londra. Mi piazzai davanti alla Rai, perché lì passavano gli addetti ai lavori. Infatti, incrociai il direttore di Ciao 2001 che m’iscrisse al festival indipendente di Civitanova Marche. Era il 1973, c’erano Claudio Rocchi, Claudio Lolli, Franco Battiato… Cantai dei pezzi punk come Ma che bella città, Salviamo il salvabile, Uno buono, che era uno sfottò al presidente della Repubblica di allora (Giovanni Leone ndr), Affacciati affacciati, dedicato al Papa (Paolo VI ndr). Ebbi un discreto successo e dopo poche settimane il direttore della Ricordi mi richiamò».

Vorrei carpirle altri segreti dal suo pianeta al riparo dagli imbonitori. Che cosa legge, quali sono le sue fonti?

«Il brano A Natale è punk. Il punk è un genere musicale provocatorio e insolente verso la società perbenista, affermatosi con i Ramones, i Sex Pistols e i Clash, che avevo inconsapevolmente anticipato. Ma, oggi come allora, tutto dipende da come viene promosso quello che fai».

Comandano la comunicazione e il marketing?

«Nostro malgrado».

Anche gli artisti sono burattini nelle mani di qualcun altro?

«Tutti corriamo il rischio di esserlo».

Poi però accade che le contraddizioni affiorino anche nell’impero della regina del marketing: che cosa pensa della vicenda di Chiara Ferragni?

«Non è importante, ho cose più importanti a cui pensare».

Non si vuole sbilanciare?

«La mia fortuna è aver girato il mondo».

L’abbiamo detto, le parlo del presente.

«A proposito del presente, e di come ora mi si presenti nel presente, vorrei puntualizzare che non ho mai avuto un manager o un agente e che quel ruolo l’hanno svolto i miei amici e compagni di cortile. Con loro nel 1980 inventammo per primi l’estate dei 15 stadi, uno ogni due giorni, tutti sold out. Il fatto di non avere un manager è sempre stata, ed è tuttora, un’anomalia mal sopportata dall’establishment musicale. Se ha visto il film su di lui, avrà visto che anche il leggendario Elvis Presley era diventato una marionetta nelle mani dell’agente, il colonnello Tom Parker».

Tornando ai giovani, che cosa pensa del loro impegno per l’emergenza climatica?

«Su questo tema ho scritto Io vorrei che per te».

Che dice cosa?

«Bisogna ascoltare la canzone».

Vogliamo ricordarla ai lettori senza costringerli a connettersi a Spotify?

«Dice: “Finché nel cielo c’è il sole/ finché nell’aria c’è il vento/ non resteremo mai al buio/ e nessun motore sarà spento”. E il ritornello: “Io vorrei che per te quell’isola che non c’è/ diventasse realtà/ non solo l’isola esclusiva di Peter Pan”».

Un auspicio utopistico.

«È il mio manifesto dell’ecologia. Così come Le ragazze fanno grandi sogni è il manifesto della femminilità».

Esprime un metodo un po’ diverso da quello scelto dagli attivisti di Ultima generazione che imbrattano monumenti, fermano il traffico e le funzioni religiose?

«Mi limito a fare canzoni ed è giusto così. C’è già tanta gente che ne parla…».

Pensavo potesse dire la sua anche su situazioni in cui ci imbattiamo da fruitori di opere d’arte, cittadini che usano l’auto e fedeli che vanno a messa.

«Su questi temi ho scritto Signore e signori».

Vabbé… Buon ascolto.

 

La Verità, 13 gennaio, 2024

 

 

«Il mio programma su Rai1 era ok, ma l’hanno chiuso»

Poliedrico e versatile, Enrico Ruggeri continua a navigare controcorrente. Musicista, conduttore televisivo e radiofonico, autore di romanzi, presidente della Nazionale cantanti, non ha paura di prendere posizione senza sottoscrivere il pensiero unico. Anzi. «Uno dei vantaggi dell’invecchiare e di avere una carriera consolidata», riflette in questa intervista, «è che non mi può succedere niente di grave se dico qualcosa in cui credo».

Perfetto, allora. Cominciamo dal bilancio del tour estivo nelle piazze e nei teatri?

«Il bilancio è ottimo,:ci siamo molto divertiti sia noi della band che la gente che ci ha seguito. In giro c’è molta voglia di concerti».

Ha notato qualcosa di diverso nel pubblico rispetto a prima della pandemia?

«Quasi due anni di astinenza l’hanno caricato di attesa e di entusiasmo. Ho visto molta voglia di viaggiare per partecipare ai concerti: in Abruzzo c’erano ragazzi che arrivavano dal Piemonte, in Veneto dalla Toscana. Di solito, alle mie serate, a un certo punto tutti si alzano e si ammassano sotto il palco. Purtroppo adesso non è possibile, perciò a volte circola anche una voglia repressa».

Ha notato nuove preferenze riguardo al repertorio?

«Ho fatto 35 album e ogni sera cambiamo la scaletta. E anche se alcune canzoni vanno sempre proposte, non replico mai lo stesso concerto. Conosco persone che non ci sono mai venute, ma non conosco persone che siano venute una volta sola».

Dalle richieste ha constatato che c’è maggiore attenzione a canzoni più esistenziali?

«Io abbino temi profondi a musiche coinvolgenti. Se ti chiedono di ascoltare una determinata canzone non sai se è per la densità dei testi, per la musica ritmata o per entrambe le cose».

Come si gestisce un tour nelle piazze e nei teatri con tante restrizioni?

«Per fortuna non c’è più l’obbligo delle mascherine e si possono vedere le persone in faccia. Certo, l’arena non è piena a causa del distanziamento, ma ci accontentiamo. Meglio fare concerti così che non farli per niente».

Nei giorni scorsi la Nazionale cantanti di cui è presidente si è impegnata con la onlus creata da Paolo Brosio per la creazione di un ospedale di Pronto soccorso a Medjugorje. Che cos’è esattamente la Nazionale cantanti?

«Intanto è uno strumento per difendere i deboli. 100 milioni di euro in beneficenza in quarant’anni non sono poca cosa. È una meravigliosa esperienza di volontariato, molto più che una serie di partite di calcio in posti strani. Giocando a calcio, andiamo a incontrare la sofferenza dov’è. Sono orgoglioso di collaborare a questi progetti».

A volte, quando si sente parlare della Partita del cuore si avverte un retrogusto di buonismo.

«Il buonismo è fatto di parole. Se costruire ospedali e strutture per il trapianto del midollo significa essere buonisti, mi va bene esserlo. Ci sono persone che sono sopravvissute anche grazie alle nostre partite».

Lei arriva dopo le presidenze di Mogol e di Gianni Morandi…

«Mogol è il fondatore, quello che ha avuto il sogno e ha acceso la scintilla. Forse non tutti ricordano che nel 2000, grazie a Mogol, Shimon Peres e Yasser Arafat s’incontrarono per l’ultima volta a una nostra partita. Morandi ha consolidato il progetto, rendendolo popolare e realizzando manifestazioni con decine di migliaia di persone. Adesso ci sono io».

Che differenza c’è fra la vostra storia e quella del Concertone del Primo maggio?

«Qui si vola più alto del dibattito politico nostrano, fatto più per avere consensi che per reale convinzione. Un conto è dire no alla guerra, un altro prendere un aereo militare e andare a Sarajevo durante la guerra dei Balcani. Oppure a Bagdad o sulla Striscia di Gaza. Noi usciamo dal mondo delle parole ed entriamo in quello dei fatti. Non a caso abbiamo incontrato persone come il Dalai Lama e Gorbaciov».

Ora il fatto è il Pronto soccorso a Medjugorje, ci è mai stato?

«Mai. Sono stato a Lourdes, ma non a Medjugorje. Anche Brosio è un visionario e in questo progetto è assecondato da Andrea Bocelli e da persone come Sinisa Mihajlovic e Al Bano che, anche se non gioca a pallone, è in prima fila con noi».

È stato a Lourdes da credente?

«Certo. Vi ho percepito una vibrazione particolare, diversa rispetto a qualsiasi altro posto del mondo. Devo dire che, avendo visto prima tutto il merchandising delle bancarelle, ero un po’ prevenuto. Ma poi, una volta dentro la grotta, capisci che non sei in un posto come gli altri. C’erano anche Morandi e Celentano…».

Quand’è successo?

«Una quindicina d’anni fa».

Chi ebbe l’idea di andarci?

«Celentano. Eravamo andati a Lourdes con la Nazionale e Adriano si era aggregato, senza giocare. Una volta lì, propose di visitare la grotta».

Andaste solo voi tre?

«C’era anche Claudia Mori. Fu una sensazione forte, anche Celentano ne fu toccato».

Qualche giorno fa ha sorpreso un suo tweet in cui elogiava l’intervento di Javier Prades al Meeting di Rimini intitolato «Il coraggio di dire io». Che cosa l’ha colpita in particolare?

«Per prima cosa che sia riuscito a rendere fruibile per tutti un filosofo come Kierkegaard, passando per Pirandello e arrivando ai Queen. Rendere vivo e attuale un pensiero che di solito mette soggezione non è un fatto di tutti i giorni. Poi mi ha colpito il fatto che una riflessione così fosse accompagnata da applausi simili a quelli di un concerto. Non tutto è perduto se ci sono ragazzi che vivono una ricerca più alta e non ascoltano solo la trap».

Cosa voleva dire scrivendo a commento di quell’evento che «il mondo non è solo carta velina»?

«Che non c’è solo l’effimero, un mondo di gente che si agita per cose inutili, vacue. Sentire Prades che parla in un posto affollato di ragazzi è un segnale confortante».

Ha colpito anche lei come alcuni cronisti il fatto che davanti alla platea del Meeting i leader politici si siano confrontati senza litigare o alzare la voce?

«I politici hanno capito che al Meeting se litighi fai brutta figura perché quello è il luogo del confronto».

Ha detto che molti suoi colleghi temono di suscitare disapprovazione, lei non ha paura di schierarsi?

«Uno dei pochi vantaggi dell’invecchiare e di avere una carriera consolidata è che non mi può succedere niente di grave se dico qualcosa in cui credo. Molti artisti sono terrorizzati all’idea di perdere consensi. Perciò si limitano a pronunciarsi contro la guerra, contro la povertà e contro la violenza sui bambini. Tutto bene, ragazzi: ma forse bisognerebbe entrare un po’ più nel merito».

Dobbiamo essere soddisfatti per il fatto che oggi il rock italiano sia rappresentato dai Maneskin?

«Io ci vedo due notizie positive. La prima è che, in un periodo in cui domina la trap, si compone musica al computer e il successo si misura con le visualizzazioni, i Maneskin vanno in cantina a provare e suonare. La seconda è che, dopo anni in cui lo stereotipo italiano prevalente è stato pizza e mandolino, oggi si scopre che gli italiani sanno anche fare rock».

Quindi, soddisfatti e appagati dai Maneskin?

«Al di là del loro specifico valore, sono un passo avanti rispetto a ciò che ci ha rappresentato finora».

Ora che Charlie Watts è morto abbiamo scoperto che tra i Rolling Stones ce n’era uno che è rimasto 60 anni con sua moglie.

«Il vero trasgressivo era lui, visto l’andazzo. Nel suo libro, Keith Richards scrive che il suono degli Stones era dovuto al lieve ritardo della batteria di Watts e al lieve anticipo della sua chitarra. Non a caso, non c’è mai stata una band in grado di rifare le loro cover. Mentre ce ne sono mille che rifanno i pezzi dei Beatles, dei Queen, di Vasco. Quel suono è solo loro, e Charlie Watts ne era uno degli artefici».

Era anche la dimostrazione che si può fare rock ’n’ roll senza rovinarsi di sesso e droga?

«Infatti lui stava dietro, alla batteria, mentre Richards stava davanti. Ci sono l’immagine e la sostanza. Il rock è fatto di tante componenti diverse e sul palco si vivono traumi positivi e negativi. C’è chi reagisce drogandosi e chi riesce a crearsi una realtà tranquilla quando smette di suonare. Ricordiamoci che chi va sul palco fa la cosa più stressante del mondo».

Parlando di palco, lei aspetta di tornarci con un nuovo disco?

«Sì. In tutto questo periodo ho scritto parecchio. Il mio è lo studio più bello d’Europa, però non lo affitto. Prima ci trovavamo a fare musica e poi andavamo tutti a cena insieme. Con il Covid suoniamo e poi offro tamponi a tutti. Abbiamo un sacco di pezzi pronti, aspettiamo di vedere che cosa succede a ottobre, nella speranza di pubblicare il disco e ripartire…».

Invece, in televisione?

«La televisione è vittima di strani meccanismi. Il programma Una storia da cantare su Rai 1 è andato talmente bene che non mi hanno più chiamato».

Prego?

«Chi è arrivato alla direzione di Rai 1 (Stefano Coletta ndr) dopo il mio programma con Bianca Guaccero non poteva ammettere che la gestione precedente (Teresa De Santis ndr) aveva fatto qualcosa di buono, come portare le canzoni e le storie di Fabrizio De André o Sergio Endrigo nella prima serata del sabato. Perciò il contratto non è stato rinnovato».

È un giudizio molto duro.

«Audience e costi di produzione sono facilmente verificabili. Abbiamo fatto ottimi ascolti con una produzione che è costata dieci volte meno di tanti programmi appaltati all’esterno. Ma questa è stata la mia condanna. Così è se vi pare. Invece, su Rai 2 ho condotto Musicultura».

Poi ci sono la radio, i romanzi… da dove nasce questo eclettismo, insolito tra i cantautori?

« Avendo una formazione plurima, mi piace raccontare la vita in mille modi diversi. Non credo che molti dei miei colleghi, forse escluso Francesco De Gregori, abbiano letto Il Capitale di Marx. Io sì».

Se è per questo il cantautore di riferimento del Pd è Fedez, mentre De Gregori almeno sulla vicenda dei concerti in pubblico si è esposto…

«Ed è stato un segno di grande apertura mentale».

 

La Verità, 27 agosto 2021

«Racconto la neweconomy come una storia rock»

È da poco finito il pranzo della domenica che su La7 spunta Carlo Massarini. Non era il mitico Mister Fantasy, dal nome di un album dei Traffic che diede il titolo alla sua trasmissione? E non era un volto Rai? Un critico musicale, rock pop e jazz, che per primo aveva sconfinato nel mondo digitale? La guida di Cool tour e di Ghiaccio bollente, rubrica culturale e contenitore di concerti e storie su Rai 5? Lui: il programma che conduce adesso sulla tv di Urbano Cairo s’intitola Startup economy, c’entra sempre con l’avanguardia digitale, ma è tutt’altra faccenda. Non resta che chiamarlo per capirne di più… la voce va e viene. «Meglio se ci sentiamo sul telefono fisso», invita Massarini. «Lo uso poco, ma ho dovuto farlo installare perché, a sei chilometri dal Raccordo anulare di Roma, vivo in una di quelle zone grigie dove il segnale balla. La connessione è migliorata dopo peripezie e cambi di operatori… Ora vedo i filmati che per anni mi erano inibiti».

Non male come paradosso.

(Ride) «È una buona metafora della nostra Italia: una persona che ha sempre lavorato sull’avanzamento tecnologico ha una connessione balorda a casa».

Com’è nata l’idea di Startup economy?

«Diciamo che viene da lontano. Dal 1995 al 2002 ho condotto MediaMente su Rai educational, un programma sull’innovazione digitale ideato dal direttore Renato Parascandolo».

Pionierismo.

«Facevamo alfabetizzazione ad orari impossibili. Però funzionava. Avevamo coinvolto i migliori studiosi, gente come Derrik De Kerckhove. Internet era agli albori. Creammo anche il primo sito Rai. Il programma vinse dei premi, all’estero però».

E in Italia?

«Quando arrivò Giovanni Minoli a Rai educational decise di chiuderci, non era interessato».

Eravate troppo in anticipo?

«Forse. Ma credo che un servizio pubblico avrebbe potuto mantenere la postazione».

Ora Startup economy.

«Con il professor Francesco Sacco, conosciuto allora, abbiamo studiato questo format. Ci siamo prefissati di colmare un vuoto, di imprenditoria futura non parla nessuno. Trent’anni fa Apple, Amazon, Google, Facebook eccetera erano startup. Pensiamo a quello che sta facendo Elon Musk a proposito di ricerca sullo spazio. Tutti i grandi marchi sono sostenuti da piccole aziende ad alta specializzazione. Nei paesi più avanzati sono filiere che incidono sul Pil. In Italia ancora no, ma comincia a muoversi qualcosa in gruppi come Enel ed Eni che finanziano le startup utili ai loro processi. O nell’economia bancaria, che è un’incubatrice. Mettendo tutto insieme è nato questa specie di periscopio sul futuro».

Come si parla di economia digitale in tv?

«Non ci rivolgiamo solo agli smanettoni, agli iniziati, per i quali dobbiamo essere credibili, ma a tutti. Perciò dobbiamo essere comprensibili, accessibili. Quando ci imbattiamo in qualche termine specifico lo traduciamo con il nostro “wiki”, un decodificatore che fa la spiega in tempo reale e aiuta a familiarizzare con espressioni che a volte sento anch’io per la prima volta».

Buona divulgazione.

«Divulgazione dell’innovazione. Una buona formula sono le storie. Anche quando parlavo di rock usavo le storie. Tutti conosciamo quella di Steve Jobs, un’epopea partita da un garage e culminata con il famoso “Stay hungry, stay folish”. Tra le tante, racconteremo la storia di un ragazzino del Togo, adottato da una famiglia parigina, che ha frequentato un college in Svizzera e creato una startup che abbatte del 90% le emissioni di Co2 di alcuni prodotti. Io non sono un chimico, ma lo vedremo alla prova».

Perché un programma così va in onda su La7 se lei è un volto Rai?

«La7 è stata disponibile e contiamo di tornare in autunno con un altro ciclo. La Rai mi rimbalza, come se non fossi mai passato da quelle parti. Hanno chiuso anche Ghiaccio bollente su Rai 5».

Prima era stato chiuso anche Cool tour.

«Non ho capito bene perché, forse costava più della media di rete, forse per altri motivi che ignoro. Era un programma itinerante…».

Era in anticipo anche con i videoclip, forse troppo?

«Mister Fantasy è stato il primo programma al mondo che ha trasmesso i videoclip. Merito di Paolo Giaccio. Anche MediaMente è stato il primo sulle tecnologie digitali. Due programmi di svolta. Mi costruivo dentro quello che incontravo fuori. O meglio, trovavo fuori il corrispettivo delle mie tensioni. In mezzo, nel 1986, c’era stato anche Non necessariamente; quello sì troppo precoce, come il figlio geniale che non ha avuto successo, ma era il più intelligente».

Perché la Rai non ha sviluppato quelle intuizioni?

«Bisognerebbe chiederlo ai direttori che si sono succeduti. A nessuno è venuto in mente di riprenderle. Io non credo ai complottismi, fatto sta che non si è fatto niente e dopo quasi vent’anni, durante il lockdown per il Covid, scopriamo che non c’è la banda larga e che la scuola è impreparata per la teledidattica».

Pigrizia, scarsa lungimiranza?

«C’è chi si giustifica dicendo che “il pubblico non ce lo chiede”. A me non basta: se fai servizio pubblico puoi creare attenzione e affezione per certi contenuti. Nella nostra tv si parla quasi solo di politica, dei temi legati all’innovazione e al futuro non c’è traccia. Nel mondo non è così. C’è chi studia e avanza, senza che lo si sappia. Ci accorgeremo del ritardo quando ci sarà la ricaduta concreta».

Tornando alla Rai?

«Ho smesso di farmi domande. Uno se le fa un anno, due, tre, poi dice come i ragazzi americani: “Grazie, è ora di andare via da casa”».

Com’è la new economy vista dall’angolo d’Africa del suo salotto?

(Ride) «È vero… ma c’è anche il Budda thailandese. Noi andiamo davvero in onda da casa. Mi piace l’arte di luoghi lontani. Ho coltivato una passione per la cultura africana, musica, letteratura, arredamento, simbologia. Mi piace mescolare il primitivo e il tecnologico come hanno fatto Brian Eno, Peter Gabriel, i Talking heads. Ho anche oggetti degli eschimesi canadesi che erano di mio padre…».

Ufficiale della Marina.

«Il più grande regalo che potesse farmi fu portarci a vivere in Canada per tre anni, dal 1959 al 1962. Un Paese che amo tuttora, il lato soft degli Stati uniti. Vivere lì è stato un grande privilegio, la possibilità di allargare l’orizzonte e imparare bene l’inglese. Così, quando sono arrivato alla radio, prima ancora di parlare al microfono, ho iniziato a tradurre i testi per Giaccio e Mario Luzzatto Fegiz».

Domenica sulla t-shirt sotto la giacca spuntava David Bowie.

«Un po’ di musica trasmetterebbe l’elemento emotivo della new economy. Per ora mi limito alle citazioni».

Che musica ascolta oggi?

«Di tutto, senza distinzione. L’altro giorno ho comprato un disco di Selda Bağcan, una cantante turca. Blues, jazz, musica popolare, poco rock perché mi pare non abbia più molto senso. Preferisco le contaminazioni, le musiche che non conosco. È un fatto di curiosità, se restassi nella mia confort zone non mi sentirei cittadino del mondo».

Perché ha ripubblicato Dear Mr. Fantasy (Rizzoli Lizard) «foto-racconto di un’epoca musicale in cui tutto era possibile», dieci anni dopo la prima edizione?

«Era nato come un libro personale, realizzato con foto solo mie in una stagione in cui le star non erano blindate da manager, agenti, addetti stampa. Noi reporter stavamo a bordo palco, andavamo nel backstage. Oggi è un libro generazionale che include artisti fondamentali fotografati da altri come Frank Zappa, Giorgio Gaber, Lucio Battisti, Fabrizio De André, e altri che magari hanno avuto notorietà più breve, ma sono stati importanti per me».

Se dovesse indicare la principale differenza tra la musica di quel decennio e il presente quale sarebbe?

«Sono tante. La prima è questa: per acquistare Mr. Fantasy, il disco della mia vita, dovetti aspettare tre mesi, dal novembre 1967 al marzo successivo. Era un disco d’importazione. Oggi un artista mette le tracce sul sito e istantaneamente sono su Spotify. Le case discografiche non ci sono più. L’idea stessa del disco è cambiata, si anticipano i brani in Rete, poi nel Cd ce ne sono altri… È tutto più liquido. Un’altra differenza è che allora c’era più creatività. Oggi, a causa del mercato intasato, si tende a ripetere la formula che si presume di successo. Nel rock di quegli anni rifluivano la politica e le domande esistenziali, oggi si ascolta la musica sul cellulare e con tre emoticon te la cavi. Detta in modo un po’ brutale: noi avevamo meno e andavamo in profondità, oggi si ha di più e si resta in superficie».

Com’è raccontata oggi la musica in tv?

«Non è raccontata. Ci sono X Factor, Sanremo, anche le monografie di Unici. Va tutto bene, ma manca un programma che racconti il passato e il presente, e sia una guida per l’ascolto».

C’è SkyArte.

«La guardo molto. Con una cifra più elegante e maggior credibilità è quello che era Rai 5. Ma anche SkyArte non ha un vero programma musicale».

Che cosa pensa dei talent show?

«Sono startup di interpreti. Marco Mengoni è figo, Emma Marrone è in gamba, anche se lontana dai miei gusti. I ragazzi sono soprattutto esecutori, prevalgono le cover. Se vincono un talent conquistano milioni di like e visualizzazioni, ma poi spesso si perdono perché non possono avere la scorza che si fa in anni di gavetta, sui palchi, nelle piazze minori. La tv non sempre dà il tempo di maturare».

La massima aspirazione di un cantante o musicista italiano è vincere un talent o il Festival di Sanremo?

«Sono le principali catene di successo. Se ti va bene sfondi. Ma sono due sprint. Credo che, se parliamo di arte, il successo vero sia una maratona, un traguardo che si raggiunge con il tempo. Un altro discorso riguarda i cantanti già affermati o con un buon retroterra. Può piacere o far inorridire, ma per esempio Achille Lauro si è presentato all’Ariston come tableau vivant. Non dobbiamo scandalizzarci. Le generazioni passano: i nostri eroi non sono gli stessi dei nostri figli, come quelli dei nostri padri non erano i nostri».

 

La Verità, 13 giugno 2020

 

«Anche oggi ci sono tanti figli delle stelle»

Le sue stelle vengono da lontano. Fisse, immutabili, evocative come la sua voce, alta e sognante anche ora che Alan Sorrenti ha 68 anni. Pieno di energie, progetti e visioni, spazia dalla musica al cinema alla scrittura, sempre con un certo spirito ribelle e anticonformista. Lo stesso che ha permesso alle sue canzoni di solcare diverse generazioni e arrivare fino a oggi.

Perché Figli delle stelle è una canzone ancora attuale?

«Lo chiederei al pubblico. In Italia, sbagliando, si è inserita questa canzone nel filone della dance music».

Invece?

«È qualcosa di più complesso. Innanzitutto era uno stile inedito da noi, ispirato al Los Angeles sound nato a metà degli anni Settanta, un misto di funky, soul e pop music. Anche se è uno stile durato poco, ha condizionato la scena musicale futura, con figure come Maurice White, arrangiatore e produttore degli Earth, Wind & Fire, e Jay Graydon che interpretò il riff di chitarra di quella canzone, che io avevo scritto con la voce».

Che cosa c’entrava lei con loro?

«Andavo in quella direzione. Soprattutto seguivo Tim Buckley, grande artista folk rock e grandissima voce. Morì per un incidente ad un party che inaugurava il suo tour poco prima che arrivassi in California. Per fortuna c’era Graydon ad aspettarmi».

Il testo come nacque?

«Erano anni particolari. Viaggiavo tra Napoli, Roma, Londra e Los Angeles. Qualche giorno in un posto, una settimana altrove. Ero più in aereo che a terra, facevo incontri fugaci. Avevo una visione planetaria della musica, della vita. Da quella situazione nacque quello che potremmo chiamare romanticismo stellare».

Ma il testo?

«È un misto di tante cose. Non è una canzone nata di getto. Mi ha ispirato la costa del Pacifico che era davvero un altro mondo. Stavo allo Chateau Marmont nei giorni in cui c’era la prima di Star Wars. Ero sdraiato davanti allo schermo. Nella campagna di casa mia invece dormivo sotto il cielo. Facevo tanti incontri. Era una “corsa senza fine” per “noi figli delle stelle, figli della notte che ci gira intorno… ci incontriamo per poi perderci nel tempo”. Avevamo la sensazione che si stava entrando in un’altra epoca».

Le stelle, la notte, il vento, sentimenti comuni alla gioventù di tutte le generazioni.

«Il fiume era quello. Quella canzone ha toccato corde profonde e comuni a tante epoche. Essere giovani in quegli anni è stato qualcosa di particolare».

Li rimpiange?

«Lo spirito ribelle lo si rimpiange sempre perché ci rende vivi. Invece, spesso ci adagiamo sull’ipocrisia. Adesso tocca a mio figlio quindicenne andare alle manifestazioni. Noi adulti che abbiamo già vissuto queste esperienze con relativi errori, dobbiamo sostenere i giovani senza far prediche. Eleanor Roosevelt diceva: “Cerca di imparare dagli errori degli altri: non vivrai così a lungo per farli tutti da te”».

Parlando di errori, senza gli stupefacenti la sua produzione artistica sarebbe stata altrettanto rigogliosa?

«Non lo so. È una risposta che non posso dare perché è stato quello che è stato. In un mondo di grandi pressioni, l’alterazione finalizzata all’arte e alla creatività ci può stare. Nessun grande artista è stato esente da certe pratiche. Il problema è il controllo».

Problema non da poco, visto come sono finiti molti artisti. A lei è andata molto bene…

«È vero. Bisogna affrontare l’argomento con grande attenzione. Tanto più ora che c’è un ricorso sempre più frequente a sostanze chimiche che fondono il cervello. Però, quando si parla ai ragazzi non basta proibire, dire “no, non si può fare”. Bisogna andarci dentro e guardare che cosa succede, che conseguenze ci sono. Parlo soprattutto delle pasticche e delle nuove sostanze».

Chi sono i figli delle stelle di oggi?

«Qualche anno fa è uscita la bella commedia di Lucio Pellegrini intitolata Figli delle stelle, con Pierfrancesco Favino, Fabio Volo, Giuseppe Battiston. Ci ho messo un po’ a riconoscere quelli di cui parlavo nella canzone. I figli delle stelle sono i sognatori che cercano di cambiare il mondo e anche la loro vita».

Un’idea per farlo?

«Io sono buddista da trent’anni, pratico il buddismo di Nichiren Daishonin e sono membro della Soka Gakkai International. Non mi sono mai schierato con nessun partito. Noi esseri umani siamo “sostanza luminosa”. Dobbiamo prendere atto del tempo in cui viviamo. Il filosofo inglese Timothy Morton dice che la fine del mondo è già avvenuta e che non si può tornare indietro, alla ricerca di uno stato antico. Se prendiamo coscienza di questo, possiamo affrontare la vita in un altro modo. Ricominciare a vivere, dopo la fine del mondo. È un paradosso, ma possiamo scrivere la storia insieme, padri e figli».

Lei non si è schierato con i partiti, ma in un’altra canzone dell’epoca dice: «Vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica», come per dire che le lotte operaie non c’erano più?

«Non era un discorso di lotta di classe, ma un invito a riappropriarsi della vita. In quella stessa canzone dico “vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India”. Era un’epoca di ricerca, un’epoca ribelle e violenta. La gente si ammazzava per le strade. La mia ribellione era nella mia voce. Le motivazioni dei ribelli non erano sbagliate, lo era il modo di perseguirle. Buddha parla di lotte pacifiche, non violente».

Restando da quelle parti, qualche anno fa si è esposto per la solidarietà alle popolazioni terremotate del Nepal: come mai non ha fatto altrettanto per quelle dell’Abruzzo o dell’Umbria?

«È stata una notizia montata. A Trastevere un esponente buddista disse che si stavano organizzando dei concerti di solidarietà. Lo appoggiai, niente più. Non avrei niente da perdere a espormi per le popolazioni italiane. Ci mancherebbe. Non sono schierato. Per me la vita e la musica sono la stessa cosa. Quando vado sul palco trasmetto quello che sono».

I figli delle stelle c’entrano con i 5 stelle?

«Non confonderei le cose. Appoggio questo governo, almeno ha preso una posizione precisa. Noi siamo l’Italia, vogliamo guardare ai fatti con i nostri occhi, la nostra sensibilità. Pochi giorni fa sono stato a Bruxelles e poi in Germania per un concerto e ho percepito tanta freddezza. Noi italiani siamo speciali, ma dobbiamo rimboccarci le maniche. Per tanti anni pensavo che lo fossero gli inglesi perché avevo la mamma gallese, ora comincio a pensare che i veri speciali siamo noi.».

Come nacque Tu sei l’unica donna per me con la quale vinse il Festivalbar? Era un inno alla monogamia?

«Beh, io sono monogamo: musica e vita coincidono. Ribellione è anche spontaneità. Tu sei l’unica donna per me è nata in un attimo. Mi ero svegliato vicino alla mia ex moglie, che ora è nei cieli. C’era la chitarra e mi sono messo a scrivere. È stato un momento di spontaneità romantica».

Si ispirava a Tim Buckley, collaborò con Jay Graydon, Jean Luc Ponty e altri artisti importanti. Oggi c’è la stessa complicità tra musicisti?

«In quegli anni c’era più spontaneità. La musica era centrale. Oggi ci sono rapporti impostati su qualcosa che non è la musica, ma il marketing, il budget, l’economia. Mio figlio mi fa sentire i rapper italiani, trovo che abbiano grande energia e sappiano scrivere. Tra loro c’è affinità. Seguono ritmi nuovi, hanno una forte creatività ritmica, zero melodia. I testi rivelano questo loro mondo borderline… Se ci fosse un po’ più di profondità sarebbe meglio».

Che cosa non le piace del mercato musicale attuale?

«È invaso dalle cover. Non si ha la capacità di rischiare. Si va sempre sulle solite cose, le solite melodie. L’unica cover che ho fatto in tanti anni è stata Dicitencello vuje. Ma non è stata una vera e propria cover, l’ho destrutturata per farla rinascere, ogni tanto nella vita bisogna smontare tutto e ricominciare».

Chi sono i musicisti che apprezza?

«Quelli creativi certamente, dai Daft Punk a Steven Wilson. Attualmente ascolto volentieri Lana Del Rey e Lenny Kravitz. E poi alcune nuove produzioni come, tra gli Italiani, Frah Quintale, Luche e Liberato e, a livello internazionale, come quella dei Juice Wrld, Kendrick Lamar e Asap Rocky».

C’è qualcuno nella scena italiana che stima più di altri?

«Mi viene in mente la ricerca di Franco Battiato e il prog dei Saint Just di Jenny Sorrenti, con cui ho fatto un paio di concerti questa estate a Palazzo Farnese a Piacenza e al Castello di Trieste. Poi ci sono tanti brani classici e nuovi, la playlist è infinita e l’ascolto random».

Che rapporto ha con le nuove tecnologie?

«Lavoro con il computer, ma per i social mi affido a una media manager. Nella vita quotidiana sono un outsider: vivo in pieno il mondo attuale, ma ne prendo le distanze, entro ed esco quando voglio».

L’anno scorso in Terapia di coppia per amanti con Ambra Angiolini e Pietro Sermonti ha cantato Figli delle stelle. Il cinema l’attira?

«Nel 1979 avevo già recitato in Figlio delle stelle, diretto da Carlo Vanzina Quello dell’anno scorso è stato un semplice cameo, in occasione dei 40 anni della canzone. Certo, fare un film mio mi piacerebbe».

È un’anticipazione, un progetto reale?

«Il primo vero progetto è un album di inediti. Sto scrivendo i testi, la musica è già pronta. Vorrei fare un album che sia mainstream, ma anche originale. Vorrei accompagnarlo con un libro autobiografico che ripropone le mie esperienze, filtrate dalla memoria e dall’immaginazione. Ciò che viviamo, rivisitato qualche anno dopo, svela tutta la sua potenzialità. Una volta prodotti album e libro, farò un grande tour nei teatri».

 

La Verità, 29 settembre 2018

«Cristo ci ha stravolto la vita e il rock»

Entri nella casa di Francesco Lorenzi, sulle colline sopra Marostica, e sei in un altro mondo. Già l’esterno, interamente bordeaux, promette bene. Dentro sei circondato da legno di rovere e ardesia, davanti a un’enorme parete di vetro che domina la valle a sud. Se l’è progettata e costruita con l’aiuto di un geometra e alcuni artigiani. Al piano superiore living e zona notte, al piano inferiore studio e sala di registrazione. «Ci ho messo un po’, ma ce l’ho fatta. Trovare il terreno e avere i permessi sono state le cose più difficili. Volevo un posto silenzioso, nella natura, in faccia al sole». 35 anni, viso aperto e parlata schietta, Francesco Lorenzi è il leader (autore, cantante e chitarrista) dei The Sun, la band composta con altri tre ragazzi vicentini che a dicembre ha festeggiato vent’anni con un doppio album, 20 appunto. In due decenni il cambiamento è stato profondo: sono diventati cristiani. Il sole però c’entrava anche quando si chiamavano Sun eats hours, traduzione inglese del detto contadino el sol magna ’e ore: il sole mangia le ore, presto fa buio. Solo che per un gruppo punk era una citazione dark.

Dal punk al rock, dall’agnosticismo al cristianesimo: cos’è successo?

«È successo che a un certo punto ho cominciato a guardarmi attorno. Avevo sempre sognato in grande e mi ritrovavo senza pace, armonia, allegria. Privo di un significato di quello che facevo. La musica doveva essere garanzia di una vita speciale, invece… Che cosa mi rende davvero libero, aldilà di una piacevolezza fuggevole?».

Francesco Lorenzi, leader dei The Sun, durante un concerto

Francesco Lorenzi, leader dei The Sun, durante un concerto

Di solito a questo punto le band si sciolgono.

«Io e Ricky, il batterista, fondatori del gruppo, avevamo deciso di non suonare più insieme. Eravamo prigionieri dei cliché, lui anche dell’alcol. A Matteo, il bassista, invece andava bene così».

Che cosa successe?

«Non riuscivo a scrivere il nuovo album che doveva portarci negli Stati Uniti. Ero incupito. All’epoca convivevo con una ragazza spagnola e la sera del 10 dicembre 2007, quando andai a cena dai miei genitori, persone solide e realizzate, mia madre mi mostrò il volantino che proponeva un incontro di riflessione in una parrocchia: “Magari dicono qualcosa che ti può interessare”, suggerì. La curiosità è che i miei non erano assidui praticanti».

E lei ci andò…

«Pensavo di trovare preti e anziani, invece l’incontro era tenuto da ragazzi della mia età che raccontavano la vita di Gesù attraverso il vangelo di Giovanni. Lo facevano con un tale entusiasmo che ne fui rapito. Mi dicevo: questi ragazzi di lunedì sera si trovano a parlare di Gesù Cristo… Che cos’hanno trovato che io non ho visto?».

Poi?

«La notte ho cominciato a leggere il vangelo e la sera dopo sono tornato perché quel primo incontro era parte di un corso. Vedevo persone luminose…».

La faccenda si faceva seria.

«In una cappellina di quella parrocchia da 22 anni si fa l’adorazione eucaristica 24 ore su 24: persone sostano in contemplazione davanti al tabernacolo. Don Lino Cecchetto – il mio Cecchetto – mi propose di partecipare. Scegliemmo l’ora dall’una alle due del mercoledì notte. Pian piano quel momento ha influenzato il resto della vita».

La sua conversione ha trascinato quella degli altri, sembra una storia un po’ automatica.

«Quasi tutti mi consigliavano di andare avanti come solista. Io pensavo che quello che avevo trovato serviva a poco se non lo condividevo con gli amici di sempre. Ognuno di loro aveva problematiche particolari. Scelsi di affrontare l’argomento prima con Matteo, poi con Gianluca, l’altro chitarrista, infine con Riccardo. All’inizio i miei argomenti risultavano debolucci, poi cominciò a nascere anche in loro qualche domanda. Hanno avuto il merito di fidarsi senza fermarsi alle apparenze. Ora Ricky fa l’adorazione con me».

Il libro in cui Francesco racconta la sua storia con prefazione del cardinal Gianfranco Ravasi

Il libro di Francesco, prefazione del cardinal Gianfranco Ravasi

Come risuona una conversione in note?

«La musica non poteva più essere puro intrattenimento. Sentivamo l’urgenza di essere costruttivi e vitali, nel senso nobile del termine. Volevamo aiutare le persone a incontrare la bellezza che c’è in ognuno di noi. Certo, tra capirlo e farlo c’è un abisso».

Citando il modo di guardare agli idoli del passato: chiedi chi erano i Beatles; oppure: volevamo essere gli U2. Come sono cambiati i vostri modelli di riferimento?

«I punti di riferimento erano le band della scena punk come gli Offsprings, i Green day, i Bad religion. Avendo suonato insieme ad alcune di loro, cominciavamo a coglierne la debolezza. Quella della rockstar era una parte da recitare: trovata la formula del successo, la si ripete. Ma a vent’anni non sei lo stesso di quando ne hai 50. Fu una delusione. Pensavo che la musica doveva rispecchiare quello che avevamo incontrato. Avevamo una strada nuova davanti, senza idoli da imitare. Era tutto da inventare. Ed era una sensazione di grande libertà».

Come hanno reagito i fan storici?

«Erano incazzati, si sentivano traditi».

E le case discografiche, la critica?

«Con la Rude records, un’ottima etichetta, ci fu il divorzio. Li capisco: aspettavano il quinto album in inglese e io mi sono presentato in ritardo con i pezzi scritti in italiano. Niente disco e tournée saltata: l’incontro con Cristo ci aveva rivoluzionato la vita e la musica, ma si era rivelato un cataclisma professionale. Universal, Emi, Warner si ritirarono: “Queste canzoni sono troppo positive”. Dicendola secca: quello che fa vendere è tirar merda. Non è stato facile non scendere a compromessi, anche perché ci sono argomenti molto convincenti».

Avete tentennato?

«Abbiamo creduto che avremmo trovato spazio. Sarò sempre grato a Roberto Rossi, il direttore artistico della Sony che, non conoscendo la nostra musica precedente, ha avuto più facilità ad accorgersi che la nostra proposta riempiva un vuoto. Sony pubblicò Lo spirito del sole senza toccare una virgola».

Saranno cambiati anche i circuiti dei tour?

«Prima suonavamo nei festival rock, oggi nelle piazze, nei campi profughi, nelle basiliche, nei cinema, nei teatri, negli ospedali, nelle zone di guerra: la musica può circolare ovunque. Abbiamo suonato davanti a papa Benedetto XVI, a papa Francesco, in Terra santa».

Siete una band di christian rock?

«È avvilente che per esigenze giornalistiche ci abbiano affibbiato questo nickname. La nostra musica non ha nulla da invidiare agli artisti che ascoltiamo massicciamente nei network. Stiamo provando a far capire che siamo dei cristiani che fanno rock. Spero sia concesso».

Ne dubita?

«Dobbiamo dimostrare due volte quello che valiamo. In un certo senso è una spinta a dare il meglio di noi. Ma se qualche giornalista scopre la nostra musica perché il figlio viene al concerto, e vuole parlarne in tv o scriverne, quando emerge la nostra storia ed entra in campo il caporedattore, tutto si complica».

I vostri testi si sono riempiti di «luce», «sole», «amore», «scelta», la parola più ricorrente è «destino». Sentite troppo la preoccupazione del messaggio?

«Accetto la provocazione. Sento la responsabilità di trasmettere quello che ho incontrato perché vedo il vuoto esistenziale che deriva dalle produzioni di moda. È più difficile scrivere canzoni con un messaggio costruttivo che distruttivo».

Forse si può entrare nell’attualità con un giudizio, come avete fatto in Le case di Mosul.

«Ci sono canzoni con tonalità più scure come Le case di Mosul, L’alchimista o Dentro di me. Per noi è importante testimoniare che anche dentro esperienze di dolore può esserci una luce».

Le radio vi trasmettono?

«Difficilmente. La musica che passa nelle radio è frutto di accordi editoriali che non sempre considerano la qualità. Se cedi una parte dei diritti d’autore allora il network ti lancia, altrimenti no. Anche le tv premiano talenti prevalentemente estetici. Cantautori come Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Giorgio Gaber, Fabrizio de André oggi non esisterebbero».

Che rapporto avete con i social?

«Su Facebook c’è una community di 60.000 fan che s’informa sulla nostra attività. Per il resto, il nostro pubblico non sta moltissimo online».

Avete provato a partecipare a Sanremo?

«La Sony ci ha proposto nel 2010 con Antonella Clerici e nel 2011 con Gianni Morandi, ma alla selezione finale ci siamo fermati. Forse è stato meglio così perché nel frattempo siamo cresciuti. Magari l’anno prossimo, se Claudio Baglioni resterà, ci riproveremo. Si vede dalle decisioni che ha preso sul minutaggio e le eliminazioni che è un musicista».

Ha seguito X Factor?

«Un po’, anche se non è il mio mondo. I Maneskin hanno capito l’importanza della dimensione live, prima di uscire avevano già la tournée organizzata. Che approvi quello stile, no. Ma professionalmente devo riconoscere la qualità del prodotto».

Il cristianesimo coincide con i valori non negoziabili?

«In parte: ci sono argomenti non ritrattabili. La catastrofe del nostro tempo è il relativismo».

Un concetto caro a papa Ratzinger.

«Che amo profondamente. Credo sia giusto ripristinare un pensiero che riconosce l’esistenza del bene e del male, e dove ogni ruolo non sia intercambiabile. L’universo ci racconta un ordine, mentre l’uomo relativista gioca con questo ordine».

È questo il nucleo del cristianesimo?

«Questo ci aiuta a evitare che la confusione ci domini».

Francesco Lorenzi saluta papa Francesco ad un'udienza in piazza San Pietro

Francesco Lorenzi saluta papa Francesco ad un’udienza in piazza San Pietro

Più papa Benedetto XVI che papa Francesco?

«Anche papa Francesco comunica verità necessarie. La Laudato sii è una grande enciclica. Sbaglia chi la riduce a un testo ecologico. Bergoglio ha dato testimonianza prendendo posizione contro i poteri forti come i nostri politici non riescono più a fare».

Come guardate alla politica?

«Con grande interesse e grande dolore. Manca una proposta unitaria che rappresenti la sensibilità cattolica. È uno degli aspetti su cui diverse persone mi sollecitano a lavorare».

Il 4 marzo per chi voterà?

«Non ho ancora deciso. M’imbarazza vedere come i politici passino più tempo a criticare gli avversari che a dimostrare la qualità delle loro idee».

 

La Verità, 14 gennaio 2018

«Nei talent (e nella vita) vincono gli incassatori»

Mara Maionchi si aggira per il teatro Linear Ciak di Milano con un’Italia d’oro appesa al collo. «Le piace? Siamo italiani, no? Io sì», ridacchia. «Non dobbiamo star sempre lì a incensare inglesi e tedeschi». L’undicesima edizione macina record di X Factor è finalmente entrata nel vivo con la prima serata live e, oltre alla curiosità di vedere chi vincerà, c’è quella di seguire il ritorno in giuria della più politicamente scorretta tra i giudici. Pronti via, dopo le esibizioni dei primi due concorrenti subito scintille tra lei e Manuel Agnelli. Il casus belli è stata la scelta di un brano di Jacques Brel, considerato troppo classico per un concorrente di Mara. «È più facile far casino sui tavoli piuttosto che cantare un amore finito. Io di casino sui tavoli ne ho già visto a strafottere», ha replicato lei, criticando a sua volta la performance di un gruppo di Agnelli.

76 anni, un matrimonio che resiste da 40, parecchie battaglie vinte nel curriculum, compreso un tumore al seno, Maionchi si diverte ancora come ne avesse 25. E anche il pubblico mostra di apprezzare i suoi giudizi senza peli sulla lingua.

Signora, con Agnelli si profila un bel match. Vediamo se è diplomatica o è Mara Maionchi: tra i suoi colleghi giudici con chi ha più feeling?

«Non sono diplomatica, sono sincera: mi sono simpatici tutti. Si possono avere discussioni e opinioni diverse continuando a restarsi simpatici e a stimarsi. Sono tre persone gentili, Fedez è dolce, sa che ho un problema al ginocchio e mi dà una mano, Levante è un amore, Agnelli correttissimo. Le discussioni ci possono stare. Anzi: fortuna che ci sono, altrimenti sarebbe un mortorio. Le idee degli altri le rispetto perché può essere benissimo che io non abbia capito. Non ho certezze e quelle che ho possono cambiare. Poi tutti sanno come sono fatta e i difetti che ho».

Le chiedevo un fatto di pelle, di feeling con loro.

«Ma no guardi, alla mia età ho poca pelle».

Fedez, Levante, Mara Maionchi, Fedez con Alessandro Cattelan

Fedez, Levante, Mara Maionchi e Fedez con Alessandro Cattelan

Più che ribelle si definisce controcorrente.

«Sì, mi piacerebbe esserlo. Gli anticipatori sono sempre un po’ controcorrente. Ma non voglio sembrare presuntuosa».

E qual è la corrente contro la quale va?

«Il già sentito, il già visto. Che non vuol dire la tradizione. Della quale, anzi, dobbiamo tener conto perché è la nostra storia».

E quindi, la corrente da contrastare?

«È l’inutilità. Le canzoni che non danno problemi, che non raccontano storie, che non riescono a provocare discussioni, contestazioni».

Cosa l’ha fatta tornare giudice di un talent?

«La mia storia. La voglia di provare a vedere se sono fuori gioco o no. Sono qui perché sono da quarant’anni nella musica. Quando nacque X Factor in Italia Giorgio Gori, allora capo di Magnolia, scelse me e Morgan. Direi che è andata bene».

È giudice di un talent, ma predica lavoro e lavoro.

«Senza lavoro il talento resta inespresso, non cresce, non si sviluppa. Ci vuole il lavoro affinché il talento si esprima al 100%. Poi ci vuole anche la fortuna, l’occasione giusta… Ma se quando ti si presenta non ti fai trovare pronto perché hai lavorato puoi perdere il treno».

Facciamo un esempio?

«I Beatles il talento ce l’avevano. Ma credo che a loro siano molto serviti gli anni passati in Germania a suonare nei locali, prima di sfondare».

Lo sport è pieno di talenti non completamente realizzati per mancanza di applicazione, Balotelli nel calcio, Fognini nel tennis… Nella musica?

«Il primo che mi viene in mente è Piero Ciampi, un grande autore, un poeta. Che aveva problemi con l’alcol e non lasciato il ricordo che avrebbe potuto lasciare».

Quindi, fra talento e lavoro?

«Ci vogliono entrambi. Credo che, alla fine, i vincenti siano gli incassatori, quelli che rinascono dalle sconfitte. Quelli che resistono alle avversità si rinforzano e hanno più possibilità di vincere».

Qual è la sconfitta più cocente che ha patito?

«Quando fai il discografico e devi far uscire un lavoro nuovo devi superare mille difficoltà. Il primo disco di Tiziano Ferro, nel 2001, io e mio marito l’avevamo offerto a tante etichette, multinazionali importanti. Ci avevano detto tutte di no. Noi eravamo convinti, ma non riuscivamo a imporlo. Alla fine la Emi lo prese, ma eravamo disperati, era l’ultimo tentativo. Le cito questo caso, ma potrei citargliene molti altri».

Anche a X Factor vincono gli incassatori? Alcuni di loro non hanno proprio sfondato.

«Nella vita è più facile fare errori che cose giuste. Si sbaglia, anche con la fissa di cantare in inglese. Però, va bene… sono esseri umani anche i talenti. Non sempre si ha la pazienza giusta».

L’abbiamo vista commuoversi, sotto la scorza…

«Io faccio tutto, piango, m’incazzo, dico le parolacce. Sono una borghese maleducata… Mia madre mi rimproverava, lei tratteneva tutte le emozioni. Io da vecchia non ho ancora imparato».

Qual è la sua musica preferita?

«Il rock, tutto il rock. E il pop, che significa popolare».

Maionchi: «Con Lucio Battisti ho lavorato cinque anni»

Maionchi: «Con Lucio Battisti ho lavorato cinque anni»

Se dovesse dire qualche nome?

«Lucio Battisti, con il quale ho lavorato cinque anni, un autore che ha dato la svolta alla canzone italiana. Poi Mina, certo: indiscutibile. Anche Tiziano Ferro mi piace».

Questi sono tutti pop. Qualche nome rock, anche fuori dall’Italia?

«Ma fuori dall’Italia è un mare, un oceano. Mi fa fare uno sforzo di memoria perché la lista è lunga. Dai Deep Purple ai Pink Floid, dai Led Zeppelin agli Acdc, potrei andare avanti. In Italia Vasco è il primo, rock e pop. I primi due dischi dei Litfiba erano ottimo rock. Andando indietro gli Area, da cui è nato il progressive, seguito anche da Agnelli. Il rock è anche un modo di vivere…».

Torniamo alle sue scoperte. Tiziano Ferro lo cita sempre, come la Nannini…

«Perché sono due con i quali ho lavorato».

Ferro e la Nannini: un feeling particolare con gli omossessuali?

«Ah ah ah… non ci avevo pensato. Pura combinazione. Ho lavorato alla costruzione di un percorso artistico».

Chi sono i geni della musica italiana?

«Giancarlo Bigazzi, Mogol, Ennio Morricone che faceva l’arrangiatore alla Rca, Sergio Endrigo».

I cantautori non sembrano la sua tazza di tè.

«Non è vero. Francesco de Gregori, Lucio Dalla, Fabrizio de André, altro che!».

Tiziano Ferro. Dice Maionchi: «Il suo disco non lo voleva nessuno, poi...»

Tiziano Ferro. Dice Maionchi: «Il suo disco non lo voleva nessuno, poi…»

Lei è severa o solo burbera?

«Vorrei essere severa, ma non sempre ci riesco. Invece, credo che una certa severità all’inglese, stavolta sì, possa servire. Con i ragazzi spingo su questo tasto per capire di che cosa hanno davvero bisogno. Anche se ho 44 anni di discografia sulle spalle, a volte sono spaventata perché quando si lavora per gli altri un tuo errore lo possono pagare loro».

Parliamo della sua vita. Ha sposato un uomo di dieci anni più giovane.

«Il Salerno. Un autore di musica, un paroliere che ha scritto tanti successi».

Una sua nonna invece si separò dal marito all’inizio del Novecento.

«Siamo donne un po’ ribelli. Diciamo che la mia era una famiglia matriarcale».

Ha definito il matrimonio una rottura di coglioni.

«Volevo dire che a volte devi adattarti, essere tollerante».

Il suo regge, nonostante…

«Vale la pena salvarlo sempre. A meno che non ci siano cose gravi. Il matrimonio è fondamentale».

Anche se si è traditi?

«Sa quanti amici e colleghi mi hanno tradito? Non si può lasciare un marito per la sciocchezza di una sera. Ci vuole un po’ di pazienza. Ecco, insieme agli incassatori i vincitori sono anche le persone pazienti. Le persone miti, anche se io non lo sono molto».

Non si deve confondere mitezza con mancanza di schiettezza.

«Esatto. Per dire, san Francesco non si tirò indietro quando c’era da dire al Papa che qualcosa non andava».

Questo Papa le piace?

«Mi piace perché sta facendo un tentativo di cambiare certe cose in Vaticano che era importante cambiare».

Nell’ambiente dello spettacolo se ne vedono di tutti i colori quanto a matrimonio e famiglia.

«E mi dispiace. La famiglia è troppo importante. E non sono bacchettona. Posso presentarle mia figlia?».

È un piacere… Anche sui figli: oggi li si vogliono a tutti i costi o anche non li si vogliono a tutti i costi.

«È vero. Quello che si vede è troppo».

Signora Maionchi, possiamo parlare del tumore?

«È stata una brutta botta. Ho sempre fatto regolarmente gli esami. Tre anni fa il mio medico mi ha detto che c’era qualcosa che non andava. Si pensa sempre di essere immuni, invece stavolta era toccato a me. Fortunatamente i linfonodi erano sani. Ho fatto la radioterapia, non mi sono scoraggiata. Magari a una donna più giovane va peggio perché il male cammina più velocemente. Ho fatto i controlli di recente e va tutto bene».

Ho letto che dice il rosario tutti i giorni: è vero o è una boutade?

«È vero, mi piace. È come un mantra. Per venti minuti mi allontano dal mondo dei viventi e apro un altro canale di comunicazione».

È superstiziosa?

«No, fatalista sì. Quando sarà il mio momento, arriverà».

È credente?

«Sì. Anche se non frequento il fan club perché non sempre mi ha soddisfatto».

Quand’era più giovane o di recente?

«Quand’ero più giovane. Però, adesso quello che conta di più è che sono credente».

Le piace molto stare con i giovani. Si vede che è a suo agio, senza maternalismi…

«Mi piace perché sono freschi, immediati, non costruiti. Anche nelle stupidaggini. Non ho retropensieri. Mi piace anche quando mi mandano a dar via il culo. Spesso hanno ragione».

Chi è la persona da cui ha avuto di più?

«Mio marito, anche se abbiamo passato la vita a litigare. Ma nel litigio abbiamo scoperto delle cose di noi che non conoscevamo».

La Verità, 29 ottobre 2017

Ruggeri: «I social annullano la competenza»

Asciutto e con la pelata liscia da duro del cinema americano, nell’anno dei suoi sessanta, Enrico Ruggeri accelera ancora. Resuscitati i Decibel, la band della felice stagione punk di fine anni settanta, parte per un nuovo tour con date a Bologna, Sassari, Nuova Goriça, Vercelli. Tutto senza dimenticare la radio, i romanzi gialli, i concerti da solista: Ruggeri è uno degli artisti più poliedrici e meno allineati del rock italiano. Lo incontro nel suo studio di registrazione, periferia sud est di Milano.

Da dove nasce la reunion dei Decibel?

«Da un atto irregolare. Quest’anno compio 60 anni. E sempre quest’anno è il quarantennale dal primo disco dei Decibel e dalla nascita del punk. Mentre sono trent’anni da Si può dare di più e Quello che le donne non dicono. In occasione di questi anniversari, la prima cosa da non fare è quello che fanno tutti, ovvero il classico album di duetti. Un modo stantio di celebrarsi. Ho pensato di risentire i miei amici, per capire se avevano qualche pezzo nel cassetto. Mi hanno travolto. Ispirando l’idea di realizzare un disco per noi, magari in cento copie in vinile. Poi, un giorno ho fatto ascoltare i pezzi ad Andrea Rosi, presidente di Sony music, mio amico da quando eravamo ragazzi. Gli ho detto: “Prova a sentire. È roba di nicchia, non ti riguarda”. Dopo tre brani ha spento: “Nicchia un cazzo”. Così abbiamo finito d’incidere e il disco è uscito in pompa magna con tanto di cofanetto, brani storici dei Decibel, fotografie. Ho solo chiesto che facessero un marketing da musica classica».

In che senso?

«Nel senso che quando ero bambino il rock era una forma di protesta nei confronti degli adulti. Oggi è uno stile dell’anima. Prendi uno di 65 anni, ne aveva 18 quando morì Jimi Hendrix. Ai concerti dei Decibel vengono i sessantenni e i quindicenni, accomunati dal punk».

Sul suo sito ha lanciato l’hashtag #punksnotdead. Che cosa può dire il movimento punk al momento attuale?

«Il manifesto del movimento punk è scandalizzare i borghesi. Epater les bourgeois, dicevano i poeti francesi. In musica significa proporre qualcosa di diverso dall’omologazione imperante. I dischi sono tutti uguali. Fatti dagli stessi tre arrangiatori con gli stessi suoni e le stesse miserie letterarie. I Decibel in concerto salgono sul palco e suonano. Che c’è di strano? Oggi i concerti iniziano con sequenze di suoni registrati in studio e i musicisti sul palco si aggiungono alle sequenze».

I Decibel: Enrico Ruggeri con Silvio Capeccia (a sinistra) e Fulvio Muzio

I Decibel: Enrico Ruggeri con Silvio Capeccia (a sinistra) e Fulvio Muzio

E andando oltre la musica?

«Per secoli fare musica voleva dire essere artisti. Oggi è diventata una rivalsa sociale, un mezzo per fare soldi. Come giocare a calcio. I genitori di oggi sperano solo che il proprio figlio faccia il calciatore o il cantante».

Per tanto tempo ha frequentato la canzone d’autore francese. Oggi?

«Le parole che usiamo nelle canzoni non sono fonemi buttati lì. La lezione dei grandi cantautori francesi è raccontare gli stati dell’animo con grande poesia. Ma questo si può fare anche col rock. In Noblesse oblige ci sono anche canzoni struggenti, che parlano dell’anima. Non è tutto electro pop. Per me oggi il pop è il nemico. È omologazione, appiattimento, piaggeria».

Nei confronti di che cosa?

«Del mercato. Del pensiero unico che c’è anche nella musica».

Nel 2015 ha scritto una canzone intitolata Centri commerciali. Che cosa pensa della polemica sul lavoro domenicale?

«I centri commerciali hanno sostituito l’oratorio. Una volta si usciva di casa, si andava all’oratorio e li c’erano tutti. Non c’era whatsapp. Adesso si va nei centri commerciali dove decine di ragazzini con lo smartphone in mano non parlano nemmeno tra loro. Poi magari si lamentano della società. Ma non fanno nulla per cambiarla».

Nel video i giovani sono accovacciati nei carrelli.

«Perché la merce sono loro. Il consumismo li ha mercificati».

Il suo tratto distintivo è la capacità di reinventarsi?

«A sessant’anni è obbligatorio».

Negli ultimi anni si è scoperto anche giallista e romanziere.

«Ho scritto un libro per Feltrinelli, poi quattro romanzi. A me piace raccontare delle storie agli altri. Ci sono dei momenti in cui la canzone ti va stretta».

Ha fatto anche televisione. Ora conduce Il falco e il gabbiano su Radio24.

«È sempre lo stesso principio. Anche in tv raccontavo storie agli altri. Ora lo faccio alla radio. L’importante è non cambiare la propria linea. In tv andavo quando Luca Tiraboschi, allora direttore di Italia 1, mi disse: “Non sei tu che devi andare in tv, ma è la tv che deve venire da te”. Ho smesso perché ho un’idea precisa del mio essere e del mio presentarmi. Non sono disposto a cambiare pur di andare in televisione. Quando mi sono accorto che avrei dovuto assoggettarmi a delle regole di mercato non l’ho più fatta».

La guarda?

«Le partite. Guardo di più Sky Arte e Rai 5».

Due canali che hanno il suo stesso eclettismo.

«Da Caravaggio ai Deep Purple. Raramente su Sky Arte c’è un programma che non m’interessa».

Tra le sue forme di espressione qual è quella in cui si riconosce e che la gratifica di più?

«Mi riconosco in tutte, anche se ho sospeso la tv. La gratificazione maggiore viene dai concerti. In radio parli a persone che non vedi. I libri li scrivi per lettori che in gran parte non conosci. Sul palco c’è l’applauso e l’amore ti torna indietro immediatamente».

Da autore di canzoni di successo per Loredana Bertè e Fiorella Mannoia non le è mai piaciuta la mitologia sui cantautori: perché?

«Ho scelto di percorrere strade autonome. Detesto gli stereotipi e il modo d’intendere i cantautori cui lei si riferisce è stato uno stereotipo, al di là del fatto che abbiano scritto canzoni splendide».

Oggi è tramontata la stagione dei cantautori o solo quel modo di intenderli?

«Purtroppo è finita quella stagione a favore di una peggiore. Se non altro, i cantautori scrivevano opere profonde, anche se a volte abbinate a musiche non eccelse. Però erano storie importanti. Oggi il ruolo della canzone è un riempitivo, semplice evasione per la massa».

Colpa di chi? Della televisione, delle case discografiche?

«Le case discografiche non hanno più denaro da investire sui talenti veri e devono pensare all’immediato».

Cosa pensa dei talent show? Sono utili a innalzare il livello della produzione musicale?

«I talent show portano alla ribalta bravi cantanti. Resta da vedere se saranno in grado di portare avanti a lungo linee editoriali e contenuti profondi».

Pico Rama, autore di ragamuffin, figlio di Enrico Ruggeri

Pico Rama, autore di ragamuffin, figlio di Enrico Ruggeri

I giovani di oggi possiedono le doti per reggere le sfide del presente?

«C’è un 80% che vive in modo passivo e condizionabile. E un 20% di ragazzi curiosi e irrequieti. Mi auguro siano quelli che faranno strada».

Uno dei suoi figli, Pico Rama, un rapper emergente è tra questi.

«Più che il rap suona il raggamuffin (un sottogenere del reggae). Il fatto che sia difficilmente inquadrabile è la cosa che mi piace di più di lui».

Avete inciso un duetto insieme. Qual è il consiglio su cui insiste di più?

«Non è uno che accetta molti consigli. La cosa che apprezzo è che non ha l’ambizione di vendere dischi, ma di comunicare qualcosa di sé».

Tornando a lei, il fatto di non essere allineato ha comportato dei costi nella sua carriera?

«Dal primo giorno a oggi».

Ricorda qualche episodio?

«Non ci sono episodi. Ci sono posti dove non t’invitano, o dove non ti citano. Magari leggi un articolo dove si elogiano i cantautori e il tuo nome è omesso. Il mobbing nel nostro mondo è semplice, basta chiamare qualcun altro».

Può esemplificare?

«Preferisco non dettagliare. A volte hai la sensazione che quella cosa tu l’avresti fatta meglio di quello che la sta facendo in quel momento».

A Sanremo però è di casa, ne ha vinti due.

«A Sanremo m’invitano».

La escludono da certi talk show?

«Diciamo che non vado particolarmente di moda. La parte glamour della tv mi ritiene troppo intellettuale. La parte intellettuale mi ritiene troppo poco allineato».

Che cosa non le piace dell’Italia di oggi?

«Il conformismo buonista».

Un esempio?

«La sintassi. Quando sento dire “ministra” mi si accappona la pelle. E poi non mi piace il fatto che tutti esprimano opinioni senza informarsi. Quando non capisco bene una cosa, sto zitto».

La democrazia orizzontale è una conquista dei social media.

«Oggi Marilyn 99 ti dà consigli sulla vita».

È una critica al grillismo?

«Non solo. È che non esistono più gli esperti. Non si rispetta chi ha studiato. Qualche anno fa quelli di destra difendevano il metodo antitumorale di Luigi Di Bella e quelli di sinistra dicevano che era un ciarlatano. Né gli uni né gli altri erano qualificati a esprimersi. Io credo che prima ci si debba laureare in immunologia».

La stessa sottovalutazione della competenza si sta ripetendo sui vaccini.

«Uguale. E la Cecenia? Io non ho un’opinione sulla Cecenia e non mi vergogno a dirlo. Prima vai lì tre mesi a parlare con la gente, poi ti ascolto. Nel mio campo, prima passi tre anni in studio di registrazione e poi scrivi cosa pensi del modo in cui ho registrato il disco. Internet ha annullato la competenza. Siamo tutti capi del governo, ministri degli Esteri o dell’Economia».

Non crede alla democrazia virtuale.

«È falsa democrazia».

Invece, che cosa le piace dell’Italia?

«Penso che l’Italia non ce la farà, ma molti italiani sì. Continueranno a crollare ponti. E continueremo a vedere aree dismesse e ospedali che non funzionano. Ma allo stesso tempo continueremo a vedere eccellenze in tanti campi».

Perché secondo lei l’inventiva italiana non riesce a contagiare le istituzioni?

«Per la distanza tra la gente e la politica. Una distanza ormai incolmabile».

 

La Verità, 23 aprile 2017

 

Neanche «Roadies» dà un tetto tv al rock

Mio figlio Alberto è un consumatore seriale di serie tv. Io ne guardo qualcuna meno. Perciò, eccoci qui.

logoserieconmiofiglio-cavevisioni.it

 

La terza storia che abbiamo iniziato a seguire è quella di Roadies, racconto del backstage del tour di una band, (Premium Stories, Mediaset). Le premesse erano stimolanti, a cominciare dai crediti: J.J. Abrams produttore e Cameron Crowe ideatore e sceneggiatore. Una serie firmata, garantita da Showtime, cable tv produttrice di titoli cult come Homeland, Shameless The Affair, per la quale i due miti di Hollywood si sono messi al lavoro.

Protagonisti della vicenda sono i componenti dello staff della band, appunto i «roadies» che percorrono migliaia di chilometri preparando e attrezzando palchi, impianti, logistica, location e tutto il resto. Insomma, coloro che si occupano della macchina organizzativa di un tour, dal ghiaccio in camerino fino all’acustica degli stadi. Persone votate alla causa, senza vita privata. O che, se ce l’hanno, è totalmente subordinata a quella dei musicisti di cui si occupano. Chi rende possibile la realizzazione dei concerti e non appare mai poteva essere un soggetto interessante per una serie, osserva Alberto. Abitualmente di loro non si sa niente e si apprende che esistono solo quando sono vittime di incidenti, come avvenuto qualche anno fa a margine del tour di Jovanotti. Però, bisogna riconoscere che il grande pubblico è attratto dalla vita delle star, non dai lavoratori oscuri. 

Nel pilot si segue l’attrezzista Kelly Ann, decisa ad abbandonare la crew. La musica della The Staton House Band è diventata routine e il provino cinematografico che l’attende contiene più futuro. Non bastano gli aneddoti dell’autista (Luis Guzman) e i consigli del vecchio Phil (Ron White) a trattenerla. Il tour manager (Luke Wilson) e la direttrice di produzione (Carla Gugino) bisticciano di continuo e le regole del conto economico incombono. L’intreccio delle storie poteva, dunque, essere interessante se sorretto da scrittura e ritmo adeguati. Invece: delusione. Per raccontare il calcio parlando dei fisioterapisti dei giocatori o la storia della Apple partendo dai fattorini anziché da Steve Jobs serve una genialità e un’arguzia narrativa che in Roadies non si vedono. Fatta eccezione per Kelly Ann, ben interpretata da Imogen Poots, in tutti i personaggi spuntano eccessi che, invece di sottolinearne l’originalità, li rendono caricaturali. L’effetto collaterale è una demitizzazione del rock che difficilmente può soddisfare gli amanti della musica più eversiva del Novecento. Tanto più che, almeno nel primo episodio, non si sente una sola nota della band per cui tutti si sbattono.

Imogen Poots nei panni di Kelly Ann

Imogen Poots nei panni di Kelly Ann

Qui però non è il rock al centro, ma chi ci lavora dietro, sottolinea Alberto. Forse bisogna arrendersi al fatto che oggi il rock non è più attuale. Ma è una musica del passato, come si è visto in Vinyl, che era una serie in costume. Proprio dalla serie ideata da Mick Jagger e Martin Scorsese per Hbo, cancellata dopo la prima stagione, viene l’ulteriore conferma che non bastano le grandi firme a garantire qualità. Fuori dalla sua epoca d’oro, per sceneggiatori e registi è difficile trasmettere l’incandescenza di quella musica. Le aspettative sono alte e forse si pensa che il rock contenga una carica e una forza evocativa sufficienti a sfondare. Invece, così non è. Ma mentre per Alberto la causa dell’impaccio narrativo di Roadies deriva proprio dalla materia raccontata, troppo ingombrate e complessa, per me è prevalentemente una questione di scrittura. Comunque sia, alla fine, mentre il rap ha trovato la sua serie in Empire e il country in Nashville, il rock è ancora senzatetto (tv).

 

i caverzan

Vinyl, cioè the wolf of rock’n’roll

Lo sapevo, adesso tutti a dire “avete visto? Vinyl sì che è musica”; “Vinyl è l’anti-Sanremo”; “l’anti-talent”. No, non la metterei giù così dura. Il vero provincialismo non è premiare gli Stadio o invitare Renato Zero all’Ariston (ci son passati anche Elton John, la Kidman, Hozier…), ma giudicare il Festival con il complesso d’inferiorità dello showbiz americano. Se hai i Led Zeppelin invece dei Pooh è ovvio che qualcosa cambi. Non la HBO, ma Sky Italia sapeva quando finiva Sanremo. E ha preparato il lancio su Atlantic con un canale popup sui favolosi seventy. Per il resto, andando al sodo, è sempre televisione, nient’altro che televisione. Sanremo, Vinyl e i talent. Anzi, è persino stucchevole la polemica di Curreri appena premiato.

Per quanto mi riguarda, mi chiedo se, dal punto di vista strettamente produttivo, la serie voluta e prodotta da Mick Jagger e Martin Scorsese non sia in qualche modo debitrice del successo dei talent show. Mi spiego: questi anni di X Factor e American Idol e Amici, show che vogliono creare e affermare nuove star dal nulla e che ci ragguagliano su come funziona il mercato musicale, ci hanno preparato a queste serie con focus narrativo in una casa discografica. La butto lì, provocatoriamente. Non pretendo di aver ragione… Però, visti con gli occhi del marketing, i fan musicali, del rock, dell’hip hop, sono target televisivi, community di telespettatori. Fateci caso: prima c’è stato il successo di Empire, adesso arriva Vinyl, mentre la Apple ha appena annunciato l’esordio nella produzione di contenuti (notizia che meriterebbe un discorsino a parte) con Vital Signs, sulla storia di Dr. Dre e delle sue cuffie Beats.

Qui ci sono i formidabili anni ’70, tanta roba. Musicalmente fondativi. Creativamente e culturalmente incendiari. E basta questo a contestare quelli che dicono “roba per nostalgici”. Vinyl è un tributo a quell’epoca-laboratorio, a quella stagione palingenetica che ha condizionato la musica e l’arte fino a oggi più di ogni altro decennio. Al centro della storia troviamo Richie Finestra, produttore discografico della fittizia American Century Records che, mentre sta per scritturare i Led Zeppelin, tratta per cedere il marchio ai tedeschi della Polygram (veramente esistita). Siamo nel 1973. Il rock si sta ramificando nel punk, nel glam, nel soul. E stare al passo, scoprire i talenti giusti, rintuzzare l’espansione degli Abba e della disco, soprattutto se si è circondati da collaboratori pigri, è impresa complicata. Se poi ci si mette anche il boicottaggio delle radio… Finestra, interpretato da un magnetico Bobby Cannavale (Boardwalk Empire), barcolla pericolosamente tra sesso coca denaro sporco e punk violento, in una Times Square livida, popolata di prostitute e spacciatori, fatta di androni lastricati di siringhe, locali che sembrano gironi danteschi, concerti apocalittici. La mattina all’alba la moglie Devon (Olivia Wilde) reclama il suo mancato rientro e lui si rassetta per sedersi al tavolo della trattativa con gli ostici manager germanici. I Led Zeppelin svaniscono in uno dei tanti contrasti ideologici (“mai con una casa discografica di nazisti”, sbraita il manager) che intarsiano il racconto. E, pencolante sul precipizio psicotico-finanziario, Finestra striglia i talent scout, trovando riflessi pronti solo nella ragazza dei panini (Juno Temple), incuriosita dai Nasty Bits, band emergente il cui leader nichilista ha il volto bistrato di James Jagger. Riuscirà il tormentato produttore a tenere insieme affari, famiglia, musica e amici?

Si diceva:  anche Vinyl è solo tv. Forse più cinema che tv. Come lo chiamate un episodio di 108 minuti, trasmesso senza interruzioni pubblicitarie? Come lo chiamate un pilot con centinaia di comparse? Un lavoro voluto pensato e prodotto dal leader dei Rolling Stone che fin dall’inizio voleva farne un film, diretto da Scorsese e scritto da Terence Winter? I confini tra cinema e televisione si sono assottigliati da tempo. Qui sembrano spariti. Con Scorsese, tutto torna. Soprattutto il sodalizio con Winter, già collaudato nel primo episodio di Boardwalk Empire e in The Wolf of Wall Street. Con l’aggiunta del gusto per il maledettismo di Jagger, Vinyl è la trasposizione nel decennio del rock delle perversioni viste con DiCaprio a Wall Street. Scorsese è regista da saga violenta (Gangs of New York) e da discesa agli inferi (Taxi driver), più incline a soffermarsi sulla dissoluzione e il nichilismo che sugli albori creativi delle epoche rappresentate. Vedremo se i prossimi episodi, curati da altri autori, saranno coerenti con questa lunga introduzione.