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«Nella storia ci sono le ricette per uscire dalle crisi»

Essendo stato corrispondente da alcune metropoli e megalopoli – Parigi, Bruxelles, San Francisco, Pechino e New York, dove ora vive – Federico Rampini può esercitare uno sguardo distaccato e globale sul presente. Se poi, a queste postazioni privilegiate, si aggiungono le buone letture sulle grandi catastrofi nel corso dei secoli, ecco che l’editorialista di Repubblica, spesso ospite di Stasera Italia di Barbara Palombelli, può consegnarci I cantieri della storia (Mondadori), istruttiva carrellata di come l’umanità abbia reagito a pandemie, crolli di imperi, guerre epocali, ripartendo, ricostruendo, rinascendo attraverso quelli che spesso sono stati chiamati «miracoli». «La buona notizia», dice Rampini, è che «siamo capaci di farlo».

Le rinascite dopo le crisi più tragiche sono opera innanzitutto di grandi leader o di grandi popoli?

«I leader fanno la storia quando riescono a mobilitare le energie dei loro popoli, a ispirare sforzi collettivi, a ricostruire l’autostima, la coesione, la solidarietà dei cittadini. Un altro tratto comune dei leader che racconto nel libro – Franklin Delano Roosevelt o Charles De Gaulle, George Marshall o Deng Xiaoping – è il pragmatismo. Copiare chi ha avuto risultati migliori, cambiare ricetta quando la propria non funziona».

Dopo la caduta dell’Impero romano, archetipo dei crolli delle superpotenze, i monaci riuscirono a mettere le basi del Rinascimento perché erano un soggetto con una vocazione speciale?

«Molti monaci venivano dal profondo Nord, erano di origini irlandesi, celtiche. Studiare il latino e il greco era stato così arduo che sentivano quel patrimonio culturale come una conquista preziosa. Conservarono Aristotele, la matematica e l’astronomia greca, senza le quali non avremmo avuto il Rinascimento».

Lei scrive: «Tutti vorrebbero un nuovo Roosevelt», a me è tornato in mente un vecchio motivetto popolare: «Si è rotta la macchinetta». È così?

«Una qualità dei Roosevelt è diventata introvabile: Theodore, Franklin, Eleanor appartenevano a una élite che pagava di persona per servire la nazione. I loro figli morivano in guerra, anziché imboscarsi da raccomandati».

In America, nel pieno della crisi del 1929 iniziò la costruzione dell’Empire state building. Le rinascite avvengono con le grandi opere pubbliche, vedi Autostrada del Sole. Quanto può ostacolare il fatto che uno dei partiti di governo teorizza la decrescita?

«La decrescita felice è un vecchio mito malthusiano, caro agli ambientalisti fin dalle origini. L’abbiamo sperimentata nel 2020, se l’economia si paralizza scende l’inquinamento, rallenta la crescita delle emissioni carboniche, e si rischia la depressione. L’unico paese ricco che ha trovato un suo equilibrio in una decrescita apparente è il Giappone. In realtà il suo reddito pro capite sale grazie al calo della popolazione. E vorremmo tutti avere le infrastrutture giapponesi».

Parlando di New Deal, il nostro governo, debitore della Rivoluzione francese, ha convocato gli Stati generali e annunciato, in inglese, il Green New Deal. Ma con le formule non si risolvono i problemi perché, alla prima pioggia, i ponti continuano a cadere in italiano.

«Da italiano espatriato vent’anni fa negli Stati Uniti, quello che mi colpisce nell’approccio del governo Conte alla ricostruzione è la prevalenza dei burocrati. Il Green New Deal potrebbe ammodernare il paese e le sue infrastrutture con un’attenzione alla sostenibilità. Ma se viene affidato alla pubblica amministrazione così com’è, la burocrazia saprà sabotarlo».

La più incompleta tra le ricostruzioni che analizza è quella in tema di razzismo dopo la guerra civile americana?

«Abraham Lincoln voleva ricostruire il Sud dopo averlo sconfitto. Capiva che i perdenti andavano trattati con magnanimità per non alimentare vittimismi, rancori, revanscismi. Dopo il suo assassinio la ricostruzione del Sud ebbe un’impronta diversa: da quel cantiere mezzo fallito derivano i problemi irrisolti oggi».

Proprio questo 2020, con la morte violenta di George Floyd, il movimento Black Lives Matter e il successivo abbattimento delle statue di Lincoln e Theodore Roosevelt, campioni dell’antischiavismo, ci fa capire che rimane molta strada prima di comprendere la storia?

«La storia è maestra di vita se non la manipoliamo per le battaglie politiche di oggi. La piaga del razzismo è reale in America. Ma Black Lives Matter ha voluto riscrivere tutta la storia americana come un unico romanzo criminale. È assurdo, e ha portato voti a Trump».

I cantieri del futuro possono essere costruiti sotto l’impulso di rigurgiti ideologici come quelli che hanno portato alle epurazioni in alcune testate liberal americane di chi non pensa in modo conforme?

«Nel mio libro paragono le purghe operate dalla sinistra radicale dei campus universitari ad altri fanatismi di massa: la rivoluzione culturale di Mao, i talebani. C’è anche un’eredità del puritanesimo protestante, che ha conosciuto dei “risvegli” integralisti a ondate ricorrenti. Quando si censura il dissenso, come avviene nell’industria culturale progressista in America, non si costruisce nulla di nuovo».

Dal suo osservatorio privilegiato conferma che l’Italia è un modello virtuoso di risposta al coronavirus mentre l’America di Trump, incentrata sulla sanità privata, è un esempio nefasto?

«No. L’Italia come modello virtuoso è stata una leggenda creata quest’estate da un paio di articoli del New York Times. Io, al contrario, mi sono stupito che tanti italiani ci abbiano creduto. I numeri dei contagi e dei decessi smentivano quel mito, ancor prima che giungesse la seconda ondata. Gli unici modelli sono in Estremo Oriente: Giappone, Corea del Sud, Taiwan. Quasi nessuno li studia».

Spesso si confronta il Recovery fund con il Piano Marshall che aiutò la ripresa degli sconfitti della Seconda guerra mondiale. Anche il ritardo e l’approssimazione dell’Italia nella capacità di spesa è paragonabile a quella di 70 anni fa?

«Quel Piano Marshall finanziamenti a fondo perduto, mentre quelli del Recovery fund sono prestiti, tuttavia le dimensioni teoriche di quest’ultimo sono molto superiori. Potrebbe dare un contributo alla rinascita italiana, ma i problemi sono gli stessi di 70 anni fa. Nel 1948-50 gli americani lamentavano ritardi dell’Italia nel presentare progetti validi perché temevano corruzione e assistenzialismo».

Considerato che in questi mesi il risparmio privato italiano è salito a 1.680 miliardi perché è indispensabile il ricorso al Mes e al Recovery fund? Non si può agire attraverso l’emissione di titoli di Stato?

«Il problema non cambia. Se non abbiamo progetti convincenti, capacità di spesa, e uno Stato efficiente nel realizzare i progetti, i risparmiatori italiani saranno ancora più diffidenti di Bruxelles».

Le rinascite sono anche frutto del lavoro delle élite come mostra la storia di Amedeo Giannini, italiano fondatore della Bank of Italy poi divenuta Bank of America, fondamentale durante la Grande depressione. Le élite di oggi sono all’altezza del compito che la pandemia impone?

«Le élite economiche in questa crisi si arricchiscono e distanziano gli altri: penso agli azionisti di Amazon, Apple, Microsoft, ai giganti della finanza di Wall Street. Molte élite hanno perso i contatti con un mondo del lavoro che soffre. L’Italia ha un problema specifico: l’élite pubblica, l’alta dirigenza dello Stato, è tra le più scadenti d’Occidente».

Perché la sinistra mondiale che per decenni ha contestato le ambizioni di superpotenza dell’America ora ne critica l’autoriduzione nei propri confini accusandola di isolazionismo?

«C’è sempre stata una vena antiamericana, per cui lo Zio Sam sbaglia a priori: quando s’impiccia degli affari degli altri, o quando si fa i propri».

Crede che Joe Biden riporterà gli Stati uniti a un diverso interventismo internazionale, magari puntando sull’industria bellica?

«Con Biden ha vinto l’establishment, comprese le correnti più tradizionali delle forze armate e della diplomazia americana, affezionate a un ruolo globale. Però Biden deve pensare a uscire dalla pandemia e ad aiutare i disoccupati; la politica estera non sarà la sua priorità. Nel 2021 l’America affronterà un mondo nuovo, con una Cina più forte. Se qualche tensione può creare le premesse di una nuova guerra, la situerei nel Mare della Cina meridionale, nei dintorni di Taiwan».

 

Panorama, 16 dicembre 2020