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Camon, lo straniero della globalizzazione

L’estate scorsa, quando andai a salutare Ferdinando Camon in un paesino della Val Zoldana dove ha una casa che guarda il Pelmo, lo trovai contrariato. Era il primo anno che non se la sentiva di guidare e, per andare a comprare i giornali, ricorreva all’autostop. Si metteva sul ciglio della strada e agitava la mano, gesto che i più scambiavano per un saluto, ma prima o poi qualcuno si fermava. Solo dopo qualche giorno di questa trafila si era rassegnato ai tempi della corriera. In questo buttarsi di slancio, quasi con la semplicità di un bambino anche a 87 anni, si origina molta della sua produzione letteraria. Per Camon il rapporto con la realtà è corpo a corpo, confronto senza mediazioni, non di rado conflittuale. Sempre, comunque, significativo. In quella casa di montagna l’autore padovano ritrova le condizioni propizie alla scrittura di cui il caldo della sua città lo priva. Poi c’è la sagoma del Pelmo: «Lei adesso mi vede vecchio e malandato», raccontò, «ma ho fatto il militare da ufficiale degli alpini su quella montagna. Per salire in vetta bisogna superare una cengia larga 35 centimetri, esposta su uno strapiombo. Si deve strisciare sulla pancia, perciò si chiama Passo del gatto. Si guarda la roccia che, fino a un paio d’anni fa, era tempestata di foto di ragazzini che non guardavano la parete ma l’abisso, e sono caduti. Passavi la cengia con il naso su quei volti…».

Da questo sguardo ravvicinato scaturisce il realismo di Camon, la sua tempra. Sia che si esprima in prosa, nella saggistica, sui giornali o in poesia. Come nell’ultimo Son tornate le volpi. Come muore la nostra civiltà, pubblicato dalla Apogeo di Paolo Spinello e Sandro Marchioro. È una raccolta di una cinquantina di liriche, altrettante visioni scabrose, spigoli della quotidianità, lacerazioni del vivere al tempo della globalizzazione. Lontano dalla poesia ombelicale, tuffata nelle grotte della psiche, come pure da quella civile che si auto-investe della riparazione del mondo, i versi di Camon guardano fuori, si misurano con le pareti scoscese senza risparmiarsi il rovello del dubbio. Anzi, accettando tutta la complessità di questa verifica, foriera di moti di ribellione all’indifferenza, alla rassegnazione… Autore pasoliniano, quale si definisce – Pasolini scrisse la prefazione a La vita eterna, il suo primo romanzo, scritto per vendicare il destino dei partigiani contadini delle sue terre, fatti uccidere dal capo delle SS, scoperto in Germania proprio grazie a quel libro, appena tradotto in tedesco – Camon ama intervenire sui fatti di cronaca, soprattutto là dove si palesa la contraddizione. Sempre con quel marchio dell’incontro-scontro, impresso nel carattere fin da bambino: «Sono figlio di contadini poveri. In casa, io e i miei tre fratelli, mio padre e mia madre camminavamo a piedi nudi sulla nuda terra». Questo universo di povertà e carne viva, di asperità e attriti, Camon l’ha raccontato in Un altare per la madre, la sua opera più famosa (premio Strega 1978), tradotta in venticinque Paesi. Era, quello stesso libro, un monumento alla famiglia, alla madre e al padre che, lottando contro la morte, le eresse quell’altare. Invece, per causa di quel racconto, suo padre decise di diseredarlo. Si presentò con suo fratello, il notaio e due testimoni. E Camon firmò l’atto: «Li ho capiti, li capisco. Per loro, scrivendo della nostra povertà ho disonorato la famiglia, il nostro sangue. C’è la famiglia e c’è il resto del mondo. La famiglia è più importante di un libro».

Oggi che cambia tutto, il capitalismo, il cristianesimo, la società, come si fa a non essere tormentati? Camon è orfano della civiltà contadina, la cui scomparsa, per Charles Péguy, «è il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo». L’altro lutto che si porta dentro è la morte del vecchio cattolicesimo. Perciò, come osserva Emilio Manco nella prefazione di Son tornate le volpi, «qualunque cosa giudichi… sotto-sotto si vendica sempre del suo lutto», di questa doppia condizione di orfano, facendola pagare ai lettori. «Prima di tutti la pago io», ribatte. «Sono stato formato da piccolo per vivere tutta la vita dentro una verità, ma così non è. Patisco molto la metamorfosi del sacro». In quel sistema di giornate e stagioni scandite dalla fede si componeva anche la povertà: sublimata, trasfigurata. Per uno così sarebbe finzione credere alle chimere del pensiero corrente. Dunque, svelarne vuoti e tradimenti non è vendicarsi di una doppia privazione, ma un desiderare schietto, senza infingimenti. «Sono un narratore della crisi», dice di sé. «Racconto il prezzo del progresso». Del capitalismo darwiniano, della globalizzazione selettiva, del mercatismo finanziario. Che vagheggiano integrazioni, sempre incompiute. Sostenibilità inseguite, quasi sempre a vantaggio delle élite. Democrazie digitali stratificate. Il risultato sono scarti, frange di sconfitti, escrescenze criminali, metastasi di scorie…

In Son tornate le volpi le stazioni ferroviarie diventano ricoveri di un’umanità perduta. Fuori da Roma Termini o da Torino Porta Nuova ci s’imbatte nei barboni a terra. Camon se li porta nei pensieri. «Di sera i barboni/ s’addormentano di botto/ tra due cartoni,/ uno sopra e uno sotto./ Li leccano i cani/ con la lingua rosetta,/ li scansano i cristiani/ che vanno di fretta…». I drogati finiscono la giornata dentro vagoni-ospedale. «Di notte sui binari/ morti vanno i treni fuori servizio:/ senza il permesso dei funzionari/ vi salgono giovani perduti nel vizio:/ Bevono intrugli/ di lattine,/ birra,/ coca,/ rimasugli/ lasciati dai viaggiatori…».

È poesia sociale e dell’irrisolto, del non sentirsi a posto. Solcando i margini della globalizzazione e scontornandone le contraddizioni, più che proporli, Camon allerta modi differenti di guardarle. E ci mostra scafisti albanesi che solcano il Mediterraneo con motori da 6.000 di cilindrata, suore arrestate per favoreggiamento della prostituzione, immigrate che spengono la cicca sul piede di un bimbo per farlo piangere quando si avvicina «un borghese dalla faccia cortese» che «ci casca e mette la mano in tasca». Accettare il cinismo, le derive e i soprusi per la sopravvivenza vuol dire razionalizzarli e perpetrarli? Ammettere la resa dei poveri e l’assenza di soluzioni dei ricchi vuol dire arrendersi alla sconfitta? Ci si dibatte tra pietà e giudizio, tra consolazione e accusa. Su tutto domina la paura: dell’estraneo, del diverso, dell’ignoto. Perché, finora, tra i bersagli mancati dal progresso c’è l’integrazione. La «città multietnica» di giorno «è italiana,/ operai, impiegati, studenti, donne./ Di sera diventa nigeriana,/ presidiata dai racket della prostituzione./ A mezzanotte si fa marocchina…». Alla lunga, osserva lo scrittore padovano, «questa integrazione sarà obbligata dal contatto e dalla convivenza». Ma non si dà pace che avvenga penalizzando la cultura di chi ospita: «Ormai negli ospedali/ ci son più mussulmani che cristiani,/ e l’associazione dei diritti umani/ alza la voce:/ via dalle stanze la croce». Così il paziente arabo s’inginocchia rivolto alla Mecca e invoca il suo Allah, mentre il paziente cristiano si volge alla parete vuota e vede la vernice più bianca dove manca il crocifisso: «Questo lo rende muto:/ è la prova che il suo Dio ha perduto».

Questa terza raccolta poetica, dopo Liberare l’animale (Premio Viareggio) e Dal silenzio delle campagne, entrambi con Garzanti, è stata presentata senza troppe illusioni alla prima edizione del Premio Strega Poesia. «Sono sempre andato allo sbaraglio, per di più non sono romano», dice. «E poi lo Strega l’ho già vinto. Quella volta con me c’era Piero Gelli, il direttore editoriale della Garzanti dell’epoca. Sapevo che Livio, che per me era quasi un fratello, era a Roma… Terminato lo spoglio, Gelli sparì cinque minuti e tornò con lui che se n’era rimasto nascosto in un bar poco distante. A mia moglie mostrò la prenotazione di due posti per una crociera ai Caraibi. Era il suo modo di compensare la probabile sconfitta. Invece… Indovini che cosa disse mia moglie, ridendo».

 

Poesia nuova serie n. 19, maggio/giugno 2023

«Quell’accento sul mio nome è introvabile»

Piero un po’ mi rovina la carriera. Sa com’è… “Ah, lei è la mamma di Chiambretti…”, e addio poesia. Insomma, la mamma prevale sulla poetessa e la prosa sulla poesia. Devo rassegnarmi». Ci riesce?

«Devo farlo: lui è anche il mio editore», scherza ma non troppo la signora Felicita Chiambretti, alla quinta raccolta di poesie appena approdata in libreria. Si intitolano Farfalle di verso, con la numerazione successiva dei volumi. Libriccini raffinati, poesie brevi, un po’ ermetiche. Elegante poetessa, la mamma di Chiambretti è una signora pronta alla battuta ma fiera della propria indipendenza. Mi riceve nella sua casa di Torino, dove vive in compagnia di una festosa Chihuahua, di nome Minni.

Il suo nome, signora, invece da dove viene?

«Ce l’aveva una mia zia, sorella di mio padre».

Chi erano i suoi genitori?

«Mia mamma si chiamava Natalina e faceva l’infermiera. Mio padre, Giovanni, lavorava nell’industria meccanica».

Sorelle, fratelli?

«Due sorelle, una è ancora viva. Ero la primogenita».

Felicita era un augurio senza l’accento?

«A volte mi chiamavano Feli, però io insistevo per il nome completo, perché annuncia qualcosa che va oltre».

Com’era il rapporto con i suoi genitori?

«Non andavamo d’accordo. M’incolpavano sempre di qualcosa, ero convinta che non mi amassero».

Addirittura.

«Sì, quest’idea si è radicata in me fino a determinare una rottura».

Il rapporto si è ricomposto quando è diventata adulta?

«Non proprio. Fino a quasi 20 anni ho vissuto ad Asmara, poi sono venuta in Italia. Loro sono rimasti lì, con le mie sorelle».

Fino a vent’anni sempre con loro?

«In prima media ho voluto andare in collegio perché non stavo bene. Erano poco affettuosi, non ricordo che mi prendessero in braccio o mi premiassero per qualche buona azione. Dalle suore mi trovavo bene, anche loro erano severe, però il giusto».

Che suore erano?

«Comboniane, la casa madre è a san Pietro in Cariano, vicino a Verona, ogni tanto ci andavo a trovare suor Giandomenica».

Anche da loro ha deciso di staccarsi?

«Sono venuta in Italia da sola, a 19 anni. Ero incinta. Mi hanno mandato qui e io ci sono venuta volentieri. Sono andata ad Aosta, dalla nonna materna che viveva con la zia».

Che lavoro faceva?

«Ero segretaria all’Alleanza assicurazioni a Moncalieri. Prima giravo le filiali, poi mi sono stabilita a Torino».

Com’è cresciuto Piero?

«Viveva con me. Stavamo bene insieme. Quando è morta la zia, la nonna è venuta con noi e si prendeva cura di lui. Per me era tutto, anch’io ero una mamma severa».

Che figlio era?

«Era andato a Londra, poi sulle navi da crociera teneva degli spettacoli. Aveva fatto il Dams a Bologna, non era certo studioso. Diceva che la sua mente anticipava quello che stava per dire il professore. Era indisciplinato, con quell’ironia che ha anche adesso nel suo lavoro».

Quando ha scoperto la poesia?

«Già da giovane leggevo gli scrittori inglesi del Settecento, mi piaceva molto John Keats. Poi mi sono avvicinata agli americani del Novecento».

Tra gli italiani?

«Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo di Ed è subito sera».

Quando ha ha iniziato a scrivere?

«Quando sono andata in pensione non potevo restarmene inattiva. Ho pensato di riprendere la poesia, di studiarla… Scrivo perché mi leggano, ma è soprattutto una catarsi personale, per quello che tiro fuori da me stessa. Adesso ci aiuta anche l’editore Franco Cesati di Firenze. Il guadagno non è per me, ma per gli ospedali e le onlus. Quelli che hanno letto i miei libri, anche i critici, dicono che sono molto belli».

La destinazione dei fondi la decide prima o dopo aver composto le sue liriche?

«La decido alla fine. Mi faccio consigliare da persone di cui mi fido. Ho aiutato la ricerca sul cancro e dei centri ospedalieri».

Chi è Antonello cui dedica questo quinto volume?

«Un carissimo amico, un filosofo, figlio di Tony De Vita. Ci siamo conosciuti a dei corsi di buddismo, ha scritto tutte le prefazioni».

Dell’ultima ho capito quasi niente.

«È un professore di lettere molto bravo».

Un filo astratto?

«Ha una mente libera. Quest’ultimo libro è più difficile e più introspettivo degli altri. Riflette il periodo complicato dal quale sono uscita, un anno di malattia, a letto, quasi senza mangiare».

Ha sofferto di depressione?

«No, è cominciato tutto una sera che sono andata alla trasmissione di Piero. Ricordo che c’era ospite Fabrizio Corona. Mi sono sentita male, forse è stata un’ischemia… un embolo mi ha fatto perdere anche l’udito da un orecchio».

Perché non mangiava più?

«Non avevo fame, soffrivo allo stomaco. Mangiavo un po’ di mandorle, anche bere bevevo poco. Mi sono fatta visitare da un oncologo… Invece, il cardiologo mi ha rimproverato perché non l’ho consultato, ha detto che mi avrebbe fatto delle flebo, ma io non volevo che mi portassero in ospedale. Stavo sempre a letto».

Poi che cos’è successo?

«Non so. Abbiamo seguito una terapia omeopatica a base di erbe, niente di chimico. Poco alla volta ho ripreso a mangiare e ho cominciato a stare meglio».

Le poesie risentono di questa esperienza? Nella dedica a De Vita scrive che è giunta con lui «ad amar l’oscurità».

«Lui è più saturnino io sono più solare. Queste poesie sono difficili anche a livello filosofico e religioso. È stata un’esperienza drammatica, non amavo più nessuno, sentivo la morte vicina. Ancora adesso non sto bene del tutto, porto un pacemaker, ho problemi alla spina dorsale. Ma mi sento protetta dall’alto…».

In che modo?

«Credo in qualcosa che è oltre noi. Una realtà trascendente, non mi chieda se è il Dio cristiano, musulmano o ebraico. Ho avuto una vita strana, in questi mesi ho pensato tanto alla morte. Volevo andare sottoterra, ma ora ho deciso che mi farò cremare».

In «Misteriosamente me stessa» scrive di non avere certezze di chi sia veramente e accenna a «fiocchi di neve» intravisti nella camera oscura.

«Sono risonanze interiori, sentimenti ancestrali. Dopo una malattia così, tante convinzioni si sono smarrite. È come se l’anima si fosse svuotata. Incombe la paura».

In un’altra poesia parla di un passato incompatibile rispetto al presente segnato da «abiure di amici dal cuore ingannevole». Ha avuto delusioni da persone care?

«Ho allontanato tante persone che trovavo ingannevoli. Mi parlavano in un modo e si comportavano in un altro. Non sono una che si autocommisera. Anche quando io e il padre di Piero ci siamo lasciati non ho pianto. È che non accetto le ipocrisie. Vedevo persone non trasparenti, così mi sono tolta il sovrappeso».

Un’altra citazione: «Non riesco a spiegarmi per quale motivo il fuoco sia più potente dello spirito che si è dichiarato onnipotente».

«Il fuoco è l’inferno che è più potente dello spirito».

Vince l’inferno?

«Magari in me. C’è un senso di disperazione, la paura della fine. Lo scrive anche De Vita nella prefazione: “Come ogni realtà terminale acquista coscienza quando un decorso arriva alla fine”».

Sono poesie percorse dalla disillusione?

«È un libro che rispecchia un momento triste. Non sono tutte pessimiste anche se c’è sempre una vena di malinconia».

Quando scrive?

«Di notte, anche fino alle 5. Poi vado a dormire».

Che cosa le dà il buddismo?

«Dice che la sofferenza dev’essere eliminata. Mi aiuta a non attaccarmi ai desideri e ai beni materiali, al denaro. Perché si può perdere tutto».

Quando Piero iniziò ad aver successo e lei lo mise in guardia dicendo che il padre avrebbe potuto farsi vivo, lui come le rispose?

«Disse: “Io non conosco nessuno, ho una madre che mi ha fatto anche da padre”».

Il padre era ad Asmara?

«Sì. Lavorava all’università Cattolica. Non si è più fatto vivo, ma nemmeno io con lui».

Che cosa le piace di più dei programmi di suo figlio?

«Piero è un professionista. So quanto si impegna e quanto ci mette, anche a casa lavora, scrive. Se uno dà uno sguardo ai palinsesti, scappa. Io guardo solo Piero. Mi piace molto lo studio, la scenografia mobile. Oggi è peggiorato tutto, è scaduta anche la lingua italiana, l’informatica uniforma tutto».

E cosa le piace di meno?

«Qualche volta scappa la parolina, ma non è così grave. È l’insieme che conta. Piero è un professionista, potrebbe insegnare tv».

Fra tutti i suoi programmi qual è il suo preferito?

«Il Laureato mi piaceva molto, quando faceva le interviste… E anche Markette».

Da donna indipendente che cosa pensa del femminismo?

«Per alcune battaglie è stato importante. Abbiamo vissuto sempre sotto il potere dell’uomo e ancora adesso non abbiamo ottenuto la piena parità nelle professioni e negli stipendi».

Condivide tutte le azioni delle donne?

«Salvo quando eccedono e diventano maschi. Gli eccessi non vanno mai bene. Oggi non ci sono più le femministe, sostituite da tutte quelle sigle complicate che neanche si capiscono. Le donne devono conquistare ancora degli spazi, ma ci vuole equilibrio, altrimenti si rischia di peggiorare».

Che cosa le suscita il Natale?

«Una certa malinconia. Per me si fa troppa festa, il consumismo rischia di cancellare il senso del sacro dalla nostra vita. Lo dico da credente non praticante».

Perché malinconia?

«Al pensiero che ci sono tante persone anziane come me, sole».

Mentre lei è fortunata e devolve l’incasso dei libri a chi ha più bisogno.

«Certo, ma si vorrebbe fare di più».

Con chi lo trascorre il Natale?

«Con Piero, la nipotina, mia sorella e sua figlia. Poche persone, ci scambiamo i regali. Pranziamo insieme, quasi sempre a casa di Piero».

Prepara lui il pranzo?

«Piero? A malapena sa farsi il caffè, è sempre vissuto in giro. A volte andiamo in uno dei suoi ristoranti…».

Una volta Piero mi ha detto che la felicità è un’idea inventata dalla Chiesa, concorda?

«Io dico che non esiste, non esiste in questo mondo».

È difficile aggiungere l’accento al suo nome?

«Non c’è e non ci può essere. Mi basta Felicita».

 

La Verità, 22 dicembre 2019

«Faccio case per l’uomo che cerca l’infinito»

Costruttore di chiese e cattedrali. Mario Botta, architetto che vive a Mendrisio, lontano dai riflettori che illuminano le archistar più in voga, ha costruito banche, biblioteche, sedi amministrative, scuole, musei e teatri, ristrutturazione della Scala compresa. Utilizza spesso mattoni in cotto, che danno un senso di ordine e calore, come per l’area ex Appiani a Treviso o per il palazzo del quotidiano La Provincia di Como. Ma, fosse per lui, progetterebbe solo «spazi dedicati al silenzio e alla preghiera». Ne ha scritto su Vita e pensiero e ora, fino a metà agosto, è in corso a Locarno la mostra «Spazio sacro».

Che cosa significa vestire il sacro in una società nella quale ne è stata decretata l’eclissi?

«Vestire il sacro è un’espressione che non mi piace, essendo il sacro una delle aspirazioni primordiali dell’uomo. Per questo preferisco il termine interpretare piuttosto che vestire. Non conosco epoche che non abbiano avuto bisogno del sacro. Un bisogno declinato in molteplici forme, dall’espressione dell’arte tutta fino alla ricerca del silenzio e della meditazione attorno al significato del vivere. L’architettura porta con sé l’idea del sacro. È un’espressione del bisogno dell’uomo d’interrogarsi su ciò che va oltre il finito e il reale».

E l’eclissi del sacro, la secolarizzazione?

«C’è una tendenza della società dei consumi a commercializzare anche ciò che va oltre la realtà, attraverso la comunicazione e lo spettacolo. Io credo invece che tutte le forme artistiche siano volte a testimoniare il bisogno d’infinito dell’uomo. Anche un grande scrittore svizzero che teorizzava il nulla come Friedrich Dürrenmatt, quando si staccava dalla letteratura per dedicarsi alla pittura o alla calcografia, esprimeva questa ricerca con immagini dell’apocalisse, di angeli, di crocifissioni. Credo che il sacro stia vivendo una rinascita enigmatica, mascherata da molti condizionamenti».

Dove vede questa rinascita?

«In molti atteggiamenti collettivi, perfino nelle mode, nei grandi assembramenti dei concerti per vivere emozioni al di là della ragione e del razionale, o nei silenzi attraverso i quali l’uomo interroga la natura…».

Perché l’architettura ha in sé l’idea stessa di sacro?

«Per una serie di motivi semplici. Il primo atto dell’architettura è posare una pietra sulla terra, non una pietra sulla pietra; trasformare quindi una condizione di natura in una condizione di cultura, qualcosa che parla dello spirito dell’uomo. Il secondo atto è disegnare un perimetro, ovvero separare un microcosmo dal macrocosmo dell’universo. Distinguere uno spazio dal tutto è un gesto che appartiene alla cultura dell’ecclesia».

Perché le sue chiese sono così essenziali e minimaliste da sembrare povere o spoglie?

«Mi piacerebbe fosse veramente così. Per trovare valori dello spirito oltre il finito dobbiamo tornare bambini, ritrovare una naïveté, una ingenuità che è spesso coperta dall’esasperazione dei consumi e dall’eccesso di segni. Credo che l’uomo abbia bisogno di molto meno e che l’architettura debba parlare in modo essenziale. Quelle che per qualcuno sono forme astratte, a me pare rispettino la percezione visiva del cervello. Secondo Luca Pacioli, religioso e matematico del XV° secolo, al nostro cervello basta la visione parziale di una forma geometrica per ricostruirla nella sua interezza. Il Medioevo aveva una spiritualità rigorosa e profonda. Il barocco ha aggiunto la retorica e la ridondanza; il presente l’edonismo».

Perché nelle sue chiese, a cominciare dalla prima di Mogno nel Canton Ticino, dietro l’altare c’è solo il crocifisso?

«Il crocifisso è la forma iconica che comunica il cristianesimo. C’è il martirio di Gesù Cristo e ci sono la teoria della fratellanza e la visione della pace. Non servono altri orpelli, oro e decoro che appartengono a epoche più lussuriose. La mia cultura è influenzata dal romanico e dalle sue forme primitive. Siamo figli, oltre che della storia, del Bauhaus e del Movimento moderno. Perciò l’arte povera e il minimalismo ci sono vicini più delle figure retoriche e celebrative del passato».

La chiesa di San Giovanni a Mogno nel Canton Ticino

La chiesa di San Giovanni a Mogno nel Canton Ticino progettata da Mario Botta

Alcune sue chiese possono sembrare degli auditorium.

«Spero proprio non sia così. La chiesa dovrebbe portare in sé, oltre ai ritmi della liturgia, anche la memoria di un grande passato: l’altare come ara o mensa, l’abside come immensità del mondo esterno. Abbiamo duemila anni di storia alle spalle. Il passato è una realtà viva del presente. Se pensiamo a Pablo Picasso, il più creativo degli artisti contemporanei, capiamo che non sarebbe stato così innovativo se non avesse rielaborato la cultura ancestrale dell’arte africana. Lo stesso dobbiamo dire delle opere di Paul Klee e del suo essere Bambino, oppure degli studi sul volto di Alberto Giacometti, o della Donna di Henry Moore. Ognuno ha in sé una cultura ancestrale che reinterpreta con un proprio linguaggio».

Che cosa pensa dell’idea di alcuni politici di eliminare i monumenti dell’epoca fascista? Come giudica l’architettura del Ventennio?

«È un’architettura significativa non solo per la storia politica e sociale; possiede infatti un linguaggio architettonico fortemente identitario, che merita di essere conservato».

Quanto conta la luce nella sua architettura?

«La luce è la vera generatrice dello spazio. Se la escludiamo lo spazio scompare. Non è un’entità fisica, ma una realtà immateriale che si configura come materia e colore. Uno strumento che l’architetto utilizza per dare forma allo spazio».

E quanto conta il rapporto con il territorio?

«Il territorio è una componente fondamentale dell’opera costruita: non può esistere un fatto architettonico unicamente autoreferenziale. Con l’architettura modelliamo la crosta terrestre. L’architettura non è uno strumento per costruire in un luogo, ma per costruire quel luogo. Una bella architettura esiste perché in dialogo con il contesto, in un rapporto di dare e avere reciproco che s’instaura tra il manufatto e il paesaggio».

Da cosa trae ispirazione un architetto?

«Soprattutto dal territorio che gli è dato. Le Corbusier diceva che la lettura del contesto è il primo atto critico dell’architetto, è l’inizio del pensiero che porta al progetto».

Le Corbusier è il suo principale punto di riferimento. Gli altri?

«Le Corbusier è certamente quello che sento più vicino anche geograficamente oltre che culturalmente. È anche lui figlio di questi laghi e di queste montagne. Considero un mio grande maestro anche Louis Khan, un architetto e un pensatore messianico».

Messianico?

«Nel senso che si esprimeva come un profeta. Per esempio quando gli chiesero di definire cos’è la scuola rispose che erano “due uomini che si parlano sotto un albero”. Ci sono l’idea della comunicazione e della protezione rappresentata dall’albero. Il prossimo ottobre l’Accademia di architettura di Mendrisio allestirà una grande mostra su Kahn e Venezia».

Molte chiese edificate negli anni Settanta sembravano capannoni industriali. Qual è la sua idea di modernità?

«Dopo il sodalizio tra il teologo Romano Guardini e l’architetto Rudolf Schwarz – che negli anni Trenta-Cinquanta rigenerò l’architettura ecclesiale e il movimento del Bauhaus e fu ripreso in Italia dagli architetti razionalisti – il Sessantotto ha immaginato che le attività di culto potessero svolgersi all’interno di fabbriche, garage, o capannoni, senza tener conto della loro specificità né degli esempi indicati da Scarpa, Le Corbusier, Kahn e Aalto. Abbiamo assistito a un vero imbarbarimento al quale i conservatori hanno contrapposto un ritorno alle tipologie del passato. Ma questa è una partita persa perché l’architettura non può far altro che essere l’espressione del proprio tempo».

Come definirebbe lo stato di salute attuale dei costruttori di cattedrali?

«Direi che stiamo arrancando alla ricerca di forme contemporanee. Credo dovremmo avere l’umiltà di riprendere gli insegnamenti delle avanguardie artistiche. Non è facile rispondere a questa domanda: come disegnare una chiesa dopo Picasso o Marcel Duchamp? Il senso etico ed estetico è cambiato, non possiamo far finta che non ci siano stati gli stravolgimenti delle avanguardie».

C’è un ritorno al monumentale pur restando nell’essenziale?

«Il ritorno del monumentale era il titolo di un convegno indetto dal cardinale Jean-Marie Lustiger quando ho progettato la cattedrale di Evry, presso Parigi. Quel convegno sancì l’errore del Sessantotto. La funzione definisce il luogo: lo stadio per il gioco, il teatro per la recitazione, la chiesa per la preghiera».

Come si pensa a un campanile nelle città di grattacieli?

«Sarebbe un controsenso. Un campanile a Milano City sarebbe ridicolo. Il campanile nacque nelle grandi pianure per comunicare un’emergenza. Oggi un’orografia ricca e opulenta mette in crisi l’idea stessa del campanile. Non deve più spiccare sull’architettura della chiesa, ma dare un segnale diverso, una comunicazione sonora».

Dove le piacerebbe edificare adesso?

«Su queste montagne e vallate. Ognuno è portato a vivere i propri giorni dov’è nato, dove ha conosciuto i propri progenitori, dove hanno vissuto i popoli estinti; realtà che appartengono alla nostra quotidianità anche se non sempre ne abbiamo consapevolezza. Il traguardo è lavorare nel posto delle origini, là dove agisce con continuità il territorio della memoria».

Lei ha progettato scuole, edifici pubblici, teatri, ha lavorato alla ristrutturazione della Scala: che cosa preferisce costruire oggi?

«Se potessi scegliere costruirei solo luoghi di culto. Purtroppo l’architetto non può scegliere, ma è scelto. Nei luoghi di culto si concentra l’essenzialità del costruire. I teatri, per esempio, sono più complessi perché nel tempo funzioni e spazi sono mutati per creare illusioni e adeguarsi alle nuove forme di comunicazione. Il luogo di culto – chiesa, sinagoga o moschea – è più stabile e mantiene un costante rapporto, mediato dalla liturgia, tra fedeli e celebrante».

 

La Verità, 10 giugno 2018

 

 

 

Sky tenta «Il miracolo»: una serie sul sacro

E se fosse vero? Se davvero un evento soprannaturale irrompesse nella nostra quotidianità? Come reagiremmo? Che cosa accadrebbe alle nostre vite? Sono questi gli interrogativi da cui prende le mosse Il Miracolo, la nuova serie originale di Sky, creata, scritta e diretta da Niccolò Ammaniti, in onda da martedì prossimo su Sky Atlantic (e in simulcast anche su Sky Cinema Uno, oltre che on demand). Prodotta da Mario Gianani e Lorenzo Mieli per Wildside, in coproduzione con Arte France e Kwaï, la serie si sviluppa in otto episodi, uno per ogni giorno da quando l’inspiegabile avvenimento improvvisamente si palesa. L’Italia è alla vigilia del referendum che può portarla fuori dall’Europa e, durante un’operazione di polizia a caccia di un boss criminale, viene rinvenuta la statua di una Madonnina che piange sangue. Il generale Votta (Sergio Albelli) convoca il primo ministro Fabrizio Pietromarchi (Guido Caprino) per mostrargli la straordinarietà del fatto e la necessità di non divulgarlo nemmeno al Vaticano: «Se si venisse a sapere, arriverebbero milioni di pellegrini», sostiene, convinto, il capo dei servizi segreti, «e ci troveremmo di fronte a un grave problema di ordine pubblico nell’imminenza del referendum». Anche gli analisti chiamati a pronunciarsi non sanno darsi spiegazioni compatibili con le leggi della fisica: un corpo non può produrre materia superiore al proprio peso e questa statuetta di 2,3 chili piange 9 litri di sangue l’ora. I catini si riempiono velocemente di «sangue umano, sangue maschile, sangue vivo», documenta la biologa (Alba Rohrwacher), «i cui valori variano come se la Madonna si nutrisse, modificando glicemia, fluidità, composizione ematica». In assenza di risposte scientifiche, restano due alternative: il trucco tecnologico, la truffa, o il miracolo. Al premier non resta che chiedere consiglio a padre Marcello (Tommaso Ragno), un prete missionario conosciuto in Africa, del quale però ignora la crisi in cui è piombato, preda di fin troppe pulsioni incontrollabili, dalla ludopatia alla pornografia, dall’alcol al sesso.

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