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«Dopo Renzi pubblicherei il libro di Salvini»

«Io e mio padre eravamo molto diversi. Lui un’intellettuale con tratti geniali, io un manager con interessi di economia. Lui sempre vissuto in Italia, io molto all’estero. Lui sedentario, io sportivo. Concordavamo su cosa fare, non su come farlo. Ci confrontavamo animatamente». 52 anni, un passato da dirigente in Lehman Brothers, figlio del primo matrimonio di Cesare De Michelis, gran giocatore di bridge e praticante di triathlon, fatica pura, da un decennio Luca De Michelis è amministratore delegato di Marsilio editori. Dal padre ha preso la lungimiranza operativa, la facilità nei rapporti e la predisposizione a lavorare in squadra. Marsilio ha chiuso il 2018 registrando 8 milioni di fatturato, ma grazie all’accordo con Feltrinelli voluto da Luca, il bilancio 2019 migliorerà notevolmente. Da un anno l’editrice è nella nuova sede, più moderna e ariosa, all’imbocco del Canale della Giudecca, dove sfilano yacht e vaporetti. Cesare De Michelis è morto il 10 agosto scorso a Cortina d’Ampezzo.

Che cosa le manca di più di suo padre?

«Forse la generosità, la più sottaciuta tra le sue tante doti. Quando discutevamo su come fare una cosa, spesso io concludevo: “Se vuoi farlo così, fallo tu”. Allora lui concludeva: “No, fallo tu”. Si tirava da parte, mostrando generosità verso Marsilio e la sua storia, oltre che verso di me. Mi mancano questo confronto, le sue intuizioni geniali, certi guizzi irreplicabili. Dopo aver a lungo ascoltato, quando ho capito che volevo fare l’editore, ho anche capito che non potevo farlo come lui, intellettuale e fondatore che incarna il marchio. Insieme a Cesare abbiamo immaginato come sarebbe stata Marsilio senza di lui».

Con più gioco di squadra?

«In un certo senso sì, anche se qualche volta decido da solo. Il rapporto con Emanuela (Bassetti, seconda moglie di Cesare De Michelis ndr) e il suo aiuto quotidiano sono fondamentali. Eravamo preparati a questa perdita e oggi seguiamo un percorso tracciato e condiviso».

Nel quale l’insegnamento di suo padre – «un editore non fa i libri che si vendono, ma vende i libri che si fanno» – è la stella polare?

«È un mantra che continua a guidare il nostro lavoro».

Vuol dire che non si parte dal mercato, ma lo si determina?

«Noi crediamo che la domanda di cultura sia sostanzialmente una domanda di identità. Un’identità che si crea sia per somma che per differenza. Chi siamo e a cosa apparteniamo ci diversifica da altre persone e da altre comunità».

Concretamente, parlando di libri?

«In Italia si legge poco, ma i festival sono pieni. Le mostre sono affollate, ma le stesse opere sparse non destano analoga curiosità. Questo significa che sono gli eventi a creare appartenenza. Credo che un editore moderno debba saper trasmettere questo senso di comunità. Per farlo, prima di tutto un’identità deve averla».

E Marsilio…

«Prova a essere uno specchio intelligente del tempo presente. Prova a costruire la casa un mattone alla volta, attraverso il dialogo tra gli autori, aprendo spazi di discussione. Più che inseguire i bestsellers c’interessa che ogni autore si esprima al massimo delle sue potenzialità».

In che cosa il mercato del libro deve cambiare?

«Migliaia di case editrici producono decine di migliaia di libri. Questa ricchezza è sintomo di vitalità, ma genera un intasamento in cui è difficile distinguere le cose buone da quelle meno buone. Da economista penso che l’eccessiva frammentazione non faccia bene. Qualche anno fa c’erano 8000 case editrici, oggi sono meno, ma temo sempre troppe».

Suo padre diceva che «se i piccoli restano piccoli è perché sono malati».

«L’orgoglio del “piccolo è bello” non gli piaceva. Premesso che l’identità è fondamentale, non sempre la microidentità è un valore. Anche le imprese culturali non sfuggono alla regola per la quale, per guidare il cambiamento, serve una dimensione minima. Credo che una selezione darwiniana sarà inevitabile. Si perderà una certa pluralità ma, da liberale, sono convinto che il mercato sia il sistema più affidabile e democratico».

Bisogna crescere per non morire?

«Nel Novecento il mercato era determinato dalle aree geografiche. Editoria e media erano un sistema integrato, chi pubblicava libri stampava anche giornali e viceversa. Oggi l’accesso al pubblico è definito dal canale prescelto. Con l’avvento di Internet, l’editore è diventato un’infrastruttura, come la telefonia e le autostrade. Basta guardare a ciò che sta avvenendo nel sistema audiovisivo con Netflix o al declino della carta stampata. Nell’editoria il processo è più lento perché il libro è una tecnologia con applicazioni diversificate. Ma anche qui il processo è avviato».

Dov’è più visibile?

«Pensi alle enciclopedie e ai dizionari, il cosiddetto reference. Da quando c’è Wikipedia nessuno è più disposto a pagare per conoscere il significato di un vocabolo. L’Enciclopedia britannica ha chiuso».

Perché gli italiani leggono meno di altri popoli?

«Abbiamo una diversa cultura del commuting (pendolarismo ndr) rispetto, per esempio, al mondo anglosassone. Preferiamo raggiungere il posto di lavoro in auto, in Gran Bretagna si usano più treni e metropolitane. Non so quanto, ma credo che questo incida. La seconda motivazione è storico-culturale. Fino a 60 anni fa in Italia il tasso di analfabetismo era elevato; quando è arrivata l’alfabetizzazione è arrivata anche la televisione. Infine, il sistema scolastico ha le sue responsabilità».

A che cosa si deve il vostro incremento di vendite del 65% nei primi mesi del 2019?

«In gran parte all’ottima resa dell’accordo stipulato un anno e mezzo fa con Feltrinelli. Dopo la perdita di Cesare, con l’aiuto di Emanuela Bassetti abbiamo definito le linee dei singoli settori grazie agli innesti di Ottavio Di Brizzi per la saggistica e di Chiara Valerio per la narrativa italiana, e al lavoro di Francesca Varotto per la letteratura straniera, di Rossella Martignoni per l’editoria d’arte e di Jacopo De Michelis per i gialli. La piattaforma di Feltrinelli ha permesso che questa squadra rendesse al meglio».

È sbagliato dire che avete respinto Mondadori per finire in braccio a Feltrinelli?

«Mondadori ha scelto di cedere Marsilio e Bompiani dopo un provvedimento dell’Antitrust. A quel punto abbiamo riacquisito Marsilio e abbiamo trovato un altro partner che ci consente di perseguire il nostro progetto; progetto sul quale, questo partner, ha ritenuto a sua volta d’investire».

Nel 2020 scenderete al 40% delle azioni e Feltrinelli salirà al 55: timori?

«No, perché c’è grande complementarità. L’identità di Marsilio è un valore per noi e per loro. Non vedo pericoli di omologazione, siamo stati 16 anni in Rcs rafforzando la nostra identità».

Quanto incide il fatto di essere una casa editrice con sede a Venezia?

«Venezia offre opportunità che altri luoghi non consentono. Basta pensare a quello che succede qui nel mondo dell’arte. O alla presenza della Biennale e di tutti gli enti pubblici e privati, dall’università al museo Peggy Guggenheim, promotori di eventi di risonanza mondiale. Tutto questo fermento crea le condizioni per lo sviluppo di un polo editoriale eccentrico rispetto a quello milanese. Venezia, capitale di cultura internazionale è un patrimonio da coltivare con sempre maggior convinzione».

Un grande editore è più un manager attento al marketing, un uomo di rapporti, un talent scout o un organizzatore visionario?

«Io m’impegno come caposquadra per dare coerenza al gruppo di intelligenze e di talenti che lavora con me. Costruendo e consolidando il patrimonio di relazioni e il rapporto con il territorio. La funzione del manager è principalmente risolvere i problemi quando si presentano. Anche se ai miei collaboratori non piace tantissimo quando dico che non esistono problemi, ma solo opportunità».

Che idea si è fatto del caso Altaforte-Salone del libro?

«Penso che sia stata una polemica sciocca. E che una volta di più avrebbe dovuto valere la famosa massima di Voltaire. Credo che la libertà di espressione sia irrinunciabile soprattutto per un Salone del libro. Detto questo, la polemica è stata uno spot pubblicitario, senza con questo intendere che sia stata cercata».

Oggi ripubblicherebbe Il sesso in confessionale, il primo saggio che nel 1973 superò le 100.000 copie e vi diede notorietà internazionale?

«Oggi sarebbe datato. Tendenzialmente sono favorevole alle pubblicazioni che rompano la cultura del politically correct invisa al grande pubblico. Ma mi sembra che quel tipo di editoria provocatoria che allora era un valore, abbia perso un po’ di mordente».

C’è un libro che avrebbe voluto pubblicare e non ci è riuscito?

«Non stravedo per la figura dell’editore predatorio. Al contrario sono molto felice quando pubblico un libro di cui non condivido nulla. Credo che il lavoro di editore sia anche dare voce a posizioni che meritano di essere rappresentate anche se non ti appartengono».

Quindi, dopo il libro di Matteo Renzi, pubblicherebbe anche un libro di o con Matteo Salvini?

«Certo, lo pubblicherei a patto che non fosse un testo di propaganda e di slogan, come sono spesso quelli firmati da esponenti politici. Un libro nel quale Salvini illustrasse in modo compiuto la sua visione politica lo pubblicherei senza puzza sotto il naso. Aiuterebbe a capire di più il nostro tempo».

Altri libri che vorrebbe avere in catalogo?

«Mi sarebbe piaciuto essere l’editore della saga di Harry Potter, più per divertimento che per altro. Mentre non sarei stato interessato a quella delle varie sfumature colorate. Trovare il bestseller è anche fortuna, ma la si può aiutare, com’è accaduto con i gialli di Stieg Larsson».

A differenza di suo padre che ha giurato a Stefano Lorenzetto di non averla, lei ce l’ha la psiche?

«Probabilmente sì, quello di mio padre era un paradosso. Ce l’aveva anche lui, la psiche. Come dimostra la sua predilezione per certi autori, che non rivelerò».

 

La Verità, 16 giugno 2019

Gruber, Fazio, Monti: il livore ha fatto autogol?

Gli antagonisti. Gli ossessionati. Gli avversari. Quelli che si sono più esposti contro Matteo Salvini. È un intero mondo a uscire sconfitto dalle elezioni di domenica. Oltre a partiti e schieramenti, persone precise. Ma anche un sistema di pensiero. Una mentalità. L’élite culturale.

Roberto Saviano, il capofila dell’opposizione. Opposizione culturale e antropologica. Opposizione insultante, anche. Al punto che, prima o poi, arriverà a sentenza nelle aule giudiziarie. Intanto, quella elettorale è arrivata dalle urne. La Lega primo partito a Riace e Lampedusa, roccaforti del savianismo sventolato dai testimonial doc Domenico Lucano e Pietro Bartolo, è una lapide sull’accoglienza indiscriminata. Ideologo in disarmo.

Fabio Fazio. Braccio armato, esecutore, assistente dell’ideologo, non a caso un habitué degli studi di via Mecenate. La lista degli ospiti parla da sola: volontari delle Ong, militanti dell’accoglienza h24, Mimmo Lucano, Gino Strada, Nicola Zingaretti, senza dimenticare il ruolo di Carlo Cottarelli. La trattativa per la riduzione dello stipendio e il trasloco a Rai 2 era iniziata prima del voto, ma è trapelata a spoglio elettorale terminato. Con emblematico tempismo. Dottor Watson di Saviano.

Lilli Gruber, condensato di stizza nel chiodo da giustiziera. Ha trasformato la sua postazione serale nella riserva dell’ossessione antisalviniana. Indicato il bersaglio, ci pensavano i cortesi ospiti a eseguire garbatamente la sentenza. Ogni puntata un’esecuzione, in assenza della vittima. Un incontro di wrestling con il fantasma. Che, quando si è palesato, ha reso epifanica la faziosità della signora. Centrifuga di livore.

Mario Monti. L’ex premier ed ex commissario europeo è stato richiamato in servizio dopo la pensione come certi poliziotti quando c’è da fare il lavoro sporco che i novellini non riescono a svolgere. Ha rimesso la divisa di Bruxelles ed è tornato in campo a menare fendenti sui sovranisti, ignoranti di economia e mercati. Magari carezzando la riedizione del governo tecnico. Ospite fisso di Corrado Formigli e saltuario di Gruber e Giovanni Floris, che ha una liason con Elsa Fornero. Sacerdote dei rigoristi, guru dell’austerity protetto dall’Agcom. Vanesio datato.

Salone del libro. Tempio del narcisismo e dell’autoreferenzialità. Sinergia di fondamentalisti, scrittori e politici volenterosi, da Christian Raimo a Nicola Lagioia a Chiara Appendino. Siamo informati e colti, impegnati e letterati. Chi non è con noi resta fuori. In nome della democrazia, ovviamente. L’inclusione vale solo per le minoranze acquiescenti. L’esclusione della casa editrice Altaforte vicina a Casapuond resterà una macchia nella storia del tempio. Intolleranti chi?

Gad Lerner. Estensore di liste di proscrizione. Denunciatore seriale di presunte censure. Cacciatore di fantasmi fascisti. Mediatore delle «classi subalterne». È andato chez Fazio a lamentare la poca libertà nella televisione italiana causa oppressione del governo gialloblu. In compenso, lunedì prossimo su Rai 3 comincia L’Approdo, il suo nuovo programma ispirato a una storica, ma non faziosa, trasmissione degli anni Sessanta. Rintronato.

Federico Fubini, portavoce degli apparati della Commissione europea. Per lui il ministro dell’Economia Giovanni Tria è sempre sull’orlo delle dimissioni perché ogni dichiarazione di Salvini viola un parametro o infrange un patto. Che è molto più di un dogma. Quanto alla notizia dei 700 bambini greci morti a causa dell’austerity imposta dalla Troika, quella si può ignorare anche se si fa parte del Gruppo di alto livello nominato dalla Ue per la lotta contro le fake news. Furbino.

Concita De Gregorio, volto di Repubblica in ascesa nella scala degli opinionisti da talk. Avvolta in una nuvola di degnazione, dispensa le sue conoscenze alla massa. Ma sempre mantenendo una certa distanza. Nel pieno del polverone per il caso Altaforte al Salone del libro ha proposto la creazione di un codice etico per vagliare il pedigree delle case editrici. Sempre in nome della correttezza democratica. Ridateci Daria Bignardi.

Fabrizio Salini, amministratore delegato Rai a due velocità. Prontissimo a intervenire al primo lamento di Fazio per la sostituzione di due puntate di Che fuori tempo che fa, il tavolo con Max Pezzali e il Mago Forest, con altrettanti speciali di Bruno Vespa, ha alzato la voce contro la direttrice di Rai 1 Teresa De Santis. Assai meno vigile sull’assenza di programmi nei giorni immediatamente precedenti il voto, ha lasciato campo libero a Enrico Mentana. Urge tagliando.

Agcom, Autorità garante per le comunicazioni presieduta da Angelo Marcello Cardani, già capo di gabinetto di Monti. Prima ha diffidato il Tg2 per un servizio critico nei confronti dell’ex premier bocconiano sulle sue previsioni nefaste in caso di vittoria dei sovranisti. Poi ha pensato bene di redigere un regolamento che persegua chi critica donne, migranti, gay e transessuali: minoranze più che intoccabili. Tribunale del politicamente corretto.

La Verità, 29 maggio 2019