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«Inter, Milan e Juve in pole Pochi talenti? La Figc…»

Anche quest’anno Sandro Piccinini sarà il telecronista di Prime Video per la Champions League, rinnovata a 36 squadre. Insieme a Massimo Ambrosini commenterà la miglior partita del mercoledì in un appuntamento che, con la folta squadra di inviati e talent, si propone sempre più di qualità. Per concentrarsi totalmente sull’evento, l’ex conduttore e telecronista Mediaset ha rinunciato anche alla collaborazione con Rds Radio Serie A. Ma visto che oggi, con Genoa-Inter e Milan-Torino, parte il campionato, qui parliamo soprattutto di cose italiane.
Sandro Piccinini, qual è la tua griglia scudetto?
«Al momento, metterei Inter, Milan e Juve in prima fascia. Poi Napoli, Atalanta, Roma e Fiorentina, mentre il Bologna mi sembra un po’ in difficoltà».
L’Inter privilegerà la Champions e il Mondiale per club?
«Non credo. Il primo obiettivo rimane il campionato. La Champions non è un traguardo da fissare adesso. Troppe incognite legate a sorteggi, infortuni e calendari. Se non sei il Real Madrid cominci a pensarci in primavera».
L’Inter ha preso Taremi e Zielinski, ma i titolari sono quelli dell’anno scorso: rischi?
«Sì, non è facile ripetersi. Su Chalanoglu e Lautaro Martinez non ho dubbi, qualcuno ce l’ho sul fatto che si confermi Thuram… L’Inter non è giovanissima; i ricambi ci sono, ma un paio di rinforzi di qualità servirebbero. Scarseggiano i soldi, servono le idee».
A Giuseppe Marotta non mancano.
«Ma non sempre si indovina, l’anno che sbagli due acquisti sei in difficoltà. L’Inter ha confermato le sue colonne e il nuovo proprietario, Oaktree, ha brillantemente risolto il nodo del rinnovo di Lautaro Martinez».
Considerato lo scarto dell’anno scorso, tra le rivali chi si è avvicinata di più?
«Potenzialmente, il Milan. Mi pare che Ibrahimovic cominci a incidere come dirigente. Gli acquisti sono mirati, giocatori utili nelle zone in cui c’era bisogno. Morata è una buona idea. Vedo una squadra equilibrata, con più fisico e più ordine».
La Juventus vuol fare la rivoluzione passando dal gioco speculativo di Massimiliano Allegri a quello liquido di Thiago Motta. Quanto tempo avrà a disposizione, ricordando i precedenti di Maurizio Sarri e Andrea Pirlo?
«È il duo John Elkann Cristiano Giuntoli ad aver voluto la rivoluzione. Sarri era un’idea del solo Andrea Agnelli, ma i giocatori non la condividevano. Stavolta si cambia anche metà della rosa. Le rivoluzioni hanno bisogno di tempo, ma Elkann e Giuntoli lo sanno. A essere impazienti saranno i tifosi, soprattutto i nostalgici di Allegri».
Il rischio è notevole, considerando la lista dei giocatori messi fuori rosa?
«Quando si inizia una transizione così impegnativa la pazienza è indispensabile. Non è che da domani la Juventus giocherà come il Bologna».
L’acquisto di Koopmeiners aiuterà?
«È fondamentale, ma parliamo di grosse cifre. Non sarà facile per la Juventus vendere i giocatori che ha messo sul mercato».
Il patron della Fiorentina, Rocco Commisso, contesta spesso l’irregolarità del campionato perché si concede l’iscrizione a club con bilanci discutibili, leggi Juventus, ma poi gli vende puntualmente gli elementi migliori, l’ultimo è Nico Gonzalez.

«Chiamiamola realpolitik. Comisso fa gli interessi della Fiorentina. Se vuole monetizzare vendendo un giocatore e l’offerta migliore la fa la Juve, cosa dovrebbe fare?».
Il presidente della Figc Gabriele Gravina dice che i club devono rispettare le regole, ma all’estero le norme prevedono dure sanzioni per chi le viola. Perché in Italia non è così?
«È chiaro che se ci fossero stati controlli severi alcune società non sarebbero incorse nei problemi che hanno avuto. È evidente che, con tutto il rispetto della Covisoc (la commissione che verifica l’equilibrio economico e finanziario delle società ndr), qualcosa è sfuggita».
Bisogna correre ai ripari?
«Si deve. Se si guarda al monte ingaggi e ai bilanci degli ultimi due anni, molte società hanno cambiato comportamento. L’epoca dell’ingaggio di Cristiano Ronaldo è finita, lo conferma anche questa campagna acquisti. L’Atalanta e il Bologna hanno fatto da modelli».
Con la nuova Champions League e il nuovo Mondiale per club previsto a giungo, le squadre più titolate giocheranno più di 60 partite: troppe?
«Sia la nuova Champions che il nuovo Mondiale per club servono a portare soldi alle casse delle società. Ma questo non deve indurle ad avere rose di 40 giocatori. Si può vendere l’anima al diavolo, ma fino a un certo punto. Anche perché a rimetterci sono gli stessi giocatori. All’inizio della scorsa stagione c’era un Bellingham strepitoso che nella fase finale della Champions e agli Europei non si è visto. Pensiamoci: il calcio deve rimanere uno spettacolo per il pubblico, ma tutti dovrebbero essere disposti a guadagnare un po’ meno. Se guadagnano 10 milioni l’anno invece di 12, i giocatori possono accontentarsi».
Il campionato a 18 squadre aiuterebbe?
«Sarebbe un primo passo, ma da quanto ne parliamo?».
A Napoli altra rivoluzione con Antonio Conte?
«Aurelio De Laurentiis l’aveva già fatta qualche anno fa quando pensò di risolvere tutto chiamando Carlo Ancelotti. Poi, però, la campagna acquisti fu deludente. Conte si è già lamentato… Ha grande autostima, ma sa che gli servono giocatori adeguati al progetto. Non basta certo Lukaku… Se con i soldi della vendita di Osimhen arrivano quattro giocatori in linea con le sue richieste, il Napoli può cambiare faccia».
L’Atalanta vista con il Real Madrid è pronta per lo scudetto o si accontenterà di qualificarsi alla Champions?
«Oltre alle idee, adesso l’Atalanta ha i soldi arrivati dai successi nelle coppe. Lo si è visto dalla rapidità con cui ha preso Retegui dal Genoa e Brescianini dal Frosinone. Credo debba convincersi di essere pronta per il vertice, senza disperdere troppe energie nelle varie competizioni».
Quante chance dai alla Roma di Daniele De Rossi, Soulé e Dybala?
«Difficile che Dybala rimanga, troppo alto quell’ingaggio per 20 partite l’anno. Con Tiago Pinto, la Roma si era affidata al carisma di José Mourinho, salvo poi allontanarlo dicendo che la squadra era da Champions. Ora, però, la stanno smantellando… Il nuovo direttore sportivo, Florent Ghisolfi, dimostra di avere buone idee. Ha preso Dobvik, il capocannoniere del campionato spagnolo, Soulé dalla Juventus e Le Fèe dal Rennes. Sono contento per De Rossi perché si sta attrezzando una squadra all’altezza delle ambizioni che merita».
Perché nella formazione titolare del Milan rischiano di non esserci italiani?
«Non ci vedo una filosofia, ma affari più convenienti. Quando i giovani italiani di Milan Futuro saranno pronti giocheranno».
La prestazione della Nazionale agli Europei ha evidenziato una grave carenza di talenti, per esempio a confronto con la Spagna: cosa deve cambiare nel nostro calcio?

«Dobbiamo fare due ragionamenti. Il primo riguarda la Federazione e la gestione delle scuole calcio sul territorio nazionale. In Germania ci sono 400 centri federali che vanno alla ricerca capillare dei ragazzini migliori. Da noi il reclutamento è approssimativo e l’accesso al calcio selettivo. Non tutte le famiglie possono permettersi 500 600 euro l’anno per iscrizione, scarpe, divise e allenamenti tre volte la settimana… Né si può accollare tutto alle società, che sono soggetti privati. La Federazione come spende i suoi fondi? Se non interviene a questo livello, molti talenti, magari figli di immigrati, resteranno a giocare nel cortiletto».
Il secondo ragionamento?
«Riguarda la Nazionale. Spagna a parte, nettamente più forte, abbiamo giocato male con tutti e siamo stati dominati dalla Svizzera che, certamente, non ha un calcio migliore del nostro. Premettendo che Luciano Spalletti è un grande allenatore, qualcosa non ha funzionato tra lui e la squadra, o sul piano umano o sul piano delle indicazioni tattiche. Non è che ci ha eliminato il Brasile».
Un anno fa la spesa degli emiri aveva spaventato molti addetti ai lavori, oggi ci sono meno timori?

«Era spaventato chi non capiva che quel mercato portava incassi e risolveva parecchi problemi. Purtroppo, è una risorsa che durerà poco perché gli emiri cominciano a capire che da loro il calcio non crescerà più di tanto; per motivi storici, di territorio e climatici. E anche per una certa influenza delle donne: considerate le condizioni di vita locali, mogli e fidanzate non vogliono sentir parlare di Arabia».
Invece l’ex Ct Roberto Mancini giusto un anno fa seguì il richiamo dei petrodollari.
«Come nel caso di Dybala, parliamo di giocatori e allenatori che hanno avuto tutto dal calcio europeo e vanno monetizzare a fine carriera. Sarebbe diverso se parlassimo di Bellingham o Thiago Motta. Mancini ha approfittato del nome che si è fatto e dei privilegi concessi dalla Federazione, compreso l’ampio staff di collaboratori. Pur riconoscendo la priorità del mercato, quella scelta non mi piacque, penso che Mancini avrebbe dovuto avvertire Gravina».
Poteva essere il momento giusto anche per le dimissioni del presidente della Figc? Come prevedi andranno le elezioni del 4 novembre?
«Se si fosse dimesso subito dopo Mancini sarebbe sembrata una fuga di massa. Mi pare che, in quel contesto, Gravina si sia mosso bene, sorpreso dalla scelta egoistica dell’ex Ct. Però, dopo il fallimento di questi Europei, che segue le due mancate qualificazioni mondiali, sì: dovrebbe trarne le conseguenze. Credo sia questione di tempo. Non sarà facile trovare l’alternativa».
La stampa sportiva è troppo militante?
«Spesso si sa prima cosa scriveranno i giornali perché seguono le inclinazioni dei tifosi. Poi c’è anche un motivo economico. Siccome le vendite calano, si taglia la qualità e, per far quadrare i conti, si inseguono i social e i siti schierati per agganciare i tifosi più accesi. Con il risultato che, a volte, la testata storica scrive più o meno la stessa cosa del blog più becero».
Che cosa vuol dire che Massimiliano Allegri, Stefano Pioli e Maurizio Sarri sono ai box?
«È un discorso generazionale ed economico. Molti presidenti cercano allenatori giovani e meno costosi. Una volta il vecchio guru era più ricercato. Ma non si può mai dire, magari domani Allegri trova un grosso club all’estero… Poi c’è un rinnovamento in atto, portato da tecnici inclini a sperimentare. Spesso si dimentica che il calcio dovrebbe essere uno spettacolo, altrimenti il telespettatore guarda gli highlights perché l’intera partita annoia».
Un nome rivelazione di questa stagione?
«Per ora direi Soulé: in una grande può fare il salto di qualità definitivo».

 

La Verità, 17 agosto 2024

Perché «Er gol de Turone» non va mai in archivio

Lui, Maurizio «Ramon» Turone, il suo gol non l’aveva mai rivisto in questi 40 anni e più. Per non acuire la percezione netta dei romanisti di essere stati defraudati di una rete valida e della probabile conquista dello scudetto, stagione 1980-81, invece andato alla Juventus. Lo ha fatto in occasione di Er gol de Turone era bono, documentario di Francesco Miccichè e Lorenzo Rossi Espagnet, presentato alla Festa del cinema di Roma e riproposto domenica su Rai 1 (ora su Raiplay). È domenica 10 maggio 1981, dopo un intero campionato a rivaleggiare, al Comunale di Torino si gioca Juventus-Roma, ultima occasione della squadra di Paulo Roberto Falcao e allenata da Nils Liedhom di scavalcare la Juventus di Zoff, Gentile, Cabrini… con Giovanni Trapattoni in panchina, al momento avanti di un punto. I bianconeri sono ridotti in dieci per l’espulsione di Beppe Furino quando, al 27° del secondo tempo, Turone insacca su imbeccata di Roberto Pruzzo. L’arbitro Paolo Bergamo convalida la rete, ma il guardalinee Giuliano Sancini tiene la bandierina alta per il fuorigioco.

Attraverso le testimonianze dei protagonisti, gli juventini Cesare Prandelli e Andrea Marocchino, i romanisti Falcao, Pruzzo e Conti, i ricordi di Enrico Vanzina e Paolo Calabresi, tifosi della Roma, dei giornalisti sportivi, compreso Gianni Minà che intervista Giulio Andreotti, il documentario, inclinato da parte romanista, presenta il «cold case» del calcio italiano. In realtà, sebbene ci fossero già stati segnali di direzioni arbitrali discutibili, tipo quelle di Concetto Lo Bello, il gol di Turone è il peccato originale, la matrice di una serie di episodi successivi in partite decisive per l’assegnazione del titolo, tutti dello stesso segno (dal rigore negato all’Inter per il fallo dello juventino Juliano su Ronaldo, al gol non visto di Muntari in un Milan Juventus, fino alla mancata espulsione di Pjanic in un altro Inter Juventus). È questo il motivo per cui quell’annullamento non sarà mai acqua passata. All’epoca non c’era il Var, unica tecnologia che avrebbe potuto redimere quel peccato originale (non ancora come s’è visto di recente i falli di mano). C’erano solo i suoi antenati, la moviola di Carlo Sassi e il Telebeam di Giorgio Martino, significativamente di opinioni opposte. Era un altro calcio, con altre strumentazioni. Tuttavia, una continuità rimane, ben espressa da Luca Beatrice: «La Juventus ha vinto negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta… sempre. Le altre vittorie sono anomalie». Al quale, con sagacia irriducibile, ribatte Gian Paolo Ormezzano: «I gol segnati alla Juve sono sempre buoni».

 

La Verità, 31 marzo 2023

Lo scudetto del Milan vinto col fattore umano

È uno scudetto conquistato all’opposizione quello vinto dal Milan domenica allo stadio Mapei di Reggio Emilia con il 3 a 0 sul Sassuolo. Uno scudetto contro. Vinto risalendo la corrente. Ribaltando lo scetticismo dei media e degli analisti più accreditati. Domando squadre più attrezzate e sponsorizzate. Metabolizzando errori arbitrali clamorosi che hanno tolto punti che avrebbero potuto risultare decisivi. Uno scudetto vinto sul filo di lana dopo una volata di sei vittorie consecutive contro squadre molto insidiose. Ma non è solo per questo che il diciannovesimo trofeo nazionale incamerato dalla società rossonera ha un sapore particolare. Si è letto del capolavoro di Stefano Pioli, gran protagonista, allenatore finora apprezzato per le qualità umane (mai una parola fuori posto anche quando Ralf Rangnick era a un passo da Milanello), ma considerato un non vincente. Si è letto del ruolo di Zlatan Ibrahimovic e del carisma dei «vecchi» come Simon Kjaer e Olivier Giroud. Si è riconosciuta l’esplosione di talenti come Rafael Leao, Mike Maignan e Sandro Tonali. Si sono apprezzati i grandi meriti di Paolo Maldini, passato dalla dimensione di ex bandiera, prima all’ombra di Leonardo e poi di Zvonimir Boban (il cui contributo oggi non va dimenticato), a quella di dirigente autorevole e lungimirante. Se oggi il Milan è una società che attira l’interesse dei maggiori fondi internazionali è perché in poco più di due anni, grazie al lavoro di Elliott e dell’amministratore delegato Ivan Gazidis, ha risanato il bilancio e, da una sconfortante mediocrità, è salito ai vertici della Serie A, diventando un modello di calcio sostenibile. Anche queste sono considerazioni che si sono lette, soprattutto grazie al senno postumo. Perché, prima e durante, gran parte dei commentatori le ritenevano ininfluenti sul risultato del campo. I campionati li vincono i campioni, si ripete. E, dunque, con i soldi. Ci sono società che hanno improntato a questo assioma la loro filosofia. Basta guardare a come si sviluppano certe campagne acquisti.

A volte, invece, ed è questo il caso, si vincono anche con le idee. E con il fattore umano. È per questo, forse, che questo scudetto vale più di altri. Ci sono alcuni fotogrammi che fanno intuire cosa s’intende quando si parla della «forza del gruppo», come ha fatto Davide Calabria nell’euforia di domenica sera rispondendo a chi gli chiedeva il segreto della cavalcata rossonera.

Castillejo, ancora tu

 Il primo flash risale al 16 ottobre, quando alla fine del primo tempo il Milan è sotto 0 a 2 con il Verona. Dopo l’intervallo Pioli sostituisce Alexis Saelemaekers ripescando dal sottoscala dello spogliatoio Samu Castillejo che fino a quel momento aveva giocato due minuti alla seconda di campionato. Sempre dato come partente nelle ultime sessioni di mercato, nel secondo tempo di quella partita lo smilzo Castillejo, che ha sempre continuato ad allenarsi nonostante fosse marchiato come giocatore che «non rientra nei piani dell’allenatore», dà l’anima fino a risultare determinate nella rimonta rossonera. Dopo il gol di Giroud, procura il rigore del pareggio trasformato da Franck Kessie e l’autorete del difensore veronese del 3 a 2 finale. Dopo il triplice fischio si scioglie in lacrime tra gli abbracci dei compagni. Spiegherà alle televisioni che sta attraversando un momento difficile perché gli manca la famiglia rimasta in Spagna alla quale spera di riunirsi quanto prima.

Ingaggio autoridotto

Il secondo fotogramma riguarda Tonali, nato lo stesso giorno di Franco Baresi, tifoso rossonero fin da bambino quando scriveva le letterine a Santa Lucia perché esaudisse il suo sogno di diventare un giocatore del Milan. Una volta arrivato, nell’estate 2020 in prestito dal Brescia, però Sandrino delude le attese. I soliti scettici sentenziano che «non è da Milan» e che non vada riscattato. La società invece gli dà fiducia e mantiene la rotta. Per agevolare l’operazione, lui decide di ridursi l’ingaggio di 400.000 euro. Un gesto che lo rende protagonista, lo sgrava di troppe responsabilità e lo rende più disinvolto e propositivo anche in campo, fino a farlo risultare uno dei migliori della stagione.

Arbitri e alibi

Il 17 gennaio, quando in classifica l’Inter ha 49 punti e il Milan 48, si gioca Milan-Spezia. In pieno recupero, sul punteggio di 1 a 1 l’arbitro fischia un fallo su Ante Rebic senza concedere la regola del vantaggio proprio mentre la palla arriva a Junior Messias che insacca. Successivamente, nell’ultima azione della partita, lo Spezia segna il gol dell’1 a 2 e così, nel giro di un minuto, dalla vittoria quasi certa il Milan passa a una rocambolesca sconfitta. L’arbitro Marco Serra chiede scusa sconfortato per l’errore. Al termine del match Ibrahimovic gli fa visita nello spogliatoio: «Tranquillo, sbagli tu come sbaglio io». Il Codacons chiede di ripetere la partita. Al contrario, Pioli e la società non alzano i toni della polemica contro i direttori di gara e l’Aia (Associazione italiana arbitri), evitando di alimentare alibi nello spogliatoio.

Sono tre flash, se ne potrebbero aggiungere altri. Ma bastano per intuire che il fattore umano, spesso sottovalutato, alla lunga può fare la differenza anche in un gioco complesso, strano e imprevedibile come il calcio.

 

 

La Verità, 24 maggio 2022

 

«Bravo Mancini, ma non si vince tanto senza bomber»

Dài, fammi le domande». Con l’entusiasmo e la vitalità che lo accompagnano a 83 anni, José Altafini gioca all’attacco anche nelle interviste. «Sto guidando, ma possiamo provare. Aspetta che metto il bluetooth…».

Dove sta andando?

«A Bergamo, per un appuntamento di lavoro. Collaboro con un’azienda che produce campi in erba sintetica».

Alla sua età ha bisogno lavorare?

«Gandhi diceva che l’uomo deve lavorare fino all’ultimo respiro. E poi, quando sto fermo, mi annoio. Il mio ufficio è l’auto, guidare mi dà un senso di libertà come dice quella canzone di Fabio Concato, Guido piano. Appena sono in macchina mi sento un altro, mi allontano dai casini. È il mio modo di vivere, sono andato dieci volte da Torino a Malaga».

Viaggio bello lungo.

«Quasi duemila chilometri. Ho una zia che vive lì e faccio un po’ di vacanza, la Spagna mi piace. Da quando c’è la pandemia non ci sono più andato. Scusa, non è che stai scrivendo il mio coccodrillo?» (ride).

Macché coccodrillo. Come mai vive ad Alessandria?

«A Torino non stavo così bene. Alessandria è strategica per andare in Liguria, in Toscana, a Torino e Milano».

Un paio di settimane fa è andato in un paesino della provincia di Rovigo per ricevere la cittadinanza onoraria.

«Sì. A Giacciano con Baruchella, dov’è nato mio nonno paterno. È la seconda onorificenza che prendo, l’altra me l’hanno data a Caldonazzo, dov’è nata la nonna materna».

Perché vuole che le sue ceneri siano sparse nel Po?

«Tanti dicono che vogliono farle gettare in mare, ma io ho sempre vissuto vicino ai fiumi. E allora voglio che siano sparse nel Po, così arrivano in Polesine e al mare. E magari fino in Brasile».

Si sente più italiano o brasiliano?

«Mi sento un uomo del mondo. Sono nato là e sono un patriota, ma in Italia ho vissuto tante belle cose, ho conosciuto l’amore. L’Italia è gemella del Brasile, ha la stessa indole, l’allegria, la gente affettuosa».

Ad Alessandria è nato Gianni Rivera con il quale vinse la Coppa dei campioni del 1963. La doppietta contro il Benfica sono i gol più importanti della sua carriera?

«Sono importanti perché hanno portato la prima vittoria europea di una squadra italiana. Come per il Brasile che ha vinto cinque mondiali, ma quello del 1958 è il più importante. Ci fu una festa fantastica perché la Seleção aveva perso la finale del 1950 con l’Uruguay. Quando arriva il momento delle coppe mostrano spesso quei gol. Per fare il secondo ho rubato la palla a Rivera che l’aveva intercettata a centrocampo, ma io ero più avanti e sono corso verso la porta».

Era più veloce di Rivera?

«Lo disse anche Cesare Maldini. I difensori del Benfica non sono riusciti a prendermi, come i contadini che non riuscivano ad acciuffarmi dopo che avevo rubato le arance».

Ha giocato con Milan, Napoli e Juventus: dove si è trovato meglio?

«Ho sempre amato il calcio. Volevo giocare nella squadra della mia città, Piracicaba, che militava in serie A. Fare il calciatore e restare vicino agli amici. Invece Dio mi ha premiato ancora di più. Sono arrivato al Milan a vent’anni e ho vinto scudetto, Coppa dei campioni, classifica cannonieri. A Napoli non ho vinto niente, ma con Sivori mi divertivo. Allo stadio c’erano sempre 80.000 persone, in trasferta 10.000. A 34 anni sono andato alla Juventus perché volevo giocare di nuovo la Coppa dei campioni. Mi sono divertito in tutti tre i posti».

Come mai ha giocato anche nel Chiasso?

«L’ultimo anno alla Juventus avevo deciso di fermarmi e di giocare solo un mese nella squadra italiana di Toronto. Invece venne il presidente del Chiasso che mi propose un anno nella serie B svizzera. Misi delle condizioni: “Mi alleno con la Juventus e vengo da voi per la partita”. Accettarono e il Chiasso fu promosso. A chi ama il calcio non importa se gioca in serie A, B o C».

È stato compagno di grandi numeri 10: Pelè, Rivera, Sivori.

«Ho giocato con tutti i grandi, Garrincha, Didì, Liedholm, Zoff, Capello, Bettega. Quando arrivai al Milan di Maldini e Schiaffino dissi che ero venuto per imparare. A 38 anni partecipai alla partita Anderlecht contro Resto del mondo per l’addio al calcio di Paul Van Himst, il Pelè bianco. L’attacco del Resto del mondo era formato da Amancio, Eusebio, Altafini, Pelé e Cruijff».

Perché Pelè è il più grande?

«Rasentava la perfezione. Era veloce, giocava bene di testa, destro e sinistro erano uguali al 100%. Chi ha giocato con lui non può paragonarlo ad altri».

S’impose con la ginga, che cos’era esattamente?

«Era una tecnica della capoeira. Ma è un’invenzione di quel film che lui usasse la ginga. Una falsità insieme ad altre».

Tipo?

«Che sua madre lavorava a casa mia perché io ero di famiglia ricca. Non abitavo neanche nella sua città ed ero povero quanto lui. Ero suo amico, tra noi non c’era rivalità come insinua il film. Lo ammiravo allora come adesso».

Come mai suo zio le fece da procuratore?

«In Brasile c’erano già i procuratori, in Italia no. Mio zio fu uno dei primi e mi ha assistito per il contratto con il Milan».

Ha fatto qualche errore o lei è stato troppo poetico nella gestione dei soldi?

«Non è questione di essere troppo poetico. In un anno non guadagnavo quello che oggi si guadagna in un mese. I contratti erano lordi, con le tasse al 42%. Con quello che restava dovevo aiutare la mia ex moglie. L’altro sbaglio è stato il contratto in cruzeiro che si svalutò subito».

Tornasse indietro che cosa non farebbe?

«Molte cose. Ho fatto 309 gol, avrei potuti farne un centinaio in più. Sarei più consapevole e rispettoso delle società per le quali gioco. Ero un ragazzino e di qualcosa sono pentito, ma in quel momento ero felice».

Questo è molto brasiliano.

«Basta pensare a Ronaldinho e Adriano. Se fossi stato loro assistente avrei saputo consigliarli. Ti ricordi Edmundo o Animal quando giocava nella Fiorentina? Spariva per il Carnevale. Se dà i consigli giusti il procuratore può far guadagnare tanti soldi ai suoi giocatori».

Ora è una figura poco popolare.

«Ci sono mamme e mogli che prendono decine di milioni di commissioni sul contratto del figlio o del marito».

Poi c’è il caso di Gigio Donnarumma.

«A volte i procuratori provocano la rottura con la società per far vendere il giocatore e guadagnare».

Mino Raiola segue anche Zlatan Ibrahimovic, un grande campione che ha giocato in tutti i grandi club, ma a forza di cambiare non ha mai vinto la Champions.

«Per la bravura di certi procuratori si vedono cose strane. Cristiano Ronaldo alla Juventus è costato un patrimonio e non ha vinto la Champions. Dani Alves a 38 anni è tornato al Barcellona. Una volta presidenti come Andrea Rizzoli, Angelo e Massimo Moratti, Dino Viola e Paolo Mantovani rispondevano dell’andamento della società perché mettevano i loro soldi. Ogni acquisto era verificato. Oggi comandano i manager che se ne vanno con la società in deficit e prendono lo stesso la liquidazione».

La sua carriera di commentatore avrebbe potuto durare di più?

«Penso di sì, ma in Italia a volte si guarda più all’età che alla competenza. Raimondo Vianello prima e adesso Maurizio Costanzo dimostrano che conta di più la competenza. La Rai ha accantonato Bruno Pizzul che sarebbe ancora migliore di tanti giovani. Io ho lavorato in tutte le televisioni. Ho cominciato a Telealtomilanese con Luigi Colombo, poi sono andato a Telemontecarlo. Siamo stati i primi a fare la telecronaca a due voci».

Ha inventato il golaço.

«L’ho importato dal Sudamerica. Il telecronista deve fare spettacolo. Quando ero a Sky una volta Fedele Confalonieri mi chiese: “Josè, oggi che manuale di calcio usi?”. “Presidente, perché non mi chiama a Mediaset?”. Ma quando incontrai il direttore dello sport mi disse che non poteva prendere uno della mia età perché non avrebbe saputo come giustificarlo a Pier Silvio. Berlusconi ha aiutato tanta gente, non me. Ma non sono indispettito, la mia è una vita bellissima…».

Le telecronache di oggi le piacciono?

«Alcuni commentatori sono preparati, ma non hanno fantasia. Io dicevo che dove giocava Roberto Baggio nascono i fiori».

Come mai nel giro di tre mesi la Nazionale ha perso il filo del gioco?

«Mancini sta facendo un bel lavoro, però manca un po’ di esperienza. Ci siamo adagiati sugli allori, è tipico dei giovani. Anche a me è capitato, ma ho avuto la fortuna di incontrare campioni e uomini veri. Ricordo che giocavo nel Palmeiras e adoravo Zizinho, nazionale della Seleçao 1950. In una partita eravamo avversari, lui a 38 anni, io ragazzino. Prendo la palla a centrocampo e lui mi atterra, ma allunga la mano e mi aiuta a rialzarmi: “Scusa ragazzo, dovevo farlo”. La semplicità e la modestia non s’impara sui libri».

Quella semplicità c’è ancora?

«Non c’è più. Ultimamente ho rivisto Baggio e ci siamo abbracciati. Con Cristiano Ronaldo non sarebbe possibile. È ammiratissimo, ma distante. I campioni di oggi sono blindati, ci sono gli sponsor, gli agenti, gli uffici stampa. Noi quando uscivamo da Milanello passavamo in mezzo alla folla…».

In Italia ci sono troppi stranieri e si fatica a far crescere i nostri talenti?

«Anche in Europa. Quanti giocatori di colore ci sono? Senegalesi, congolesi, ivoriani… non tutti valgono il prezzo. Tanti stanno in panchina e non entrano mai, li prendono per far girare i soldi».

È per questo che attaccanti come Gigi Riva, Pierino Prati e Pippo Inzaghi stentano a emergere?

«Dobbiamo plasmare un centravanti che si faccia rispettare anche con il fisico, come Ibrahimovic. Balotelli potrebbe, ma non ha la testa».

Lei aveva potenza e astuzia, qual è la dote principale di un bomber?

«Il goleador ha l’istinto. Inzaghi non partecipava alla manovra, CR7 neanche, eppure… Pelè giocava con la squadra, quando aveva la palla sul destro teneva il difensore a sinistra e viceversa. Una volta ho detto a Riva: “Se avessimo giocato con questi palloni e questi campi, quanti gol avremmo fatto?”».

Chi è l’allenatore che le piace di più?

«Il migliore del mondo è Guardiola. In Italia Trapattoni, Capello e Lippi sono stati molto bravi».

Il suo pronostico per lo scudetto?

«Si decide a marzo. Ci sono tante variabili, i giocatori infortunati, gli allenatori che sbagliano. Per me l’Inter è più forte dell’anno scorso. Poi bisogna vedere se il Milan riesce a gestire i giovani e il Napoli tiene. La Juventus mi sembra troppo indietro. Ma tu devi dirmi una cosa…».

Prego.

«Questo non è coccodrillo, vero?».

 

La Verità, 20 novembre 2021