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«Guadagnino più scandaloso di Burroughs»

La strada del cinema è lastricata di buone intenzioni. «Ho letto Queer a 17 anni. E, dopo averlo letto, ho deciso che volevo cambiare il mondo attraverso il cinema». Tra applausi e gridolini di approvazione – gli stessi che hanno salutato la comparsa di «directed by Luca Guadagnino» alla proiezione per la stampa – il regista del film tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroghs, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, ha spiegato che quel libro «dal titolo diverso» conteneva il «romanticismo verso la persona che amiamo», la domanda di «chi siamo quando siamo soli, a prescindere dall’essere queer o no, a prescindere dall’essere a Città del Messico o altrove». Così, ha proseguito il cineasta più amato dalla comunità Lgbtq, «ho deciso che prima o poi avrei portato quel libro sul grande schermo».
Tuttavia, nonostante l’ossequio diffuso verso le ambiziose intenzioni del regista, una domanda rimane tuttora inevasa: pensando al pubblico dei cinema, a chi si rivolge realmente questo film? Chi andrà a vederlo? La comunità omosessuale? Chi è attratto dall’uso variegato di sostanze stupefacenti? Qualche gruppo di intellettuali? Chi assomma tutte queste caratteristiche? O, infine – e forse è la fetta più larga in omaggio all’astuzia della produzione (Fremantle, The Apartment, Frenesy Film Company) – il target composto dai curiosi di vedere come se la cava Daniel Craig, storico James Bond, nei panni di William Lee, l’omosessuale protagonista del racconto di Burroghs?
Questa curiosità, va detto, ha attraversato anche la sala stampa. Ci ha mai ripensato?, è stato chiesto a Craig. E poi, perché non immaginare anche un James Bond gay? Ma l’ex 007 non si è scomposto: «Non posso controllare le reazioni dei fan di James Bond. Mi era già capitato molti anni fa un ruolo gay, in un film sulla vita di Francis Bacon, faccio film da tanto tempo e di questo sono particolarmente orgoglioso. È una storia d’amore, di passione, di desiderio e di sentimenti perduti». Persino più retorico Guadagnino: «Ragioniamo da adulti, per cortesia. Nessuno può sapere quali siano i veri desideri di James Bond. Il fatto importante è che porti a termine le proprie missioni. Daniel è un attore che ammiro da tempo e ho sempre voluto lavorare con lui». A parte che una robusta cinematografia ci svela quali sono le vere inclinazioni di Bond, tuttavia la scelta di Craig è la parte vinta della scommessa del regista. Perché l’ex 007 si rivela efficace, perfettamente calato nella parte del «pervertito» – sua autodefinizione – tormentato e frustrato a causa della tiepidezza con cui Eugene Allerton, il giovane oggetto della sua concupiscenza (Drew Starkey), lo ricambia.
Il film si snoda in quattro capitoli come il romanzo scritto nel 1952, sequel di Junky (titolo italiano La scimmia sulla schiena), ma pubblicato solo nel 1985 perché ritenuto troppo scandaloso dallo stesso autore. Mentre il primo narra la sfrenatezza dell’uso di oppiacei, il secondo è attraversato dal desiderio e dall’astinenza. A innescarlo è l’uccisione nel 1951 a Città del Messico della moglie Joan Vollmer da parte dello stesso Burroughs, in circostanze mai chiarite (ubriachi, i due volevano imitare Guglielmo Tell con un bicchiere di cognac posto sulla testa della donna, ma il proiettile colpì lei. Burroughs, che non andò in galera, ne rimase traumatizzato per il resto della vita. La scena è citata anche nel film).
A Città del Messico, nel 1950, dov’è riparato per coltivare senza sbirri alle costole le sue dipendenze, vestito di bianco e con pistola alla cintola, Lee vive tra pub e locali gay per convincere Allerton a un rapporto stabile. Ma, tra desideri incompiuti, sogni e allucinazioni, l’incertezza cresce. Nessuno dei due, apparentemente, fa qualcosa che somigli a un lavoro. Al mantenimento del giovanotto, che si divide tra le nuove esperienze omo e le partite a scacchi con un’amica, provvede l’esperto partner. Che, coinvolgendolo in un viaggio in Ecuador, gli strappa la promessa di due amplessi settimanali. Ci si ritrova così a Quito, alla ricerca di nuove droghe. E poi nel rifugio nella jungla della dottoressa Cotter (Lesley Manville), specie di sciamana che inizia la coppia all’ayahuasca, decotto psichedelico che moltiplica gli effetti allucinogeni e favorisce la totale fusione dei corpi.
Andare oltre risulta obiettivamente complicato. Anche perché, complice la sceneggiatura di Justin Kuritzkes (autore pure del discusso Challenger), Guadagnino forza la mano del già forte Queer, introducendo scene di sesso ben più esplicite di quelle sostanzialmente abbozzate nel romanzo del padre della Beat generation. Il tormento che attraversa tutto il romanzo a causa della riluttanza dell’amante, qui è condensato in una sola, lunga, scena, forse la migliore del film, in cui Lee si prepara una dose di eroina (e lo stesso Craig si candida a qualche premio) per lenire il senso di solitudine che lo affligge. Per il resto, anche in conferenza stampa, tutto il cast parla di «gioia» e di «rapporti gioiosi». Altrimenti, se non fosse così, e prevalessero la frustrazione e l’abbandono del libro, come si giustificherebbero le varie scene di sesso estremo?

 

La Verità, 4 settembre 2024

«Perché la Chiesa non può addolcire l’etica sessuale»

Il cardinale Willem Jacobus Eijk, arcivescovo metropolita di Utrecht, già presidente della Conferenza episcopale dei Paesi bassi, ha da poco pubblicato Sull’amore – Matrimonio ed etica sessuale. Grazie all’editore Cantagalli, che lo distribuisce in Italia, ho realizzato questa intervista via mail. Spiace che il coraggio mostrato sostenendo i Dubia riguardo all’Amoris Laetitia non abbia aiutato Sua Eminenza a rispondere alle domande sull’esortazione apostolica di papa Francesco, sulla Fiducia supplicans e sull’Ultima cena queer dell’inaugurazione delle Olimpiadi.
Eminenza reverendissima, la morale sessuale è il terreno in cui oggi si registra la distanza maggiore fra mondo e Chiesa?
«È certamente così. Nell’annunciare Cristo e la sua risurrezione, la Chiesa incontra anche molti fraintendimenti, ma in genere la gente non si emoziona per questo. Tuttavia, l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla sessualità tocca le persone nella loro vita personale. La sua proclamazione può suscitare le emozioni necessarie».
Quali sono le cause della rottura della connessione tra matrimonio, morale sessuale e procreazione, la triade che ha orientato la vita collettiva fino alla metà del Novecento?
«Una causa diretta, ovviamente, è la secolarizzazione associata all’odierno individualismo. L’individuo autonomo decide da solo ciò che crede; per inciso, spesso segue inconsciamente l’opinione pubblica. Di conseguenza, il matrimonio non è più visto come un’istituzione creata da Dio con determinate intenzioni da cui derivano norme per l’esperienza del matrimonio e della sessualità. Nell’epoca attuale, gli individui scelgono quale interpretazione dare al matrimonio o ad altre relazioni sessuali. Anche il facile accesso al materiale pornografico crea un’immagine distorta della sessualità umana».
Le cause di questa rottura sono esterne o esistono anche responsabilità della Chiesa e della sua predicazione?
«Sono principalmente cause esterne. Gli insegnamenti della Chiesa in generale, e certamente quelli sul matrimonio e sulla sessualità, sono stati accolti con incomprensione, poiché la cultura occidentale è cambiata radicalmente a partire dagli anni Sessanta con l’aumento dell’individualizzazione e della secolarizzazione. Ciò non toglie che anche la Chiesa sia stata inadempiente, poiché nell’ultimo secolo la catechesi è stata trascurata».
La morale sessuale è scomparsa dalla predicazione perché fino agli anni Sessanta del secolo scorso è stata troppo presente?
«No, la morale è scomparsa dalla predicazione perché negli anni Sessanta la cultura occidentale ha subito cambiamenti radicali e di conseguenza è stata poco ricettiva alla proclamazione dell’insegnamento della Chiesa».
In quei decenni essere cristiani coincideva con l’irreprensibilità nel comportamento sessuale dettata da un moralismo fatto di divieti?
«Non è vero. Fino ad allora, gli occidentali vivevano in una cultura profondamente cristiana. Vita e fede erano intrecciate. La Chiesa, con le sue numerose celebrazioni, processioni e pellegrinaggi, era al centro della vita della maggior parte delle persone. Fino agli anni Sessanta, le norme relative al matrimonio e alla sessualità venivano predicate ma non spiegate. Quando Paolo VI pubblicò l’enciclica Humanae vitae nel 1968, non esisteva un’analisi teologica o filosofica della natura del matrimonio sulla base della quale si potesse chiarire perché l’uso della contraccezione, a prescindere dall’intenzione o dalle circostanze, è sempre un atto moralmente cattivo. La situazione è cambiata solo quando Giovanni Paolo II ha esposto la sua teologia del corpo nella catechesi tenuta durante l’udienza generale. In essa descrive il matrimonio come un dono totale reciproco dell’uomo e della donna, che riflette il dono totale reciproco tra Cristo e la sua Chiesa o quello tra le tre Persone divine nella Trinità. Così, è comprensibile spiegare perché l’uso della contraccezione è moralmente malvagio: il dono reciproco degli sposi non è allora totale, perché a livello fisico il dono reciproco della genitorialità è bloccato».
Nella predicazione è rimasta troppo implicita la proposta di un modello alto del matrimonio come imitazione dell’amore fra Cristo e la Chiesa?
«Nelle omelie manca comunque una chiara spiegazione dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio. Per inciso, è anche deplorevole che relativamente pochi teologi morali si occupino di teologia del corpo».
I coniugi che si accostano al sacramento sono adeguatamente aiutati a comprendere che si tratta di una via privilegiata alla santità, con tutto quello che può comportare?

«Nell’arcidiocesi di Utrecht organizziamo corsi di matrimonio che illustrano la teologia del corpo e l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia. I partecipanti, giovani coppie che intendono sposarsi in Chiesa e di solito scelgono consapevolmente di farlo, sono entusiasti: <Che bello, non l’abbiamo mai sentito prima>, è la loro reazione. Sono anche aperti a ciò che la Chiesa suggerisce riguardo alla contraccezione e al possibile uso di mezzi naturali per il controllo delle nascite».
Come la comunità cristiana può testimoniare la bellezza del matrimonio, unione feconda e «per sempre», a fronte di mode e unioni chiuse in sé stesse e spesso passeggere?
«Le migliori coppie di sposi esperti che vivono il loro matrimonio secondo le intenzioni di Dio possono testimoniare la bellezza del matrimonio come legame indissolubile aperto al trascorrere della vita umana. Nel fare questo, dobbiamo essere consapevoli del fatto che non è così facile ottenere un matrimonio felice. Le persone non sono perfette. Per questo motivo, i nostri corsi di matrimonio prevedono serate tenute da coppie di sposi esperti che mostrano ai giovani le difficoltà che possono aspettarsi nella loro vita matrimoniale e come possono affrontarle».
Perché a proposito della teoria gender papa Francesco dice che «la rimozione della differenza è il problema non la soluzione»?
«Ci sono spesso aspettative irrealistiche riguardo alle applicazioni della teoria del genere. Ciò è particolarmente vero per la teoria del genere di più ampia portata, che sostiene che il genere – i ruoli sociali di uomini e donne – può essere completamente dissociato dal sesso biologico. Ciò significa che un uomo che pensa che il suo genere sia quello di una donna può avere il suo sesso biologico adattato al genere femminile che ha scelto come identità attraverso trattamenti ormonali e procedure chirurgiche che alterano il sesso. Si tratta di un’aspettativa irrealistica. Al massimo si possono cambiare gli organi sessuali e le caratteristiche sessuali secondarie, come la voce e i peli del corpo, ma dal punto di vista del suo genere genetico rimane un uomo. Deve continuare ad assumere ormoni femminili per il resto della sua vita. Inoltre, il trattamento di riassegnazione del sesso comporta la sterilizzazione. Ci sono anche persone che si sono sottoposte a un trattamento di riassegnazione del sesso in giovane età e se ne pentono. Non è possibile annullare il cambiamento di sesso».
Quali sono le cause dell’esplosione della teoria del gender?
«La teoria del genere trae origine dal femminismo radicale degli anni Sessanta e Settanta. Le femministe vedevano nella contraccezione ormonale la liberazione della donna dal ruolo di genere che la società le aveva imposto in passato. Questo ruolo di genere significava che la donna doveva concentrarsi principalmente sul suo compito di procreare e crescere i figli. Dopo essersi liberata da questo ruolo grazie alla contraccezione, sarebbe stata finalmente in grado di scegliere la propria identità di genere. Questa idea è stata presto estesa a tutte le persone: ognuno dovrebbe essere in grado di fare ciò che vuole dal punto di vista sessuale».
I cattolici hanno consapevolezza sufficiente che la condanna della contraccezione da parte della Chiesa è motivata dal fatto che ricorrervi significa impedire a Dio di «di usare l’atto coniugale nell’ambito del suo piano di creazione per far nascere un nuovo essere umano»?
«Temo di no. Fino agli anni Sessanta, i cattolici vedevano generalmente il proprio figlio come un dono di Dio. L’uomo e la donna realizzano il concepimento attraverso il rapporto coniugale. Dio crea un’anima e la riversa nel frutto rendendolo un essere umano vivente. Ora, molti cattolici battezzati non vivono più il bambino come un dono di Dio. Come i non cattolici, parlano di “prendere” o “fare” un bambino».
Assistiamo a un’espansione del diritto dei genitori di avere o non avere figli: mentre si considera l’aborto un diritto da stabilire nelle Costituzioni, allo stesso tempo si ritiene un diritto avere figli con qualsiasi metodo, compresa la maternità surrogata. Qual è il suo pensiero in proposito?
«Il diritto all’aborto e il diritto ad avere figli attraverso le tecniche di inseminazione artificiale sembrano in contraddizione. Uno sguardo più attento mostra che non è così. Nelle tecniche di fecondazione artificiale, come la fecondazione in vitro, la maggior parte degli embrioni umani creati in laboratorio va persa. Dopo che la coppia ha ottenuto il numero di figli desiderato una volta attraverso le tecniche di fecondazione artificiale, il resto degli embrioni rimane in laboratorio. Questi embrioni vengono distrutti o consumati nella ricerca medica. L’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede del 1987 sulle tecniche di fecondazione artificiale, Donum vitae, sottolinea che l’accettazione dell’aborto indotto rende accettabile la grande perdita di embrioni nella fecondazione in vitro».
Confrontando la radicalità del catechismo cattolico con la pervasività dei modelli che promuovono l’individualismo e l’edonismo bisogna accettare che i cristiani siano un’esigua minoranza nel mondo contemporaneo?
«Il fatto che i cristiani siano sempre più una minoranza è una conseguenza dei cambiamenti culturali che fanno sì che Cristo e il suo Vangelo non siano più compresi e accettati dalla maggioranza. È stato suggerito che la Chiesa attirerebbe più persone se fosse disposta a modificare il suo insegnamento sulla moralità del matrimonio e sull’etica sessuale. In primo luogo, la Chiesa non può farlo, perché il suo compito è annunciare le intenzioni di Dio sulla creazione e non può cambiarle. Ma in secondo luogo: il mondo del protestantesimo mostra che soprattutto le chiese liberali, che hanno una visione molto ampia della morale, sono state le prime a svuotarsi».

 

La Verità, 3 agosto 2024

«Il mio libro porno riscatta la maternità perduta»

Altro che intervista, per raccontare Franco Branciaroli servirebbe un romanzo. Infatti, l’ha scritto lui: il primo, a 74 anni. Oltraggioso. Estremo. Disturbante. Volgare. Poco autobiografico, però. Branciaroli ha 50 anni di teatro nelle corde vocali, ha lavorato con Aldo Trionfo e Carmelo Bene, con Luca Ronconi e Giovanni Testori; senza dimenticare il cinema con Tinto Brass. Nel romanzo, scritto in una lingua che a qualche critico ha ricordato quella di Carlo Emilio Gadda e Alberto Arbasino, c’è altro. Il titolo, La carne tonda (Nino Aragno editore), descrive il corpo di una donna incinta, ossessione erotica di un impiegato import-export milanese in pensione. Poi ci sono un ex compagno di scuola dalle numerose e indecifrabili identità, un amico con moglie malata di sclerosi multipla e altri personaggi minori. Più che un pugno, è un calcio nello stomaco. Il campionario di perversioni e acrobazie alternato alle chiacchiere da bar su comunismo, Papa, maschilismo islamico, metamorfosi di Milano e prestanza dei neri compongono l’anatomia di una rivolta, pornografica e scorretta. Nella quale, alla fine, vince la maternità.

Perché, Branciaroli, un romanzo adesso e di questo tenore?

«Il perché è una voglia di libertà creativa. In teatro non sei completamente libero perché dipendi dai direttori, dal regista e dall’autore dell’opera che si mette in scena. Tu sei solo un attore. Per realizzare un tuo progetto dovresti essere anche autore e regista. Con il passare degli anni questo stato può alimentare una sorta di frustrazione. Il vantaggio della letteratura è la libertà assoluta. Con una risma di fogli e due biro puoi fare quello che vuoi».

Si è scoperto scrittore a 74 anni?

«Rispondo con un esempio. Paragoni a parte, questo è bene sottolinearlo, Theodor Fontane ha scritto Effi Briest a 70 anni. Prima aveva scritto nulla d’importante. Solitamente ho un altro modo di sfogarmi. Quando non basta più, tutto quello che hai letto e pensato, può trasformarsi in un’altra forma espressiva. Che per me è la scrittura».

Qual è la molla di questo sfogo?

«L’idea è che cos’è una donna gravida. La maternità è la vera protagonista della storia. Infatti, l’ho dedicato a mia madre».

È viva?

«No, si chiamava Angela».

Se lo fosse cosa direbbe di questo romanzo?

«Glielo nasconderei. Se lo scoprisse si sconvolgerebbe per le parti pornografiche. Però farei presto a spiegarle come va il mondo. Questo libro è in linea, il Pil di internet è la pornografia».

I critici hanno molto apprezzato lo stile.

«Questo modo di scrivere non so da dove arriva. La lingua è dentro, un dono, un mistero. Io ho imparato prima il dialetto dell’italiano. Sono lombardo, come Gadda e Arbasino. Testori scrive pensando ai suoni. Il romanzo è tutto al presente, il protagonista non è uno che racconta, è uno che fa. Non so perché molti ridano quando gli attori scrivono. Ho letto e mandato a memoria migliaia di pagine di capolavori, non capisco lo stupore. Nella scrittura trovo una forma di voluttà artistica, spero di produrla anche nei lettori».

Gliel’hanno accettato subito o ha subito qualche rimbalzo?

«So che c’è stato qualche rifiuto, ma non me ne sono occupato direttamente. Ho trovato un editor che l’ha proposto ad Aragno, editore di lusso, che pubblica senza l’affanno delle vendite. Mi ha telefonato Aragno in persona, dicendomi che lo pubblicava perché gli piaceva lo stile. Lo benedico».

È un romanzo contro?

«Indubbiamente. Ma è soprattutto un romanzo a favore della carne, che di questi tempi è molto bistrattata».

Non c’è contraddizione in un cattolico che scrive un romanzo pornografico?

«Nessuna contraddizione. Se superiamo il moralismo, vale la massima che dice: “Ho conosciuto dei farabutti che erano anche dei moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse farabutto”. Dopodiché questo paradosso è cristiano perché è l’esaltazione della carne. Il cristianesimo è l’unica religione che esalta la carne, l’incarnazione. Come scrive Michel Henry: “La carne è il dolore”».

Non mancano gli eccessi.

«Paragoni a parte, sottolineo, di quelli di Philip Roth, nessuno dice nulla».

Da chi è bistratta la carne?

«In particolare dal femminismo notarile, a causa del quale il sesso si trasforma in un contratto, un protocollo. Non ci rendiamo conto che il politicamente corretto è il trionfo dello spirito bianco».

Deprime la carne e la rende standard?

«Esatto. L’amore, la carne, il sesso: tutto diventa meccanico, solipsistico. Alla sinistra americana la vita carnale fa orrore. È costruzionista. Ma questa è la dimostrazione patetica dell’origine bianca del movimento».

Il bianco eterosessuale però ne è spesso il bersaglio.

«Solo il bianco ha questi problemi. È dei bianchi essere politicamente corretti».

Scrive negri e negre al posto di neri e nere.

«Così si esprime il protagonista, non io… Ne fa una questione di pronuncia. “Negra con quella gr così potente” è più bello da pronunciare. È una geografia, “nera si può dire di una scarpa”. Rasenta la pesantezza e la volgarità, però è vitale. Racconto il ceto medio degli anni d’oro, prima che diventassimo tutti transgender, vegetariani, vegani, green. La classe media soprattutto americana è questa roba qui».

I neri sono più prestanti: invidia non razzismo?

«Il libro è un’esaltazione della potenza sessuale dei neri. Rappresentano il futuro e generano invidia. Il protagonista immagina che l’Europa diventerà tutta nera».

Per opporsi al dominio della Cina?

«Ma soprattutto per procreare. Raddoppieremmo la popolazione nel giro di 15 anni».

Scenario apocalittico.

«La carenza di nascite è il problema di tutti, anche della Cina. È vero che l’assenza di procreazione diminuisce la popolazione, ma aumenta la quota di vecchi. Chi li mantiene?».

I mussulmani prolificano, noi abbiamo l’aborto, la pillola, i preservativi, i gay. Ci domineranno anche numericamente?

«È il pensiero del protagonista. Ma è un fatto evidente che non nasce più nessuno. Nella visione del romanzo, il parto si trasforma in amplesso, esperienza di piacere. La maternità senza dolore si rivitalizza».

Scrive culattoni invece di gay.

«È il linguaggio di quella classe media milanese».

Romanzo reazionario?

«Definirlo reazionario è un equivoco femminista, mentre esalta le donne. Non che me ne freghi niente, ma è uscito così. Caso mai è un cicinin apocalittico. Tra reazionario e conservatore c’è differenza. Il reazionario vuole distruggere ciò che c’è, il conservatore vuole mantenerlo. Il romanzo è né questo né quello, più complesso di quel che sembra».

Quanto c’è di autobiografico?

«Non molto, le parti dell’infanzia, il bar di famiglia. Il resto è inventato o aggiustato».

Ci sono anche i fotoromanzi, stagione rimossa.

«Da bambino ero addetto alla vendita dei fotoromanzi e delle sigarette. Quelle osterie erano come dei drugstore. Stavo su un seggiolone con i Grand Hotel e i pacchetti di sigarette che si scartocciavano per venderne 5 o 10. I fotoromanzi erano la possibilità di sognare. Pubblicavano foto a tutta pagina dei divi di Hollywood che ritagliavo e conservavo».

Lei ha una moglie affetta da sclerosi multipla.

«Sì, ho una moglie così. Lì la vicenda è estremizzata. Ho immaginato cosa può passare una persona che ha difficoltà economiche, che io non ho, davanti a un problema del genere. È una condizione nella quale i soldi sono ancora più discriminanti: da uno standard normale alla disperazione. Non abbiamo un’organizzazione pubblica all’altezza, devi fare da solo. Lo Stato non si occupa di questi cittadini. Il contributo pubblico è di 350 euro al mese, più 700 per l’accompagnatore. Uno che ha una persona così e lavora, come fa?».

Che cos’è per lei la ricchezza?

«È fondamentale. Se lavori, avere una persona così vuol dire badanti. Ma nel nostro Paese sono considerate un lusso come le cameriere perché il loro costo non è detraibile dalle tasse. Detraibili sono le infermiere, che però costano 200 euro al giorno. Le badanti poi hanno dei retrovita complessi, figli e mariti distanti, nei quali ti coinvolgono. In Italia i disabili sono 4 milioni, aggiungici i parenti: non capisco perché non facciano un partito».

In questi mesi è in tournée con Umberto Orsini, 88 anni, con una storia di due amici: è una sintesi della sua carriera, lei ha spesso stretto grandi sodalizi artistici?

«L’opera di Nathalie Serraute, madrina del nouveau romance francese, s’intitola Pour un oui ou pour un non e si basa sugli equivoci del linguaggio che, con la sintassi rozza dei messaggini, riportano a galla vecchi malintesi fino a generare a catena la crisi del rapporto. È un gioco molto sofisticato e divertente».

Dicevamo dei suoi sodalizi con i mostri sacri del teatro: erano fratelli maggiori, maestri, padri?

«Sono esperienze fatte in età diverse. Trionfo l’ho incontrato quando ero molto giovane. Dirigeva Carmelo Bene e me e nel Faust di Christopher Marlowe. Carmelo era più vecchio ma di poco, il fratello maggiore e complice».

Luca Ronconi?

«Il maestro, ascoltandolo imparavo cose che non sapevo. Un maestro senza volerlo essere, tra i maggiori a livello mondiale. Molti fanno teatro, ma non lo conoscono in profondità».

Giovanni Testori?

«Lui era un autore, ho provato la sensazione di un drammaturgo che lavorava apposta per me. Un’esperienza eccitantissima: c’è uno che scrive delle opere pensando a te».

Cosa comportava la complicità con Carmelo Bene?

«A parte il principio di obesità dovuta all’alcol, abbiamo trascorso due anni in tournée. Un giorno si presentò al ristorante con un occhio nero, regalo del fidanzato di un’attrice che aveva tentato di sedurre. Invano. Oltre all’insuccesso, le botte. Anche il fidanzato era un attore. “Ma Carmelo”, gli dissi, “non sapevi che ha l’asma, ti bastava metterti a correre e non ti avrebbe mai preso”».

Questo romanzo è un copione per Tinto Brass?

«Qualche scena potrebbe esserlo. Ma il cinema è crudele perché quando si inizia un film bisogna firmare le polizze assicurative. Se non si è in ottima salute non ti fanno più fare niente».

Come ha vissuto il periodo acuto della pandemia?

«Malissimo. Prima dei vaccini dovevo proteggere e controllare tutto e tutti, un disastro. Chi è già malato e vecchio non doveva prendere il virus. Sono rimasto chiuso un anno, non dormivo, ho sfiorato la depressione. Fortuna che ho un piccolo pezzo di terra. Parlavo con le piante…».

 

La Verità, 5 marzo 2022

«L’industria dell’eros ha ucciso la passione»

Lunga vita a Barbara Alberti. Scrittrice, sceneggiatrice, regista, titolare della posta del cuore, commentatrice di fatti di costume. Soprattutto, demolitrice di luoghi comuni. Ribelle al politicamente corretto. Anticonformista senza codici. Anarchica a tutto campo. Basta leggere i suoi interventi su Vanity Fair, bibbia del conformismo glam nella quale, fortunatamente, resiste qualche isola trasgressiva (la rubrica di Roberto D’Agostino). Nell’ultimo articolo, in una sorta di dialogo con l’aldilà, Alberti ha scritto che l’eros «è morto in un portone, dimenticato. Non era più il putto con la faretra, ma un vecchio clochard avvolto in un cappottone pieno di buchi».

Chi l’ha lasciato morire?

«Non posso che risponderle con le parole pronunciate dallo stesso Eros in quell’articolo: “Siete stati voi. Ero il dio del mistero, avete fatto di me un articolo di mercato. L’industria del sesso è tutta contro di me. Sono riusciti a vincere la mia immortalità. Hanno reso finito l’infinito. C’è una congiura mondiale per abbattermi”».

Quand’è iniziata e perché quest’agonia?

«È iniziata quando l’eros è diventato un affare pubblico, un blasone, uno status, qualcosa da sbandierare, un’infinita chiacchiera, un “bavardage sur le sexe”, parafrasando Roland Barthes. Ma le pare sensato che se in una coppia muore il desiderio, invece di fare i conti col proprio rapporto, si ricorra a un estraneo, un sessuologo, e si aspetti da lui la soluzione? Una ragazza molto schietta anzi ruspante, non più desiderata dal marito, dopo anni di castità forzata, quando lui le propose di andare insieme dal sessuologo, esasperata rispose: “E che può fare per noi? Giusto se mi scopa!”. C’è della verità in questa rozzezza. Tra parentesi: in caso di disturbi funzionali, farsi curare è ottima cosa».

Nei giornali, nelle riviste, nella pubblicità, nei social non si parla d’altro: l’industria erotica smorza la passione?

«Che bella parola fuori moda: passione. Evoca incontri clandestini, relazioni pericolose, struggimento, attesa, desiderio… Riguarda un tempo perduto. Non questo in cui siamo telecomandati, e da uomini ci siamo trasformati in consumatori bulimici e annoiati, spesso virtuali».

Denuncia che si è persa la sacralità del sesso: da una femminista non me l’aspettavo.

«Chiariamoci sulla femminista: difendo con passione i diritti delle donne, calpestati ogni giorno. I maschi ci ammazzano con la complicità di un’intera società, e contano sulle pene spesso irrisorie. L’abolizione della legge sul delitto d’onore è una finzione. Ma non faccio parte del femminismo ufficiale, spesso ideologico e formalista. E inetto: perché non scendiamo in piazza quando riducono la pena di un assassino che ha ucciso con 27 coltellate la sua donna? Perché non facciamo sciopero? Siamo in tante. Fermeremmo il Paese. Spesso è un femminismo da copertina, o da sfilate ai premi. Sono una femminista indipendente. Sì, il sesso è sacro. È lo scambio più vero e profondo fra due esseri. Il sesso è – sempre – una piccola trascendenza».

Che fine ha fatto il gusto della trasgressione?

«È diventato una regola. Manette, fruste, sesso sadico telematico… che mancanza di fantasia. Che noia. Ormai la trasgressione esiste solo nella sua forma più bestiale, la violenza. Già 30 anni fa il geniale Carlo Verdone aveva intercettato il ridicolo trash del “Famolo strano” di due piccolo borghesi alla moda».

Perché se il sesso non è mai stato così facile i sessuologi si arricchiscono?

«Siamo regrediti a una minorità perenne, abbiamo paura del libero arbitrio, e vogliamo che ci istruiscano su tutto, da soli non ci sappiamo nemmeno più soffiare il naso. C’è anche il sexual coach, un professionista che ti insegna cosa e come devi desiderare. Meglio farsi monaci».

Scrive che il detonatore della passione era il pudore, ma il suo senso non è più tanto comune.

«Lo si ritrova nella grazia istintiva dell’amore. Ci ammonisce Apuleio, nella favola di Amore e Psiche: finché Amore è segreto, al buio, i due amanti sono felici. Ma appena Psiche si confida con le sorelle vengono separati, con guai a non finire».

La spinta al sesso in età avanzata è figlia di una società iper-competitiva?

«Più ancora sulla rimozione della morte. Beati i miei nonni, quando la parola vecchio non era stata eliminata dal linguaggio come fosse un insulto, mentre è il nome di una stagione. L’ultima. La più avvincente, un’adolescenza senza futuro: come ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman giochi a carte con la morte, e ogni giorno in più è una vittoria. I miei nonni avevano ancora il diritto di essere vecchi, senza sconciarsi con le plastiche per fare i finti giovani, non dovevano essere produttivi, smart e sexy fino all’ultimo respiro. La pubblicità ci vuole consumatori fino alla fine, non sappiamo più stare né davanti alla vita né davanti alla morte».

Ha preso le difese degli uomini perché sempre sotto esame: anche questo da una femminista non me l’aspettavo.

«Sì, poveretti. Ho molta comprensione per loro perché hanno quella disgrazia, l’erezione. Alle donne è stata risparmiata la prova di un sesso così evidente e infido. L’invidia del pene l’hanno inventata i maschi, per mascherare un complesso d’inferiorità, non immotivato. In teoria sarebbe invidiabile: l’asta, lo scettro… se obbedisse per davvero. Ma non è così. Io, da quando ho capito come funzionava li ho sempre trattati bene, in considerazione della loro sventura. Che incubo, dipendere tutta la vita da un servo infido che ti lascia magari quando più ci tieni. Non dà retta nemmeno all’amore, quello. Un nemico in casa, che espone al giudizio. Il Viagra è solo l’esorcismo di un’eterna paura. Meno male che sono nata senza. Orgogliosa come sono, dopo il primo fiasco me lo sarei tagliato – si dice, ma poi chissà. Per questo la donna vive più a lungo, per il bene della sua sessualità segreta. Per questo invecchia meglio. Una vecchia fa le torte, balla coi nipoti. Ma l’uomo, condannato a quella prova eterna, non si consola».

Perché ha criticato il body positive, la nuova tendenza a valorizzare l’imperfezione del corpo?

«Per l’aggressività con cui la libertà di aspetto viene proclamata, come se fosse un nuovo vangelo, o un canone obbligatorio. Odio gli schemi.  La bellezza va rispettata, come il suo contrario. Trovo giustissimo che la si smetta di sfottere le persone per il loro sembiante. Ma crederò di più in questo movimento quando vedrò fra le attiviste del body positive delle brutte vere. Quelle che vanno a parlarne in tv sono tutte belle, solo un po’ sovrappeso. E le meno avvenenti dove le mettono? Le nascondono in cantina? Che siano loro le prime a macchiarsi di body shaming?».

Ha visto che nel nuovo 007 James Bond si defila e la nuova protagonista sarà un’eroina di colore?

«Il fatto che sia una notizia, è la misura di quanto sia forte il razzismo. Guardi l’America: com’è possibile che dopo centinaia d’anni di convivenza esistano ancora bianchi e neri? Non si sono mai mischiati veramente. I bianchi non hanno mai perdonato i neri di essere la prova del loro colonialismo feroce e invece di riscattarsi, continuano a cercare di opprimerli. Donald Trump, più simile al Joker di Batman che a un uomo politico, davanti alla polizia che trucidava a freddo gli afroamericani, ha osato dire che quando un poliziotto uccide un nero è come quando un battitore di baseball sbaglia il tiro, elevando l’uccisione di un cittadino di colore a sport nazionale».

Replicando alle critiche, l’attrice si è detta grata per aver potuto sfidare gli stereotipi di razza e di genere perché «ci stiamo allontanando dalla mascolinità tossica». Cosa ne pensa?

«Magari fosse vero che ci stiamo allontanando. Lashana Lynch è bella da levare il fiato, è brava, ha carisma, porterà comunque qualcosa di audace e di nuovo».

C’è un modo antagonista di vivere l’appartenenza di genere?

«Non lo conosco. Io scelgo le persone, il sesso viene dopo».

Appunto: l’espressione «mascolinità tossica» mostra che siamo in piena guerra dei sessi?

«È un’espressione su cui preferisco non pronunciarmi».

Un certo femminismo estremo è responsabile di questo antagonismo?

«Perché, esiste un femminismo estremo? Magari. La situazione delle donne in Italia sarebbe molto migliore. Vedo solo tante signore che sfilano in passerella».

Che cos’è per lei il sessismo?

«Razzismo allo stato puro. Non ti considero una persona, ma solo secondo i miei pregiudizi sul tuo sesso. Non sarà facile uscire da questa follia millenaria».

Non è un’accusa di cui si abusa?

«Mai quanto si abusa delle donne. Finché questa forma di razzismo è così viva non è mai inutile reagire. Ma all’ideologia preferisco il gesto rivoluzionario – l’utopia, il sogno, l’umorismo. La mia femminista preferita resta Sabina Guzzanti, una dea della trasfigurazione attraverso la comicità».

Carlo Verdone ha detto che il politicamente corretto impedisce agli sceneggiatori di scrivere e che di questo passo i comici non faranno più ridere.

«Soprattutto diventeremo sempre più stupidi. Bisogna guardarsi dalla censura sul linguaggio. Possibile che non si riesca a reagire alla prepotenza se non facendone un’altra, ugualmente autoritaria?».

Cosa pensa del dibattito suscitato dall’editore Alessandro Laterza per aver detto che all’orizzonte non intravvede nuove Elsa Morante?

«Per il parere di Laterza ci si può offendere come scrittrici, ma non come donne. Non ha mica detto che le donne sono negate per la scrittura, ha detto di preferire la Morante alle contemporanee, sarà padrone di dirlo? Penso invece che oggi ci sia una letteratura femminile senza precedenti: Chiara Barzini, Isabella Santacroce, Elisa Fuksas, Michela Murgia, Chiara Valerio, Federica De Paolis, Tiziana Gazzini, ma potrei fare una lista lunghissima. Io, per esempio, preferisco Chiara Barzini a Elsa Morante. Sui gusti letterari non si discute. Mi piace la battaglia, non il vittimismo aggressivo e gratuito, che nuoce alla causa. La censura libertaria è un ossimoro».

Come vive questo tempo di restrizioni?

«Come nella canzone di Franco Battiato Fisiognomica: “E se ti senti male, raccomandati al Signore”».

Apocalittica o minimizzatrice?

«Spaventata e ottimista. Spero di vivere, anche se noi vecchi siamo in prima linea».

Chi è il suo virologo di fiducia?

«Nessuno. Tutti soubrette. Ognuno è il capo di una religione che considera l’unica valida. Parlano tanto di vaccini, e non si trova nemmeno quello antinfluenzale».

Che cosa le manca di più?

«La libertà. Un bacio a mia nipote. Non temere gli altri e me stessa come untori. Il rito collettivo del cinema, la grande affabulazione in una sala buia, questo antico sogno».

 

La Verità, 28 novembre 2020

 

«Trovo intollerabile l’intolleranza dei buoni»

L’ultimo libro di Giuseppe Culicchia, E finsero felici e contenti. Dizionario delle nostre ipocrisie (Feltrinelli), è un saggio talmente lucido e godibile che andrebbe letto nelle scuole, corso di educazione civica, oppure adottato nelle facoltà di Scienze politiche e Scienze della comunicazione. Cinquantacinque anni, torinese, autore di Tutti giù per terra, da cui è stato tratto l’omonimo film con Valerio Mastandrea, da libraio Culicchia è diventato scrittore, saggista, traduttore dall’inglese e dal francese. La sua satira demolisce uno a uno i luoghi comuni dello storytelling da salotto, non necessariamente televisivo.

Cominciamo da lei, Culicchia: genitori?

«Mio padre, nato a Marsala, arrivò ventenne a Torino nel 1946. Essendosi innamorato della fidanzata di un suo amico, volle allontanarsi da quella storia. Mia madre era un’operaia tessile piemontese, figlia di un’operaia tessile. Si conobbero a metà degli anni Cinquanta e si sposarono».

Infanzia dura?

«Ero il figlio del barbiere meridionale. Diciamo che ho sperimentato sulla mia pelle una forma di razzismo senza peli sulla lingua. Ma ho avuto la possibilità di gustare gli agnolotti e il cous cous».

È vero che ha fatto il libraio prima di diventare scrittore?

«Per dieci anni. Ho scritto Tutti giù per terra nel 1994, ma fino al ’97 ho continuato a stare in libreria. Non ero sicuro di riuscire a mantenermi con le parole».

Era partito piuttosto bene.

«Sì, ma avrei potuto gestire meglio la situazione. A 28 anni ero già felice di aver pubblicato il mio primo libro. Non avevo un agente e non ce l’ho tuttora».

Formazione?

«Sono stato ventenne nel 1985, l’epoca dei paninari. Doveva ancora arrivare la prima ondata migratoria di nordafricani. Torino era molto diversa, c’era stata la marcia del 40.000 e si avvertivano i primi effetti della crisi».

Amici, politica?

«Frequentavo gli ambienti punk e i tifosi del Toro. Ascoltavo i Clash, i Sex pistols, creste verdi o rosso ciliegia».

Che cosa le ha ispirato questo libro?

«Ero in vacanza in Baviera nel 2005 e iniziavano a infastidirmi certi vocaboli che leggevo sui giornali. Le riforme del lavoro che in realtà erano controriforme. Le bombe intelligenti e le vittime civili chiamate danni collaterali. In alcune università americane fu bandito Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain».

Che lei aveva tradotto.

«La censura di Twain scattata per l’uso della parola “negro” era una follia. Twain era un abolizionista, si era arruolato nell’esercito sudista, disertando dopo due settimane. Mi tornò alla mente la profezia di George Orwell sulla neolingua».

Da allora, anni di raccolta di storpiature linguistiche e doppiopesismi?

«Adesso il tema è molto sentito. Quando Feltrinelli ha deciso di pubblicare il dizionario non erano accaduti fatti che l’hanno reso ancora più attuale».

Che cos’è l’ipocrisia?

«C’entra con il mestiere di attore, con la recita che inizia dopo che ci siamo guardati allo specchio e andiamo in ufficio. Per di più ora, ciò che un tempo si diceva al bar diventa di dominio pubblico tramite i social, che trovo molto antisocial. La signora che ha postato un vecchio scatto alle Maldive la incontriamo sotto casa; per cercare lavoro miglioriamo il curriculum. Tutti vogliamo mostrarci meglio di ciò che siamo».

È una maschera che riguarda anche il pensiero?

«Ci si uniforma alle mode e ci si astiene da esprimere il proprio per non essere criticati».

L’omologazione è frutto di superficialità o del potere del pensiero unico?

«Il condizionamento è forte. Qualche anno fa nel quartiere Aurora di Torino alcuni cittadini pakistani si organizzarono in ronde per fronteggiare lo spaccio degli africani. Se fossero stati italiani, avremmo letto titoli sbrigativi. Invece, siccome erano pakistani si scriveva: poveracci, non possono avere gli spacciatori sotto casa. Un caro amico che vive in piazza Vittorio a Roma, modello d’integrazione, mi ha raccontato che poco alla volta la convivenza si è complicata e ora c’è un comitato antidegrado: “Mia moglie, appena vede qualcosa che non va, chiama la polizia: sarà mica diventata improvvisamente fascista?”. Ecco, mi sembra che gli slogan prevalgano sul tentativo di capire».

Di fronte a certi argomenti scatta il riflesso condizionato.

«Un gigantesco cane di Pavlov. Se Dolce e Gabbana, di sicuro non due omofobi, si dichiarano contrari all’utero in affitto cadono sotto la pubblica esecrazione. Chi non si allinea è fascista. Lo sarà anche Marco Rizzo, uno degli ultimi orgogliosi comunisti, per aver detto che la maternità surrogata è mercificazione del corpo della donna?».

Il personaggio meno ipocrita e quello più ipocrita di oggi.

«Il più ipocrita è sicuramente il premier olandese Mark Rutte che dice peste e corna dell’Italia e condona le tasse ai grandi marchi della new economy. Uno che non si è mai preoccupato di essere politicamente corretto è Sinisa Mihajlovic. Ha riscosso unanime solidarietà quando si è saputo che aveva la leucemia, ma appena ha detto che in Emilia romagna avrebbe appoggiato la candidata di Matteo Salvini è stato sommerso di critiche».

Un altro capolavoro è stata l’idea di Michela Murgia di sostituire patria con matria?

«E pazienza se esisteva già madrepatria. A volte l’ideologia ci fa coprire di ridicolo. Se dobbiamo chiamare assessora una donna, il mio dentista uomo devo chiamarlo dentisto?».

Per l’omicidio delle donne si parla di femminicidio perché è un fenomeno diffuso?

«Il trattamento linguistico specifico non è una questione di quantità. A questo punto adottiamolo per tutte le minoranze: migranticidio, gaycidio, lgbtqicidio, diversamentabilicido. Nelle intestazioni delle lettere tipo cari/e compagni/e c’è chi comincia a usare l’asterisco car* compagn*. Ma un conto è leggerlo, un altro pronunciarlo».

Per il sesso valgono mille sfumature.

«Una docente inglese ha raccontato sul Guardian di esser stata rimproverata da una sua apparente studentessa perché le si è rivolta con il pronome femminile “she”, mentre, siccome ha una personalità multipla, avrebbe dovuto usare il plurale, “them”. Alla fine ha dovuto scusarsi e spiegare che non voleva mancarle di rispetto. Ormai si cammina sulle uova… Ma c’è una cosa che mi preme dire…».

Prego.

«Non vedo nella sinistra lo stesso impegno per difendere i diritti civili anche nel promuovere i diritti del lavoro. Oggi, per un figlio che si è laureato si spera in uno stage da 400 euro al mese, 3 euro all’ora. Poi ci lamentiamo se i migliori se ne vanno all’estero. Su questi temi la sinistra è scomparsa. Anzi, sei contestato se ricordi che la legge che ha introdotto il precariato l’ha fatta il primo governo Prodi. L’Italia ha compromesso il futuro delle giovani generazioni, che cosa ne sarà tra vent’anni? In Germania lo Stato rimborsa alle famiglie tutto quello che hanno speso per la formazione dei giovani perché la loro istruzione riguarda il futuro del Paese».

Perché se si promuovono tutti, la scuola non deve lasciare indietro nessuno e i genitori 1 e 2 spianano la strada ai ragazzi aumenta il disagio adolescenziale?

«Forse sarebbe stato meglio pensarci prima di abolire il voto di condotta. Quando s’inizia ad andare a scuola si entra in un’istituzione pubblica e si compie il primo passo da cittadino. La messa in discussione del principio di autorità ha portato alla deriva attuale dell’uno vale uno. Ma qui ci vorrebbe un altro libro».

È davvero convinto che quando Martina Navratilova si dichiarò omosessuale c’era più tolleranza di oggi?

«Fu molto coraggiosa a esporsi, ma aveva vinto nove volte Wimbledon ed era una figura di riferimento. A confronto con l’ossessione attuale per la correttezza gli anni Settanta erano più liberi. C’era un giornale come Il Male che faceva vignette con il Papa in piscina. La satira era accettata. Di recente quando la Navratilova ha detto che le tenniste transgender sono avvantaggiate rispetto alle donne, una cosa scontata, è stata espulsa dalle associazioni Lgbt».

Con la cancel culture siamo oltre il politicamente corretto: cosa pensa del manifesto dei 150 intellettuali di Harper’s Magazine?

«Penso che ci voleva una presa di posizione così in America. E forse non solo lì. Cosa significa che chi non è di colore non può scrivere un romanzo sul razzismo? Se è esistito, di sicuro Omero non ha partecipato alla guerra di Troia. Isaac Asimov era un robot anche lui? Se la letteratura fosse solamente scrivere di sé sarebbe davvero triste, non tutti gli scrittori hanno la vita di Ernest Hemingway. Però Halle Berry non ha potuto interpretare il ruolo di un trans perché non appartiene a quella minoranza. E all’ultima Festa del cinema di Roma Martin Scorsese è stato accolto dalle proteste delle femministe perché nei suoi film non ci sono donne protagoniste. Trovo intollerabile l’intolleranza di chi si professa tollerante».

Nel suo libro nota che dire «ho anche amici gay» vuol dire essere omofobi: è indispensabile il ddl Zan per tutelare le persone omosessuali?

«Di sicuro l’Italia, paese mediterraneo, cattolico e legato a una certa idea di famiglia, non è tra i più tolleranti nei loro confronti. Non conosco il decreto nel dettaglio, ma una legge non può risolvere la questione alla radice perché chi si esprime in modo irrispettoso, certo non cambia modo di pensare perché sanzionato».

La parola chiave del nuovo conformismo è inclusività?

«Il paradosso sta nel fatto che da un lato si rivendicano le differenze delle minoranze, dall’altro, se dici che le differenze esistono vieni attaccato perché dobbiamo essere tutti uguali».

Com’è stata accolta dagli editori l’idea di questo dizionario?

«Senza problemi. Non hanno eccepito su nulla, ma si sono augurati che i lettori fossero dotati di autoironia. È un libro divertente, ma non accomodante. Credo che alcuni possano essere in disaccordo, ma anche che il confronto sia un’occasione di arricchimento. Vale al di là del mio libro».

Non sarà troppo ottimista?

«Forse sì, il mio è un auspicio».

 

La Verità, 26 luglio 2020