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L’unico dilemma risolto è da che parte stia Carofiglio

Su Rai 3, la rete diretta da Franco Di Mare, dove stanno per essere accantonate Bianca Berlinguer, Luisella Costamagna e, in autunno, accolto Marco Damilano, si è affacciato Dilemmi di Gianrico Carofiglio, ex magistrato e senatore del Pd nonché scrittore di successo e frequentatore di talk show, qui alla prima esperienza da conduttore. Dico subito che Dilemmi è un programma ben congegnato, che si propone come il tentativo di riqualificare la formula dell’approfondimento riportando il confronto su «temi cruciali» nell’alveo del dibattito civile. Le regole vengono esplicitate dal conduttore all’inizio della puntata: vietato attaccare la persona, vietato manipolarne gli argomenti, obbligo di portare le prove dei propri. Inoltre, i contendenti hanno un tempo fisso a disposizione. Fin qui tutto bene, dunque. Niente furbizie o toni della voce che si alzano, come vediamo quotidianamente a tutte le ore e su tutte le reti. I nodi arrivano quando si analizza la cornice in cui la discussione è racchiusa. Perché, dietro questa parvenza di oggettività, Dilemmi è un programma furbo e, in questo senso, molto ideologico (lunedì, ore 23,20, share del 5,4%, 713.000 telespettatori).

Lunedì sera si discuteva del dilemma del fine vita. Prima dell’ingresso dei due ospiti, Marco Cappato e suor Anna Monia Alfieri, il tema è stato introdotto da Carofiglio con un monologo aperto con queste parole: «Vivere come si vuole significa forse anche poter morire come si vuole, ovvero essere padroni del proprio destino». Un’espressione che ha chiarito subito la scelta di campo del conduttore, perché «essere padroni del proprio destino» vuol dire eliminare la possibilità che il destino non sia in nostre mani, come per esempio può far pensare il fatto che non siamo noi a decidere se quando e come venire al mondo. La parte verso la quale inclina il presunto arbitro imparziale si è ulteriormente esplicitata nei suoi frequenti interventi di contrappunto al discorso di suor Alfieri, a fronte dell’assenza di intermezzi durante la comunicazione, peraltro efficace, di Cappato. Infine, per fugare eventuali dubbi residui sul tipo di soluzione prospettata al dilemma, è arrivato l’elogio del suicidio di Lella Costa, costruito con citazioni da Romain Gary, Sergej Esenin e Vladimir Majakovskij, tutti morti suicidi. Presentato come un talk asettico, in realtà Dilemmi è un talk-panino, con il dibattito incartato tra due lezioncine. Un programma emblema del meccanismo dell’establishment culturale che, dietro una parvenza di oggettività, spaccia come migliore il pensiero della sinistra dei diritti in auge.

 

La Verità, 11 maggio 2022

Le domande irrisolte di Vitaliano Trevisan

La morte di Vitaliano Trevisan, avvenuta venerdì nella casa di Campodalbero, frazione di Crespadoro (Vicenza), il paesino alle pendici delle Prealpi dove viveva in totale solitudine, è una di quelle situazioni di fronte alle quali bisogna mettere da parte mediazioni, formule e risposte di maniera. Lo richiedono l’inesausta ricerca e la profondità del dolore che hanno impregnato l’esistenza di questo grande autore e drammaturgo, dotato di scrittura e lineamenti spigolosi, smorzati solo dagli occhi color ghiaccio. La penso così: se una persona, che vive in modo radicale il bisogno di un senso, non incontra qualcosa o qualcuno che la sappia abbracciare nella sua totalità, difficilmente scampa alla sofferenza e all’incomprensione. Quando una volta gli chiesi che cosa lo teneva lontano dal suicidio mi rispose: «I farmaci, nel senso ampio del termine».

Considerato uno dei maggiori scrittori italiani dell’ultimo ventennio, Trevisan fu scoperto a fine anni Novanta da Giulio Mozzi che trovò negli scaffali di una libreria il suo Trio senza pianoforte – Oscillazioni, antologia di racconti pubblicata da un piccolo editore vicentino. Fu Mozzi a far uscire da Theoria Un mondo meraviglioso e poi a spedire il manoscritto dei Quindicimila passi – Un resoconto a Einaudi che offrì il primo contratto a quell’autore semisconosciuto. Nella storia di Thomas, omaggio a Bernhard, con la quale Trevisan vinse il premio Lo Straniero e il Campiello Francia, si dispiega la ribellione all’educazione cattolica e al perbenismo della provincia italiana. Sono temi che ritorneranno in Tristissimi giardini (Laterza) e soprattutto nel bellissimo e torrenziale Works, (Einaudi), 660 pagine concluse da una frase con la quale si prende gioco delle formule vigenti: «Tutto ciò che può incriminarmi è frutto d’invenzione». Più che un’autobiografia, Works «è un mémoire centrato sul tema del lavoro» che squaderna i tanti mestieri provati – geometra, cameriere, lattoniere, gelataio in Germania, costruttore di barche a vela, spacciatore di fumo, portiere di notte – prima di consacrarsi interamente alla scrittura per la narrativa, il cinema e il teatro.

Anarchico e allergico a tutte le chiese, Trevisan è stato una smentita vivente delle favole consolatorie che ci raccontiamo quotidianamente sui media. Il Nordest florido e ottimista. La letteratura come impegno civile per riparare gli umani e il mondo. La comunità intellettuale elevata a guida dei ceti medi riflessivi dai salotti tele-editoriali. Sceneggiatore e attore di Primo amore, diretto da Matteo Garrone, autore di Il lavoro rende liberi e Oscillazioni, interpretati a teatro da Toni Servillo, non si lascia bene con entrambi: «Avevano degli ego troppo grandi per me». Meglio va con Andrée Ruth Shammah e Alessandro Haber, che portano in tournée il suo Una notte in Tunisia, e con Roberto Herlitzka e Anna Paiato. Un fatto è certo, Trevisan non opera ipocrite separazioni tra vita e letteratura, tra esistenza e arte.

Gli faranno l’autopsia e si potrebbero avere conferme, come molti temiamo, che la sua fine sia dovuta a un gesto estremo, contraddizione lacerante del nome che portava: «È un nome che deriva dal greco <colui che dà la vita>», mi rivelò, «e mia madre me lo diede perché si era appassionata a un personaggio di un film sull’antica Roma che si chiamava così». Parlando di lui, Ferdinando Camon disse: Trevisan è uno che ha domande troppo acute, troppo alte, per restare in piedi, in equilibrio, su una base piccola e stretta. Nell’incipit di Black Tulips, il romanzo che uscirà postumo da Einaudi, scrive: «… Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un’arte – arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere – è trattenere un frammento per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio. No, non sempre; comunque». Equilibrio faticoso, precario, instabile. Equilibrio come sopravvivenza, come non soccombenza. Non certo equilibrio perbenista e conformista, il più lontano da lui.

Sbandate, deragliamenti, ricoveri in psichiatria, rapporti affettivi torbidi e tormentati. Come quello con l’ultima compagna che, non si è capito bene perché, nell’ottobre scorso lo aveva fatto internare con un Aso (Accertamento sanitario obbligatorio) nel reparto psichiatrico di Montecchio Maggiore (Vicenza). Dov’ero andato a trovarlo per poi raccontare su questo giornale il forte disagio e lo stato di prostrazione in cui versava. Fortunatamente, quella reclusione non si era prolungata. Una volta tornato a Crespadoro l’aveva condivisa in un drammatico reportage su Repubblica. E aveva poi ripreso a postare su Facebook malinconici frammenti della sua quotidianità. Non si hanno notizie di lettere o messaggi di addio ritrovati vicino al suo corpo senza vita. Qualcuno però ha ricordato un passaggio del suo Una notte in Tunisia: «Docili, su un fianco come gli animali, è così che si dovrebbe morire, senza lamentarsi, senza darsi troppo pensiero».

 

La Verità, 9 gennaio 2022

 

A parziale integrazione di questo articolo va aggiunto che nella casa di Campodalbero i carabinieri hanno trovato un biglietto d’addio di Vitaliano Trevisan che conferma il gesto volontario: «Sono stanco e non ne posso più. Nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla».

Tredici, serie sui ragazzi che processa gli adulti

Mica facile convivere con la fragilità senza infrangersi. Soprattutto se si è adolescenti, si è vittime di bullismo e gli adulti latitano. Ho finalmente completato la visione di Tredici, la serie di Netflix sulla storia di una ragazza suicida che, etichettata ingiustamente come «ragazza facile», incide e fa diffondere post mortem 13 audiocassette, ognuna dedicata a conoscenti, amici o potenziali tali, nessuno dei quali è riuscito a colmare il suo vuoto. Anzi, forse l’ha creato o allargato. Ognuno di loro costituisce una ragione del suo gesto tragico. Il titolo originale della serie è 13 Reasons Why ed è tratta dall’omonimo romanzo scritto da Jay Asher che anche in Italia sta rapidamente scalando le classifiche di vendite.

Dal punto di vista televisivo, Tredici è una delle opere meglio realizzate degli ultimi anni. Ben scritta, ben recitata, magistralmente diretta, con i personaggi e gli interpreti giusti. Asciutta ed equilibrata anche nel racconto. È una di quelle storie da cui non ci si riesce a staccare. Che s’insinua dentro e non ti molla. Accade anche con Gomorra e con The Bridge – L’originale. Anche queste serie ti portano dentro mondi poco conosciuti. I clan della camorra con le loro logiche spietate e irredimibili. Oppure la civiltà scandinava con la sua pretesa di perfezione, e che invece si rivela una fucina di solitudini e perversioni. Se possibile, Tredici è ancora più forte, più struggente, perché ci introduce nel mondo degli adolescenti. Anch’esso un universo lontano, poco esplorato. Un mondo di persone fragili, immerse nella stagione più delicata e drammatica dell’esistenza. Persone che sono i nostri figli.

Clay Jensen ascolta le audiocassette di Hannah Baker

Clay Jensen ascolta le audiocassette di Hannah Baker

È stato scritto che è una serie sul bullismo. Certo, ci sono diversi episodi di umiliazione e di violenza psicologica che colpiscono Hannah Baker (l’attrice Katherine Langford). Ci sono omissioni, gesti non compiuti, parole non dette. Mancanze gravi anche queste. Che la allontanano progressivamente da chi sembrava un’amica o da chi poteva essere un fidanzato. La serie racconta tutto questo, calibrando sfumature di sentimenti e di psicologie alle prese con la solitudine, l’indifferenza, la distanza dagli altri, il deserto affettivo, l’assenza di contenuti e proposte vitali. Descrive la volubilità dei rapporti tra ragazzi, le invidie, le rivalità, una schiuma di relazioni effimere, foriere di delusioni.

Ma Tredici è anche, e forse soprattutto, una serie sull’impotenza del mondo adulto. Esortato dalla madre che, vedendo il figlio diciassettenne (Clay Jensen) turbato per un motivo ignoto, lo invita a parlare per farsi aiutare, il coprotagonista della storia risponde: «Mamma, anche se parlassi, tu non mi puoi aiutare». È una serie su questa impossibilità, su questa incomunicabilità tra ragazzi e adulti. Sull’incapacità di noi genitori, professori, educatori, professionisti di essere una proposta, un’ipotesi percorribile, una presenza. Di essere una ragione positiva per vivere. Un esempio, come si diceva una volta: parola rimossa. È una serie che, in un certo senso, fa l’esame di coscienza (altra espressione considerata vetusta) al mondo adulto. Alessandro D’Avenia, che di licei e di «fragilità» giovanile si intende parecchio avendoci dedicato anche l’ultimo libro (L’arte di essere fragili, Mondadori), ha scritto di «un assordante vuoto d’amore» nella serie. In realtà, più che l’assenza di amore, che invece traspare dai genitori di Hannah e di Clay Jensen, per conto mio ciò che latita sono i contenuti, le proposte vitali, un’idea che dia senso all’esistenza. Con l’eccezione di un professore, tutti gli adulti che lavorano o gravitano attorno al liceo in cui è ambientata la storia sono persone rispettabili, armate delle migliori intenzioni. Ma solo l’ultima cassetta di Hannah Baker è dedicata a una di loro. È lo psicologo della scuola, al quale si rivolge come ultima speranza, dicendogli che la sua vita non vale niente. Ma lui, con tutta la sua buona volontà, non riesce a superare il confine del ruolo. La decisione è presa.

Prigionieri dei nostri ruoli, noi adulti non riusciamo a capire, a entrare nel loro mondo. Non per curiosare, per sapere tutto. È giusto che i ragazzi abbiano margini di autonomia. Non riusciamo a entrare perché non siamo abbastanza credibili, affascinanti, non siamo un’ipotesi da verificare. Non siamo ragioni per cui valga la pena vivere. Il risultato è che, mentre il mondo degli adolescenti ci resta estraneo, ogni tanto, anzi, sempre più spesso, ci svegliamo di fronte a qualche tragica notizia di cronaca. Avete presente Blu Whale, il gioco online che guida gli adepti a cimentarsi in prove di coraggio sempre più pericolose e che sta facendo lievitare il numero di morti tra i ragazzi. L’ultima prova è buttarsi dal cornicione di un condominio o di un grattacielo. Nell’età della fragilità, nel vuoto di proposte, il nichilismo esercita una seduzione difficile da vincere. Se la scuola, i rapporti, le amicizie fanno schifo, se tutta la vita fa schifo tanto vale porle fine. Tanto vale lanciarsi davvero nel vuoto.

Hannah Baker, protagonista di Tredici

Hannah Baker, protagonista di Tredici

Anche prendendola dalla parte delle parole e del linguaggio, la società contemporanea, così moderna e avanzata, esce bocciata alla prova degli adolescenti. La loro fragilità avrebbe bisogno di confrontarsi con solidità, consistenza, sostanza, realtà. Invece, e qui saltano fuori le nostre responsabilità, infoiati dalla rivoluzione digitale e dalla globalizzazione, professori, filosofi, sociologi, intellettuali in genere, in tutti questi anni abbiamo continuato a esaltare l’esatto opposto di cui quella fragilità necessita: il pensiero debole, la società liquida, la realtà virtuale, la sessualità fluida cantata da Michele Bravi, nuovo idolo della nextgen. Dimenticandoci del cuore dell’uomo, delle sue domande fondamentali, del suo bisogno di significato.

E i più fragili s’infrangono.

La Verità, 1 giugno 2017