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«Curioso che ora i cinefili adottino Zalone»

Critico stracult, sdoganatore dei B-movie, difensore del cinema popolare. Per Marco Giusti, autore e conduttore televisivo, ideatore di festival e recensore di Dagospia le etichette si sprecano. Proveniente dall’estrema sinistra, firma dell’Espresso e del Manifesto, creatore con Enrico Ghezzi di Blob e Fuori Orario prima che, nel 1996, il sodalizio si infrangesse, non teme di polemizzare con i custodi dell’ortodossia cinefila. Anzi. Ama Carosello, Stanlio e Ollio, Moana Pozzi, Quentin Tarantino e il cinema western. Il suo recente Dizionario stracult della commedia sexy (Bloodbuster) impiega 500 pagine per scandagliare l’epopea di Laura Antonelli, Barbara Bouchet, Alvaro Vitali, Edvige Fenech, Renzo Montagnani, Gloria Guida…

Perché è importante quella stagione?

«È il cuore delle nostre contraddizioni. In quegli anni, tra il Sessantotto e il Settantasette, si è formata l’Italia di oggi, con repressioni sessuali, desideri di stravaganze libertarie e di libertà mai raggiunte. Dentro ci sono il nostro provincialismo e la nostra voglia di cambiare le cose. Il controsenso della commedia sexy è che ricordiamo la fase con Edvige e Alvaro Vitali e i film scorreggioni. Ma per arrivare lì siamo partiti dal cinema d’autore del Decameron di Pier Paolo Pasolini, da Ultimo tango a Parigi e da Malizia di Salvatore Samperi».

Cos’ha rappresentato quell’epoca per il cinema italiano?

«Incassi stratosferici, soprattutto nel centro sud e in provincia. Come capita anche adesso con Checco Zalone, la Puglia e la Sicilia erano la riserva di pubblico di quei film erotici, comici e liberatori».

Allora c’erano 9.000 sale, oggi sono 3.000.

«È stata la grande stagione del cinema popolare. Dopo gli spaghetti western e i polizieschi, anche le commedie sexy uniscono il pubblico. Non è vero che erano solo per i militari, come si diceva. È stato un fenomeno molto italiano… Ma mentre con Per un pugno di dollari – un solo film – Sergio Leone inventa il filone, nella commedia il genere si forma film dopo film».

In Italia c’è il terrorismo.

«Perché ci si sparava per strada e andavamo a vedere il culo di Edvige e della Guida?».

Già, perché?

«Cercavamo un modo di uscire dalla nostra repressione».

Colpa dei preti?

«Non solo. Colpa del partito, colpa della cultura dominante. Io li andavo a vedere come critico di estrema sinistra. Ero snob forse, ma dubito. Il primissimo era stato Giovanni Buttafava, esperto di cinema sovietico, per intenderci».

Quella che guardava la Fenech e Gloria Guida era un’Italia diversa da quella tutta assemblee e cortei?

«Era la stessa Italia. Vedere quei film scatenati era un guilty pleasure, un piacere proibito. Poi non è che si vedevano tutti. A parte Nando Cicero non c’era un vero autore, erano film ruspanti, più ancora degli spaghetti western. Solo Lucio Fulci in due o tre titoli alza il livello. Poi c’è la censura e i giornali ne danno notizia…».

Moltiplicando la curiosità.

«Andare a vederli era sia una cosa da curia cattolica sia un fatto di libertà. Erano film machisti e razzisti, ma liberando dalle ideologie e dal moralismo, facevano crescere il pubblico».

Che rapporto hanno con quell’epoca le varie attrici?

«Barbara Bouchet e Nadia Cassini ottimo, Gloria Guida mi sembra pessimo. Edvige pensa di essere stata etichettata. Il primo anno di direzione della Mostra di Venezia di Marco Müller volevamo chiamarla come madrina, ma alla fine dovemmo rinunciare. L’Italia era rimasta bacchettona e lei si sentiva ancora appiccicato addosso quel titolo, Giovannona coscialunga…».

La chiama Edvige per brevità o perché è una specie di sorella maggiore?

«Perché la conosco bene ed è simpatica e intelligente. Anche la Bouchet lo è e la conosco bene, ma mi spiace che Edvige si senta ingiustamente massacrata da quel cinema».

Laura Antonelli era un caso a parte?

«Un po’ sì. Lei e la Fenech nascono assieme, poi, dopo il successo di Malizia e grazie a Jean Paul Belmondo, la Antonelli fa film più grossi, diretta da Giuseppe Patroni Griffi, Luchino Visconti e Luigi Comencini. Per Mi faccio la barca di Sergio Corbucci ruba il ruolo proprio a Edvige. Poi scivola… Quando sconfinano in un cinema più alto, le attrici sexy finiscono per spogliarsi più che nelle commedie».

Che derivano dal cinema d’autore, ma sono le basi della tv commerciale?

«A fine anni Settanta nascono le tv private e tutto questo mondo di comici e attrici viene assorbito da Canale 5. Carlo Freccero per primo mette in seconda serata tutti i film della Fenech e così si stabilisce subito un legame forte con la tv di Berlusconi. Arrivano le miniserie con Gigi e Andrea, Sabrina Salerno… poi il filone di Abbronzatissimi e delle Vacanze… Qualche produttore comincia a lamentarsi perché da Milano giungono attricette alle quali si deve trovare un ruolo».

Anche i cinepanettoni nascono da quelle commedie?

«Quando passa in tv, la commedia sexy muore al cinema. Alcuni attori vengono recuperati per la famiglia, come Lino Banfi che diventa Nonno Libero. La parte più volgare confluisce nei cinepanettoni, passando per i film con Renato Pozzetto, Ornella Muti ed Eleonora Giorgi che sono più tranquilli. Scompaiono i film comici e arrivano quelli vanziniani prodotti da Aurelio De Laurentiis. Fin quando, con Neri Parenti, tutta la goliardia viene concentrata in un solo film, un po’ come Zalone oggi, che però devi andare a vedere e così sbanca al botteghino».

Prima di questo, ha fatto anche il dizionario del western, altro genere di serie B.

«Io mi considero uno storico, ma mi diverto a rompere le scatole difendendo il cinema popolare. Per esempio, sono stato il primo a elogiare Cado dalle nubi di Zalone e trovo che adesso sia facile accodarsi».

Perché la critica è sempre più allineata e pochi sparigliano?

«Credo che sia colpa dei social. Devi essere di qua e di là, soprattutto devi essere sul pezzo. Natalia Aspesi ha scritto un pezzo assurdo su Tolo Tolo, anche Paolo Mereghetti… Quando mai sono stati dalla parte di Zalone?».

Invece, stavolta…

«Non so se sia una linea dettata dai direttori, per fare più polemica. Però è bizzarro, Aldo Cazzullo scrive “film bellissimo”… Capisco, fare proprie le cose popolari, ma al quinto film è un po’ tardi».

La politica inquina la critica?

«Quella di questo cinema. Tolo Tolo arriva dopo un anno di porti chiusi, porti aperti e ritorno del fascismo: ovvio che ci si schiera. Il film rimane strano, non può stare con i porti chiusi, ma non prende posizione. Le critiche che lo tirano di qua o di là appena le leggi diventano ridicole. Su un tema così vorresti che il film si schierasse come aveva fatto La grande guerra con un finale forte. Qui tutto si risolve nella trovata musical. E quello che non ha fatto Zalone lo fanno i critici dandogli un senso politico che non ha».

È stato improvvisamente coccolato dal Corriere e da Repubblica.

«Improvvisamente».

E sbertucciato dai critici di destra…

«Soprattutto non è abbastanza piaciuto al pubblico. Rispetto ai 65 milioni di Quo Vado ne incasserà 20 in meno e ne costa 15 in più. Rimane un grande successo, però non è quel boom che sembrava nei primi giorni».

Zalone avrebbe fatto meglio a restare con Gennaro Nunziante, suo regista storico?

«Nunziante avrebbe evitato qualche scelta grossolana e dato più ritmo alla storia. Avevano sempre agito come una coppia comica: Gennaro, rigoroso e cattolico, e Checco che stravolgeva le situazioni “democratiche”».

Che ruolo ha avuto nella vicenda il produttore Pietro Valsecchi?

«Credo abbia voluto escludere Nunziante perché pensava che Checco solo fosse più forte. Temo abbia sbagliato. Comunque, questo è l’ultimo film che fa per la Taodue prima di mettersi in proprio. Io penso che abbia bisogno di un’interfaccia intelligente con cui confrontarsi. Anche Alberto Sordi funzionava meglio quando lavorava con Rodolfo Sonego».

Parlando di critica, come mai le serie tv di Taodue sono sempre elogiate da Aldo Grasso?

«Bisognerebbe chiederlo a Grasso. Metterle sullo stesso piano di Gomorra lo trovo eccessivo, ma ognuno è libero di esprimere le proprie opinioni».

Medusa e Mediaset stanno facendo grandi incassi con Tolo Tolo e Il primo Natale, due film sull’immigrazione tendenti a sinistra?

«È la dimostrazione che il cinema comico è più attento all’attualità del cinema d’autore. È stato così anche in passato con la commedia italiana. Quest’anno i cinepanettoni intelligenti, senza situazioni volgari o imbarazzanti, sono andati bene. È come se questo cinema fosse riuscito a rappresentare un Paese più composto di quello reale che vedevamo fino a qualche mese fa. La bella notizia è che sommando gli incassi di Tolo Tolo a quelli di Pinocchio, Il primo Natale e La dea fortuna la nostra industria porterà a casa 80 milioni».

La critica si è divisa anche su C’era una volta a Hollywood: Mariarosa Mancuso del Foglio ha scritto «date il Nobel a Tarantino», Mereghetti ha parlato di «cinema citazionista».

«Anche Emiliano Morreale di Repubblica ha scritto che è finito. La critica che si sente ufficiale cerca di espropriare Tarantino della sua leadership, tentando di ridarla al cinema d’autore europeo old stile».

Invece lei è un suo acceso fan?

«Trovo che finora Tarantino non abbia sbagliato un colpo e abbia seguito un percorso alto e intelligente. Rivaluta il cinema di genere che i critici fofiani hanno sempre considerato minore. I quali contestano il suo ruolo per difendere la scelta di aver dequalificato il western, la commedia, i film comici, i polizieschi… Tullio Kezich ha attaccato Sergio Leone fino all’ultimo giorno».

Mentre lei è lo sdoganatore dei B-movie.

«Ho difeso il cinema popolare da prima che comparisse Tarantino. Perciò trovo bizzarro che ora Zalone venga esaltato da chi ha sempre snobbato quel cinema».

Le divisioni si riproporranno anche su Hammamet di Gianni Amelio?

«Il tema, d’istinto si presta, ma Hammamet è un film volutamente non politico. Su Craxi le bande erano più schierate 25 anni fa».

 

La Verità, 12 gennaio 2020

Bertolino antifuga cervelli Fazio e Crozza sbagliano

Fondazione Tim sull’innovazione È sbarcato ieri su La7 MeravigliosaMente, programma sull’innovazione di Enrico Bertolino e realizzato da Zerostudio’s per Fondazione Tim. A metà tra l’educational e la divulgazione scientifica, il comico visita in altrettante puntate cinque università dell’eccellenza italiana (Pisa, Genova, Padova, Milano, Torino). La prima notizia è che esistono nonostante le classifiche internazionali. La seconda è la comunicazione smart con cui Bertolino incontra ricercatori di robotica che progettano pancreas per diabetici gestibili con wi-fi, o ingegneri che studiano il trasporto con levitazione magnetica che ridurrà di 2/3 i viaggi sulle linee Tav. Il tutto in agenda «tra due anni».

Errori di programmazione/1 Il primo è Che fuori tempo che fa, il talk show di Fabio Fazio nella seconda serata del lunedì su Rai 1. Con l’eccezione della copertina di Maurizio Crozza, la tavolata con gli ospiti sembra una sorta di «avanzi» del Tavolo con Nino Frassica della domenica. In passato c’è chi ha proposto qualcosa di dignitoso con il marchio Avanzi, ma stavolta c’è da confrontarsi con lo schiacciasassi Grande Fratello Vip. E non basta il traino della Nazionale, tanto più se dopo la fine del match c’è mezz’ora di bar sport, per far superare la sensazione di già visto.

Errori di programmazione/2 L’altro svarione riguarda Fratelli di Crozza in onda su Nove al venerdì (3.5%) come nelle annate su La7, dove quest’anno c’è Propaganda Live di Zoro che gli rosicchia il pubblico militante. Più male gli fa su Tv8 la prima tv in chiaro di X Factor che lo supera regolarmente (4.5% circa). Se non si vogliono cambiare abitudini tocca rassegnarsi.

Correzione per Skroll Dopo un mese di preserale nell’illusione che facesse da traino a Mentana, Andrea Salerno ha deciso di spostare la striscia di Marco D’Ambrosio alias Makkox prima di un altro tg, quello della notte. Gli ascolti delle 19.30 erano scesi sotto l’1%, mentre la replica dopo mezzanotte resisteva attorno al 2% (e il doppio di telespettatori). I frequentatori dei social sono nottambuli.

I capolavori di Taodue L’altro giorno a proposito di Squadra mobile. Operazione Mafia Capitale di Canale 5 Aldo Grasso ha scritto che «vengono in mente tante cose». A cominciare dal «cinema dell’impegno civile (i film dei fratelli Taviani, di Germi, di Petri, di Pontecorvo, di Rosi, di Scola…) così centrale negli anni ’70 del Novecento. Le non poche serie della Taodue da Distretto di polizia a R.I.S., da Squadra antimafia a Le mani dentro la città, solo per citare alcuni titoli, affondano le loro radici culturali proprio in quella stagione in cui il nostro cinema provava a raccontare misteri e storture del nostro Paese».

La Verità, 15 ottobre 2017

«La meglio gioventù» (senza agiografia) di papa Francesco

Affacciato sulla terrazza di un palazzo che guarda la cupola di San Pietro, l’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio ripensa a tutta la sua vita. È appena arrivato in Vaticano, idi di marzo del 2013, per un Conclave che, dopo la clamorosa rinuncia di Benedetto XVI, si annuncia tra i più delicati della storia contemporanea. In questo più che verosimile momento di pausa s’incardina il lungo flashback del racconto di Francesco, il Papa della gente, la miniserie prodotta dalla Taodue di Pietro Valsecchi, diretta da Daniele Luchetti e interpretata, nel ruolo principale, da Rodrigo De La Serna (Canale 5, mercoledì e giovedì, ore 21.30, share del 18,45 nel primo episodio). È una biografia che attraversa oltre mezzo secolo e che ci permette di capire qualcosa di più di chi è l’uomo che oggi guida la Chiesa cattolica. Vediamo il Papa attuale quand’era giovane. Peronista come quasi tutti i ragazzi argentini nel 1960, studente di chimica con fidanzata, figlio di genitori italiani emigrati, fino all’insorgere della vocazione religiosa che si presenta attraverso l’impeto missionario e il desiderio di recarsi in Giappone, che i superiori dei Gesuiti correggono suggerendogli di dedicarsi all’insegnamento. Nell’Argentina della dittatura di Jorge Rafael Videla, Bergoglio diventa prima Padre Provinciale dei Gesuiti e successivamente arcivescovo della capitale. Lo vediamo riformare la gestione dell’Università del Salvador, affidandone l’amministrazione a professionisti laici. E lo vediamo impartire il battesimo a un bimbo figlio di una relazione non regolarizzata nel matrimonio. S’intuisce così dove nasce la fede di Bergoglio, intesa non come una serie di «dogane spirituali» da superare, ma come fattore inclusivo e preoccupato di far conoscere Gesù Cristo a tutti. Lo vediamo difendere dall’oppressione e dalle violenze dei militari quei confratelli e seminaristi che, a differenza sua, abbracciarono esplicitamente la teologia della liberazione. Una resistenza che lo segnerà di dolore e sofferenze per la scomparsa di molti suoi compagni. Lo vediamo, infine, affacciarsi in piazza San Pietro con quel saluto che inaugurò una nuova stagione quanto proficua per la Chiesa lo dirà la storia. Gli story editor, lo stesso Luchetti e Martin Salinas, hanno attinto all’autobiografia e ai racconti diretti dello stesso pontefice. E probabilmente, al di là della semplicità di una narrazione rivolta al grande pubblico e di una certa, comprensibile, insistenza sullo scontro politico dell’epoca, non poteva esserci scelta migliore per restituirci il temperamento, la formazione e la maturazione pastorale contrassegnata dalla misericordia dell’attuale Capo della Chiesa cattolica.

La Verità, 9 dicembre 2016