Articoli

Bonus, app, bancoscontri: il Conte2 fabbrica di flop

App bluff flop. Non è uno scherzo della tastiera del computer, uno scioglilingua da quiz televisivo o un esercizio di logopedia per balbuzienti. È la sintesi della triste parabola dell’applicazione «Immuni». Doveva essere la chiave di volta, il gadget risolutore, l’arma segreta che, tracciando i comportamenti dei contagiati, avrebbe tranquillizzato gli animi, placato le ansie, facilitato il compito dei nuovi tutori della salute pubblica. L’attesa del varo era scandita dal countdown. Il tonfo è fragoroso: finora l’hanno scaricata circa 5 milioni di italiani (il 13% del bacino d’utenza). Pochini perché possa dispiegare tutti i suoi effetti salvifici. E spiace un tantino anche per il buon Flavio Insinna che invano ci esorta al download perché «più siamo meglio stiamo».

Bonus e navigator

Le malinconiche sorti di «Immuni» sono l’emblema del governo Conte Casalino (copy Dagospia), specializzato in trovate inutili, invenzioni superflue, rimedi velleitari. Una pletora di sovrastrutture che mancano regolarmente il bersaglio, indisponenti come un boccale di birra pieno di schiuma. Fossimo nel calcio, con un bilancio così l’allenatore sarebbe stato esonerato da un pezzo. Nel mondo della televisione, il direttore di rete sarebbe stato trasferito ad altro incarico. Prendiamo il bonus vacanze, enfaticamente annunciato dal decreto Rilancio. Altra app, altro flop. Dei 2,4 miliardi stanziati per rilanciare il turismo, finora solo 615 milioni sono stati prenotati e appena 200 utilizzati: l’8% del totale. Tra carta d’identità elettronica, credenziali Spid e Dichiarazione sostitutiva unica (Dsu), le procedure escogitate dal governo della semplificazione avrebbero fatto sclerare un nerd della Silicon Valley. Per non parlare dell’entusiasmo con il quale le strutture ricettive che avrebbero dovuto anticipare l’importo hanno accolto la pensata.

Una volta erano i governi successivi a smantellare le leggi approvate dai precedenti. Con il dicastero capeggiato da Giuseppi assistiamo al fallimento conclamato già in corso d’opera. Un inedito: il governo della semplificazione lo è anche dell’innovazione. Che bilancio trarre dell’operato dei Navigator, altro colpo di genio grillino? I 2846 funzionari insediati l’estate scorsa nei Centri per l’impiego con l’obiettivo di trovare lavoro ai fruitori del reddito di cittadinanza (1,132 milioni di nuclei familiari, 2,8 milioni di persone) hanno raggiunto lo scopo per il 3,5% dei beneficiari. Buco nell’acqua anche per la sanatoria voluta tra le lacrime dal ministro Teresa Bellanova: 29.500 lavoratori regolarizzati nell’agricoltura invece dei 600.000 annunciati.

Trasparenza?

Tra gli obiettivi sbandierati e il loro reale raggiungimento la forbice è sempre piuttosto divaricata. Si sa che ormai la politica coincide con la comunicazione, e sappiamo che a dirigerla è un ex concorrente del Grande fratello. Ma qualcosa non torna se la propaganda diventa lo storytelling di Palazzo Chigi. Restando nello specifico della comunicazione, il governo della semplificazione e dell’innovazione lo è anche della trasparenza. Non a caso sta battendo tutti i record di opacità. Dalla gran parte dei verbali delle riunioni del Comitato tecnico scientifico alla ricerca di Stefano Merler che già il 12 febbraio anticipava la tragedia sanitaria che ci attendeva fino ai documenti delle indagini sulla strage di Ustica, Conte ha oscurato una serie interminabile di atti. L’ultimo in ordine di tempo, con grande coerenza trattandosi di un appalto pubblico, riguarda i famosi banchi scolastici monoposto. Il torvo commissario Domenico Arcuri, purtroppo niente a che vedere con Manuela, ha giustificato la segretazione con l’intento di evitare strumentalizzazioni. Poi si offendono se c’è chi si insospettisce (per dire: qualcuno ha notizie dell’inchiesta su Ciro Grillo, pargolo di Beppe? O è il caso di creare il Premio dimenticatoio dell’anno?). Temendo che, dopo tanti oscuramenti, alle prime elezioni disponibili qualcuno finisca per oscurare lui, Conte si è defilato lasciando che a smazzarsi le grane della scuola, il taglio dei parlamentari e le nuove ondate di migranti siano i relativi ministri (in)competenti. Meglio non invischiarsi, dedicarsi al più gratificante controllo dei vertici dei servizi segreti imponendo il voto di fiducia – a proposito di trasparenza – e veleggiare verso la candidatura al Quirinale.

Monopattini e bancoscontri

Il governo, intanto, una ne fa e cento ne pensa. O magari il contrario. Non potendo affollare i mezzi di trasporto, anziché aumentare le corse di bus e metro, la soluzione per recarsi al posto di lavoro nei grandi centri urbani è stata trovata nei monopattini. I pendolari dell’hinterland milanese e romano, soprattutto over 40, esultano su un piede solo, pronti per Paperissima sprint. Dai monopattini ai bancoscontri il passo è breve. Per ottemperare al distanziamento nelle classi ecco in arrivo, si fa per dire, 400.000 banchi a rotelle. Anzi no, perché ora sembra siano fuori legge. In compenso ci abbiamo perso solo un’estate, il tempo non manca. Quale fosse il nesso tra le ruote sotto i banchi e la distanza tra gli studenti sfuggiva ai più, Andrea Crisanti compreso. Ma il Conte Casalino, governo della semplificazione, della trasparenza e dell’innovazione, con una passionaccia per le due e le quattro ruote, lo è anche del dinamismo: la Ferrari dev’essere il punto di riferimento.

Nuovo verbo

Un mix di dilettantismo naif sciolto in corpose dosi d’ideologia è la ricetta aura del dicastero ancora in carica. Tra abolizioni della povertà e poderose potenze di fuoco per la ripresa si avanza spediti verso un Pil algebrico a due cifre. Il nuovo verbo è l’ecosostenibilità, il Green deal europeo, la nuova era ecologica. E pazienza se mentre si conciona di surriscaldamento globale e scioglimento dei ghiacciai ancora non abbiamo capito come sia finita la faccenda dell’Ilva di Taranto, una cosetta da diecimila dipendenti indotto escluso, l’1,4% del Pil nazionale. Oppure se a ogni acquazzone di fine estate, mezza Italia deve dichiarare lo stato di emergenza e di calamità naturale. Che sarà mai: uno più uno meno cosa cambia, Conte ci è abituato agli stati di emergenza. Ci pensa lui, con i suoi superpoteri. E se non bastassero, consoliamoci. Potrà sempre farsi aiutare dalle task force, da Vittorio Colao, da Walter Ricciardi, dal Comitato tecnico scientifico, dagli Stati generali… Perché allarmarsi, l’Italia è un modello copiato in tutto il mondo.

 

La Verità, 3 settembre 2020

«Ci salverà il lavoro umano, non le task force»

Ha l’età di Elisabetta II d’Inghilterra, ma la reattività di un quarantenne. Tre ore dopo la mia mail, Franco Ferrarotti, padre della sociologia italiana, è al telefono con la sua voce squillante. Niente uffici stampa né altri intermediari. «La regina? Sì, siamo entrambi dell’aprile del 1926. Una coincidenza. Io non sono né re né regina e nemmeno monarchico. Ma ricordo che, a differenza di altri sovrani che ripararono in Canada o altrove, i Windsor restarono nella loro residenza anche durante i bombardamenti dei tedeschi. L’ora più buia, come va di moda dire. Un conto sono certi pennacchi di facciata, un altro l’attaccamento al popolo di cui si è veri rappresentanti».

Consigliere di Adriano Olivetti, fondatore di riviste e collane editoriali, gran viaggiatore, docente negli Stati uniti, parlamentare, cavaliere di Gran croce, tuttora professore emerito alla Sapienza di Roma, a proposito di vecchi che hanno parole più solide nei momenti drammatici, l’editore Marietti 1820 sta pubblicando tutte le opere di Ferrarotti: sei volumi, cinquemila pagine.

Professore, qual è la prima lezione che dovremmo trarre da questa pandemia?

«Che la famiglia umana ha un destino comune e nessuno si salva da solo. Devo fare autocritica: pensavo che la globalizzazione sarebbe stata opera delle multinazionali, invece la sta facendo il virus».

Che cosa vuol dire?

«La globalizzazione è stata lo strumento delle multinazionali occidentali per soddisfare la fame di mercati, il bisogno di produrre, vendere e generare profitto. Il quale è legittimo, s’intende. Ma questo era il mondo di prima».

Invece, con la pandemia…

«Dobbiamo riscoprire il senso del limite. Non possiamo pensare che andare avanti per andare avanti sia in sé il bene. È giusto produrre, ma mantenendo l’equilibrio ecosistemico delle comunità».

Adelante con juicio.

«Dobbiamo imparare la lentezza, perché il cervello umano è una macchina lenta. Dopotutto, ci vogliono sempre nove mesi per fare un bambino. A meno che i ginecologi non s’inventino qualcosa… ma nemmeno l’inseminazione artificiale ha migliorato le cose, anzi. Può darsi che l’uomo non sia fatto per vivere alla velocità della luce».

Lo spot di una casa automobilistica tedesca recitava: «Io sono il tempo. Vado avanti per natura. Può sembrare che vada di fretta. Ma anche se non puoi fermarmi, grazie alla tecnologia puoi darmi molto più valore».

«È l’illusione di onnipotenza alla quale ci siamo votati. Spero impareremo che siamo interagenti, interdipendenti. Nessuno si salva da solo, come ha detto il Papa».

Nel secolo scorso abbiamo lottato contro la povertà e il terrorismo, ora la minaccia riguarda la salute.

«Stavolta non sono in gioco l’equilibrio socio economico e la redistribuzione della ricchezza, ma la sopravvivenza dell’umanità come famiglia unitaria. Il virus intacca le radici esistenziali della natura umana».

È una sconfitta per la scienza?

«Da tempo la scienza non è in grado di dispensare certezze, cioè leggi universalmente necessarie e vincolanti. Dopo la grande triade Copernico Galileo Newton, dopo la teoria della relatività, può darci solo uniformità tendenziali e probabilistiche».

È una sconfitta anche per la politica?

«I politici, non solo i nostri, nascondono dietro una scienza che non è quella che immaginano, la propria incapacità di decidere e di rappresentare i popoli».

Tutti o qualcuno di più?

«Direi tutti i gruppi dirigenti, non solo i governanti. Anche coloro che collaborano a formare l’opinione pubblica. Sono già iniziate contestazioni e processi fuori luogo che andranno fatti quando la crisi sarà superata».

Che cosa comporta per la nostra società la moria degli anziani?

«Una perdita irrimediabile. I vecchi sono lo scrigno della memoria, senza la quale non c’è vita sociale e civile. Gli esseri umani sono ciò che sono stati e ciò che ricordano di essere stati. Per questo la memoria è fondamentale. Noi siamo ricordi ambulanti».

Che sconfitta è se una comunità non può accompagnare chi muore?

«Tragica, perché i morti continuano a parlare. La grande invenzione della storia umana è stata la sedentarietà, cioè l’uscita dal nomadismo. Le popolazioni hanno scelto di rimanere ferme perché non potevano trasportare i morti, così la casa e l’opificio sono sorti accanto al camposanto».

Che cos’ha pensato vedendo i camion dell’esercito che trasportavano le bare di Bergamo?

«Quell’immagine ha messo in luce l’imbarazzo dei sopravvissuti. I quali possono pacificarsi solo trasformandosi da superstiti in supertesti. Cioè testimoni di coloro che non ci sono più. Ma che, nel ricordo, continuano a vivere».

L’immagine più memorabile sono quei camion, il Papa solo in piazza San Pietro o l’infermiera addormentata sulla tastiera del computer?

«Oltre tutte queste, non mi abbandona quella del malato intubato che respira grazie a un congegno meccanico. Un morto che non cessa dal morire e affida alla macchina la sua speranza di vita».

Se le avessero detto che saremmo stati reclusi in casa davanti a uno schermo ci avrebbe creduto?

«Certo che no. Per gli italiani e i popoli mediterranei la socializzazione elettronica è una mutilazione. Per secoli abbiamo comunicato più con i gesti e le mani che con le parole. Giustamente si fanno le lezioni via web, ma il nostro vitalismo ci dice che non ci sono surrogati del dialogo faccia a faccia».

Non ha molta fiducia nella comunicazione elettronica.

«Perché è comunicare a, anziché comunicare con».

La differenza?

«Comunicare a significa comunicare tutto a tutti. Cioè, in realtà, niente a nessuno. Comunicare con esprime la comunione, il parlare guardandosi negli occhi».

Dopo la crisi saremo migliori, uguali o peggiori?

«Saremo diversi: migliori se diventeremo più consapevoli dei limiti del profitto e del mercato. Il profitto è legittimo quando dimostra razionalità nella gestione dell’impresa. Ma la ricerca della sua massimizzazione nel più breve tempo possibile porta a un’azione predatoria, insensata e infine autodistruttiva. Quanto al mercato, che ha vinto su scala planetaria contro Confucio in Cina e le caste in India, è legittimo come foro di negoziazione. Ma quando l’economia di mercato diventa dominante e i politici cominciano a dire “Vediamo come aprono i mercati”, c’è il rischio che si traduca in società di mercato».

Il mercatismo di cui parla Giulio Tremonti.

«Esatto, un’economia prettamente finanziaria, non produttrice di merci. L’espressione “società di mercato” è una contraddizione in termini. Perché identifica rapporti che valgono in quanto finalizzati a un obiettivo strumentale definito da un prezzo».

Perché tornare al mondo di prima sarebbe la fine?

«Perché è un mondo in cui l’individuo non è aggregato, ma disgregato. In cui c’è libero accesso, ma non controllo dell’eccesso».

Guardando al futuro, come trovare equilibrio tra libertà e sicurezza, iniziativa e salute?

«L’equilibrio non si trova una volta per tutte, sarà sempre mobile e problematico. È inutile interrogare la scienza come una sfinge. Vedo la necessità di tornare ad Aristotele, che sosteneva che la virtù fondamentale dell’uomo e della donna in politica è la prudenza».

Concretamente?

«Vuol dire tenere alti gli ideali di libertà democratica, giustizia sociale e iniziativa del singolo. Ma sapendo procedere a piccoli passi, in vista del bene pubblico. Credo che dovremo scoprire un nuovo riformismo. Finora abbiamo oscillato tra il polo rivoluzionario, con l’immaginazione che è diventata incompetenza al potere, e il polo del realismo pauroso che dimentica le grandi visioni».

La terza via è quella della tecnica e delle task force?

«La tecnica rappresenta un’illusione di perfezione operativa, ma non è in grado di dire da dove veniamo, dove siamo e dove andiamo. Ha una prospettiva solo strumentale. Le task force sono il tentativo di coprire le vergogne dell’indecisionismo con foglie di fico ingiallite».

Quali dovrebbero essere le priorità della fase due?

«Tornare a lavorare e produrre, ma con grande cautela. La parola d’ordine è convivere con il virus».

Sarà il primo e l’ultimo?

«Non sarà l’ultimo, perché il dramma del vivere, per gli esseri umani, gli animali e i vegetali passa attraverso la lotta costante per la sopravvivenza».

Su cosa far leva, dove trovare le risorse migliori?

«Qui non si tratta di materie prime, naturali o soprannaturali. Per ripartire servirà una grande chiamata al coraggio e al cambiamento. Dobbiamo capire questa lezione di lentezza, di silenzio, di solitudine, di profondità. Questa crisi ci ha fatto riscoprire gli esercizi spirituali inventati da Sant’Ignazio di Loyola».

L’Occidente è disposto a questa revisione?

«Dobbiamo scegliere. Galvanizzati dall’onnipotenza tecnologica, puntavamo a conquistare Marte, ma il virus ci ha riportato con i piedi per terra. Alla crisi seguirà una voglia di vita, ci sarà una ripresa della natalità. Stiamo vivendo un tempo di depurazione, una catarsi. Come dopo il Getsemani».

Possiamo contare sull’Europa?

«L’Europa ha un’enorme occasione. Invece di Meccanismo europeo di stabilità lo si chiami Meccanismo europeo di solidarietà. Senza cambiare l’acronimo. L’Italia deve farsi dare i 37 miliardi per la sanità non solo senza condizioni e a lunga scadenza, ma anche a un tasso dello 0,5%».

Vede un ritorno della centralità dello Stato?

«Dovrà essere una centralità leggera, non il foro degli opportunismi e della corruzione endemica com’è ora. Ci vorrà uno Stato centrale più snello, coordinato con le comunità di base e le regioni. Attenti a evitare i protagonismi incrociati di ministri, governatori e sindaci».

Se dovesse dare l’agenda al premier della rinascita cosa gli direbbe?

«Di procedere per gradi, sulla base di tre criteri. Primo: migliorare il servizio sanitario nazionale. Secondo: promuovere industrializzazione senza disumanizzazione, come raccomandava Olivetti. Terzo: lavorare a un grande risveglio del Mezzogiorno».

 

La Verità, 26 aprile 2020

«Se ingoieremo il Mes saremo un protettorato»

Un sito che si chiama La Fionda. Un blog no global nell’era dei giganti del web, delle piattaforme, di Instagram. Fresco di nascita, il 31 marzo scorso, ma già ricco di interventi e approfondimenti di una trentina di autori, tra i quali Carlo Galli e Umberto Vincenti. Diretti da Geminello Preterossi, toscano, laureato alla Normale di Pisa, docente di filosofia del diritto e storia delle dottrine politiche a Salerno, autore di studi sulla democrazia, sul populismo, su Carl Schmitt e direttore dell’Istituto italiano per gli studi filosofici. Uno che si definisce «di sinistra», anche se, ormai, per l’evoluzione subita negli ultimi decenni, «dire sinistra è quasi dire una parolaccia».

Invece l’idea della Fionda è romantica. Ce la spiega?

«È un sito-rivista, espressione di una comunità di studiosi di politica e diritto, insegnanti, informatici, semplici appassionati. Persone sparse in tutta Italia, impegnate fuori dai partiti tradizionali. Dalla crisi del 2008, primo scossone alla globalizzazione, abbiamo approfondito le istanze di ciò che viene chiamato populismo. Ribellandoci all’espropriazione della sovranità democratica e riproponendo i diritti sociali e del lavoro».

Una comunità orientata a sinistra?

«Una comunità plurale, convinta che la sinergia tra neoliberismo e globalizzazione abbia effetti esiziali».

Chi è Davide e chi è Golia?

«Golia sono i giganti digitali e la grande finanza. Ciò che il sociologo Luciano Gallino chiamava “il finanzcapitalismo”. Se i colossi finanziari, che non rispondono alla comunità politica, impongono ovunque l’ordine mondiale neoliberale, il risultato è il caos con strati crescenti di popolazione inferiorizzata».

E Davide?

«Sono le comunità, i cittadini. Direi il popolo, se non sembrasse una provocazione. Davide è qualcuno che non ha paura di mirare dritto. Il popolo è fatto di tanti interessi e componenti, ma una cosa lo caratterizza, oggi: è tutto ciò che non è establishment. Sono gli esclusi, in aumento nel sud Europa e nel ceto medio».

Nell’editoriale d’esordio ha scritto che uno degli obiettivi è mostrare «l’inconsistenza della filosofia global-progressista»: come?

«Smentendo l’idea che globale è bello di per sé. E smontando l’illusione che, sulle ali della tecnologia, dalla famiglia e dalla tribù si arrivi direttamente alla dimensione planetaria. In mezzo ci sono le città, gli Stati e gli imperi, le strutture reali della convivenza».

L’esplosione della pandemia rafforza le visioni globaliste e l’universalismo politico?

«Ci sono forze che spingono verso questa omologazione. Una grande convergenza, svincolata dai popoli, ognuno con la propria storia. Credo che al posto di universo, si dovrebbe parlare di multiverso o pluriverso. Ci sono identità, tradizioni, interpretazioni. In passato c’erano la Nato e i Paesi del Patto di Varsavia. Poi c’è stata l’ondata neoliberista con Margaret Thatcher e Ronald Reagan. C’era comunque un grande dibattito. Dopo l’avvento di Tony Blair e Bill Clinton si è immaginata una prospettiva irenica universale, che appiattisce le differenze e cancella la mediazione dei conflitti. I quali, teoricamente, dovrebbero scomparire. Invece aumentano…».

Se il virus non conosce confini lo si può combattere solo in una prospettiva globale?

«Il virus è globalista, non sovranista. È l’inveramento della globalizzazione finanziaria. Il virus ha bloccato il motore della globalizzazione, riproponendo la necessità del ruolo dello Stato».

Il virus ha messo in evidenza anche la fragilità dell’Europa. Le scuse di Ursula von Der Leyen sono un’inversione di tendenza reale?

«Per carità, con quel profilo da visitor… Guardiamo ai fatti, non alla retorica. I fatti sono che ogni Paese guarda a sé stesso. A partire dalla Germania che si è fatta il bazooka di 550 miliardi fuori dal bilancio dello Stato. C’è una banca centrale senza uno Stato unitario. Si dovevano costruire gli Stati Uniti d’Europa, ognuno con la propria autonomia, ma non è andata così. La tecnocrazia non può sostituire la politica. Gli Stati del nord rifiutano la condivisione dei rischi. Lo si è visto durante la crisi della Grecia. Lo stiamo vedendo oggi. L’emissione degli eurobond sarebbe un inizio di condivisione del rischio. Ma non ci sarà».

Invece ci sarà il Meccanismo europeo di stabilità?

«Alla fine ce lo faranno ingoiare. Ci sono spinte forti, tutto l’establishment italiano – Pd, Italia viva, Forza Italia – è favorevole. Anche se accettassimo la parte che riguarda la sanità, il trattato di base ci porterà la Troika sull’uscio di casa. Ci sarebbero conseguenze nefaste sul welfare, le pensioni, l’occupazione. Non credo che i fautori del Mes non sappiano che su questa strada diventeremo un protettorato votato al vincolo esterno, imposto dall’economia tedesca che privilegia la lotta all’inflazione su quella alla disoccupazione».

E allora perché insistono?

«Per due motivi. Uno ideologico: l’illusione globalista contraria alle identità e fautrice dell’omologazione. L’altro strategico: il timore che l’unica alternativa sarebbe finire in mano ai populisti».

Di che cosa è sintomo la proliferazione in Italia di commissioni, comitati, task force a tutti i livelli?

«La sensazione di una delega ai tecnici è molto più di una sensazione. Personalmente sono convinto che il potere decisionale deve rimanere in capo alla politica, titolare di una visione complessa e dell’opera di bilanciamento fra le varie componenti».

Crede anche lei che siamo di fronte a una sorta di clonazione del governo?

«Di fronte a questo evento inedito la compagine governativa ha mostrato i suoi limiti. Ma c’è anche una tendenza che viene da lontano. Nel sistema neoliberista, lo Stato si funzionalizza e spoliticizza, mentre, al contrario, le tecnocrazie si politicizzano. Così, però, i cittadini non si ritrovano perché con il voto legittimano dei rappresentanti, ma le decisioni le prendono altri».

Si ricorre ai tecnici quando il gioco si fa duro?

«Sulla scorta dell’illusione che siano neutrali. L’abbiamo già visto con il governo di Mario Monti».

Arrivato come il salvatore…

«In realtà, si è comportato come un emissario straniero. Per caso ha ridotto il debito pubblico? Semmai ha ridotto il debito con l’estero e i salari. Per non parlare del disastro degli esodati. I tecnici non sono mai neutrali. Dietro l’aura dell’oggettività, fanno passare una visione».

Per esempio?

«Se ci si occupa solo di domanda estera significa che si privilegiano le grandi imprese a scapito di chi vive di domanda interna, piccole aziende, commercianti, partite Iva».

La soluzione?

«Dev’essere la politica a guidare».

Anche se è di tutta evidenza che i governanti attuali non siano all’altezza di questa situazione?

«Nella prima fase di fatto hanno governato i virologi. Ora avanzano priorità economiche, strategiche, psicologiche, di orientamento».

Per questo è nata la task force per la ricostruzione guidata da Vittorio Colao.

«Persona stimata, come lo sono gli altri esperti».

Forse un po’ tantini… La ricostruzione del dopoguerra la guidò Alcide De Gasperi, che non era un tecnico.

«Nemmeno Pietro Nenni e Palmiro Togliatti lo erano. Siamo in presenza dell’ennesima delega: dicci come dobbiamo fare».

Per il dopo si sente molto parlare di Mario Draghi.

«Lo vuole un bel pezzo di establishment, apparati dello Stato, il Pd, Italia viva. Non credo che Lega e Fratelli d’Italia approvino un governo tecnico. Forse potrebbe servire a liberarsi del premier attuale. Personalmente, auspicherei un governo di unità nazionale».

Ci sono le condizioni?

«Probabilmente no. Resta la via maestra del voto, il bagno di democrazia. Quando si devono affrontare sfide alte la legittimazione popolare è fondamentale. Se non c’è, il limite strutturale viene a galla. E poi dobbiamo tener conto di un altro fattore».

Quale?

«Che dopo ogni governo tecnico, come abbiamo visto con Monti, la divaricazione tra élite e popolo aumenta».

Anche il conflitto tra regioni e governo non fa ben sperare.

«La riforma del Titolo V della Costituzione fatta dal centrosinistra è venuta al pettine. È mancata una definizione delle competenze. Infatti, la Corte costituzionale non fa che occuparsi di questo. Dove ci sono regioni più organizzate come al nord, l’Emilia Romagna e la Toscana, ci si salva. Altrove la situazione è tragica. La sanità della Calabria e della Sicilia sono perennemente commissariate. L’attivismo del governatore della Campania serve a mascherare gravi responsabilità nella gestione del sistema ospedaliero».

L’ultima task force nata è quella delle Donne per il Nuovo Rinascimento. Serviva?

«Mi sembra un’operazione simbolica, piuttosto retorica. Se si vogliono dare segnali forti serve ben altro».

Per esempio?

«Sono favorevole alla riapertura di cinema e teatri. Ovviamente nel rispetto delle normative. Meno pubblico nelle sale e opere con pochi attori, ma sarebbe un segnale forte. Anche la riapertura di osterie e trattorie lo sarebbe, non siamo il Paese di McDonald. Ma se quelle attività resteranno chiuse un anno, potranno non riaprire più. Inoltre, la riapertura di scuole e università è fondamentale. Non bisogna trasmettere l’idea che far didattica online sia più figo. No, la cultura è un’esperienza incarnata, di relazioni reali. Paesi arrivati dopo di noi stanno già riaprendo».

La sinistra di governo sta pensando alla patrimoniale e alla regolarizzazione degli immigrati per l’agricoltura.

«Si comincia con la tassa sopra gli 80.000 euro e si arriva al prelievo nei conti conti correnti che sono il risparmio delle famiglie. Le vere ricchezze su cui intervenire sono nei paradisi fiscali. Questo è il momento di mettere denaro, non di toglierlo».

E la regolarizzazione degli immigrati?

«Per carità, buona cosa. Ma mi sembra il modo per buttare la palla in calcio d’angolo e parlar d’altro. Per regolarizzare gli immigrati servono vere politiche sociali. Che non si stanno facendo per nessuno. Altrimenti dopo averli regolarizzati li abbandoneremo nelle periferie e alimentando il degrado sociale».

 

La Verità, 19 aprile 2020