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«Il pubblico ha meno pregiudizi dei critici»

Incontro Paolo Sorrentino, ultimo Premio Oscar italiano, in un hotel di Bari durante una pausa del tour promozionale di Parthenope, il film in cui, attraverso la vita della protagonista, abbozza una meditazione sullo scorrere del tempo e il rapporto con la bellezza e l’amore.
È soddisfatto di come sta andando il film al botteghino?
«Molto, non è scontato di questi tempi. Sono felice delle reazioni di molti spettatori che lo vedono come una rappresentazione della grande avventura della vita. Non come un film bello o brutto, ma come un’emozione profonda nella quale specchiarsi e rinvenire le domande che ci corrispondono. È un lavoro con una trama emotiva e sentimentale».
Si aspettava questo successo dopo l’accoglienza della critica?
«Ero molto preoccupato perché la critica non è stata benigna. Migliore quella italiana, più aspra quella anglosassone. Fa parte del gioco».
I critici sono più freddi sui temi esistenziali?
«Non so se questa sia la chiave giusta. Ci sono due modi per vivere un film: esaminarlo nelle sue diverse parti o immergersi nel flusso dei sentimenti che affronta. Il primo modo appartiene alla critica, il secondo al pubblico. Questo fa sì che questo film piaccia di più al pubblico. Se è vero che la nostra cultura è la somma dei nostri pregiudizi, come dice Alessandro Piperno, allora, secondo me il pubblico ha meno pregiudizi».
Che cosa ha innescato questa meditazione sul tempo?
«Sono entrato in un’età in cui si comincia a interrogarsi su come è passato il tempo e come scorrerà successivamente. Mi sembra il tema dei temi… quando uno guarda alla propria vita… Trovo commovente lo scorrere del tempo, la cosa più decisiva che accade a ognuno di noi».
Chi è Parthenope?
«Una donna libera, che si ostina nel mantenimento della sua libertà. Questo la rende un personaggio epico, in un’accezione moderna dell’epico. Non rinuncia alla spontaneità e alla bellezza della seduzione».
È una donna in ricerca che non si accontenta delle risposte che offre una città caleidoscopica come Napoli?
«È una donna che si lascia vivere, quando è giovane. Forse per questo a molti risulta emozionante, ci si lascia andare a quella vertigine di estasi che tutti abbiamo provato in gioventù. Quando entra nell’età della responsabilità guarda la città più da fuori, senza lasciarsi sopraffare. E le capita di andare via».
È anche una donna che non si compromette e resta sempre un po’ distante?
«Sì. Avendo questa vocazione all’antropologia guarda la sua vita da fuori. Però a Capri si lascia andare…».
Per usare le sue chiavi interpretative, sa cos’è l’irrilevante, ma le sfugge il decisivo?
«Secondo me sa anche cos’è il decisivo, come di solito lo sanno le donne. È una generalizzazione, certo, ma mi pare che le donne sappiano sempre come stanno le cose».
Per malizia?
«No, per una forma istintiva di conoscenza della vita che le donne hanno più degli uomini».
L’intelligenza emotiva vince su quella razionale?
«È come se i presentimenti delle donne siano più vicini alla realtà di quanto lo siano i presentimenti degli uomini. La mia è una sensazione».
Parthenope non si convince a fare l’attrice, delusa dall’incontro con Greta Cool alias Sophia Loren…
«Non è Sophia Loren, ci tengo a dirlo, ma la rappresentazione di una diva di quegli anni».
In tanti abbiamo riconosciuto lei.
«Contro il mio parere, visto che l’ho creata io».
Lei è soddisfatto di essere un artista?
«Sono molto fortunato e privilegiato. Faccio un lavoro molto divertente che la maggior parte del tempo non percepisco nemmeno come lavoro».
Parthenope cerca invano una complicità d’intelligenza con lo scrittore John Cheveer: a lei il mondo della letteratura ha dato le soddisfazioni che cercava?
«Sì, ho scritto nel tempo libero, non frequento il mondo della letteratura. Hanno tutti ragione è nato nell’attesa che Sean Penn fosse libero da impegni, per non ciondolare un anno a casa in pigiama. Mi ha dato soddisfazione, è un libro che ha avuto successo e ancora viene letto».
Anche con la contestazione Parthenope non si coinvolge: lei ha partecipato ai movimenti studenteschi?
«No, sono stato adolescente negli anni Ottanta quando erano diventati più occasionali».
Il suo interesse per la politica è diminuito perché mancano figure come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi o, magari da cittadino, fa credito a qualcuno?
«Da regista è abbastanza calato. Da cittadino ho grande ammirazione per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Anche per Mario Draghi. Per il resto la scena politica m’interessa meno del passato».
Le elezioni americane l’hanno appassionata?
«Più che appassionarmi a una parte o all’altra mi sono preoccupato nel vedere che un Paese tanto importante era così coinvolto in dinamiche che hanno poco a che fare con la democrazia».
Adesso è più preoccupato?
«Francamente sì».
Non per le guerre nel mondo, però?
«Tendo a fidarmi quando una persona mostra equilibrio, saggezza e prudenza, doti che non ravviso in Donald Trump. Questo non c’entra con l’essere di destra o di sinistra».
Per la protagonista del film c’è la possibilità dell’amore e vediamo il triangolo incestuoso con il fratello e il fidanzato e il rapporto con il cardinal Tesorone: non lo sa proprio gestire questo sentimento.
«Secondo me, invece lo gestisce bene. L’amore, per definizione, è abbastanza ingestibile perché è una dinamica travolgente e quando si è travolti non si gestisce nulla. Mi sembra che il repertorio dei suoi incontri sia simile a quello di tanti di noi. Ha a che fare con le varie facce dell’amore, anche quella sordida quando incontra il camorrista. Poi è tentata dalla seduzione di una persona che, in teoria, sarebbe l’anti-seduzione come il cardinale. Ci capita di essere attratti da persone che non pensiamo possano attrarci. S’imbatte nell’amore impossibile per John Cheveer che è omosessuale. Poi c’è l’amore giovanile con il primo fidanzatino e un altro amore impossibile per il fratello, nel triangolo della nostalgia. Ho provato a raccontare le diverse imprevedibilità dell’amore».
Non è gestibile perché è un dono che ci supera?
«Non so  definire l’amore. Faccio dire al cardinale quella frase sulla sua grandezza per cui tutti provano a insegnarci a gestirlo. Ma siamo come squali che girano intorno alla preda, senza riuscire ad afferrarla».
Invece,
il rapporto tra Parthenope e il cardinale come lo definirebbe?
«Mi sembra una gentilissima, delicata, meravigliosa schermaglia di seduzione tra due esseri umani pienamente liberi e coscienti. La seduzione è bellissima perché è l’unico duello in cui si può giocare senza farsi del male».
Fino
a prima dell’atto.
«La seduzione ha a che fare con il prima, non con il sesso, che è una conseguenza marginale e non deve necessariamente accadere. Il cardinale è abilissimo perché è allenato a sedurre le anime».
Mette in relazione il miracolo di San Gennaro con il contatto fra il cardinale e Parthenope: hanno qualche ragione a risentirsi i cattolici devoti al santo?
«Per me no. Io so qual è il mio approccio alla religione, sempre rispettoso. Il fatto che metta in scena dinamiche inusuali non vuol dire che siano irrispettose, sono legate alla realtà. Il mondo è pieno di religiosi che seducono uomini e donne. E sul sangue di san Gennaro non ho detto niente di nuovo, i credenti lo reputano un miracolo, i non credenti un non miracolo».
Da The Young Pope al dissoluto cardinal Tesorone, è più incuriosito dalla Chiesa che da Gesù Cristo?
«Sì».
Però la dipinge spesso corrotta.
«Lo nego. In The Young Pope e The New Pope non era corrotta».
Molto trasgressiva?
«In mondi in cui le regole sono rigide è inevitabile trasgredire. Nelle serie mi sono sforzato di raccontare l’incredibile capacità della Chiesa di navigare da 2000 anni in acque sempre molto agitate».
I suoi conterranei si sono risentiti per l’invettiva di Greta Cool?
«I miei conterranei sanno benissimo che siamo legati alla città, ma allo stesso tempo anche autocritici».
L’antropologia è vedere, la possibilità che rimane quando tutto il resto viene a mancare, dice il professor Marotta. È per questo che l’antropologo Sorrentino vorrebbe essere invisibile?
«Sì, perché così potrei vedere veramente. Anche quello che la gente adesso non mi lascia vedere».
È incuriosito da qualcosa in particolare?
«Mi è sempre piaciuto irrompere nelle case. Se fossi invisibile potrei farlo nel migliore dei modi. Nelle case vivono i segreti».
Che cosa le fa dire che i ragazzi di oggi sono migliori di quelli del suo tempo?
«Un po’ quello che vedo quando li incontro per questo film. Poi ho due figli giovani. Mi sembra ci siano tanti luoghi comuni su di loro. Quando lo ero io, giovane, si diceva che stavamo sempre davanti alla tv, ora si dice che sono sempre davanti al telefonino. Anche se in parte è vero, a me pare che questi ragazzi sappiano ritagliarsi degli spazi per vedere le cose della vita e andarci dentro».
Mostrando così mostruoso il figlio del professor Marotta voleva rappresentare lo scandalo del dolore?
«Non ha molta importanza cosa volevo rappresentare io, lo ha di più cosa ci vede lo spettatore».
Però è una scena cercata, che fa sobbalzare
sulla poltrona.
«Ho un’idea molto ampia di bello. E quell’essere umano lì mi sembra bellissimo e stupefacente, e può essere evocativo per lo spettatore. Nel momento in cui lo devo spiegare perde di senso».
A me ha fatto pensare al
mistero del dolore.
«È qualcosa che appartiene a una generazione che ha avuto figli con dei problemi, facendoli diventare dei tabù. In casa c’era qualcosa di cui non si parlava e che non si poteva mostrare all’esterno. Marotta è un professore universitario degli anni Ottanta. Oggi non è più così».
Perché sembra spesso annoiato?
(Ride) «Lo sono come tutti. Alle volte lo sono, altre no».
La noia è un derivato dello snobismo?
«Non penso».
Convive bene con il successo?
«Sì, è un fatto che ha molti lati positivi e pochissimi negativi».
Che cosa le fa dire che «Dio non ama il mare»?
«Avevamo finito di girare alle 4 di notte e a Lanzetta, stanchissimo, è uscita quella frase, come uno sberleffo. Non le darei troppa importanza, cazzeggiavamo come ragazzi sul muretto».
Fa il paio con «Il mare mi ha deluso»
di un pensoso Renato Carpentieri in È stata la mano di Dio.
(Ride a lungo)
Che cosa appassiona Paolo Sorrentino?
«Gli esseri umani. Per il mio lavoro mi occupo di esseri umani. Quando trovo quelli che mi piacciono ci faccio i film».

 

La Verità, 9 novembre 2024

«I nuovi eroi? Una coppia che sfida il tempo»

Paolo Genovese ha molto da raccontare. Supereroi, il suo film ora nelle sale, ben interpretato da Jasmine Trinca e Alessandro Borghi, narra di una coppia che attraversa il tempo e qualche sventura. È un’opera coraggiosa, anche più di quanto lui ammetta: oggi, per stare insieme a lungo, servono i superpoteri.

Il film nasce dal libro omonimo che, a sua volta, da cosa nasce?

«È stata un’evoluzione curiosa perché stavo lavorando a un altro copione e, per paura di perdere questa storia, ho deciso di scriverla. Finora avevo sempre fatto film corali, ma avevo in testa una coppia… Che però non volevo aggiungere alle tante già viste. Così ho trovato la chiave del tempo, una mia ossessione, una costante di tanti film. Come regge una coppia allo scorrere del tempo? In pratica abbiamo girato due film, uno sui primi 10 anni e un altro sui secondi 10, e al montaggio li abbiamo intrecciati».

Uno scrittore che firma le regie dei suoi romanzi sul set indossa una t-shirt con la frase «The book was better». Per l’autore di un libro è facile trasformarlo in film?

«In assoluto non lo è perché il libro scava e racconta di più. Io, da regista, sono abituato a pensare per immagini anche quando scrivo. Perciò le scene mi passano in testa 100 volte. Poi c’è un altro vantaggio: lo scrittore ha solo la parola per dire tutto, sensazioni, odori… Il cinema invece usa tanti linguaggi, recitazione, fotografia, musica. La sceneggiatura è come un manuale di istruzioni».

Un altro sceneggiatore sarebbe stato più spietato con il suo libro?

«Probabilmente sì, l’autore è più affezionato alle sue storie. Io stesso quando adatto l’opera di un altro vado più facilmente di accetta. All’inizio Supereroi durava due ore mezza, abbiamo tagliato mezz’ora di romanzo».

Pensa di essere riuscito a raccontare l’amore senza cadere nel déjà vu?

«Dai fratelli Lumière a oggi, tutto è già stato raccontato. In cucina, pur usando gli ingredienti tradizionali, alla fine conta che ci sia il tuo sapore. Sono sempre critico sui miei lavori, ma credo che il viaggio in vent’anni nella vita di una coppia abbia una sua originalità».

Anna e Marco vengono fuori dalla canzone di Lucio Dalla?

«Me lo sta chiedendo mentre mi trovo davanti alla sua casa a Bologna. Sono venuto qui nell’ora di tempo che mi avanzava, prima di una presentazione… Dalla è uno dei cantautori che prediligo, scegliendo quei nomi volevo rendergli un piccolissimo omaggio».

La frase chiave del film è «una coppia è tale se dura, altrimenti sono due persone che stanno insieme»?

«È una delle frasi che ha colpito di più, vedo che sui social la ripetono. La vita di coppia aggiunge una prospettiva futura al semplice stare insieme».

I suoi supereroi sono tali perché si confrontano con il tempo o, più precisamente, con la durata?

«Sono tali perché decidono di accettare che il tempo scorra e li trasformi. È la prima cosa con la quale una coppia deve fare i conti: accettare la trasformazione della persona con cui vivi da tanti anni, anche in una direzione non voluta».

Possiamo definirlo un film controcorrente nel senso che oggi, per durare, una coppia dev’essere eroica?

«È il motivo per cui il film s’intitola così. Anna e Marco incarnano qualcosa di non ordinario. Per la generazione dei miei genitori la separazione non era socialmente accettata. Ci si sposava e si restava insieme, il divorzio è arrivato nel 1974. Anche la condizione lavorativa delle donne era diversa. Essendo solo mamme, separandosi non avevano la possibilità di essere autonome. Oggi c’è maggiore libertà sociale e psicologica… Una coppia che non funziona si molla. Si deve capire fino a che punto lottare per stare insieme, quanto provare a ricominciare da capo o riguadagnare la propria indipendenza».

Concorda che nei media e nel costume tutto concorra a rapporti brevi, se non fugaci o strumentali?

«Dipende da ciò che dicevamo prima. Essendo la separazione meno imbarazzante la durata media della coppia è inferiore. La fugacità delle storie dipende da questo. Anche il fatto che si facciano meno figli rende più facile separarsi. Oggi fino a trent’anni ci si conosce in prevalenza sui social, che accelerano incredibilmente gli avvicinamenti, ma anche gli allontanamenti».

Il film è un inno alla vita e un elogio dell’amore che accetta la diversità dell’altro: lei ha avuto esempi di questo tipo o è un’invenzione della fantasia?

«Non racconto mai storie autobiografiche perché temo la noia del pubblico. I filmini dei matrimoni divertono solo gli sposi e pochi intimi. Anche se sto con la mia compagna da vent’anni, qui narro situazioni sublimate più che drammi precisi o realmente vissuti. La scrittura della sceneggiatura è stata una sorta di psicanalisi a tre, con Paola Costella e Rolando Ravello, sul concetto di durata nell’amore».

Perché secondo lei oggi è sparita l’ambizione del «per sempre»?

«Non penso sia sparita l’ambizione, penso sia molto difficile da realizzare. E quindi la scelta è non faticare troppo. Tuttavia, non bisogna stare insieme a tutti i costi. Anna e Marco vogliono stare insieme per sempre ma bene, non a tutti i costi. Se non si perpetua quello stare bene, è giusto interrompere».

Il primo step sono persone che stanno insieme, il secondo è la coppia: l’ultimo è la famiglia, una delle istituzioni più in crisi del momento?

«È uno degli step. La famiglia con figli è un’evoluzione, un brusco cambio di marcia. Al centro non siamo più noi due, ma qualcosa che abbiamo creato. La coppia prende una direzione più impegnativa. Però i figli non devono essere la panacea, tipo: siamo in crisi allora facciamo un figlio. Ma il contrario: stiamo bene, allora facciamo un figlio».

L’eroismo avviene nel quotidiano, nella normalità come ebbe a dire una volta Giovanni Paolo II?

«Certo. Una possibile definizione di supereroi è: qualcuno che fa qualcosa per qualcun altro senza aspettarsi nulla in cambio. Nella coppia è fondamentale. L’eroismo è nella quotidianità. L’abbiamo sperimentato ora, durante la pandemia, nella voglia di tanti di aiutare gli altri. Il gesto singolo, una tantum, non basta a costruire qualcosa di durevole nel tempo».

Per lei cosa può essere questo eroico che diventa quotidiano?

«Liberarsi del proprio egoismo, non porre se stessi al centro di tutto. Nel lavoro, nella coppia, negli affetti, in qualunque circostanza».

Le sale sono invase da altri supereroi come Superman, Diabolik… garanzia di buoni incassi perché rivolti ai giovani che vanno di più al cinema. Il suo film è controcorrente anche in questo?

«Oggi un film italiano è controcorrente per il solo fatto di andare in sala. La tentazione forte per un produttore è scegliere la piattaforma. Con Medusa abbiamo preferito compiere un atto di coraggio. Credo sia uno sforzo necessario se non vogliamo essere ricordati come la generazione che ha fatto chiudere i cinema».

Con l’esplosione dello streaming è sempre più forte la concorrenza tra grande e piccolo schermo?

«Ora più che mai. Fino a 10 anni fa la concorrenza era tra i diversi film in programmazione: si usciva per andare al cinema e poi si sceglieva. Oggi è tra l’enorme offerta fruibile dal divano e andare al cinema. I muscoli delle piattaforme sono molto tonici, perciò siamo in un momento di svolta, quest’anno capiremo che ne sarà della sala cinematografica. Credo che dobbiamo tutti dare qualcosa in più. A cominciare da noi autori: il pubblico ce lo dobbiamo meritare più che mai, convincendolo a regalarci mezza giornata per uscire di casa, cercare parcheggio… Detto questo, non demonizzo le piattaforme».

Supereroi è coprodotto da Amazon Prime.

«Ci andrà alla fine della sua vita in sala. Mentre la piattaforma veleggia da sola, la sala ha bisogno dell’aiuto delle istituzioni oltre che degli autori».

Che cosa intende per aiuto delle istituzioni?

«In qualsiasi settore, dalla musica al cinema al teatro, per avere un pubblico colto serve un’educazione. Il cinema dovrebbe entrare nelle scuole. In un’epoca in cui i ragazzi si nutrono di audiovisivo, penso che potrebbe essere uno strumento didattico complementare alle lezioni tradizionali su tanti capitoli della nostra storia. Un produttore francese mi raccontava che nel suo Paese la passione per il cinema la inculcano a scuola fin da bambini. È qualcosa di imprescindibile, mi diceva, come per voi italiani la cultura del cibo. In Italia non si berrebbe mai un buon vino in un bicchiere di carta o non si mangerebbe la carbonara da un barattolo. Così, da noi si impara presto a guardare i buoni film in sala».

Da spettatore che cosa predilige?

«Sono onnivoro, ma preferisco il cinema italiano, per vedere nuovi autori e nuovi attori. Mi piace provare tutte le emozioni che il cinema offre, dalla risata alla riflessione, dalla fantasia alla paura. Ma più di tutte amo le storie che mi smuovono qualcosa nella pancia, che mi commuovono».

Con È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Diabolik dei Manetti Bros, il prossimo Belli ciao con Pio e Amedeo il cinema italiano sta rialzando la testa?

«La qualità c’è, ma il momento rimane difficile. Soffre tutta la filiera produttiva. In alcune città si registrano cali del 70% che non permettono alle sale di sopravvivere. Con la pandemia si è radicata l’abitudine di godersi i film a casa con televisori sempre più grandi. Come detto, sarà un anno decisivo. Oltre alle istituzioni e agli autori, anche gli esercenti devono fare la loro parte affinché andare al cinema sia un’esperienza sensoriale appagante, con sale più attrattive, schermi davvero grandi, audio definito, poltrone comode…».

Per finire, in quella canzone Dalla si chiede per conto di Anna e Marco «dov’è la strada per le stelle»: lei ce l’ha una risposta?

«Magari l’avessi. Più che la risposta è importante avere la domanda, perché ci stimola a cercare».

 

 

 

«Il Covid allunga il ‘900 e boccia la globalizzazione»

Con la sua faccia da attore del cinema e la statura, e con le macchine ferme nel garage della casa tra gli ulivi della collina di Velletri, Aurelio Picca me lo immagino come una fiera in cattività. Inquieta. Niente ristoranti, niente spaghettate sul lago. Lettura. Un po’ di scrittura. Attesa. Quando lo chiamo, accetta al volo: «Ma non mettete la solita foto con la pistola…».

Come sta, Picca? Che fa?

«Penso, in questo periodo va così. Guardo la mia vita e conto le stagioni. Dicevamo che non esistevano più. Invece, con la pandemia la percezione è cambiata. Siamo usciti da un inverno complicato e mo’ siamo in questa primavera… Fino a poco tempo cercavo di eternizzare la giovinezza in un rilancio continuo, anche nei libri… Ora comincio a srotolare le stagioni».

All’hotel Miralago, Alfredo Braschi, suo alter ego in Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani), si specchia in Laudovino De Sanctis per fare il suo bilancio. Il suo qual è?

«Diciamo che sono contento che questo ex ragazzino è diventato un uomo attraverso il lavoro che – anche se ne ho fatti mille – per me è la letteratura. Me l’hanno insegnato da bambino che con il lavoro ti costruisci il tuo nome. Mi sento come tutti gli uomini, pieno di rimpianti per aver vissuto poco. Invece, forse ho vissuto tanto, mi sento quello che volevo essere».

Cioè?

«Non uno scrittore per le copertine, ma uno scrittore con la sua piccola leggenda. Non volevo far parte della storia, ma della leggenda e credo di esserci riuscito. Quindi, quando certi apparati culturali mi fanno dei torti, non sanno che mi fanno un favore. Per me questi torti sono una vittoria perché rafforzano ciò che volevo e ho ottenuto: la singolarità, la mia assoluta libertà».

Le caste di sacerdoti non reggono lo scandalo?

«Non lo tollerano, ma non per questioni morali. Per questioni vitali».

Per un fatto di maniera da una parte e di sangue dall’altra.

«Sono gli ultimi feticci tarlati della decadenza della cultura italiana. Non c’è niente da fare. Il problema è che io sono uno scrittore scandaloso perché metto in gioco la mia vita, il mio carattere, la mia innocenza, la mia virilità, la mia fragilità. Paradossalmente, è ciò che dovrebbe dare energia, l’energia del talento. E dovrebbe permettere di gustarsela. Invece, questa vitalità è vista come qualcosa di eversivo rispetto a un copione che vuole restare sul piano della comunicazione, della ripetizione, dell’annacquamento. Non deve cercare l’assoluto, non deve avere lo scandalo della verità».

Lei è uno scrittore non conforme.

«Gli apparati sono contraddetti dalla gente che mi legge e mi ama, anche certi lettori privilegiati. Sono stato apprezzato dai Luigi Baldacci, Geno Pampaloni, Domenico Rea, Alfredo Giuliani. Io che non ho avuto un padre, ho trovato il lasciapassare dei padri della letteratura. Quelli che stanno negli apparati non hanno né passato né futuro. Sono bloccati nel carpe diem, in un eterno presente, dilatato come se non avessimo una storia. Ma questo è blasfemia, è nichilismo».

Come fa chiuso in casa senza ristoranti?

«Non sono un mondano pur conoscendo la mondanità. Il mio è il monachesimo della libertà».

Spieghi.

«Posso stare pure due mesi filati a casa perché ho la testa libera. Poi alle 10 di sera vado a cena a Nettuno. Questo mi manca, ci dicono di restare a casa. Con il tesserino da giornalista potrei andare dove mi pare, ma dovrei giustificarmi. La limitazione è più psicologica che altro. Io mi muovo in un teatro di visione, i Castelli romani come Los Angeles. Per bilanciare questo azzeramento, basta cambiare visione e cogliere il grumo di energia dove sta».

Per esempio?

«Con un po’ di soldi rubati ai miei sperperi vorrei comprare un angolo di un palazzotto alla Don Rodrigo qui a Velletri, con un portale tardo nobiliare del Seicento. Serve per arpionarmi alla realtà, qualcosa che non galleggia nel vuoto».

Per darsi un progetto reale.

«Per me che sono un sepolcrale, la cosa più reale è lo strazio per la morte. L’ho già detto in un’altra intervista, le bare che si son viste sfilare ci hanno buttato addosso la morte. E adesso è già rimossa, numerizzata nel taglio basso dei giornali. Mentre è la cosa più sacra che abbiamo».

Il palazzo di Don Rodrigo è un pezzo di passato che la porta nel futuro.

«Ho un’idea di futuro su cui sto scrivendo un pamphlet per Einaudi. Una cosa per ragazzi, contro Pinocchio che è solo un burattino, un pezzo di legno. Invece, propongo di ripartire da Cuore di Edmondo De Amicis o da I ragazzi della via Paal. Dopo la pandemia credo ci sarà un nuovo neorealismo, tutti dovremo ri-alfabetizzarci».

In che senso?

«Ridare il nome alle cose reali. Lo sforzo principale va fatto sulla scuola. Oggi i ragazzi non sanno distinguere un rovere da un castagno, scrivono con il pennarello in stampatello, non conoscono il corsivo. Bisogna cambiare le priorità, altrimenti lo Stato continua a dare i fondi alle solite compagnie di teatro e di cinema che producono la solita comunicazione, il solito linguaggio televisivo declinato in tutti i modi. Invece le istituzioni educative devono ripartire dalla nostra storia. Per rinominare le cose in un sistema di vita, in un ordine coerente».

Nel libro, mentre sta raccontando l’attesa di Laudovino del riscatto per il sequestro di Giovanni Palombini, lei scrive: «Il tempo correva. Il tempo non è lento». Com’è il tempo della pandemia?

«È una specie di purgatorio degli orrori, giacché si parla tanto di Dante… Nel suo purgatorio le anime sono briganti e sanno di dover stare lì in attesa. Noi non siamo come le anime dantesche che pregano in una luce azzurrina, con l’oceano sotto la montagna. Noi siamo bruciati perché siamo in una risacca putrida dove il tempo è abolito. Viviamo un non tempo. Il presente ha senso se stai al lavoro, per congiungere passato e futuro. Ma siccome si cancella il passato, questo lavoro è abolito e viviamo un tempo psicotico».

Un tempo vuoto o pieno?

«Assolutamente vuoto perché non c’è più confine. Come nella testa delle persone, anche nello spazio. Sono state abolite le patrie, le identità. Tutto galleggia sospeso».

C’è più o meno voglia di lottare?

«Non c’è voglia di lottare. La lotta si è trasformata in una reazione muscolare, nella finzione dell’agire. Il vero problema è cosa accadrà dopo».

Durante il primo lockdown si parlava di più del dopo.

«Perché eravamo già sull’orlo del precipizio, la crisi economica, il Medio oriente, la Cina che avanzava, la Russia respinta. Eravamo già vicini al collasso. Il primo lockdown era una sospensione, assomigliava alla crisi del petrolio degli anni Settanta, uno stop passeggero. Ora invece siamo dentro il cul de sac del vuoto. La pandemia cambia tutto lo scenario».

Addirittura.

«Sì, tutto. Finora dicevamo che il Novecento era il secolo breve e che nel nuovo millennio i gruppi della new economy hanno creato la globalizzazione. A me sembra che la pandemia abbia allungato il Novecento, mostrando la fragilità della globalizzazione. Si sta chiarendo che non era una costruzione voluta dai popoli, ma messa su con gli stuzzicadenti dal potere, dalla finanza e da internet. Strumenti non per tutti e di tutti, ma delle oligarchie».

C’è meno voglia di lottare. E di amare?

«Io vedo una solitudine sterminata che i social, invece di alleggerire, aumentano. I contatti reali sono quasi azzerati e i nuovi media danno l’illusione di averli. Sono lo Xanax della solitudine, un surrogato. È la stessa differenza che passa tra la sensualità e la sessualità, e la pornografia orizzontale».

Segue la politica?

«Da dilettante intelligente».

Che sensazione le provoca?

«Sono anti ideologico perché vengo da una cultura repubblicana e laica che però credeva in Dio. Noto che la sinistra non fa più gli interessi degli ultimi e di chi lavora e invece è alleata del grande capitale. Mentre, curiosamente, una certa destra, ancora da definire, si è avvicinata alle classi subalterne, al popolo. Credo che, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in Italia serva una destra repubblicana, antifascista e anticomunista. Una destra conservatrice, in grado di saldare le istanze del popolo alle istituzioni. Era l’idea della Voce di Giuseppe Prezzolini».

Ottimista?

«Paradossalmente, la pandemia potrà creare le condizioni per un fermento libero dalle sovrastrutture ideologiche che finora hanno controllato l’arte e la cultura italiana. A destra vedo premesse migliori che a sinistra. Capisco più gli ex comunisti alla Marco Rizzo di tante figure di presunti innovatori».

Perché vede più possibilità a destra?

«Apprezzo Giancarlo Giorgetti, una persona giovane ma di vecchio stampo, che sta dentro le cose senza apparire. Salvini è rimasto movimentista. È una situazione che deve trovare equilibrio. Se ce la faranno, potrebbero innescare un’evoluzione che potrà essere utile anche alla sinistra. Altrimenti, se si sbrodola tutto, si perderà un’occasione».

Ha paura della malattia?

«Sì, mentre non ne ho della morte. La malattia mi rompe i coglioni perché ti accorgi che sei vecchio, è la perdita del sogno della giovinezza».

Perché in Francia la amano?

«Perché hanno il coraggio di riconoscere il talento, l’individualità. Hanno messo su Le Figaro littéraire la mia foto da ragazzo che gioca con la propria fragilità».

Che destino avrebbe avuto Michel Houellebecq in Italia?

«Forse non l’avrebbero pubblicato o forse solo un piccolo editore… Hanno accettato Oriana Fallaci perché era trasversale e ha scritto a favore dell’Occidente e dell’America. In altri tempi non so se avrebbe trovato la stessa sponda. Certi rimasugli di intellighenzia italiana si dimostrano pavidi con i potenti e superbi con il talento».

Scriverà un romanzo sulla Roma dei premi letterari?

«Non è il mio genere. Ho già sette otto grandi libri da scrivere. In testa, sono già scritti. Devo solo mettermi a lavorare, non ho tanto tempo. Perché non voglio morire troppo vecchio».

 

 

La Verità, 3 aprile 2021

Totti contro il tempo, il più difficile da dribblare

Scommessa vinta, e non era per niente facile. Troppe le insidie disseminate sul percorso. Troppi i pericoli. Speravo de morì prima – La serie su Francesco Totti, sei episodi da venerdì su Sky Atlantic, era un rebus impegnativo. Un discreto esercizio di equilibrio e di dosaggi. Innanzitutto, doveva essere una storia scritta e recitata in romanesco, ma in grado di catalizzare un pubblico largo, oltre i colori del tifo, i dialetti e le generazioni. Poi doveva appassionare alla figura di un campione già molto illuminata dai media. Le trappole in agguato erano parecchie, a cominciare dal «rischio monumento», ovvero il bagno retorico che avvolge le grandi personalità sportive. Per finire con il «rischio giù le mani da», ovvero lui non si tocca perché è solo nostro. Insomma, c’era più da perdere che da guadagnare a raccontare con la fiction un campione che, di norma, è oggetto di documentari. Ma era un rischio da correre, considerato che, come dimostrano Il miracolo, Diavoli, Petra, Romulus e Cops – Una banda di poliziotti, per citare qualche titolo alla rinfusa, da un paio d’anni l’obiettivo della piattaforma tv più adulta del sistema è allargare il pubblico attraverso storie più generaliste e popolari. Esattamente come quella incarnata dalla bandiera della Roma, «l’Ottavo re», il campione amato da tutti oltre gli schieramenti del tifo.

Scommessa vinta, dunque. Insieme ai produttori Wildside (Fremantle), Capri Entertainment e The New company e agli autori Stefano Bises, Michele Astori e Maurizio Careddu che hanno attinto da Un capitano (Rizzoli), l’autobiografia di Francesco Totti e Paolo Condò, firma di Repubblica e commentatore di Sky Sport. E qui i giochi di specchi tra le diverse sezioni dell’offerta Sky sono più che mai evidenti. Non a caso la campagna promozionale ha battuto tutti i record di pervasività.

La mossa vincente di produttori e sceneggiatori è stata scegliere un’angolazione attraverso la quale narrare l’intero personaggio. Un Totti privato e incerto, fra il tinello della casa di famiglia, la nuova residenza dov’è costretto a trasferirsi per allentare la morsa dei tifosi, la villa del fuoriclasse. Irrequieto e ombroso, «l’uomo dietro il campione» sente avvicinarsi come una sciagura il momento in cui dovrà appendere gli scarpini al chiodo. Il problema è «che ci pensi come uno che deve morire. Pensarci significa prepararsi mentalmente», lo smaschera e rimprovera ad un tempo Ilary Blasi. «Io mi devo preparare a entrare in campo, il resto sono chiacchiere», replica più che mai riluttante lui. Quando, dopo l’esonero di Rudi Garcia, si annuncia il ritorno in panchina di Luciano Spalletti (un credibile Gian Marco Tognazzi), gli amici storici lo allarmano con un presentimento: è venuto per farti smettere. Francesco non ci crede. In fondo, tra loro c’è sempre stata grande complicità, un’alleanza per il bene della Roma. Eppure, ben presto in spogliatoio iniziano gli attriti. Impuntature sugli orari, divieti pretestuosi. «Lo vuoi capire che non sei più insostituibile?», gli dice a brutto muso il coach. Le mancate convocazioni e le panchine radicalizzano lo scontro. Spalletti diventa l’antagonista da battere, bersaglio di un’improvvida intervista al Tg1. «Uno ha la storia più bella del mondo, ma se gli rovini il finale la butti tutta», riflette Francesco chiacchierando con suo figlio. In fondo, la storia è tutta qui: come e quando finire. Perché, a ben vedere, dietro la sagoma dell’allenatore si cela il vero nemico: il tempo. Chi glielo dice al «Capitano», al «Re di Roma», che a quarant’anni si è fatta una certa? «Sul trono mio c’è scritta la scadenza»: pian piano il dubbio inizia a farsi strada. È Ilary ad avere l’idea giusta e a mandargli Antonio Cassano, compagno di scorrerie dentro e fuori dal campo, che ha già smesso di giocare. «Anche il mondo è rotondo, ma è più grande della palla», gli dice. «Non c’è niente di più grande della palla», ribatte lui. «Io sono 100 volte più felice adesso senza la palla». «Io senza la palla non so chi cazzo sono». Dialoghi semplici, ma diretti. Efficaci nel raccontare la discrepanza tra il desiderio di perpetrare un grande sogno e il fare i conti con il limite ineluttabile. Una faccenda che riguarda tutti, anche chi gioca in prima categoria. Nel fine carriera incombente prende corpo la metafora del tempo che passa, impietoso. È la storia di una bandiera sportiva che smette di sventolare, la fine di un grande sogno. Ma è anche la storia di ogni uomo alle prese con la propria finitudine, con la vita che declina in un soffio. Un fatto al quale non ci si vorrebbe mai rassegnare.

Il regista Luca Ribuoli sceglie un linguaggio scanzonato, da commedia pop, per rendere questo travaglio profondo. Si affida all’uso del fermo immagine per presentare i personaggi, alla voce fuori campo, al romanesco che sdrammatizza, ma che a volte rimane incomprensibile, soprattutto in bocca a Pietro Castellitto, il protagonista, che appare meno spontaneo di Greta Scarano, molto naturale nel ruolo di Ilary, la moglie che vede più lontano. Come a dire che il primattore, chi è dentro, chi è immerso nel proprio travaglio, fatica ad avere la distanza critica necessaria per giudicarlo. E allora è una fortuna avere vicino le persone giuste, quelle che ti fanno aprire gli occhi. E ti aiutano a correggere le impuntature, le miopie e le bravate, nelle quali può impantanarsi persino un bravo ragazzo capace di tenere i piedi sempre ben attaccati a terra, di nome Francesco Totti.

 

La Verità, 16 marzo 2021

Su Rai 3 a caccia di vaccini nell’Eden di Fazio e Obama

Menù corposissimo, fin troppo, nell’ultimo episodio di Che tempo che fa (Rai 3, domenica, ore 20, share del 13,1%, 3,5 milioni di telespettatori). Mondiali di sci, vaccini, Draghi, Obama… Dopo l’epica piagnucolosa del «nostro editorialista» Roberto Saviano, che ha condito con Bella ciao il caso di Patrick Zaki, si è aperta la «lunga pagina politica» con ospiti d’eccezione: Giovanna Botteri fresca di tinta, il direttore del Foglio Claudio Cerasa, l’immancabile Carlo Cottarelli e il direttore della Stampa Massimo Giannini, collegato da Roma. In una settimana è cambiato tutto, oibò, ma noi siamo pronti ad allinearci con una una fragrante elegia del premier incaricato da Mattarella. Purtroppo c’è un problema che si chiama Matteo Salvini, convitato di pietra non solo di questo talk. Alla sua «conversione manca che inviti Carola Rackete a un congresso della Lega o che diventi interista. Però non si deve ironizzare», ha chiosato Cerasa dopo averlo fatto in abbondanza. Invece, «bisogna incassare il risultato della svolta», ha esortato Giannini, dando per scontata l’identità del padrone della cassa. Vaccinato Draghi dai «sovranisti», è toccato ai vaccini veri e propri con Roberto Burioni e Franco Locatelli, presidente del Cts. Intanto, il ritardo si accumulava e Fazio fremeva per la presentazione dell’autobiografia di Obama edita da Garzanti: Una terra promessa («come una canzone di Eros Ramazzotti», Littizzetto). E qui ha preso corpo il capolavoro della serata, le domande di Fazio. In questo libro «si raccontano le ansie, le attese, le soddisfazioni, le delusioni, la quotidianità e, se mi posso permettere, i suoi dubbi», ha argomentato con perspicacia il conduttore, «e a me è piaciuto molto pensare che il dubbio non sia una debolezza, ma un necessario tempo di riflessione». Càspita. Obama ringraziava, mentre Fazio riprendeva a leggere da un foglio… «Ciò che è giusto è stato sostituito da ciò che è conveniente, la complessità dall’istantaneo…». Il distillato luogocomunista diventava zibibbo con la parola chiave: «Esiste un vaccino contro le diseguaglianze?». Obama annuiva educato, nella speranza che non gli si chiedesse di svelare la formula della pace nel mondo. Ma, purtroppo, anche nell’Eden del conduttore italiano e dell’ex presidente americano, il tempo scorreva inesorabile e Fazio era costretto a sbrigare in un crescendo ansiogeno i successivi collegamenti con i corrispondenti Rai sulle vaccinazioni all’estero, l’intervento di Burioni su Sputnik e la presentazione di Lei mi parla ancora con Renato Pozzetto e Pupi Avati…

 

La Verità, 7 febbraio 2021