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«Così ho inventato la pubblicità interattiva»

È il cervello della comunicazione di Tim. Formalmente: direttore Brand strategy media e multimedia entertainment della prima compagnia telefonica italiana. 54 anni, un passato da fiero craxiano e produttore tv di successo (5 Telegatti), Luca Josi è l’ideatore di tutte le campagne che accompagnano il marchio al Festival di Sanremo. Anche la piattaforma Timvision risponde a lui.

Questo è il quinto anno di Tim sponsor unico: qual è il vostro bilancio?

«È un lustro che ci ha dato lustro. Tutto è cominciato nel 2017 quando Mina ha iniziato a interpretare i brani delle nostre campagne».

Siete partiti benino.

«Da allora, ogni anno ha dedicato un nuovo brano a Tim, riuscendo a inserire il brand nella canzone fin dalla dalla prima, quando s’inventò quel Tim Tim Tim che divenne subito virale. Poi ci fu Timtarella di luna sul palco di Sanremo… Fino all’edizione in corso con Questa è Tim, l’inno del gruppo che è l’adattamento di This is me, brano vincitore del Golden Globe 2017, il cui acronimo è proprio Tim».

Anche la collaborazione con Mina è motivo di lustro.

«Il fatto che la più prestigiosa e desiderata interprete italiana canti per la nostra azienda con enormi riscontri è qualcosa di molto gratificante. E ci gratifica anche la coerenza del messaggio. La nostra mission è far comunicare tra loro le persone: avere come testimonial la voce italiana più apprezzata nel mondo, oltre che motivo di orgoglio è il modo più paradigmatico per rappresentare il nostro gruppo».

Perché per voi è interessante collaborare con la Rai per il Festival?

«Sanremo è l’evento italiano che mette insieme il pubblico più variegato ed eterogeneo. Nel Festival il più importante gruppo italiano di comunicazione riconosce il veicolo più efficace per incontrare il proprio pubblico».

Com’è nata l’idea del concorso a premi con in palio una crociera lunga un anno?

«Da una serie di coincidenze. La prima è che per anni, da produttore televisivo, mi sono dedicato a giochi e concorsi. Ho fatto Passaparola, che ha allargato il vocabolario di una parte dei telespettatori. Con Amadeus abbiamo lavorato insieme a Quiz show, un altro format di successo. Ma non è una mia fissazione: prendo solo atto che siamo un Paese di giocatori, di persone che amano mettere alla prova le proprie conoscenze. Non a caso i programmi preserali sono imperniati su giochi e quiz. Ora una serie di innovazioni tecnologiche consente alla pubblicità di trasformarsi in opportunità».

Come?

«Il nostro concorso cambia la comunicazione pubblicitaria. Inserendo negli spot ogni volta un indizio diverso stimoliamo lo spettatore a seguire la campagna perché offre la possibilità di acquisire nuovi beni e servizi. È una forma di pubblicità interattiva, bidirezionale. Una piccola grande rivoluzione».

Perché avete messo in palio una crociera di un anno?

«Sono tutti premi orientati al mondo che ripartirà. Prodotti alimentari Valsoia, un’auto Suzuki ibrida, una crociera intorno al mondo per quattro persone nella suite di una nave Costa crociere. È una sorta di nemesi che risponde all’anno appena trascorso in cui la popolazione è stata obbligata dalla pandemia a rimanere chiusa in casa».

Che risposta ha avuto?

«Molto positiva, ogni giorno crescono tutti gli indici di partecipazione, gli iscritti, gli utenti unici. Si può partecipare anche fotografando il Qr-code delle nostre filiali o del portellone delle Panda aziendali che girano l’Italia».

Che Festival è stato dal punto di vista di Tim?

«Credo sia stato fatto qualcosa di eroico. Confrontarsi con uno spazio vuoto è un’operazione difficilissima. Un conto è guardare lo show dal divano di casa, un altro dalla parte di chi costruisce cinque ore e per cinque giorni uno spettacolo in quelle condizioni. Faccio un piccolo esempio: gli anni scorsi, ogni notte la lettura della classifica veniva accolta dal brusio della platea che esprimeva dissenso o approvazione. Ora tutto questo non c’è. I conduttori lavorano nel silenzio e nel vuoto».

Qual è il momento che le è piaciuto di più e quello che le è piaciuto meno?

«Meno di tutto mi è piaciuto girare in una cittadella dove i chioschi delle radio degli anni scorsi sono stati sostituiti dai chioschi dei tamponi».

E sul palco?

«Non faccio distinzioni a favore di qualcuno. Editorialmente, l’ho trovato uno spettacolo molto garbato. Produrre questi risultati in questa situazione mi sembra una magia».

L’ha sorpresa il fatto che con il coprifuoco l’audience sia diminuita rispetto al 2020?

«Non recito la parte di quello che l’aveva detto. Anch’io pensavo a una platea potenziale più larga. La surrealtà nella quale è andato in scena il Festival provoca una curiosità eccezionale che dura qualche minuto, come la leggenda del monoscopio che fa più audience del programma. Non a caso da 70 anni il pubblico continua a comprare il biglietto per vedere il Festival dal vivo. Poi c’è anche un altro fattore, poco considerato…».

Sentiamo.

«Il lockdown ha un po’ nordicizzato il Paese, anticipando tutti i nostri orari. L’obbligo di essere a casa alle 22 ha accorciato le serate, si cena prima e si va a dormire prima. Infatti i bacini televisivi dei programmi di seconda e terza serata si sono ridotti. Forse Sanremo ha pagato anche il fatto che ci siamo avvicinati ad orari e abitudini nord europee».

Il calo di ascolti comporta una correzione del contratto fra Rai e Tim?

«Io mi occupo della parte editoriale, ma non mi risulta che in questo momento si stia valutando una revisione del contratto».

La vostra campagna istituzionale per i 100 anni d’innovazione conteneva l’auspicio di tornare presto ai balli di massa: era una visione troppo ottimistica della situazione in cui ci troviamo?

«Senza fare paragoni, che cosa faceva essere ottimistica la comunicazione del cinema di Frank Capra nei momenti tragici in cui veniva prodotto? Una regola aurea del vivere ancor prima che del comunicare è che in tempi in bianco e nero si cerca di dare il colore, mentre in tempi variopinti si produce una comunicazione più minimalista e introspettiva. Se è in discussione il nostro modo di esistere cerchiamo di trasmettere la possibilità dell’uomo di credere in sé stesso e nella sua energia».

Con il primo spot con il ballerino Sven Otten avete inaugurato una nuova stagione della comunicazione pubblicitaria. Quanto è difficile continuare a innovare?

«È un problema che ci poniamo ogni giorno. Ci sembra di aver fatto molto e in effetti abbiamo fatto ballare col cappello di Sven Otten Topolino e il Gabibbo, Amadeus e Gerry Scotti, Spiderman e i personaggi di Star Wars. Paventare l’esaurimento delle idee per il futuro sarebbe presunzione. Il mondo offre un’infinità di spunti rispetto ai quali ciò che noi abbiamo prodotto è nulla. Anche grandi compagnie come Coca Cola e Pepsi hanno realizzato spot orientati al ballo. Il quale è un modo di coinvolgere le persone attraverso un elemento unificante che invita a vedere positivamente il presente e il futuro».

Era molto presente anche nel cinema del dopoguerra.

«La stagione dei grandi musical si è alimentata di questa cultura. Non c’è frivolezza nel dire <ballaci sopra>. Per chi fa comunicazione non c’è niente di più importante che regalare alle persone la possibilità di gioire e di liberarsi dalle costrizioni».

In che modo il Covid ha cambiato la comunicazione pubblicitaria?

«Non sono un sociologo della comunicazione. Credo che ci vorranno anni per capire le trasformazioni nelle quali siamo immersi. Mi diverte lavorare al videogioco della nostra comunicazione, consapevole che non stiamo scoprendo la penicillina. Ma provando a trasmettere un pizzico di serenità e offrendo al pubblico, anziché martellarlo con un messaggio sempre uguale, un’opportunità di dialogo e partecipazione come attraverso il concorso al Festival».

Difficilmente ci sarà l’Amadeus-Fiorello ter. Da sponsor unico, Tim ha dei suggerimenti per i vertici Rai?

«Sul fatto che non ci sarà il terzo festival di Amadeus e Fiorello mi concedo qualche dubbio. Non do consigli agli altri, ascolto quelli che danno a noi. Abbiamo visto i fiori sul carrello, poi con i guanti, mancava che li facessero cantare con la mascherina. Quando tra dieci anni rileggeremo questi dati di ascolto ci stupiremo della capacità di mettere insieme platee così ampie in un’èra di frammentazione delle piattaforme e di rigidi protocolli anti-pandemia».

Tim avrebbe gradito Mina direttore artistico del Festival?

«Non è una valutazione che ci compete».

La collaborazione con lei continuerà?

«Da anni coltiviamo una grande idea. Mina è sempre sorprendente per curiosità e visione. Per l’ultimo brano abbiamo avuto ritorni inaspettati dal pubblico giovane. Si è soliti dire che ai giovani devono parlare i loro coetanei. Invece, a chiunque si parla attraverso il talento. Il quale si spiega da sé e arriva prima anche a chi appartiene a un’età anagrafica diversa».

Questa idea riguarda la comunicazione del marchio o qualcosa di più?

«Qualcosa di più, con il marchio capofila. Sarà un regalo a tutti gli italiani, ma qui mi fermo per riservatezza verso Mina e suo figlio Massimiliano».

Avrà a che fare con Timvison?

«Forse».

 

La Verità, 6 marzo 2021 (versione integrale)

Tra tanti, spicca l’augurio subliminale di Mina

Si è realizzato uno strano effetto di sovrapposizione, quasi uno scambio di ruoli, la sera del 31 dicembre guardando in sequenza su Rai 1 prima il Messaggio di Fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, poi l’anteprima dell’Anno che verrà con Amadeus, infine il lungo spot della campagna istituzionale di Tim con la voce di Mina. Sarà stato il non cenone al quale un po’ tutti eravamo intenti causa restrizioni da zona rossa, sarà stato l’anno che ci lasciavamo alle spalle, è evidente che il messaggio più gradito sia arrivato dal musical allestito in tre minuti e mezzo dal marchio della compagnia telefonica. Probabilmente per obblighi istituzionali, per stile della casa, per impacci conseguenti alla crisi ventilata, minacciata, possibile o incombente, il discorso del Capo dello Stato non è andato oltre un’accorata esortazione a comportarci bene. Il prologo del tradizionale varietà della notte di Capodanno ha invece confermato l’impostazione da caravanserraglio della rete: tutti dentro un calderone che mixa Gianni Morandi e Piero Pelù, Rita Pavone, Gigi D’Alessio e J-Ax, con qualche ballerina di contorno. In sintesi, «l’Italia dei capelli tinti», è stato autorevolmente scritto.

Schiacciato tra il messaggio presidenziale e il veglione in studio, alla fine il contenuto più augurale è arrivato dallo spot «Questa è Tim». Non tanto per l’abusato arcobaleno che soverchiava il titolo, quanto per il ballo di massa finale. Leggero, colorato, spensierato, sinonimo di libertà da riconquistare. È l’auspicio per il 2021 che, in modo subliminale, è rimbalzato da quei quattro minuti di musica, parole e danze. Così la campagna per i 100 anni d’innovazione, è diventata, per collocazione e contesto, il vero messaggio positivo ai telespettatori.

Lo spot si presenta con l’immagine di Torino, capitale della ricerca tecnologica da dove parte «una storia italiana», «la storia di un’idea e di chi trovò la strada per farne una realtà. Così da cent’anni un’infinita via fa volare milioni di ciao, di come stai. Se pure noi siamo lontani, ci fa sentire più vicini». Le parole sono l’adattamento del testo di This is me, dal musical The Greatest Showman. Le coreografie che Luca Tommassini ha tratto da altri grandi musical e da Pane, amore e… o Flashdance, le immagini montate con linguaggio contemporaneo dalla regia di Luca Josi, direttore della comunicazione strategica di Tim, e le note della voce di Mina, ci trasmettono quella leggerezza e quell’autostima di cui oggi più che mai abbiamo bisogno.

 

La Verità, 2 gennaio 2021

Pagelle Sanremo: vincono ospiti, Mina e Spinoza

Trio al comando (Baglioni, Bisio, Raffaele). In fondo questo 69º Sanremo è stato uno sfregio alla competenza, tipo i ministri della Prima repubblica rimbalzanti da un dicastero all’altro, con effetti noti. Di tre conduttori nessuno lo era. Se un cantautore di lunghissimo corso vuol presentare e dirigere artisticamente (3 per l’egocentrismo) è facile che incappi nel conflitto d’interessi. Troppo potere in una sola persona. Che nemmeno l’invenzione della «contiguità» virtuosa della direttora di Rai 1 Teresa De Santis (6 per lo sforzo) riesce a far digerire. Lo sapeva bene Gianni Morandi (8 a posteriori) che volle limitarsi a condurre. Se poi prendi due comici affermati e li metti a leggere il gobbo del regolamento la frittata è completa. Inevitabile che producano risate stiracchiate, vedi sketch in coppia scoppiazzati, da Giochi proibiti con la chitarra alla rovescia a Ci vuole un fiore di Sergio Endrigo (4 agli autori). Operazione ardita passare dal ruolo istituzionale alla goliardia. Arditissima passare dal voto a 51 centesimi al monologo togliendosi la giacca. Si finisce alle gag di pernacchie o a riciclare il libro del proprio autore, vero Bisio (4 per lo spaesamento)? Qualche possibilità in più ha avuto Virginia Raffaele ricorrendo all’eclettismo di showgirl, mimo, imitatrice, niente parole e pistolotti (6.5). Comunque tutti al di sotto delle loro potenzialità. Fuori ruolo.

Comici veri. La riprova è che, svincolati da altri compiti e copioni, il numero comico del Festival l’hanno fatto Pio e Amedeo spazzolando tutti, da Silvio Berlusconi a Pier Silvio Berlusconi, dallo stesso Baglioni a Pippo Baudo, con la loro verve scorretta (8). Rovinato solo dalla chiusa buonista con lunga citazione dell’ennesima canzone di Baglioni (5). Senza sconti.

Amici e compari. Più nascosti possibile, eppure la loro presenza dietro le quinte più trasparenti di sempre ha zavorrato irrimediabilmente il Festivalone. Michele Serra si è trovato con le mani legate dal ruolo di presentatore del suo assistito (4 alla reattività). Federico Salzano aveva già condizionato tutto e tutti già al momento delle selezioni (3 alla mancanza di stile), presenziando alle audizioni dei potenziali concorrenti nel camerino di Baglioni in tour. La peggior disgrazia sarebbe che vincesse un cantante Friends & Partners. Ombre lunghe.

Striscia la notizia e Dagospia. Controinformazione al caravanserraglio (8). Senza paure.

Canzoni. (5 di media) Abbinamenti azzardati: Patty Pravo e Briga. O anonimi: Federica Carta e Shade. Anche certi duetti sono sembrati sbilanciati: Noemi soverchiante Irama, Manuel Agnelli megalomane con Daniele Silvestri. O chimici, in senso lato: Achille Lauro e Morgan. Notevole invece l’apporto del violino di Alessandro Quarta al Volo. Insopportabile l’overdose incontrollata di rap (3). È dovunque, come la rucola negli anni Novanta. Quasi tutti i brani con lo stesso spartito: rap, strofa melodica, rap. Rap-presaglia.

Ospiti italiani. Idea pregevole, i momenti migliori del Festival (7.5). Andrea Bocelli con suo figlio, Antonello Venditti e Baglioni che cantano Notte prima degli esami, il medley di Raf e Umberto Tozzi che trasforma l’Ariston in discoteca, la magia di Notre dame de Paris di Riccardo Cocciante, Giorgia, Fiorella Mannoia. Peccato per certe esibizioni all’ora dei vampiri. Colonna sonora.

Spinoza Live, cioè l’account Twitter di Spinoza.it. Godimento social, stile Gialappa’s band. Antidoto, spesso macabro, al virus della piaggeria che ha inondato l’Ariston. Fulminanti molti tweet del forum. Vere chicche i profili dei cantanti. Andrebbero riportati integrali (9). Limitandosi: «Nek nasce il giorno della Befana del 1972, immaginate quanto erano stati cattivi i genitori…». Zen Circus: «Al Festival porteranno L’amore è una dittatura, di Salvini-Isoardi». Il Volo: «Si esibiscono anche alla cerimonia del Nobel per la pace, che quell’anno viene assegnata agli spettatori in sala». Simone Cristicchi: «Nel 2007 vince Sanremo con Ti regalerò una rosa, battendo numerosi cingalesi». Ex-Otago: «Il brano che portano a Sanremo si chiama Solo una canzone, ma attenti: gli effetti sono gli stessi di quando il radiologo vi dice “Solo una macchietta”». Anna Tatangelo: «Il verso “potrei lasciarmi alle spalle la parte migliore” lascia intendere che le abbiano montato le tette nuove sulla schiena». Oscar all’irriverenza.

Mina e la Tim. Quando la pubblicità è un piacere (9). Opera di Luca Josi, esempio di uomo ombra che funziona. Prima lo spot dei sognatori per il cinquantesimo dello sbarco sulla luna, con un’inedita versione di Kiss the Sky di Jason Derulo. Poi il capolavoro finale: Timtarella di luna… Ti connetti sotto i tetti… Tim Tim Tim fasci di fibra. Geniale.

Omaggi funebri. Alcuni riusciti, come quello a Lucio Battisti con Emozioni cantata da Baglioni e Marco Mengoni (8). Altri venuti male, come quello a Lelio Luttazzi, sempre Baglioni con la Raffaele (4). Poi ci sono quelli doverosi e sgrava coscienza, come per il compleanno di Fabrizio Frizzi, al quale non è mai stato proposto di condurre il Festival ma, ha rivelato Baglioni: «Io l’anno scorso ci avevo anche pensato» (3). Sorprendente la dedica di Fabio Rovazzi al papà (7) morto quando aveva 16 anni. Trascendentali.

Matteo Salvini. (7.5) Convitato di pietra evocato, citato e ritwittato. Tutti a interrogarsi sulle sue reazioni, si può o no parlare di politica? Per Bisio no, Pio e Amedeo han dimostrato che sì. Lui ha postato «Evviva #Sanremo», con selfie davanti alla tv. Ha scomunicato Achille Lauro per il sottotesto stupefacente. Vincitore morale.

La Verità, 10 febbraio 2019

«A Sanremo Mina e Tim stupiranno ancora»

Mina torna a Sanremo. Con la Tim, come l’anno scorso. In voce e in digitale. La più grande cantante italiana, l’artista che non compare pubblicamente da quarant’anni, dovrebbe cantare un brano americano. Non è sicuro al 100% perché sui contratti manca ancora la firma, questione di ore. «Sarà qualcosa di sorprendente», concede Massimiliano Pani, che di Mina è anche il produttore. Nella serata finale del Festival 2018 un ologramma comparve sulla scalinata dell’Ariston. L’avatar di Mina cantò Another Day of Sun tratto dalla colonna sonora di La La Land. Quest’anno che cosa inventeranno lo sponsor unico della kermesse e l’artista che vive a Lugano? Di sicuro si rinnoverà il racconto in cinque episodi, uno per sera, ideato da Luca Josi, direttore della struttura Branded Strategy e Media del marchio e creatore della formidabile campagna, che dura da più di due anni, con il ballerino Sven Otten, in arte JSM. Sarà una piccola soap opera, con sorpresa finale. «Non posso anticipare nulla», si ritrae Pani, «finché i contratti non sono firmati. Se dovesse essere confermata la canzone su cui si sta lavorando, sarà una cosa veloce e positiva. Di un genere musicale inaspettato».

Siamo a Lugano, studi della Pdu Productions, casa discografica di Mina, con Massimiliano, 55 anni, figlio della cantante e di Corrado Pani.

Com’è nato il vostro coinvolgimento con il brand della telefonia?

«Mia madre si fida di Luca Josi. Ne apprezza la genialità e il coraggio. Sono due visionari, due pazzi sani che si divertono. La riuscita di questa collaborazione deriva da questa intesa, dalla stima reciproca».

Si conoscevano già?

«C’era una conoscenza pregressa, che risaliva a quando Josi era in Einstein Multimedia. Una volta in Tim, sapendo che Mina ama l’originalità, le ha proposto qualcosa di innovativo. E lei, che negli ultimi anni aveva rifiutato diversi abbinamenti, ha accettato».

In passato ha collaborato a diverse campagne. Si ricordano le réclame di Barilla…

«In sessant’anni ha fatto una decina di abbinamenti; ci sono artisti che ne fanno uno all’anno. Se si riguardano i caroselli della Barilla si vede ancora adesso quanto fossero in anticipo. Lei cantava una canzone e il prodotto compariva solo nel codino».

Perché si è convinta a collaborare con Tim?

«Perché non era uno spot tradizionale, ma una specie di helzappoppin. Credo che le campagne Tim siano la comunicazione pubblicitaria più all’avanguardia dell’ultimo decennio. Prima il testimonial era Pif. Per trovare una claim altrettanto efficace bisogna tornare a Massimo Lopez e alla telefonata che allunga la vita».

Cosa c’era di originale in questa campagna?

«Josi non ha preso un pezzo già noto e digerito dal pubblico. Ha scelto All Night di Parov Stelar e l’ha fatto cantare a un’artista trasversale a tutti i pubblici, anche lei colta e pop. Ha preso una cantante fuori dal tempo per rivolgersi ai ragazzini, i veri clienti di Tim. È stato un di giro della morte. Un esempio di comunicazione leggera, divertente, creativa».

Che ha portato avanti un discorso, pur cambiando ambientazione.

«All’inizio sono andati in onda anche i filmati del pubblico, gruppi di ragazzi a scuola, marinai sulle navi… Poi sono spuntati Stanlio e Ollio. Ora c’è Piazza Navona che collega le Dolomiti, la Torre di Pisa in un’unica grande piazza che è l’Italia. Cambia il visual, ma il phil rouge è la voce di Mina. Fino alla soap opera intergalattica di Sanremo, con l’astronave in avvicinamento alla terra comandata da un’aliena».

Com’è stato realizzato l’ologramma della serata finale?

«Il fotografo e pittore Mauro Balletti, che dal 1978 è l’unico a poterla riprendere e fotografare, ha creato un rendering del volto e del corpo di Mina, un avatar digitale che ha i suoi lineamenti e i suoi movimenti».

L’avete rappresentata come un’aliena perché Mina è un’assenza presente nella vita italiana? Una protagonista lontana che può sempre comparire?

«È un’aliena per le scelte che ha fatto, perché ha capito alcune cose prima di altri. Ha capito che la televisione stava cambiando e allora ha deciso di tirarsene fuori. Nella ricerca estetica, vent’anni prima di Madonna e trenta prima di Lady Gaga ha cominciato a giocare con la sua stessa immagine. Rappresentandosi in tanti modi, persino con la barba… Ha creato una casa discografica per tutelare il suo lavoro. È stata la prima a pubblicare dischi dedicati come MinacantaLucio e Mina quasi Jannacci. Oppure monotematici come Mina canta o Brasil e Napoli».

La modernità, la contemporaneità, l’anticipo sui tempi da cosa derivano?

«Pensa sempre al domani. Mentre generalmente ci si concentra sul presente, lei si concentra sul bello, su ciò che si può fare di innovativo. Su questo Josi è un ottimo partner, forse l’ultima grande testa della comunicazione pubblicitaria, lo dico per come lavora. Vedremo presto che cosa ci riservano per il 2019».

Come si cura l’immagine di Mina?

«Vogue Italia ha dedicato un intero numero a Mina come immagine. La sua carriera va divisa in due epoche. Quella della ragazza che già negli anni Sessanta e Settanta influenzava la moda con la sua intelligenza e la sua personalità. E quella successiva, quando scelse di ritirarsi. E decise di giocare con la sua immagine, affidandosi a un maestro dell’iconografia come Balletti, che ha realizzato le sue idee in un’epoca in cui non esisteva il photoshop».

Mina ha collaborato con alcuni giornali. Che rapporto ha con la comunicazione?

«Scrivendo per La Stampa e Vanity Fair su qualsiasi argomento e non solo di musica, ha dimostrato che ha successo non perché canta bene, ma perché è intelligente. Quando mi chiedevano chi le scriveva i pezzi rispondevo: “Ma con tutto quello che ha fatto nella musica non credi sia in grado di scrivere da sola?”. È una donna attenta a tutto, che ascolta tantissima musica, informata, sempre avanti…».

Come vive le vicende italiane?

«Gioisce e soffre come tutti noi. Non prende parte benché sia stata più volte sollecitata da tutti».

In che modo?

«Ci sono persone popolari che non sono autorevoli o, al contrario, persone autorevoli che non sono popolari. Lei è entrambe le cose. Quel mondo, tutto, man mano che cambiavano i governi, ha cercato più volte di coinvolgerla, ma lei non ha mai considerato l’idea perché non ama il potere e i potenti. È un mondo troppo distante da ciò che ama e sa fare».

È nei social, ha un canale YouTube…

«Ci sono il canale Mina official e Mina Instagram. Questi luoghi digitali raccolgono parte di quello che ha fatto e lo rendono disponibile anche a chi è nato nell’era digitale e non possiede i vinili o non ha visto la tv dell’epoca. Mina ha un pubblico trasversale, composto anche da ragazzi che le riconoscono modernità e atemporalità».

Danilo Rea suona il pianoforte di Arturo Benedetti Michelangeli?

«Sì. Questo pianoforte viene dalla Basilica, la chiesa sconsacrata dove c’era lo studio di registrazione della Pdu a Milano. Benedetti Michelangeli incideva lì per la qualità dell’acustica. Aveva chiesto alla Steinway di preparargli un pianoforte a coda particolare, più lungo e con un legno preciso. Quando glielo portarono suonò due note ma, esigente ed eccentrico, lo rifiutò perché secondo lui il tasto tornava male. I tecnici della Steinway rimasero basiti nel loro camice bianco. Noi lo abbiamo comprato ed è tuttora il nostro pianoforte».

Che cosa significa comporre e arrangiare per Mina?

«Lei ha la capacità d’interpretare ogni genere musicale non a modo suo, ma come va interpretato. Riesce a entrare in un mondo musicale, dalle canzoni napoletane alla bossa nova, dal tango agli standard, nella maniera in cui va fatto e ai massimi livelli. Perciò bisogna essere in grado di passare da un genere all’altro e avere musicisti all’altezza. Questo, tendenzialmente, lo sanno fare meglio i jazzisti. Toots Thielemans suonò per Mina in Non gioco più. Danilo Rea iniziò a collaborare con noi a 21 anni. Nei dischi c’è sempre un brano con arrangiamento jazz. Gianni Ferrio è stato l’arrangiatore per eccellenza di Mina. Abbiamo lavorato con lui fino agli ultimi anni».

Duettò anche con Astor Piazzolla.

«Nel 1972 lo fece invitare a Studio Uno, insieme eseguirono Balada para mi muerte. Per dire che cosa faceva la Rai in quegli anni».

Un altro rapporto duraturo è quello con Adriano Celentano.

«Hanno iniziato insieme da ragazzi. Lei, Celentano, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. Cantavano nei locali il rock’n’roll e le canzoni di Elvis prima di diventare cantanti loro stessi. Con Adriano è rimasta grande complicità».

Celentano ogni tanto fa degli show in carne e ossa. Sua madre non è tentata?

«Sono artisti diversi. Adriano è anche attore e performer. Mina si esibiva dal vivo, nei concerti in teatro e in tv. Sono cambiati sia la tv che i luoghi dei concerti. Gli stadi, per esempio, non sono deputati per fare musica, non hanno l’acustica giusta. Con 70.000 persone cambia anche la drammaturgia. Lei privilegiava l’emozione in una dimensione più intima, con l’orchestra. Ha preferito fare dischi in studio».

Canta con Celentano, duetta con Paolo Conte, pubblica un songbook dei successi di Lucio Battisti, scrive un articolo per ricordare Fabrizio De André. Vuole ricostruire la memoria musicale italiana?

«Non so se è questo lo scopo. Lei è un’interprete e cerca di cogliere le canzoni più belle già scritte o che saranno scritte. Perciò a volte fa delle riletture musicali, altre volte pubblica un album di inediti come Maeba».

Come si vive vicino a un’artista così?

«Ho avuto due genitori di grandissima personalità. Mio padre è stato un attore importante e aveva un carattere difficile. Quando gli dicevano che aveva lavorato con grandi artisti del teatro e del cinema rispondeva: “Io di artisti veri ne conosco solo due, Mina e Carmelo Bene”. Mina è una fuoriclasse per il suo modo di pensare».

 

La Verità, 13 gennaio 2019

Bertolino antifuga cervelli Fazio e Crozza sbagliano

Fondazione Tim sull’innovazione È sbarcato ieri su La7 MeravigliosaMente, programma sull’innovazione di Enrico Bertolino e realizzato da Zerostudio’s per Fondazione Tim. A metà tra l’educational e la divulgazione scientifica, il comico visita in altrettante puntate cinque università dell’eccellenza italiana (Pisa, Genova, Padova, Milano, Torino). La prima notizia è che esistono nonostante le classifiche internazionali. La seconda è la comunicazione smart con cui Bertolino incontra ricercatori di robotica che progettano pancreas per diabetici gestibili con wi-fi, o ingegneri che studiano il trasporto con levitazione magnetica che ridurrà di 2/3 i viaggi sulle linee Tav. Il tutto in agenda «tra due anni».

Errori di programmazione/1 Il primo è Che fuori tempo che fa, il talk show di Fabio Fazio nella seconda serata del lunedì su Rai 1. Con l’eccezione della copertina di Maurizio Crozza, la tavolata con gli ospiti sembra una sorta di «avanzi» del Tavolo con Nino Frassica della domenica. In passato c’è chi ha proposto qualcosa di dignitoso con il marchio Avanzi, ma stavolta c’è da confrontarsi con lo schiacciasassi Grande Fratello Vip. E non basta il traino della Nazionale, tanto più se dopo la fine del match c’è mezz’ora di bar sport, per far superare la sensazione di già visto.

Errori di programmazione/2 L’altro svarione riguarda Fratelli di Crozza in onda su Nove al venerdì (3.5%) come nelle annate su La7, dove quest’anno c’è Propaganda Live di Zoro che gli rosicchia il pubblico militante. Più male gli fa su Tv8 la prima tv in chiaro di X Factor che lo supera regolarmente (4.5% circa). Se non si vogliono cambiare abitudini tocca rassegnarsi.

Correzione per Skroll Dopo un mese di preserale nell’illusione che facesse da traino a Mentana, Andrea Salerno ha deciso di spostare la striscia di Marco D’Ambrosio alias Makkox prima di un altro tg, quello della notte. Gli ascolti delle 19.30 erano scesi sotto l’1%, mentre la replica dopo mezzanotte resisteva attorno al 2% (e il doppio di telespettatori). I frequentatori dei social sono nottambuli.

I capolavori di Taodue L’altro giorno a proposito di Squadra mobile. Operazione Mafia Capitale di Canale 5 Aldo Grasso ha scritto che «vengono in mente tante cose». A cominciare dal «cinema dell’impegno civile (i film dei fratelli Taviani, di Germi, di Petri, di Pontecorvo, di Rosi, di Scola…) così centrale negli anni ’70 del Novecento. Le non poche serie della Taodue da Distretto di polizia a R.I.S., da Squadra antimafia a Le mani dentro la città, solo per citare alcuni titoli, affondano le loro radici culturali proprio in quella stagione in cui il nostro cinema provava a raccontare misteri e storture del nostro Paese».

La Verità, 15 ottobre 2017

Prima del via godiamoci certe scintille degli spot

Nell’attesa che finalmente inizi la nuova stagione (a proposito, Quelli che il calcio parte alla terza giornata di campionato – non si potevano fare delle puntate serali per le prime due? – Fabio Fazio il 24 settembre e Domenica in addirittura in ottobre: noi l’abbonamento lo paghiamo tutto l’anno), nell’attesa, dicevo, che, oltre a un po’ di sport vario, inizi davvero la stagione, il meglio si trova negli spot pubblicitari, in certi casi vere scintille di genialità, quello del Buondì compreso. A dirla tutta, sulla campagna che ha scatenato polemiche e predicozzi, oltre gli eccessi moralistici, non so chi è peggio tra due genitori mortiferi e una bimbetta smorfiosa che chiede una merendina «che possa coniugare la mia voglia di leggerezza e golosità». Parla come mangi, sarebbe stata la risposta giusta, e fine della storia. Ma dopo aver standardizzato l’alimentazione di matusa e mocciosi, ormai il politicamente corretto e i dogmi del nutrizionismo che alluvionano tutti i palinsesti hanno hanno invaso anche il linguaggio infantile. Dove invece, sempre in materia di generazioni, non ho difficoltà a scegliere da che parte stare è nel fulminante spot di Vigorsol Easy (non nuovissimo, ma testé riproposto): tutta la vita con l’adolescente ribelle che, dopo aver lanciato dalla finestra il tappetino da yoga, esce dalla camera vestita da punk come padre e madre, fasciati di pelle e borchie (genitori così esistono e si diffondono). Una volta all’aperto si disfa della maschera spruzzandosi con la pompa per innaffiare e, sorda alle proteste dei «vecchi», sale sulla bici del ragazzo, in rotta verso la libertà. Niente divise: nell’era all tattoo, trasgressione e anticonformismo sono acqua e sapone. La generazione dei maturi riguadagna invece credibilità nello spot Tim d’inizio stagione, dove Stanlio e Ollio ballano sulle note di All night, il brano del dj Parov Stellar cantato da Mina, che alla fine chiosa: «È bello ripartire con un sorriso». Un altro gioiello che prosegue la story della bellezza («è bello amare il calcio»; «è bello avere Mina»), inaugurata quasi un anno fa dalla campagna del marchio di telefonia. In tema di sigle e jingle fortunati, è partito con ampio anticipo il corteggiamento della Rai per abituare il pubblico del primo canale all’idea di trovarsi Fazio in casa ogni maledetta domenica. Il promo antologico con la sfilata dei big è efficace quasi quanto è contagiosa Twistin’ night away di Sam Cook. Resta da vedere se il conduttore saprà essere all’altezza dello smalto della sigla. Oltre che di quello del tintinnante cachet.

La Verità, 5 settembre 2017

Josi: «Così è nato lo spot tormentone della Tim»

Incontri Luca Josi e non sai da dove cominciare. Da Bettino Craxi e i nomignogli che gli hanno affibbiato: Hammamet express, l’apostolo, l’aspirante martire del craxismo, l’ultimo repubblichino della Repubblica di Salò di Craxi? Oppure dai cinque Telegatti vinti quando faceva il produttore tv con Einstein Multimedia, prima di chiudere a causa della vicenda riguardante la fiction Rai Agrodolce? Dal matrimonio con Laura Paglieri, famiglia Felce Azzurra, o da quello con Luisa Todini, famiglia di grandi costruttori? O dal nuovo ruolo di capo della comunicazione di Tim (formalmente: direttore della struttura Brand Strategy e Media), ideatore e curatore, tra mille altre cose, dello spot con il ballerino Sven Otten che ci ha stregato prima durante e dopo il Festival di Sanremo? Forse intuendo i miei impacci, parte lui da quand’era bambino, promessa del nuoto a Genova, due allenamenti e una ventina di chilometri al dì, genitori socialisti nella città dove nacque il Psi e si andava al cinema nella Sala Sivori, luogo della fondazione. Il padre Giuseppe insegna Statica delle navi all’università e, per capire il tipo, a un tal Lelekis fa ripetere l’esame 32 volte. La madre è giudice minorile, poi preside di una scuola privata. Il più ignorante del casato ha tre lauree. L’unica a non aver studiato è nonna Margherita, discendente di Marco Antonio Bragadin, ammiraglio della Serenissima che resistette agli Ottomani nell’assedio a Famagosta (Cipro), poi catturato e scorticato vivo perché rifiutò di convertirsi all’islam. La nonna gli ripete questa storia, ma lui alla fine s’iscrive all’università. Ma siccome, nel frattempo, la passione politica ha scalzato il nuoto, studia a Genova e va alle riunioni dei giovani socialisti a Roma, dormendo in treno. Tre volte la settimana per tre anni, questa è la tigna. Più che un grande irregolare, Josi è una presenza che smuove il senso di colpa collettivo nei confronti di Craxi. Si definisce un «salmone orfano»: salmone perché essere craxiano dal 1992 al 2000 è piuttosto controcorrente, orfano perché nel frattempo il Psi è scomparso. A Roma poi esplode la passione per la storia dell’arte. Tuttora viva al punto che, entrato nel Cda della Fondazione di Telecom, chiamato dal presidente Giuseppe Recchi, si butta nel piano di ripristino del Mausoleo di Augusto a Roma («il più grande monumento sepolcrale del mondo dopo le piramidi, che consegneremo alla cittadinanza in meno di due anni»). Una volta in Telecom, complici altri cambiamenti, nell’aprile 2016 l’ad Flavio Cattaneo gli affida la responsabilità della comunicazione. Nel frattempo è tornato anche l’amore per il nuoto e, a 50 anni, Josi fa ancora i 100 stile libero in un tempo inferiore al minuto.

Dunque, cominciamo dalla fine. Com’è nato questo spot così magnetico, contagioso, virale?

«È nato nella mia famiglia allargata; tra figlie, figli e la mia amatissima compagna Allegra: la persona con cui guardo e condivido meglio il mondo. In casa, anche noi, siamo tenaci navigatori della rete, tutti frequentatori di questo straordinario modo di viaggiare da fermi».

Uscendo dalla metafora?

«A settembre ci siamo ricordati di quel ballerino che avevamo visto qualche tempo prima. Per la nostra comunicazione cercavo qualcosa di semplice nella sua ripetitività – una legge, un mantra, per chi viene dall’avere lavorato coi format – e il ballo di Sven era perfetto. Lo era già nel suo video autoprodotto in bianco e nero, con quelle inquadrature pulite e quel continuo volteggiare degli arti che sembravano indicare i quattro angoli dello schermo lasciato vuoto per poterci inserire le nostre parole».

E la musica?

«C’era già. Sven infatti ballava nella sua camera su All Night di Parov Stelar. Abbiamo preso il binomio completo. Loro due nemmeno si conoscevano. Sven è tedesco, ha 29 anni e una storia perfetta da raccontare: era un programmatore di computer, che per la tendenza ad appesantirsi, con conseguenti problemi alla schiena, aveva deciso di dimagrire e gli era venuta l’idea del ballo. Da autodidatta aveva cominciato a scaricarsi dei tutorial dalla rete per imparare i primi passi, poi si era appassionato a questa musica al punto d’inventarsi un ballo per interpretarla».

Adesso quando la senti nelle sigle della Serie A, nella testa vedi Sven che balla…

«È l’elettro-swing. Lo swing è nato negli anni Trenta e ha rappresentato una reazione, fisica, alla depressione economica. Da lì vengono una serie di sonorità e danze nuove, più spensierate e positive. Nel 2012, Stelar, ha creato questo brano, una versione elettro dello swing. E così, ci siamo ritrovati tra le mani questa chicca».

Un brano che sprigiona energia.

«Come tutto ciò che tira fuori il meglio di noi, regala qualche secondo di allegria, un sorriso e un po’ di buon umore. Questa campagna è diventata precocemente virale. Non era ancora partito il concorso per le reinterpretazioni del ballo rivolto sia ai singoli consumatori che possono mandare un video autoprodotto che ai dipendenti delle aziende che possono proporlo con tanto di marchio del gruppo – su www.ballacontim.it online da mercoledì – che lo spot aveva già prodotto più di 200 imitazioni e una ventina di parodie. Tutte nate spontaneamente; il sogno di ogni pubblicitario».

Rischio di sovraesposizione?

«Sono quei rischi che ognuno si augura sempre di dover gestire».

Quindi, spot stupendo: ma il prodotto è stato comunicato in modo efficace?

«Esistono un’infinità di casi di pubblicità famose per qualità delle immagini e dei suoni che si sono rivelate di scarsa efficacia per il prodotto di cui erano ambasciatrici. Noi abbiamo avuto un risultato eccellente in tutte le sue declinazioni. Al di là della piacevolezza, quella musica e quel modo di portare le parole dell’offerta è talmente semplice che lo spettatore ricorda con precisione il contenuto della proposta commerciale».

È la prima volta che c’è uno sponsor unico al Festival di Sanremo. Come l’avete deciso?

«Ricordiamo la leadership del gruppo presidiando gli eventi e i fenomeni principali della nostra società come la Serie A del calcio o la scuderia Ducati. Ci siamo chiesti quindi quale fosse il Superbowl italiano e la risposta era senza dubbio il Festival di Sanremo che realizza ascolti irriproducibili».

Avrete stanziato un super budget.

«Se intende sugli investimenti pubblicitari la risposta è no. Abbiamo riscontrato però che la percezione, anche da parte degli addetti ai lavori, è stata quella di un investimento infinitamente superiore a quello reale. Il che significa che abbiamo speso molto molto bene i nostri soldi per la resa che hanno avuto. La tempesta perfetta si è vericata a Sanremo dove si sono incontrati l’evento più evento del panorama italiano e lo spot del momento. Quando il nitro incontra la glicerina scaturisce qualcosa di esplosivo».

A proposito di super budget, com’è arrivata Mina?

«Come una cosa bella. A Sanremo ci siamo chiesti: perché le telepromozioni devono essere percepite come un prodotto minore della comunicazione? Così ci è venuta l’idea di creare uno spettacolo nello spettacolo, provando a immaginare un piccolo musical in stile bollywoodiano derivato dallo spot. Recchi e Cattaneo hanno sposato l’idea e sono stati i primi veri sponsor di questa campagna. Si è innescata una sorta d’isteria produttiva: abbiamo avuto il via libera il 15 gennaio e abbiamo iniziato a girare i filmati a Cinecittà il martedì precedente all’inizio del Festival».

E Mina?

«Ho la fortuna di averla amica. Lei ha avuto fiducia nell’idea che le ho proposto. Ed è successo quello che avete visto e ascoltato. La mia più grande preoccupazione era di realizzare qualcosa che fosse rispettoso del suo mito. Mina, che come tutte le persone di genio vive della sua curiosità imprevedibile, ancora una volta ha trovato il modo di divertirsi, stupire e reinventarsi. L’idea di cantare “Tim Tim Tim” è sua. Un guizzo mozartiano di un personaggio dal talento inesauribile».

Da quanto tempo esiste questo rapporto con Mina?

«Siamo amici, ci conosciamo da anni e, appunto, se devo immaginarmi il genio o spiegarlo, penso a lei e a pochi altri. Sono quelle intelligenze carsiche delle quali non riesci mai a capire come costruiscano i passaggi che le portano a intuizioni, a sintesi, che altri producono, faticosamente, dopo percorsi lunghi, concatenati (sempre che le producano). Il genio, invece, all’improvviso ti dà un’intuizione che con istinto animale ti spiazza. È come se fosse già in possesso di una soluzione che agli altri mancava, quello che si definisce “nascere imparato”. Mina è così, una persona imparata in tutte le situazioni, mai fuori luogo, non s’identifica con una stagione attraversandole tutte da protagonista».

C’è un episodio, una frase, una situazione che l’ha particolarmente colpita in questa amicizia?

«Le amicizie e i sentimenti privati si definiscono tali proprio perché lo restino».

Questa campagna della Tim è il suo ritorno pubblico nel mondo della comunicazione. Una sorta di rinascita dopo anni difficili?

«Per rinascere bisogna morire. Vengo da una famiglia di trattori, gente ligure che, se china il capo, vuol dire che sta prendendo la rincorsa per tirarti una testata. Negli anni della tv ho vinto cinque Telegatti, prodotto migliaia di ore del primetime televisivo, organizzato il Live8 del 2 luglio 2005 (il più grande evento musicale italiano). Ho incontrato poi momenti cattivi concepiti da personaggi peggiori (non sono credente, ma credo che convenga anche a questi tizi che Dio non esista). Mi hanno aiutato oltre alla mia famiglia, meravigliosa, poche persone e devo a loro se sono qui. Non sono stati anni facili, ma sono cresciuto con mia nonna paterna che al posto delle favole mi raccontava la storia dell’avo Marco Antonio Bragadin; qualcosa di diverso da Biancaneve. Da parte di mia madre, nelle mezze parole liguri, ascoltavo invece quella del tenente Piero Borrotzu, che a 22 anni si consegnò ai nazisti per scambiare la sua vita con quella dei cittadini di Chiusola. Non c’è un grammo di retorica in questi ricordi: erano uomini come noi, come me; persone che hanno affrontato prove assolute, con coraggio, forza e senso del dovere che riduce a un pizzicotto ognuno dei miei mostri».

A proposito di quei tizi mi permetto di dire che devono sperare nell’esistenza di Dio, perché Lui perdona… Comunque, l’esperienza di produttore tv è la sua seconda vita, la prima è stata la politica. Quando parlava dell’intelligenza di Mina, mi chiedevo come classificasse quella di Craxi.

«Anche di Craxi non si capiva come arrivasse alla sintesi, all’idea finale. Andreotti raccontava spesso che quando andavano insieme a qualche meeting politico, lui impiegava il tempo del viaggio a studiare i dossier, mentre Craxi si sdraiava e dormiva per poi rinvenire quando l’aereo iniziava la discesa. A quel punto, scartabellava velocemente il plico immergendosi in silenzio in quelle carte; una volta raggiunto il tavolo del consesso era però sempre lui quello che poneva il pallino al centro della conversazione focalizzando l’aspetto strategico della questione. E Andreotti lo ricordava con un filo d’ironica invidia».

Lei come lo ricorda?

«Come il mio miglio amico e il mio leader».

Oggi che rapporto ha con il mondo della politica?

«Protetto. Guardo la tv e vedo che c’è un sacco di gente che ne parla, che ne discute; probabilmente, da qualche parte, ce ne sarà qualcuno anche capace di farla. In generale, mi sembrano tempi eunuchi, pieni di personalità calviniste con il prossimo e cattoliche con sé stesse».

Può esemplificare? C’è qualcuno che l’ha particolarmente delusa e, al contrario, qualcuno che le suscita un briciolo di speranza?

«La politica necessita di un fondo di ottusità: quella di sentirsi indispensabili all’umanità. Alcuni, se non lo sono per davvero, risultano almeno utili; l’altra gran parte, sono rinunciabili o interscambiabili. Però la politica è imprescindibile perché dovrebbe servire a reagire alle ingiustizie e alle prepotenze. Perché si occupa della vita di ognuno di noi e se tu non affronti i problemi loro troveranno te e avrai solo perso tempo. Da noi il coraggio e l’impegno ci si immagina abbiano effetti retroattivi. Sopraggiungono dopo sperando che abbiano effetto sulle codardie e le negligenze del prima».

Piercamillo Davigo, presidente dell'Anm (Franesco Garufi)

Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm (Franesco Garufi)

Di recente Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm, ha detto che a 25 anni da Mani pulite la politica è ancora più corrotta. Concorda?

«È probabile. In un certo senso Tangentopoli somiglia a una terapia antibiotica interrotta anzitempo, che ha rafforzato la malattia. Craxi fu l’unico ad autodenunciarsi in Parlamento per il problema del finanziamento illecito ai partiti. Tacquero tutti. Non era il: “Tutti colpevoli, nessun colpevole”, ma il tutti colpevoli e basta. Nel frattempo la mitragliatrice di Tangentopoli aveva esaurito il nastro delle sue munizioni e fu così che resistettero i nani e le ballerine. I primi avvantaggiati dall’altezza e le seconde dalla mobilità».

 

Cosa la fece diventare craxiano proprio mentre prendeva corpo l’azione di Mani pulite?

«Sono stato l’ultimo segretario dei giovani del Psi di Craxi. Ci siamo messi a difendere una storia non nostra perché sapevamo ci sarebbe ricaduta in testa. E soprattutto perché pensavo che se fossimo stati così pessimisti da non voler difendere il nostro futuro non potevamo essere, contemporaneamente, così ottimisti da sperare che qualcuno lo facesse al posto nostro. Perché alla fine appare sempre che sono i buoni a vincere. E non perché lo siano per davvero, ma perché vincendo, e scrivendosi la storia, lo diventano».

Si sente un irregolare?

«Un carattere nazionale è ormai diventato il galleggiamento. Io preferisco nuotare e penso, come scriveva Ignazio Silone, che il destino sia un’invenzione della gente fiacca e rassegnata».

Per tornare al punto dal quale abbiamo iniziato: quali sono i grandi progetti su cui sta lavorando il terzetto Tim, Josi, Mina?

«Molti, ma non le rovinerò la sorpresa».

 

La Verità, 5 marzo 2017