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Leone, il maschilismo ha fatto anche cose buone

Fortuna che le neofemministe non guardano i western. Altrimenti, sai che bordello (è proprio il caso di dirlo). Maschilismo e machismo in tutte le sfumature di tossicità. Niente patriarcato, invece. Perché nessuno dei protagonisti è un padre e, anzi, l’unico che lo è finisce presto lungo disteso prima di essere serrato in una bara come la sua stessa prole. Insomma, una vera sorpresa, illuminante delle diverse accezioni tra le varie forme di mascolinità di cui tanto cianciamo oggidì. E pure con scorrettissimo colpo di scena finale. Motivo per cui l’autore del western in questione e, molto secondariamente, io stesso che ne parlo, ci attireremo gli anatemi, postumi nel suo caso, delle femministe e deI bel mondo arcobaleno.
Insomma, l’altra sera dopo l’ennesima libagione poco controllata, ho seguito uno dei consigli di Marco Giusti su Dagospia e ho rivisto su Rai Movie C’era una volta il west di Sergio Leone, anno domini 1968. Dopo la Trilogia del dollaro, è il primo film della Trilogia del tempo (con Giù la testa e C’era una volta in America). Opera con cast tecnico e artistico superbi. Il soggetto, per dire, fu scritto da Leone con Bernardo Bertolucci e Dario Argento, all’epoca ancora critico cinematografico di Paese sera. Bertolucci, invece, aveva visto Il buono, il brutto, il cattivo in un cinema di Roma allo spettacolo delle tre del pomeriggio e proprio lì aveva incontrato gli altri due. Qualche giorno dopo, il regista gli aveva telefonato per chiedergli se gli fosse piaciuto il film. Bertolucci disse che sì, gli era piaciuto e, alle insistenze di Leone sulle motivazioni, si era soffermato sulle riprese dei culi dei cavalli. «In generale», argomentò, «nei western sia italiani che tedeschi, i cavalli venivano ripresi frontalmente e di fianco. Ma quando li filmi tu mostri sempre i didietro; un coro di didietro. Sono pochi i registi che riprendono il retro, che è meno retorico e romantico. Uno è John Ford. L’altro sei tu». Nacque così la collaborazione fra i due. La sceneggiatura invece la scrisse Sergio Donati, già autore dei precedenti western di Leone.
Tralasciando gli antefatti del set, l’altra sera volevo soprattutto rivedere quel cast di attori. Henry Fonda, il preferito dal regista, per la prima volta nella parte del cattivo Frank (doppiato da Nando Gazzolo), con spolverino fino ai piedi e i suoi occhi azzurri (si era presentato con lenti a contatto marrone e barba scura, ma Leone glieli tolse entrambi, sicuro che il celeste originale gli avrebbe dato un’aria più spietata). Charles Bronson nei panni di Armonica, volto meticcio, sguardo da buono e modi da duro che, sebbene non sia quello di Clint Eastwood com’era nei desideri del grande cineasta, regge i primi piani di Fonda. Jason Robards nel ruolo di Cheyenne, il terzo della situazione (attore più volte citato da Quentin Tarantino che al western italico si è abbeverato). Lui è innamorato di Jill McBain (Claudia Cardinale), l’ex prostituta in procinto di diventare la seconda moglie di Brett McBain, con il quale avrebbe dovuto costruire una stazione ferroviaria perché proprio lì si trova la falda che può alimentare le locomotive a vapore, se non fosse arrivata dopo la strage perpetrata da Frank su mandato di Morton (Gabriele Ferzetti), il boss storpio che vive nel vagone di un treno. Volevo riascoltare la colonna sonora di Ennio Morricone, con le note taglienti dell’armonica. Rivedere le lentezze che qualche critico imputò al regista consacrato dalla precedente trilogia. Riassaporare i dialoghi scarni e pieni di sottotesti, ma subalterni ai primissimi piani dei volti e ai campi lunghi sulla cittadina immaginaria di Sweetwater. Volevo gustarmi due ore e mezzo di quell’epica primordiale: il sopruso violento, il riscatto della bella che per sopravvivere si lascia prendere dall’assassino del marito, la vendetta del giusto.
Quello che non mi aspettavo era l’azzardo maschilista di Leone. Il grande paradosso machista, rimosso per quanto all’epoca era considerato nell’ordine delle cose. Nessuna critica riguardò il passaggio, tutt’altro che marginale, che sto per enucleare. Sebbene non incassò quanto Il buono, il brutto, il cattivo, C’era una volta il west è classificato come capolavoro del genere, comparendo in tutte le classifiche dei migliori film del XXº secolo. Schiere di registi, oltre a Tarantino, Martin Scorsese, George Lucas e John Carpenter, ne sottolinearono l’influenza sul loro cinema. Il passaggio spericolato, la sorpresa che farebbe sclerare le neofemministe se solo riuscissero a vedere film così, Leone lo fa interpretare a Cheyenne, non a caso il più sentimentale dei tre uomini. Siamo verso la fine della storia, i cowboy lavorano alacremente per costruire la stazione e il binario per collegare il territorio. Cheyenne sorseggia il caffè preparato dalla bella vedova dal passato turbolento: «Mia madre lo faceva così, caldo, forte, buono», commenta. Poi si rivolge a lei: «Se fossi in te porterei da bere a quei ragazzi. Tu non immagini quanta gioia mette in corpo a un uomo una donna come te. Anche solo vederla. E se qualcuno di loro ti tocca il sedere, tu fai finta di niente. Lasciali fare». Dice proprio così. E, poco dopo, prima di salutarla, compie lui stesso il gesto insolente, ripetendo: «Fai finta di niente».
Eravamo nel 1968. Per educarci, mia madre ci ripeteva: «Le donne non si toccano nemmeno con un fiore». Ma quello era un film western, apoteosi di mascolinità tossica, secondo la vulgata corretta odierna. Sempre visto oggi, Jason Robards sembra mortificare quell’ex prostituta mentre, in realtà, ne esalta il potere: «Non immagini quanta gioia mette in corpo a un uomo una donna come te». Un paradosso sottile che a qualcuno può sembrare azzardato. Soprattutto, un passaggio da non decontestualizzare. Il maschilismo ha fatto anche cose buone.

 

La Verità, 29 dicembre 2024

Django è arrivata anche la tua ora: adesso sei fluido

Non si salva neanche Django. Nemmeno lui. Con la sua impenetrabilità. Il suo alone di mistero. L’artiglieria pronta a fare giustizia. È arrivata la sua ora. E a noi prudono le mani. L’irritazione monta anche se, in fondo, lo stupore è contenuto. Dopo il principe di Cenerentola, al quale si vuol vietare il bacio salvifico perché «non consensuale», e il femminicida Don Josè, che nel finale corretto dell’opera di Bizet viene giustiziato da Carmen, anche il più iconico dei nostri cowboy è caduto nella rete della narrazione woke. Sospiro di rassegnazione. Emoticon con la bocca storta. Ticchettio nervoso delle dita. Mica facile vederlo dibattersi tra le maglie della fluidità e di certe, insistenti, reminiscenze gaie senza fare una piega. «È un personaggio che ci ha permesso di resettare i codici del virile, restituendo un nuovo punto di vista sulla mascolinità», garantisce Francesca Comencini, direttrice artistica e regista dei primi quattro episodi dei dieci della nuova serie originale Sky (con Canal+, Cattleya e Atlantique productions) da stasera in onda sulla pay tv e in streaming su Now. «Un lupo solitario pieno di misteri e ferite, con un cuore caldo, quasi incandescente, in una cornice molto fredda», assicura sempre la regista. Del resto produttori, sceneggiatori e anche Matthias Schoenaerts, l’attore protagonista, sono convinti che pochi generi (cinematografici) si adattino come il western a superare confini e infrangere regole. E quindi, vai con la rivisitazione dei generi, quelli «semplicisticamente» binari.

Si diceva che, in fondo, lo stupore è contenuto. Dalle parti della perfida Albione i prelati della Chiesa anglicana stanno pensando di riscrivere il Padre nostro con l’asterisco in ossequio alla neutralità gender. La cultura woke senza più argini di alcun tipo, siano i confini degli Stati nazionali o le fedi religiose, è diventata canone. E si stende automaticamente su tutto. Usciamo ammaccati dall’ultimo Festival di Sanremo che ha esaltato la fluidità gender davanti a milioni di telespettatori, conclamando quello che ormai si vede in modo sempre meno furtivo nelle campagne pubblicitarie dei prodotti più cool. Non c’è spot di auto e di cellulari senza un bacio lesbo. Per contro, i concorsi di bellezza sono considerati retrogradi – vedi l’oscurantismo che ha colpito Miss Italia – se non si mostrano inclusivi annoverando qualche trans.

«Negli hotel del Sudamerica e del Giappone, scrivevano direttamente Django, non Franco Nero», ci ha rivelato in un’intervista l’interprete originale. E ancora: «L’eroe del west non si sa da dove viene e dove va».

Come lui, anche questo Django compare qualche anno dopo la fine della guerra di secessione trascinando una bara. Ma all’opposto della figura misteriosa e violenta che abbiamo visto nel film di Sergio Corbucci (1966) che ha ispirato la versione Unchained di Quentin Tarantino (2012), questo solitario, più agnello che lupo, incline alla tenerezza e alle sfumature sentimentali, con capelli e cappello che lo fanno somigliare a Raz Degan, è pieno di passato, di conti da aggiustare, turbamenti, traumi, soprusi subiti. Un personaggio da interviste di Vanity Fair. Con coming out annessi. Infatti, chiacchiera molto. Argomenta. Con frasi da talent show («tutti hanno diritto di avere una seconda chance»), giustificati da storie sofferte, maltrattamenti… Il padre era un ubriacone, anche se nel rude west del 1872 adesso si dice «alcolizzato». E lui, a sua volta, ora cerca di farsi perdonare dalla figlia che non ne vuole sapere. E che vive a New Babylon, una città libera, multietnica, costruita sul fondo di un cratere, e vuole sposarne il fondatore (Nicholas Pinnock). Dall’altra parte ci sono i cattivi, fanatici religiosi tenuti in pugno dalla spietata schiavista (Noomi Rapace), una summa di malvagità all’ennesima potenza. Però, oltre il manicheismo da terza elementare, quando entra in scena lui, il western torna esistenziale, come si usa da un po’ per tentare di resuscitare il genere. Purtroppo con dialoghi di anacronistica banalità: «Se vuoi restare qui devi avere una visione. Un uomo che non sa sognare è un uomo perduto», gli dice il fondatore della comunità dopo che Django ha preso a scazzottate il campione locale. A completare la galleria c’è anche Manuel Agnelli con fluente capigliatura corvina e barba candida, chissà se anche lui per qualche trauma subito.

Quello da cui Django stenta a emanciparsi è il sentimento per il cognato Elijah, con il quale si scambia effusioni alla maniera dei due mandriani dei Segreti di Brokeback mountain, opera prima del gay western. Solo che quelli erano frutto di pura invenzione, creati apposta per infrangere il luogo comune e stupire i perbenisti. Invece Django ha una storia, è l’archetipo della mascolinità. Chissà che cosa ne pensa Franco Nero, qui arruolato per un cameo nei panni del Reverendo Jan. E chissà che cosa starà facendo nella tomba il buon Corbucci e cosa ne penserebbero John Wayne e John Ford. O per venire più vicino a noi, Eastwood e Tarantino. Forse è arrivato il momento di innescare una cultura woke al contrario. E di risvegliare il vecchio Clint e lo scorretto Quentin. Aiutooooo. Ci siete?

 

La Verità, 17 febbraio 2023

 

Gomorra, western epico senza redenzione

Dopo due anni e mezzo di pausa, ammortizzati in parte dall’Immortale, il film spin off che ha mostrato Ciro Di Marzio ancora vivo lontano da Napoli, arriva dunque la quinta stagione di Gomorra (Sky e Now tv) . L’ultimo episodio della quarta risale al maggio 2019, la pandemia era di là da venire e nel frattempo il mondo è cambiato parecchio. È il principale motivo dello scetticismo con il quale ci si può accostare alla saga molto liberamente ispirata al libro di Roberto Saviano. Che cosa ci si poteva inventare per dare corpo ad altri 10 episodi dopo i 48 che hanno permesso a Gomorra di essere venduta in 190 Paesi e piazzarsi al quinto posto della classifica del New York Times tra le produzioni non americane? Ci si è inventati molto. Al punto che dopo un paio di puntate si è di nuovo catalizzati da quel microcosmo senza redenzione e senza forze dell’ordine, fatto di bassifondi acquitrinosi, tuguri e moto che sfrecciano accanto alle auto per freddarne i passeggeri. Il merito è della sceneggiatura solidissima (Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli i capi progetto), della regia dei direttori artistici Marco d’Amore (6 episodi) e Claudio Cupellini (4), e della recitazione del cast, a cominciare da Salvatore Esposito. Tutti insieme in grado di dar vita a un grande gangster movie con elementi di western epico, tragedia greca e riferimenti biblici. I dieci episodi corrono verso il duello finale ora che l’Immortale è tornato dalla Lettonia, dopo che Gennaro Savastano ha provato, invano, a seppellirlo vivo. Troppo blande le misure di sicurezza per impedirgli la facile fuga, e proprio questo è uno dei punti deboli della trama. «Ricordati che quando io sono per strada tu sei sempre secondo. Devi pregare Dio che non esca mai di qua», è la minaccia di Ciro a Genny. E ora che il momento è arrivato lui è solo e impaurito. Nemmeno la moglie Azzurra (Ivana Lotito) è più disposta ad aiutarlo dopo che l’ha abbandonata. Ci sono i vecchi clan che insidiano le piazze dello spaccio di cui liberarsi. Ma c’è soprattutto da prepararsi alla «resa dei conti». Perché il ritorno di Ciro ridà speranza e ricompatta i perdenti della prima faida come Sangue Blu (Arturo Muselli). Nelle strade di Secondigliano si consumano tradimenti e spietate esecuzioni, mentre i due antagonisti tessono nuove alleanze, servendosi di capibastone emergenti come il memorabile ’O Munaciello (Carmine Paternoster). La già nota e riuscita confezione – gli arredi delle case dei boss, i giubbotti, le pistolettate sorde e soprattutto le musiche dei Mokadelic – perfezionano il magnetismo nel quale si è assorbiti.

 

La Verità, 21 novembre 2021

«Vi racconto la frontiera tra le Dolomiti e il West»

C’è un nuovo scrittore di successo a Padova. Si chiama Matteo Righetto. La critica letteraria lo elogia. Vince premi. Scrive romanzi da cui vengono tratti film interpretati da Marco Paolini e Paolo Pierobon. L’ultimo libro, pubblicato da Mondadori, è stato tradotto in Gran Bretagna, Germania, Australia, Canada e Olanda prima di uscire in Italia. S’intitola L’anima della frontiera ed è un western alla Cormac McCarthy ambientato fra i contrabbandieri del tabacco della valle del Brenta di fine Ottocento. Righetto ha 45 anni, insegna lettere al liceo, collabora con Il Foglio, è sposato e conduce una vita normale. Ci incontriamo al Centro culturale San Gaetano, l’ex tribunale trasformato in centro civico, composto di sale, teatro, bar, gallerie, biblioteche: un ben di dio sottodimensionato. Essendo Padova la nostra città, scambiamo opinioni sulle sue potenzialità poco sfruttate, dalla Cappella degli Scrovegni alla Specola, dall’Ortobotanico al Palazzo del Bo, dal Palazzo della Ragione ai santuari al Prato della Valle. Il succo è il seguente: «Se ci fosse un bravo assessore, un intellettuale lungimirante che desse un’impronta di sistema a tutto questo e capisse che la cultura può essere economicamente interessante, Padova vivrebbe un piccolo grande rinascimento».

Lei sembra spuntato come un fungo di montagna. Chi o che cosa sono stati la sua pioggia fertilizzante?

«Il fungo di montagna ha una crescita rapida, dalla notte al giorno. Io inseguo la mia affermazione da quando esordii con Savana padana, nove anni fa. Da allora lavoro per dare alla mia voce un timbro che unisca romanzo d’autore e letteratura di genere. Penso che L’anima della frontiera mostri questa maturazione».

Com’è cominciata?

«È un processo fatto di determinazione, forza di volontà, disciplina. Poi c’è il contagio di alcuni autori italiani e stranieri. Gocce di pioggia provenienti da Mario Rigoni Stern e Ferdinando Camon, per parlare dei nostri. Ernest Hemingway e Cormac McCarthy, per citare gli stranieri».

Qualcuno ha scomodato anche William Faulkner.

«Certo, l’ho letto. Ma non credo ci sia un influsso diretto».

Che cos’è la disciplina dello scrittore?

«La caparbietà nel voler raggiungere l’obiettivo. Per farlo si rinuncia a tante cose. La vicenda di Mario Balotelli insegna che il talento da solo non è sufficiente. Servono sacrificio e lavoro. Per perfezionare la scrittura limito vacanze e serate. Se andiamo al mare, quando le mie figlie e mia moglie vanno in spiaggia io rimango al computer. Insegno nove mesi all’anno, la domenica, le vacanze di Natale e d’estate scrivo. Certo, qualche passeggiata in montagna me la concedo anch’io».

Sua moglie non protesta?

«Mia moglie è una persona straordinaria. Gran parte del successo lo devo a lei. Quando sono arrivate le mie due figlie ero un po’ preoccupato. Porteranno confusione, come farò a scrivere, pensavo. Invece, proprio da loro viene la spinta principale».

Come mai L’anima della frontiera è stato venduto prima all’estero che in Italia?

«Il contratto con Mondadori risale a dicembre 2016. Poi il mio agente l’ha presentato al Salone del Libro di Francoforte e alla Fiera del Libro di Londra, riscontrando un forte interesse. Negli Stati Uniti, in Canada, Gran Bretagna e Australia i diritti sono stati acquisiti da quattro editori diversi. Per primo verrà pubblicato in Olanda».

«L'anima della frontiera» è pubblicato da Mondadori

«L’anima della frontiera» è pubblicato da Mondadori

In Italia la critica l’ha accolto molto bene.

«La critica è sempre stata benevola con me. Stavolta percepisco i fari puntati addosso».

Lei ambienta le sue storie in Veneto: si può parlare di letteratura glocal?

«Direi di sì, sono storie legate a un territorio specifico, ma al contempo universali perché riguardano i vizi e le virtù dell’uomo. Possono essere lette a Vicenza come a Melbourne».

E anche di letteratura di montagna?

«La letteratura di montagna è abitualmente identificata con le storie della Grande guerra, il trekking, lo sport, il turismo. Per me le Dolomiti sono un set esistenziale. Luoghi dell’anima che trasmettono una dimensione sia epica che intimista. Sono uno specchio per la coscienza e una metafora per l’umanità. Sono aspre, dure, selvagge, eppure sublimi, dolci, consolatorie. Sono esse stesse dei personaggi che forgiano a loro volta i protagonisti delle storie».

Letteratura primordiale?

«Nel senso che porta in superficie le questioni profonde dell’uomo. Anche il rapporto tra padri e figli è un tema ricorrente. Così come il senso del viaggio, metafora dell’esistenza e romanzo di formazione».

Che cosa facevano i suoi genitori? Com’era il rapporto con loro?

«Sono di umili origini. Mio padre era un orfano di guerra che poi ha fatto l’impiegato dell’Enel. Era l’uomo dell’intraprendenza. Mia madre era casalinga, la donna degli affetti. Pur non avendo studiato, erano persone di grande intelligenza, che mi hanno trasmesso i valori della tradizione cattolica, anche se io non mi definisco cattolico. Ho avuto un’infanzia e un’adolescenza normalissime. Le umili origini sono state il mio humus di scrittore. E sono interessanti perché poco comuni, essendo la grande maggioranza degli autori italiani figli della media borghesia intellettuale, di professori e giornalisti».

In questo libro mostra una conoscenza approfondita della flora di montagna e delle tecniche di coltivazione del tabacco.

«Mi sono documentato, ho fatto un lavoro di ricerca sui libri e parlando con le persone del posto».

Quindi è una storia quasi vera? Esisteva davvero il tabacco della valle del Brenta?

«Era tra i più pregiati d’Europa. E, nonostante questo, i contadini erano costretti alla fame dall’imposizione fiscale, prima della Regia Tabacchi, poi dell’Impero asburgico. C’era un paese che si chiama Nevada, tra il costone dell’Altopiano di Asiago e l’argine del fiume. Poi c’erano i minatori e il confine: quello che adesso divide Veneto e Trentino a fine Ottocento separava Italia e Austria. Quando ho scoperto che in quegli anni stavano costruendo la ferrovia ho pensato: questo è un western. E l’epica si è imposta da sola».

Un tipo di letteratura che scarseggia nella narrativa italiana.

«C’è sempre un sottofondo di piagnisteo, la precarietà di camera e cucina. Preferisco l’epos della letteratura americana. I miei editori m’incoraggiano in questa direzione».

Niente metropoli e rivoluzioni digitali: non ha la preoccupazione della contemporaneità?

«M’interessa raccontare gli uomini, sono loro il segreto di tutte le fiabe. Il mondo dei social non mi dice molto. Tra dieci anni ci saranno ancora i cellulari, o saranno sostituiti da altre macchine? L’anima dell’uomo ci sarà sempre».

Lei è un professore-scrittore, esemplare di un nuovo ircocervo culturale?

«A Treviso c’è Fulvio Ervas, l’autore di Se ti abbraccio non aver paura. E poi Alessandro D’Avenia…».

Tutta gente di successo. Tornando alla letteratura di montagna, cosa pensa di Mauro Corona?

«È un caro amico, una persona generosa per la quale nutro un affetto smisurato. Ultimamente la sua immagine mediatica ha prevaricato la dimensione autoriale».

Lasciando stare i padri storici, parliamo degli scrittori veneti. Conosce Vitaliano Trevisan?

«Lo conosco e lo stimo. È un grande scrittore e Works un grande libro».

Francesco Permunian?

«Non lo conosco così bene».

Massimo Carlotto, padovano anche lui?

«Carlotto lo conosco, ma facciamo cose molto diverse, in tutti i sensi».

Ferdinando Camon nel suo studio a Padova

Ferdinando Camon nel suo studio a Padova

Si può parlare di scuola veneta? Il territorio influenza i vostri lavori?

«Certo che si può. Esiste una scuola letteraria veneta, il cui tratto comune è proprio il legame e l’osservazione del territorio. Purtroppo, perché sia riconosciuta come tale anche da noi stessi, mancano ancora due elementi. Il primo è una certa autocoscienza, l’idea stessa di sentirsi scrittori veneti. Si parla di scuola sarda, pugliese, partenopea. Gli altri fanno clan. Noi, individualisti come siamo, lavoriamo ognuno per conto nostro. Il secondo elemento mancante è una critica che ci guardi così. Non esiste un critico letterario che abbia trovato un tratto comune, una convergenza narrativa. Ci vuole ancora tempo».

Che tipo di scrittore è Matteo Righetto?

«Personalmente custodisco quello che una volta mi ha detto Joe R. Lansdale: “Ricordati sempre che i tuoi libri sono più importanti di te”.  Perciò non amo essere troppo protagonista. Quando m’invitano preferisco parlare di libri. È il modo migliore che ho di prendermi cura delle persone. Non amo gli scrittori tuttologi che si atteggiano a intellettuali. Per carità, ho le mie idee. Ma il fatto che scriva un bel romanzo non stabilisce che le mie idee politiche siano più geniali di quelle del mio fornaio».

Che cosa le dà speranza, oggi?

«La mia famiglia, innanzitutto, anche se potrebbe sembrare banale».

Di questi tempi non lo è. E poi?

«Una certa vita spirituale, anche se non specificamente confessionale. E poi la letteratura. Un autore come René Girard, con la sua teoria imitativa, m’insegna che con le nostre azioni, il nostro esempio, possiamo influenzare gli altri in modo positivo. Questo mi dà forza. Penso che se fai del bene, prima o poi ti viene restituito».

Che cosa si aspetta da questo libro?

«Mi piacerebbe che fosse amato da molti italiani».

Ne sarà tratto un film com’è avvenuto per La pelle dell’orso?

«Me lo auguro. C’è molto interesse».

 

La Verità, 2 luglio 2017