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«Giovani ansiosi a causa del lavaggio del cervello»

Un osservatore autorevole della globalizzazione e delle sue storture: Federico Rampini le analizza dalla postazione privilegiata di New York, dove vive e lavora, dopo averlo fatto a Parigi, Bruxelles, San Francisco e Pechino. La stortura che in questo periodo lo motiva maggiormente è la denigrazione ad alta gradazione ideologica dell’Occidente, come spiega nell’ultimo libro: Grazie, Occidente! (Mondadori), appunto.

Che cosa ha sbloccato questo saggio?

«Vivo a New York nel cuore di una cultura conformista che processa l’Occidente come la civiltà più malvagia, e impone che ci si genufletta quotidianamente davanti al resto del mondo per le sofferenze che abbiamo inflitto. Nel corso di un viaggio in Tanzania, osservando le tribù dei Masai, ho visto da vicino questo paradosso: loro non hanno dubbi sui benefici che il nostro progresso gli porta. Ma c’è sempre qualche turista occidentale afflitto da snobismo imbecille, che storce il naso di fronte ai segni della modernità, rimpiange che i Masai non rimangano al loro stile di vita arcaico e romanticizza un passato segnato dalla fame e dalle malattie».

Un titolo con il punto esclamativo è una provocazione o la manifestazione del piacere di andare controcorrente?

«Siamo caduti in basso, se insegnare la storia vera diventa una provocazione. L’Occidente è stato protagonista di tre secoli meravigliosi in cui abbiamo accumulato una quantità sbalorditiva di scoperte, invenzioni – nella medicina, nelle tecniche di coltivazione, nell’industria – i cui benefici immensi sono stati diffusi all’umanità intera. Senza la nostra medicina che ha debellato la mortalità infantile ed ha allungato di decenni la longevità umana, senza la nostra agronomia che ha moltiplicato i raccolti, oggi non sarebbero vivi miliardi di cinesi, indiani, africani. Tutti i miracoli economici asiatici sono avvenuti copiando la nostra tecnologia, la nostra economia di mercato, e importando conquiste occidentali come l’istruzione di massa».

Perché l’Occidente «è l’imputato messo alla sbarra per avere soggiogato e impoverito le altre civiltà»?

«Da parte di alcune classi dirigenti, come la nomenclatura comunista cinese, c’è un calcolo geopolitico. Dopo avere copiato la modernità occidentale la Cina la usa contro di noi, aizza le classi dirigenti dei paesi emergenti in nome dell’anticolonialismo, oscurando il fatto che la stessa Repubblica Popolare è uno degli ultimi imperi coloniali, avendo soggiogato Tibet Xinjiang e Mongolia interiore. Ci sono oligarchie del Terzo mondo che accusano l’Occidente per nascondere le proprie ruberie e i propri fallimenti. Poi abbiamo l’antioccidentalismo di casa nostra, che ha una lunga storia e spesso si ricollega a tre grandi famiglie politiche ben rappresentate in Italia: comunismo, cattolicesimo, fascismo. Infine, c’è la variante più aggressiva, fabbricata dalle élite protestanti americane: i movimenti puritani di autoflagellazione, di espiazione collettiva delle proprie colpe, vere o presunte, sono una costante della storia americana dall’Ottocento».

Come spieghi che, sebbene vivano in una condizione di benessere, i nostri giovani siano «la generazione ansiosa»?

«Hanno subito un lavaggio del cervello. Quando gli si insegna la rivoluzione industriale è obbligatorio associarla con l’imperialismo coloniale, il razzismo, lo schiavismo, la distruzione del pianeta, l’inquinamento. Se si aggiungono le influenze di Hollywood, delle élite culturali, l’indottrinamento è a senso unico: la storia occidentale raccontata come un grande romanzo criminale. In questa versione si omette che le altre civiltà hanno praticato lo schiavismo quanto noi, che gli altri imperi sono stati oppressivi quanto i nostri; ma solo noi abbiamo inventato i vaccini e gli antibiotici. La Generazione Z dopo aver subito questo indottrinamento è segnata da punte di infelicità, ansia, depressione. Il mio libro è un antidepressivo».

Perché sembra che certi ambienti siano attraversati da un’isteria distruttiva?

«Pensano che denunciare la nostra cattiveria sia il segno di una moralità superiore. Le élite, in questo modo, perpetuano il proprio ruolo: ci sono caste intellettuali che devono la propria legittimazione a una missione sacerdotale, guidano le masse nei riti del pentimento collettivo. Magari sono atei e si credono modernissimi, in realtà ripetono delle liturgie medievali. Così come è oscurantista e antiscientifico un ambientalismo apocalittico che demonizza il progresso e annuncia la fine del mondo dietro l’angolo. Queste predicazioni fanatiche danno potere, culturale e politico, a chi le dirige».

C’è chi vede segnali di stanchezza della cultura woke: i campus universitari americani sono contendibili?

«Tanti giovani non sono né stupidi né passivi e fra loro è cominciata una ribellione, la battaglia per ricostruire un pluralismo e una libertà di espressione anche nei campus universitari. Non sarà facile, però, perché nel frattempo si è sedimentata una mastodontica burocrazia woke, pagata per disciplinare, censurare, imporre le quote etniche e sessuali…».

Perché la Rivoluzione industriale e l’avvento dell’energia fossile sono viste solo in una luce negativa?

«Perché tanti che si autodefiniscono ambientalisti urlando nelle piazze non hanno mai aperto un manuale di chimica o di fisica. Nel libro cito grandi scienziati, il mio prediletto è Vaclav Smil, uno studioso canadese che è un vero ambientalista, convinto che il cambiamento climatico sia reale e che noi dobbiamo adoperarci per contrastarlo, mitigarlo, e adattarci. Smil spiega l’intera storia della specie umana collegandola ai diversi tipi di consumo di energia, di alimenti, di materiali. In questo contesto la Rivoluzione industriale segna il passaggio verso forme di consumo energetico meno distruttive di quelle precedenti. Se ci scaldassimo ancora con il legname produrremmo molta più CO2 nell’atmosfera, rispetto a quella generata da carbone, gas, petrolio. Demonizzare il progresso è una mania degli ignoranti, l’energia solare, eolica, lo stesso nucleare che stanno riducendo le emissioni di CO2, sono tutte tecnologie occidentali. La lotta al cambiamento climatico procede grazie alle scoperte avvenute in Occidente».

Uno dei temi della tua riflessione riguarda la gestione dell’immigrazione. I Paesi europei e il Nordamerica devono accogliere i migranti senza regolamentarne i flussi per espiare le colpe del colonialismo?

«All’origine c’è un’idea semplice, accattivante e sbagliata: che noi siamo ricchi perché abbiamo reso poveri gli altri. Questo luogo comune calpesta decenni di studi sulle vere cause del sottosviluppo. Ignora la realtà che il colonialismo lo hanno praticato altri più a lungo di noi: in Medio Oriente i turchi ottomani. Ignora che Singapore fu colonia inglese e divenne indipendente nello stesso anno di molti Stati africani, ma oggi ha un reddito più alto di quello britannico. Diffondere tra i migranti l’idea che hanno diritto a nutrire rancore nei nostri confronti e a rivendicare risarcimenti perpetui è la ricetta sicura per impedire la loro integrazione. Questa cultura del vittimismo sta sfasciando perfino l’America, che aveva avuto una società multietnica funzionante».

Perché le comunità islamiche sono più ostili di quelle di altre etnie verso gli Stati che le accolgono?

«La decadenza delle civiltà islamiche fin dall’Ottocento ha generato una cultura dell’invidia e del risentimento verso l’Occidente. I più recenti fallimenti delle loro classi dirigenti, da Nasser a Khomeini e Khamenei, da Gheddafi a Saddam, hanno alimentato la ricerca di un capro espiatorio nell’Occidente. In particolare, dopo il 1979 si è scatenata una concorrenza perversa tra iraniani e sauditi, i cui petrodollari hanno finanziato moschee e madrasse fondamentaliste nel mondo intero, dove si predicava l’odio verso l’Occidente. Una novità positiva è che di recente l’Arabia saudita si è chiamata fuori da questo gioco».

A Kamala Harris conviene parlare d’immigrazione nell’ultimo mese di campagna elettorale?

«Kamala Harris ha operato un voltafaccia, oggi promette una politica di duro controllo alle frontiere».

Le misure adottate dagli ultimi governi britannici, dalla Danimarca, dalla Germania di Olaf Scholz e dai governi svedesi e olandesi, anch’essi progressisti, confermano un nuovo orientamento sull’immigrazione?

«Buona parte della sinistra occidentale si accorge di avere sbagliato sull’immigrazione e sta operando una revisione drastica».

Pensi che la sinistra italiana, dal Pd ad Avs, tardi a prendere coscienza di questo cambiamento?

«Seguo poco la politica italiana. Però non mi pare di aver colto delle svolte nette come quelle di Kamala Harris, Keir Starmer e Olaf Scholz».

L’Occidente ha fatto solo cose buone?

«Ha commesso crimini orrendi. Come tutte le altre civiltà. Ma noi li riconosciamo, gli altri no. Non si è mai sentito un leader arabo chiedere scusa per la tratta degli schiavi africani».

Quando abbiamo voluto esportare la democrazia in Afghanistan, in Iraq e in Libia non è andata benissimo.

«Era andata bene in Germania e in Giappone. La democrazia deve maturare nei popoli e nelle culture locali, è una faticosa conquista. Richiede anche una battaglia contro oligarchie oppressive».

Per una ripresa della diplomazia in Medio oriente e in Ucraina, è più auspicabile una vittoria di Donald Trump o di Kamala Harris?

«Volodymyr Zelensky si muove per un negoziato subito dopo l’elezione Usa, quello che cambierebbe è il suo potere contrattuale, un po’ inferiore con Donald Trump alla Casa Bianca. In Medio Oriente il sostegno americano a Israele rimarrà bipartisan».

Un altro limite della civiltà occidentale è aver cancellato le sue radici greche, romane e cristiane?

«Siamo il frutto di influenze molto diverse, la filosofia greca è compatibile con l’ateismo; Roma ci ha dato la prima Repubblica e un’idea dello Stato di diritto; il cristianesimo è un credo egualitario. La rivalità Stato-Chiesa e la pluralità di attori geopolitici continentali ci hanno preservato dai grandi imperi verticali. È un mix di ingredienti miracoloso che ha consentito la nascita della liberaldemocrazia qui e non altrove. La distruzione delle radici l’abbiamo cominciata presto. L’università di Stanford, nel cuore della Silicon Valley, eliminò il corso sulla storia della civiltà occidentale nel 1962».

Rispetto ad alcuni anni fa alcune tue posizioni sono cambiate: che cosa ha prodotto questa mutazione?

«Il grande economista John Maynard Keynes diceva: gli eventi cambiano, io cambio le mie opinioni, e voi?».

 

La Verità, 28 settembre 2024

«Questa società ha bisogno di uomini Lego»

Allora, Susanna Tamaro, contrariamente alla vulgata secondo la quale è un non luogo geografico, il Molise esiste davvero?

«Ricordo che all’esame di seconda elementare la commissione mi chiese di indicare sulla carta geografica dov’era il Molise. Si diceva sempre Abruzzo e Molise… Così, con una lunga bacchetta, puntai l’Italia centrale. Forse mi è rimasta da allora la passione per questi posti. Anche la protagonista di Va’ dove ti porta il cuore sposa un uomo dell’Aquila».

Quella di Il vento soffia dove vuole invece ne sposa uno di Capracotta (Isernia), esemplare degli uomini Lego. Messa così sembra la trama di un romanzo di fantascienza…

«Sembra».

Invece è un romanzo epistolare come Va’ dove ti porta il cuore, che però è del 1994. Chi scrive lettere nell’èra dei social e dei messaggi vocali?

«Più o meno nessuno. Però, secondo me, sta iniziando una controtendenza. Nella mia libreria a Orvieto c’è un reparto di belle carte da lettera, forse qualcuno le compra… Ci dimentichiamo che l’uomo è memoria e la memoria passa attraverso la scrittura. L’uomo smemorato è un futuro servo obbediente».

Susanna Tamaro è a Padova, ospite della Fiera delle parole, dove ha presentato in anteprima nazionale Il vento soffia dove vuole (Solferino), il nuovo libro che ha per protagonista una madre autrice di tre lettere alle sue due figlie e al marito, nelle quali succedono un sacco di cose che la scrittrice triestina narra con quel suo linguaggio semplice, frutto di una complessità risolta, affrontando temi come l’adozione, l’aborto, l’eredità genetica, la marginalizzazione del maschio.

Possiamo dire che si tratta di un romanzo antimoderno?

«In un certo senso sì, perché usa una forma di comunicazione che si può considerare antiquata ma, secondo me, da rivalutare. Ai tempi di Va’ dove ti porta il cuore ricevevo migliaia di lettere. Avendo risposto quasi a tutte ricordo le storie dei miei lettori… La schematizzazione virtuale delle emozioni e del pensiero non fa bene a nessuno».

La schematizzazione virtuale?

«I like, mi piace, non mi piace. Con i social viviamo in una perenne distrazione di massa, mentre scrivere fa articolare pensieri complessi».

Nel libro ricorre anche a espressioni che derivano dal mondo induista.

«Ho avuto una formazione particolare. Mio padre era un seguace di Krishnamurti, un importante mistico di origine indiana. Anch’io ho letto i suoi libri e sono state letture importanti. Ogni popolo ha una propria forma per esprimere la sete d’infinito. E ognuna di queste forme porta un tassello alla nostra vita e la arricchisce».

Usa anche la poesia, soprattutto Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Come mai Giacomo Leopardi, che nelle scuole insegnano come il campione del pessimismo?

«Leopardi è un grande della letteratura che ho detestato fino ai miei trent’anni. Quando mi sono immersa nello Zibaldone, ho trovato la sua poesia sempre nuova, ricca, mi ha regalato tanto. La poesia è un patrimonio che ci illumina e ci apre nuovi orizzonti. Primo Levi raccontò di essersi salvato nei campi di concentramento imparando alcune poesie a memoria».

Chi sono gli uomini Lego?

«Quelli che hanno la spinta a costruire relazioni che durano nel tempo. Sono quelli che sanno che ci vogliono le mani per potare un melo, per riparare un cancello… Vivo in campagna da 35 anni e vedo che in città queste conoscenze si perdono e si perde la dimensione della costruzione perché è tutto mentale. Abbiamo migliaia di anni alle spalle legati alla terra e all’evoluzione, ma pensiamo che gli ultimi trent’anni di iper-modernità siano tutta la nostra storia».

Le sembra che ci sia bisogno di questi uomini Lego?

«Sì, assolutamente. La mia visione della natura e del mondo materiale è segnata anche dal taosimo, una religione basata sulle polarità. Se uno dei due poli diventa debole, tutto si sbilancia. Oggi viviamo uno squilibrio nel rapporto tra maschile e femminile perché l’uomo ha perso il potere che aveva un tempo e non ne ha ancora costruito un altro. Per questo siamo in una fase di transizione».

La accuseranno di voler ripristinare il patriarcato.

«Ho parlato di transizione, non di ritorno al passato. La maggior parte delle mie amiche è sposata con uomini Lego e anch’io ho amici che sono persone sensibili. Invece nella narrativa prevalente l’uomo e descritto come qualcosa di torbido, portatore di negatività».

Questa mamma, da ragazza, ha abortito e porta nella psiche e nel corpo qualche conseguenza. L’aborto è un diritto conquistato in anni di lotta delle donne, ma si pensa che, una volta praticato, non abbia memoria?

«Appartengo alla generazione che ha vissuto in pieno l’arrivo della legge 194. Avevo e ho molte amiche attiviste e militanti radicali. È stata una battaglia epocale. Ma nonostante abbia vissuto in questo ambiente quegli anni ho sempre provato turbamento davanti a quello che considero un evento non indolore. Mi impressiona il fatto che venga trattato sempre come una questione ideologica e mai come una questione ontologica».

Cosa intende dire?

«Che l’aborto è un’azione che riguarda chi è, cos’è la persona. Come si forma. Di questi tempi mi colpisce il disprezzo generalizzato per la vita. A nessuno capita mai di pensare che se la propria madre avesse deciso di abortire lui non sarebbe nato, non avrebbe fatto parte dell’avventura difficile e complicata della vita».

Invece prevale l’ideologia…

«Che cancella la sofferenza delle donne. Può capitare nella vita di fare come la mia protagonista, si pensa di risolvere un problema… Ma è un’azione importante che non si può archiviare in modo disinvolto perché le sue tracce segnano la fisiologia e restano a lungo nel corpo delle donne. Penso che le donne debbano ascoltare il loro dolore profondo ed essere orgogliose dei loro diritti».

Questa madre poi adotta e mentre sono in corso le procedure per l’adozione rimane incinta e sta per ricredersi: è un eccesso di sincerità raccontarlo alla figlia adottiva?

«So di casi analoghi: la maternità adottiva sblocca anche la fecondità naturale. È molto umano provare uno smarrimento in quella situazione perché aspetti un figlio sconosciuto e ne hai un altro naturale in pancia. Quando si scrive bisogna avere il coraggio di mettere a nudo anche le proprie fragilità. La madre evidentemente pensa che la figlia sia in grado di comprendere il suo travaglio».

Nel parapiglia tra spermatozoi e ovuli che s’incontrano la protagonista intravede il destino.

«Il destino è la grande realtà che abbiamo rimosso perché viviamo in un mondo immolato al caso. Invece, proprio per la fragilità che ci abita e per l’imprevedibilità degli eventi, appartiene alla cultura umana l’idea che le nostre vite siano governate da un destino invisibile».

Lei si sofferma sulla differenza tra la figlia adottata e quella naturale: parlare dell’importanza della genetica nella nascita e nella formazione delle persone vuol dire essere razzisti?

«Vuol dire essere realisti. Oggi, nonostante ci si proclami super scientifici e super razionali, dimentichiamo la complessità dell’ereditarietà e della memoria della discendenza. Il mondo attuale cancella le genealogie, ma gli studi sul Dna ci stanno svelando cose straordinarie sull’ereditarietà genetica. I talenti, per esempio, sono ereditari. Nel karma indiano quando si studia la complessità delle famiglie si vede che in ogni generazione si ripropone un problema relazionale o affettivo non risolto da quelle precedenti».

Come colmare il fossato che la realtà virtuale così invadente oggi ha scavato tra le generazioni adulte e gli adolescenti?

«Con una grande consapevolezza e un grande lavoro. Già negli anni Novanta il grande psichiatra Giovanni Bollea voleva sensibilizzare il mondo della politica sui danni neurologici e psichiatrici della realtà virtuale, allo scopo di insegnare alle famiglie e alla scuola un uso consapevole di questi mezzi, per altro meravigliosi. Io non sono contro la modernità digitale. Dalla medicina all’agricoltura ha permesso passi avanti straordinari, ma forse dovrebbe essere meno invadente nella nostra vita quotidiana perché altrimenti rischiamo di trasformarci da homo sapiens in homo demens. Nella progredita Svezia hanno tolto l’uso delle tecnologie digitali dalle scuole e sono tornati a carta e penna perché si sono accorti del danno cognitivo ingenerato nei bambini».

Ha seguito il dibattito sullo spot di Esselunga?

«Mi è sembrato tanto rumore per nulla. Così come mi sembra umanamente ovvio che un bambino desideri che i propri genitori si vogliano bene. Sono la sua origine, il senso del suo esistere».

Nell’esortazione Laudate Deum promulgata per il Sinodo il Papa invita a cambiare comportamenti per sconfiggere il cambiamento climatico. È il tipo di messaggio che l’umanità si aspetta dalla Chiesa?

«Questo messaggio è già promosso da tutti i media, dai governi e dagli organismi internazionali. Forse sarebbe bello che la Chiesa tornasse a parlare dell’esistenza dell’anima. Forse è questa la cosa di cui abbiamo più bisogno: sapere che non siamo pura materia, sapere che in noi abita la complessità su cui si staglia l’ombra del Mistero».

Qualcuno vede nella cultura woke una sorta di nebbia che allontana l’essere dalle sue radici e una forma di conformismo. Come bucare questa nebbia?

«Questa cultura provoca un grande disordine e quando viene provocato un disordine con tanta caparbietà bisogna chiedersi a chi giova».

Cosa indica la viriditas che alla fine del libro propone di rivalutare?

«È un termine coniato dalla grande mistica benedettina Ildegarda di Bingen vissuta nel XII secolo che Benedetto XVI ha proclamato dottore della Chiesa. Nella sua visione profetica elogiava la presenza di una forza vitale, generativa, legata al verde come il colore delle piante e alla base della natura. Una parola contenente anche il termine vir, che indica la virilità dell’uomo. Non il maschilismo tossico, beninteso. Ma quella dote che appartiene a ogni essere umano, indifferentemente dal sesso, capace di vivere all’altezza delle domande dell’anima».

 

La Verità, 7 ottobre 2023

Django è arrivata anche la tua ora: adesso sei fluido

Non si salva neanche Django. Nemmeno lui. Con la sua impenetrabilità. Il suo alone di mistero. L’artiglieria pronta a fare giustizia. È arrivata la sua ora. E a noi prudono le mani. L’irritazione monta anche se, in fondo, lo stupore è contenuto. Dopo il principe di Cenerentola, al quale si vuol vietare il bacio salvifico perché «non consensuale», e il femminicida Don Josè, che nel finale corretto dell’opera di Bizet viene giustiziato da Carmen, anche il più iconico dei nostri cowboy è caduto nella rete della narrazione woke. Sospiro di rassegnazione. Emoticon con la bocca storta. Ticchettio nervoso delle dita. Mica facile vederlo dibattersi tra le maglie della fluidità e di certe, insistenti, reminiscenze gaie senza fare una piega. «È un personaggio che ci ha permesso di resettare i codici del virile, restituendo un nuovo punto di vista sulla mascolinità», garantisce Francesca Comencini, direttrice artistica e regista dei primi quattro episodi dei dieci della nuova serie originale Sky (con Canal+, Cattleya e Atlantique productions) da stasera in onda sulla pay tv e in streaming su Now. «Un lupo solitario pieno di misteri e ferite, con un cuore caldo, quasi incandescente, in una cornice molto fredda», assicura sempre la regista. Del resto produttori, sceneggiatori e anche Matthias Schoenaerts, l’attore protagonista, sono convinti che pochi generi (cinematografici) si adattino come il western a superare confini e infrangere regole. E quindi, vai con la rivisitazione dei generi, quelli «semplicisticamente» binari.

Si diceva che, in fondo, lo stupore è contenuto. Dalle parti della perfida Albione i prelati della Chiesa anglicana stanno pensando di riscrivere il Padre nostro con l’asterisco in ossequio alla neutralità gender. La cultura woke senza più argini di alcun tipo, siano i confini degli Stati nazionali o le fedi religiose, è diventata canone. E si stende automaticamente su tutto. Usciamo ammaccati dall’ultimo Festival di Sanremo che ha esaltato la fluidità gender davanti a milioni di telespettatori, conclamando quello che ormai si vede in modo sempre meno furtivo nelle campagne pubblicitarie dei prodotti più cool. Non c’è spot di auto e di cellulari senza un bacio lesbo. Per contro, i concorsi di bellezza sono considerati retrogradi – vedi l’oscurantismo che ha colpito Miss Italia – se non si mostrano inclusivi annoverando qualche trans.

«Negli hotel del Sudamerica e del Giappone, scrivevano direttamente Django, non Franco Nero», ci ha rivelato in un’intervista l’interprete originale. E ancora: «L’eroe del west non si sa da dove viene e dove va».

Come lui, anche questo Django compare qualche anno dopo la fine della guerra di secessione trascinando una bara. Ma all’opposto della figura misteriosa e violenta che abbiamo visto nel film di Sergio Corbucci (1966) che ha ispirato la versione Unchained di Quentin Tarantino (2012), questo solitario, più agnello che lupo, incline alla tenerezza e alle sfumature sentimentali, con capelli e cappello che lo fanno somigliare a Raz Degan, è pieno di passato, di conti da aggiustare, turbamenti, traumi, soprusi subiti. Un personaggio da interviste di Vanity Fair. Con coming out annessi. Infatti, chiacchiera molto. Argomenta. Con frasi da talent show («tutti hanno diritto di avere una seconda chance»), giustificati da storie sofferte, maltrattamenti… Il padre era un ubriacone, anche se nel rude west del 1872 adesso si dice «alcolizzato». E lui, a sua volta, ora cerca di farsi perdonare dalla figlia che non ne vuole sapere. E che vive a New Babylon, una città libera, multietnica, costruita sul fondo di un cratere, e vuole sposarne il fondatore (Nicholas Pinnock). Dall’altra parte ci sono i cattivi, fanatici religiosi tenuti in pugno dalla spietata schiavista (Noomi Rapace), una summa di malvagità all’ennesima potenza. Però, oltre il manicheismo da terza elementare, quando entra in scena lui, il western torna esistenziale, come si usa da un po’ per tentare di resuscitare il genere. Purtroppo con dialoghi di anacronistica banalità: «Se vuoi restare qui devi avere una visione. Un uomo che non sa sognare è un uomo perduto», gli dice il fondatore della comunità dopo che Django ha preso a scazzottate il campione locale. A completare la galleria c’è anche Manuel Agnelli con fluente capigliatura corvina e barba candida, chissà se anche lui per qualche trauma subito.

Quello da cui Django stenta a emanciparsi è il sentimento per il cognato Elijah, con il quale si scambia effusioni alla maniera dei due mandriani dei Segreti di Brokeback mountain, opera prima del gay western. Solo che quelli erano frutto di pura invenzione, creati apposta per infrangere il luogo comune e stupire i perbenisti. Invece Django ha una storia, è l’archetipo della mascolinità. Chissà che cosa ne pensa Franco Nero, qui arruolato per un cameo nei panni del Reverendo Jan. E chissà che cosa starà facendo nella tomba il buon Corbucci e cosa ne penserebbero John Wayne e John Ford. O per venire più vicino a noi, Eastwood e Tarantino. Forse è arrivato il momento di innescare una cultura woke al contrario. E di risvegliare il vecchio Clint e lo scorretto Quentin. Aiutooooo. Ci siete?

 

La Verità, 17 febbraio 2023