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Chi è il mostro di Firenze? Ma è ovvio, il patriarcato

Era la serie più attesa dell’anno. Per la scabrosità dell’argomento e per la qualità degli autori e dei produttori che la firmavano. Per fare un sommario paragone con un prodotto altrettanto sponsorizzato, l’origine de Il Mostro non è dichiaratamente politica com’era quella di M – Il figlio del secolo di un anno fa. La serie sul mostro di Firenze in onda su Netflix diretta da Stefano Sollima, scritta con Leonardo Fasoli e Stefano Bises e prodotta da The Apartment e Alter Ego, ambiva a illuminare il capitolo più oscuro della cronaca nera del Novecento: otto duplici omicidi commessi dal primo serial killer italiano che, dal 1968 al 1985, hanno sconvolto un’intera generazione, rimanendo tuttora senza un colpevole. Nemmeno l’apprezzato regista di Romanzo criminale, Gomorra e Suburra (un po’ meno di Acab) azzarda un tentativo di risposta al più complicato enigma criminale italiano. Anzi, Sollima si concentra sull’antefatto della vera stagione del mostro, l’omicidio della coppia composta da Antonio Lo Bianco e Barbara Locci, realizzato, secondo gli inquirenti, con la stessa Beretta calibro 22 usata per i successivi delitti. La trama scava nella pista sarda, presto abbandonata dalle indagini, per circostanziare la genesi di quegli orrendi crimini nella peggiore sottocultura patriarcale, specchio dell’Italia dell’epoca. Difficile non intravvedere in questa operazione il furbo tentativo di iscrivere quell’oscuro passato nell’attualità dominata dal dibattito mainstream sui diritti civili.

Tra Barbara Locci, la moglie umiliata di Stefano Mele, e la sostituto procuratore (Liliana Bottone) che, mentre le indagini «brancolano nel buio» delle campagne popolate di guardoni e degli scantinati delle famiglie patriarcali, è da subito certa che l’obiettivo dell’assassino sia umiliare il corpo delle donne, sfila il campionario delle piu truci perversioni maschili. Del resto, il mostro è uno o più uomini. Impaginata come Avetrana – Qui non è Hollywood in quattro episodi, ognuno intitolato a un possibile colpevole, e recitata da attori poco noti o scarsamente riconoscibili, Il Mostro ripropone i fatti della notte del 21 agosto 1968 (la stessa in cui le truppe sovietiche invadono Praga) da quattro punti di vista diversi, intrecciando e contrapponendo le versioni degli indiziati. Nella mente del telespettatore si affastellano le domande. E solo alla fine dell’ultimo episodio spunta Pietro Pacciani, in un finale aperto di quello che appare il lungo prequel di una seconda stagione. Probabilissima dopo il successo, non solo italiano, di questa prima.

 

La Verità, 28 ottobre 2025

In Untamed la natura ostile cela i segreti dell’anima

Selvaggio, ruvido e indomabile come la natura. Come certe foreste o certe pareti inviolabili di montagna. Anche se sono quelle del Parco nazionale di Yosemite, in California. La traduzione nel titolo della miniserie è Untamed, sei episodi prodotti da Warner Bros appena usciti e in testa al gradimento del pubblico di Netflix. I protagonisti quasi si specchiano uno sull’altro. Il cupo ranger della Sezione investigativa del National park service, Kyle Turner, interpretato da Eric Bana (Hulk), e la natura dei tremila chilometri quadrati del grande Parco californiano (in realtà la serie è stata girata nella provincia della British Columbia, in Canada). Maestosa, scoscesa e fitta di segreti come l’anima turbata degli agenti che indagano sulla misteriosa morte di una ragazza che precipita dalla cima del costone di una parete per scalatori. L’ipotesi che si tratti di un suicidio non convince Turner e il suo capo (Sam Neill, quello di Jurassic Park) che gli affianca Naya Vasquez, un’agente messicana alle prime armi (Lily Santiago), appena arrivata da Los Angeles. La collaborazione tra loro, però, è tutt’altro che fluida. Entrambi convivono con vicende traumatiche che affondano nel passato: Turner si sente in colpa per aver perso l’unico figlio in circostanze ancora poco chiare e si è separato dalla moglie (Rosemarie DeWitt); Vasquez è una madre single, in fuga da un marito violento che continua a inseguirla. Man mano che le indagini procedono, inoltrandosi nei cunicoli più impervi del Parco popolato da nativi americani, ma anche da strane sette e da clan di spacciatori, l’intrigo si fa fitto e impenetrabile come la vegetazione della foresta. Anche perché, nel frattempo, un’altra agente comincia a fare domande su un caso irrisolto dallo stesso Turner, cinque anni prima. Così, mentre il ranger solitario comincia a condividere il dolore che lo lacera riavvicinandosi all’ex moglie, si allontana la soluzione del mistero della ragazza precipitata dalla montagna.

Sceneggiata da Mark L. Smith (e dalla figlia Elle), già autore di Revenant – Redivivo e della serie American primeval, pur priva di particolari innovazioni registiche, Untamed si giova del continuo raffronto tra le attraenti ma inquietanti panoramiche naturali e le ombrosità dei protagonisti, alle prese con i propri demoni che affiorano come certi cadaveri sulle acque di uno stagno di montagna. Non siamo certo di fronte a un capolavoro, ma a qualcosa di vedibile in una stagione non particolarmente ricca di offerte.

 

La Verità, 20 luglio 2025

Le distopie di Black Mirror sono dietro l’angolo

Distopie ravvicinate. Situazioni di un futuro pessimo, inquietante, in realtà non così fantascientifico e  ipotetico, ma verosimile, plausibile. Sono gli scenari preconizzati dalla settima stagione di Black Mirror, sei episodi antologici disponibili su Netflix, ognuno a sé stante, creati da Charlie Brooker. Le prime produzioni, dal 2011 in poi, erano particolarmente geniali e disturbanti, insignite di premi ed elogiate della critica. Le ultime sono divenute via via più ordinarie. Com’è la settima stagione? Sempre un ottimo prodotto, «che vuole tornare alle origini», secondo l’ideatore: provocatorio, alimentatore di riflessioni e dibattiti, ma un tantino più pop.

In un’azienda dolciaria, la creatrice di leccornie al cioccolato subisce la vendetta ad alta sofisticazione informatica di un’ex compagna bullizzata al liceo che ora diventa la sua Bestia nera. A Hollywood, uno studio cinematografico in crisi inserisce star del presente nei vecchi film in bianco e nero come Hotel Riviere, solo che, una volta implementati, gli attori si ribellano al copione. In Come un giocattolo, un critico di videogame s’impossessa del programma di un gioco trasformandosi nell’allevatore di legioni di Tamagotchi che prenderanno tragicamente il potere. Guidato da un avatar nei ricordi alimentati dalle fotografie dell’epoca, Paul Giamatti compone per la compagnia Eulogy il memoriale immersivo della sua ex fidanzata defunta. Il sesto episodio, Uss Callister: Infinity, è il sequel della parodia di Star Trek iniziata nella quarta stagione della serie.
Di tutte, la storia più efficace è la prima, Gente comune. In una cittadina britannica marito e moglie che si adorano stanno provando ad avere un figlio. Ma a lei, insegnante, diagnosticano un tumore al cervello che la renderà un vegetale. A meno che non s’iscriva al programma di Rivermind, una nuova app che farà il back up in un server della parte malata, sostituendola con materia artificiale in cambio di un modico abbonamento. Purtroppo, sono indispensabili gli aggiornamenti e i servizi che prima erano basici ora si pagano. Come si paga l’eliminazione delle inserzioni pubblicitarie che scattano autonomamente nell’espressione del nuovo cervello. La spirale di incubi che avviluppa la coppia è altamente drammatica.

Black Mirror ribadisce che la tecnologia ci domina, ci schiavizza e ci pervade al punto che, a forza di sperimentazioni e avanguardie, rimaniamo vittime degli stessi meccanismi che mettiamo in atto o a cui ricorriamo. Ma in fondo, non è quello che, in un certo senso, è accaduto e continua ad accadere con la creazione di continue ed esagerate emergenze e con le loro presunte contromisure?

 

La Verità, 19 aprile 2025

Preoccupati e boomer, al cinema ritornano i papà

Cinema e televisione si accendono sui padri. S’interrogano sul loro ruolo e sulle loro responsabilità. Niente padri-amici e nemmeno vecchi e inflessibili patriarchi, grazie a Dio. Era ora, verrebbe da dire, e pazienza se Dario Franceschini che fantastica sul matronimico avrà un mancamento. La tendenza è significativa perché cresce lontano dalle fumisterie ideologiche del cosiddetto patriarcato che, secondo studiosi autorevoli come Luca Ricolfi, oggi esiste solo nelle comunità di immigrati (mentre al cinema lo abbiamo visto di recente in Vermiglio di Maura Delpero, un film su un paesino montano alla fine della Seconda guerra mondiale).
No, film e serie tv ci propongono un approccio diverso, più psicologico, determinato da problematiche educative che fanno i conti con i deragliamenti esistenziali di adolescenti e ragazzi. E ci presentano genitori che fanno mestieri tradizionali, tranvieri, ferrovieri, idraulici; padri sorpassati dalla contemporaneità e sprovvisti delle chiavi d’ingresso in territori stranieri: dipendenze dall’alcol e dalle droghe, militanze estreme e violente, manipolazioni della rete e ricatti dei social. Sono genitori lacerati dal nichilismo dei figli, ai quali riescono a contrapporre poco se non, forse, una presenza. Un «esserci» che, comunque, è già qualcosa. Del resto, quello del padre e della madre è un mestiere che nessuno insegna.
Premiato come miglior attore all’ultima Mostra di Venezia, in Noi e loro di Delphine e Muriel Coulin, ora nelle sale, Vincent Lindon incarna la preoccupazione di Pierre, un ferroviere vedovo alle prese con due figli, uno studioso e positivo, l’altro, irrequieto e oppositivo. Siamo in un paesino della Lorena che ruota attorno al liceo scientifico e alla squadra di calcio, ma mentre il primo ragazzo entra alla Sorbona e si trasferisce a Parigi, il secondo si lega ai gruppi violenti di estrema destra. È la sua pagina Facebook a svelare la militanza pericolosa, fatta di slogan xenofobi e palestre di skinheads scalmanati. Inevitabile che il conflitto con il padre, una vita da sindacalista, avveleni la quotidianità domestica. «Mi sento tradito», accusa il genitore che, tuttavia, non riesce a fare breccia nell’oltranzismo cieco del figlio. Fino all’epilogo in cui deve ammettere la resa.
Il titolo scelto dalla distribuzione italiana di I Wonder (cita un’espressione del padre: «Quando si comincia a dire noi e loro… non può che finire male») per tradurre l’originale Jouer avec le feu, sottolinea le tonalità politiche del racconto. È simbolica la scena in cui il padre-ferroviere avanza di notte sui binari con una torcia che illumina il buio. I suoi ideali di giustizia sociale non valgono più per il figlio esagitato. Un film che fa pensare chi si rivede nei panni di quel genitore: il confine tra pressione e lassismo è sottile. Nota a margine: prima o poi qualcuno narrerà di un padre cattolico con un ragazzo che si perde nei centri sociali dell’estrema sinistra?
Nelle sale dal 10 aprile, La casa degli sguardi, diretto e interpretato da Luca Zingaretti, racconta la vicenda di Marco, un giovane che si esprime felicemente in poesia, ma è così sensibile al dolore che lo circonda da anestetizzarsi ricorrendo all’alcol. Segnato anche dalla morte della madre e dalla fine di un importante rapporto affettivo, la rovina incombe. Non c’è altro appiglio che il lavoro in una cooperativa di pulizie all’ospedale Bambin Gesù di Roma, a contatto con la sofferenza dei bambini malati di tumore. «Sei sicuro che sia il posto giusto per me?», chiede al padre, tranviere, anche lui privo di certezze. Ci penseranno i colleghi di lavoro, con la loro umanità, un misto di cinismo e tenerezza, ad aiutarlo a contenere la deriva. Ancor più, risulteranno determinanti la pazienza e l’amore del papà che, pur senza fare l’amico né fornire risposte preconfezionate, sceglie semplicemente di esserci.
Per fare di questo rapporto il cuore narrativo del suo debutto da regista, Zingaretti ha scelto di espungere le figure della madre e delle suore che assistono i bambini, invece centrali nell’omonimo romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli al quale si è «liberamente» ispirato.
Al centro dei quattro episodi di Adolescence, la serie creata per Netflix da Jack Thorne e Stephen Graham, c’è invece l’universo virtuale degli adolescenti di oggi, territorio vergine per i loro genitori. I quali, nella modesta casa di un sobborgo britannico, precipitano in un incubo quando la squadra di polizia vi irrompe all’alba per arrestare il figlio tredicenne. La sera prima è stata uccisa con sette coltellate una sua compagna di scuola e tutti gli indizi conducono a quel timido adolescente che vive barricato nella sua cameretta. È lì dentro, protagonista di una vita virtuale, che ha accumulato la rabbia per l’esclusione e il rifiuto da parte delle coetanee che lo bullizzano fino a scatenarne la vendetta, tutt’altro che virtuale. «Ma lui era in camera sua, vero? Pensavamo che fosse al sicuro… Che male poteva fare lì dentro?», s’interroga il padre, interpretato dallo stesso Graham, annientato dall’incredulità e dal dolore.
È un racconto angosciante, che pone più domande che risposte. Ma fotografa alla perfezione l’impreparazione e l’impotenza degli adulti davanti alla pervasività manipolatoria dei social media e alla spietatezza di certe community, basate su selezioni, reputazione e soprusi. Una tossicità e una spietatezza che ritroviamo spesso nelle notizie dei telegiornali.

 

La Verità, 27 marzo 2025

Il viaggio di Adolescence nell’inferno dei ragazzi

Ci si prepara ad andare al lavoro e a scuola quando, mitra spianato, la polizia fa irruzione nella casa dei Miller. Siamo in una tranquilla cittadina britannica, ma quel ragazzino dev’essere arrestato. La madre urla, ancora in vestaglia. Il padre non capisce cosa sta accadendo, la sorella si rannicchia in bagno. Jamie Miller è accusato di aver ucciso Katie, una compagna di scuola, la sera prima nel parco con sette coltellate. Mentre i poliziotti gli leggono i suoi diritti, si fa la pipì addosso. Sembra un ragazzo qualsiasi di una famiglia qualsiasi. È mai possibile che un adolescente di 13 anni sia colpevole di un crimine tanto efferato? Siamo di fronte a uno scambio di persona? A un tragico errore giudiziario? Il dispiegamento di forze è esagerato. L’adolescente viene portato alla centrale di polizia: fotografato, spogliato, perquisito, rinchiuso in cella. Padre e madre sono attoniti. Sono i primi dieci minuti di Adolescence, la miniserie che, da pochi giorni visibile su Netflix, ha scalzato Il Gattopardo dal primo posto delle più viste. Da quel momento, la storia afferra il telespettatore e non lo molla più per i quattro episodi che la compongono, in un crescendo claustrofobico angosciante.
Creata da Stephen Graham (magistrale anche nel ruolo del padre) e Jack Thorne, e diretta da Philip Barantini, è un thriller psicologico girato in piano sequenza, con un’unica macchina da presa che ci porta dentro l’orrore di mondi apparentemente normali, invece totalmente estranei agli adulti. A cominciare dalla tranquilla ma inesplorata cameretta del ragazzino: «Che male può fare chiuso lì dentro?», si giustifica il padre di Jamie quando lo assale il senso di colpa per averlo trascurato. Inesplorato è anche lo strapotere dei social che, con la loro spietatezza, alimentano frustrazione, odio e rabbia: «L’80% delle donne va con il 20% degli uomini. Gli altri sfigati non li guardano neanche», svela Jamie (lo straordinario esordiente Owen Cooper) per spiegare il bullismo di cui lui e i suoi amici sono vittime e l’istinto di rivalsa che prende il mondo degli «incel», i celibi involontari, rifiutati sessualmente dalle donne.
Sebbene, in un certo senso, salvi la famiglia, Adolescence non dà risposte comode. Ma apre domande drammatiche che mettono di fronte a responsabilità radicali perché fotografa l’inferno quotidiano, riscontrabile in tante notizie di cronaca (basta ricordare Qui non è Hollywood sul delitto di Avetrana). Un inferno fatto di adolescenti in balia del vuoto. E di adulti – professori, psicologi e genitori – ignari e impotenti.

 

La Verità, 20 marzo 2025

Acab, il manifesto tv per le rivolte contro gli agenti

Una tribù violenta. Un clan con leggi non scritte, ma ferree: noi contro loro. Un pugno di uomini con uno spirito di corpo perverso, perché separato dal resto delle forze dell’ordine. Più duro, estremo, ossessivo. È il terzo dipartimento della Squadra antisommossa della Polizia di Roma. La celere, insomma, protagonista di Acab (sta per All cops are bastards), la serie in sei episodi da ieri disponibili su Netflix. È il branco della polizia disposto a tutto contro No Tav, pischelli figli di papà, tifosi scalmanati, ambientalisti isterici, immigrati dei Cpr. Sempre in prima linea, solo che per loro essere in prima linea significa essere «in guerra»: Roma «nun arretra», urla Mazinga, il leader carismatico della squadra, interpretato da Marco Giallini.
Dopo il film del 2012 diretto da Stefano Sollima, la serie prodotta da Cattleya con la regia di Michele Alhaique, è il secondo derivato dell’omonimo libro scritto nel 2009 da Carlo Bonini, attuale coordinatore dei Longform di Repubblica (che spunta come fonte in un cruciale interrogatorio) e qui autore della sceneggiatura con Filippo Gravino, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini.
Raramente una serie tv è approdata al piccolo schermo con altrettanta tempestività. Mentre l’attualità ci racconta di carabinieri e agenti di polizia sotto inchiesta per aver svolto il proprio dovere nel tentativo di dissuadere immigrati fuori controllo dall’accoltellare qualche malcapitato passante, e mentre le cronache delle manifestazioni volte a trasformare Ramy Elgaml nel George Floyd italiano ci parlano di otto agenti feriti, uno show televisivo atteso e già osannato da gran parte dei media ci descrive un reparto di polizia sotto inchiesta della magistratura per un’azione compiuta oltre il legittimo confine dell’uso della forza. Se mancava un manifesto creativo della rivolta contro gli agenti assassini, da cui i leader della sinistra non prendono le distanze, c’è da temere che sia stato trovato.
Durante un sit-in dei No Tav in Val di Susa, colpito da una bomba carta degli antagonisti rimane a terra il capo della Squadra mobile di Roma. La rappresaglia scatena Mazinga e i suoi uomini all’inseguimento nel bosco e in riva al fiume dei militanti dei centri sociali. Il giorno dopo si scopre che uno di loro è in coma in terapia intensiva. Il nuovo capo, il più democratico Nobili, esponente della «nuova polizia» (Adriano Giannini), arrivato in sostituzione dell’ispettore rimasto in sedia a rotelle, è accolto dal reparto come un corpo estraneo. I dissapori sulla gestione delle successive missioni non favoriscono certo l’armonia. Da Torino, invece, arriva il sostituto procuratore per capire chi ha ridotto in fin di vita il manifestante. Ma l’ordine di Mazinga è negare tutto e negare sempre: non siamo mai andati al fiume dov’è stato rinvenuto il ragazzo. La body cam che avrebbe potuto filmare l’azione degli agenti è sfortunatamente stata bruciata da una molotov. Così, le domande del procuratore tornano al mittente senza risultato. Ma mentre la madre del ragazzo in coma continua a invocare giustizia, un po’ come nelle cronache di questi giorni, dove sindaci ed ex capi della polizia delegittimano l’operato delle forze dell’ordine, anche qui nessuna autorità spende parole di comprensione per l’ispettore colpito negli scontri: le istituzioni sono preoccupate di proteggere solo le vittime di agenti e carabinieri. Intanto, i drammi privati espongono Marta (Valentina Bellè), l’unica donna del reparto, separata dal marito violento, e Salvatore (Pierluigi Gigante), un agente reduce dall’Afghanistan, alle fragilità della solitudine.
Non ci sono affetti, non esiste nulla di buono oltre la divisa e lo scudo di plexiglass. Con le case vuote, persino la sera di Natale si trascorre malinconicamente insieme («Guardali, da soli sono nessuno, solo in gruppo si rianimano», dice l’ex ispettore a Mazinga). Il branco della polizia è un microcosmo composto da uomini borderline, frustrati, testosteronici e razzisti, che vivono in un mondo a parte. Mostrato sempre di notte e fatto di case buie, di blindati, mense e uffici attraversati da luci livide e commentati dall’ipnotica e persistente musica dei Mokadelic. Un mondo nel quale il male e il bene si mescolano e confondono. Come si confondono e si contagiano il cattivo e il buono della storia: «Sono diventato come voi», dice Nobili a Mazinga dopo avergli confidato di aver quasi ucciso un uomo. Alla fine, l’unica cosa che conta è la legge del clan, luogo della consolazione e della rivalsa dei disperati. Un clan che sembra somigliare a quello di camorra raccontato in Gomorra – La serie. In fondo, formule, linguaggio ed estetica di Gomorra e Acab sono simili perché sembrano ritrarre due mondi uguali e speculari. Sollima, qui produttore esecutivo, era il regista delle prime stagioni della serie tratta dal libro di Roberto Saviano, e Cattleya è la casa di produzione di entrambe.

 

La Verità, 16 gennaio 2024

Chissà perché non si fa Tutto chiede salvezza 3

Incuriosisce parecchio quale possa essere la motivazione della rinuncia a produrre la terza stagione di Tutto chiede salvezza, la serie di Netflix la cui prima edizione, era stata tratta nel 2022 dall’omonimo romanzo autobiografico (Premio Strega Giovani 2020) di Daniele Mencarelli. La notizia è arrivata da Francesco Bruni con un post sul suo profilo Instagram: «Rispondo alle vostre innumerevoli domande per dirvi che purtroppo non ci sarà una terza stagione di #tuttochiedesalvezza. Noi scivoliamo con discrezione dietro il sipario come Matilde, ringraziando voi, che ci avete accompagnato e sostenuto con continuo, incredibile affetto», scrive il regista e sceneggiatore, esprimendo gratitudine anche al produttore Picomedia e a Netflix Italia che ha diffuso le due stagioni. Insomma, un fulmine a cielo terso che ha colto di sorpresa tutti, non ultimo lo stesso Mencarelli. Dopo il successo di pubblico e di critica della prima stagione che narrava il ricovero nel reparto di psichiatria di un ospedale romano di Daniele (Federico Cesari), e l’intenso rapporto che s’instaurava tra lui, gli altri pazienti e il personale sanitario, anche la seconda stagione – realizzata con lo stesso cast tecnico e con l’innesto in quello artistico di Drusilla Foer (Matilde) e Valentina Romani (Angelica) – ha avuto ottimi riscontri, debuttando al secondo posto e permanendo a lungo nella top dieci della piattaforma. Anche questi nuovi episodi contenevano momenti poetici e di vera commozione. E, a far intendere che ci sarebbe stato un seguito, il finale lasciava aperti diversi interrogativi sul futuro dei protagonisti. Daniele sarebbe tornato con la compagna (Fotinì Peluso) o avrebbe proseguito la storia con Angelica? Matilde avrebbe trovato serenità o sarebbe stata risucchiata dalla disperazione. E Alessandro (Alessandro Pacioni) avrebbe finalmente ripreso a camminare? «Noi sceneggiatori lo sappiamo, e chissà che un domani non troveremo il modo di raccontarlo, speriamo non al bar», conclude Bruni, lasciando aperta la possibilità che qualche altro editore si faccia avanti.

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Dopo gli esigui ascolti anche di giovedì scorso (1,2% e 206.000 telespettatori), stasera andrà in onda l’ultima puntata dell’Altra Italia di Antonino Monteleone. È l’ennesima vittima del giovedì sera di Rai 2, una specie di Triangolo delle Bermude della tv, dove negli anni si sono inabissati Popolo sovrano di Alessandro Sortino, Seconda linea con Francesca Fagnani e Alessandro Giuli e Che c’è di nuovo con Ilaria D’Amico. Monteleone tornerà in primavera con un nuovo programma in seconda serata.

 

La Verità, 31 ottobre 2024

Una zattera di marginali in cerca di un’àncora

È la serie più commovente e tra le meglio recitate del momento, la seconda stagione di Tutto chiede salvezza visibile su Netflix, prodotta da Picomedia, diretta da Francesco Bruni, sceneggiata da Daniele Mencarelli, autore del romanzo autobiografico (Premio Strega Giovani del 2020) cui è liberamente ispirata (soprattutto la prima stagione). Dopo le dimissioni dal reparto dell’ospedale psichiatrico dov’era stato ricoverato in Tso per aver picchiato il padre, ritroviamo Daniele (Federico Cesari) alle prese con la causa con Nina (Fotinì Peluso) per l’affidamento di Maria, la figlia di pochi mesi. Per di più, dopo gli studi da infermiere, torna per un tirocinio di cinque settimane nel reparto dov’era stato paziente. Vi ritrova il burbero ma buono Pino (Ricky Memphis) ora suo tutor, il dottor Mancino (Filippo Nigro) e la responsabile dell’ospedale (Raffaella Lebboroni), mentre dei vecchi degenti, Giorgio (Lorenzo Renzi) è il giardiniere della clinica, Alessandro (Alessandro Pacioni) sopravvive nel suo stato catatonico e ricompare anche Madonnina (Vincenzo Nemolato). La nuova situazione fa emergere le fragilità perduranti in Daniele, non facilitato nella vita privata dalla preoccupazione dei genitori presso i quali continua a vivere e dal boicottaggio della madre di Nina (Carolina Crescentini)… Tra i nuovi pazienti lo destabilizzano soprattutto il giovane Rachid (Samuel Di Napoli), algerino e promessa incompiuta del calcio, che pretende favori e privilegi a colpi di ricatti, e Matilde (Drusilla Foer), spietata nichilista, frustrata dalla sua controversa condizione e dalla morte di un amante che Daniele le ricorda per la sensibilità e il candore con cui condivide il dolore degli altri. Nel guazzabuglio psico-sentimental-esistenziale di una maturazione incerta c’è spazio per la poesia, passione non segreta di Daniele, e l’incontro con Angelica (Valentina Romani), la figlia di Mario (Andrea Pennacchi), precipitato dalla finestra nella prima stagione. Tutto compone un dramedy che a volte strappa il sorriso e, più spesso, muove alla commozione narrando il vagare di una zattera di marginali alla ricerca di un’àncora salvifica.

Post scriptum Era inevitabile che, dopo l’imbarazzante 0,99% di share (169.000 spettatori) si cambiasse la programmazione (non ancora ridefinita) di L’altra Italia di Antonino Monteleone, per le prime tre puntate trasmesso senza successo il giovedì sera su Rai 2. Più che l’improbo confronto storico con Michele Santoro, qualunque approfondimento piazzato in quel presidiatissimo orario sconta il fatto di arrivare per terzo, dopo due talk show già ben consolidati.

 

La Verità, 20 ottobre 2024

I talenti di «Ripley», la serie capolavoro di Zaillian

Una meraviglia. Un gioiello. Non bisogna temere di sfiorare l’enfasi nel raccontare Ripley, la miniserie in otto episodi scritta e diretta da Steven Zaillian (Oscar per la sceneggiatura di Schindler’s List) prodotta da Hbo e visibile su Netflix. Raffinatezza, eleganza, perfezione formale regalano nuova curiosità allo spettatore pur di fronte alla storia già nota che ha per protagonista l’inquietante manipolatore ideato da Patricia Highsmith ne Il talento di Mr. Ripley, il più celebre dei suoi romanzi, già più volte portato al cinema. Sono diverse le originalità di questa trasposizione. La prima, evidentemente, l’abbacinante bianco e nero: una scelta di autorevolezza. È il colore del neorealismo, delle investigazioni, delle pagine dei quotidiani sfogliati con apprensione da Ripley per capire se le sue imposture stanno per essere scoperte. È il colore del cinema di Alfred Hitchcock e Federico Fellini, riferimenti riconoscibili dell’autore. Il bianco e nero passa la spugna sul pittoresco dell’Italia dei primi anni Sessanta – le spiagge di Atrani sulla costiera amalfitana, i caffè di Napoli, Sanremo, i palazzi nobili di Roma e Venezia – dov’è ambientata la storia. La seconda scelta è l’essenzialità del racconto fatto per immagini più che per parole. In questo thriller psicologico ogni scena cela un’allusione, un retropensiero così ben inciso da rendere eloquenti pause e silenzi. Su tutto spiccano le interpretazioni del protagonista (Andrew Scott) e del superbo cast (Dakota Fanning, Johnny Flynn, Margherita Buy, Eliot Sumner e John Malkovich, degni di nota i confronti tra l’ispettore di Maurizio Lombardi e il truffatore) che, procedendo per sottrazione, evidenziano il tratto enigmatico di Ripley, ossessionato da Caravaggio, e capace di volgere a suo vantaggio le situazioni più compromesse. Infine, la fotografia di Roger Elswit (Oscar per Il petroliere) che ritrae in una luce algida stazioni ferroviarie, hotel de luxe, uffici postali e di polizia, androni di banche, chiese, vicoli, scalinate, calli e canali.
Incaricato dal facoltoso padre di ritrovare Dickie Greenleaf, il figlio aspirante pittore che non vuol tornare a New York per occuparsi dell’azienda di famiglia, l’anonimo ex compagno di studi accetta di trasferirsi spesato di tutto punto in Italia per portare a termine la missione. Ma una volta ritrovato l’amico, ora fidanzato con una scrittrice, intuisce la possibilità di svoltare un’esistenza meschina e mette in atto il suo piano, trascinando tutti in un vortice di frodi, menzogne e falsificazioni. È il talento di Mr. Ripley.

 

La Verità, 8 maggio 2024

Il pioniere Berlusconi, uomo del fare prepolitico

Il pioniere Silvio Berlusconi. L’innovatore. Il rivoluzionario che ha cambiato i mondi nei quali ha agito. Il 4 ottobre 1990 si festeggia il decennale di Canale 5. Berlusconi è giovane, ha i capelli e il sorriso flash. Lo smoking è impeccabile. L’occasione è importante e l’intervista a tutto campo di Mike Bongiorno viene trasmessa nella rete ammiraglia. Tu ti occupi di tante cose, gli dice Mike snocciolando l’elenco dalla tv al calcio, dall’edilizia all’editoria. «Non hai mai fatto un pensierino alla politica?». «Io sono un uomo del fare, quindi lasciami fare il mestiere che so fare bene che è quello dell’imprenditore». È l’inizio di Il giovane Berlusconi, la docuserie in tre episodi visibile da ieri su Netflix. Prodotta da B&B Film, in coproduzione con Gebrueder Beetz e la franco tedesca Zdf Arte, scritta da Matteo Billi e Piergiorgio Curzi con la regia di Simone Manetti, è uno dei documenti più completi per capire chi sia stato davvero il fondatore della Fininvest, il grande editore, l’inventore di Milano 2, il patròn più vincente del calcio italiano, il creatore di un partito che in pochi mesi ha vinto le elezioni politiche di un Paese allo sbando.
Il pioniere, recita la Treccani, «è il primo o fra i primi a lanciarsi in una iniziativa o a diffondere un’idea, aprendo nuove possibilità di sviluppo». Ritraendolo così, la docuserie scava e racconta senza pregiudizi, grazie all’intelligenza, la ricchezza e la pertinenza delle tante testimonianze raccolte. «Lui è stato più bravo, più charmant», sintetizza Fedele Confalonieri.
L’epopea berlusconiana comincia da Milano 2, il quartiere che abolisce i semafori e cambia il modo di abitare. Berlusconi è ossessionato dalla perfezione. Ogni venerdì va a controllare i cantieri. «Una volta l’ho visto sradicare un lavandino con le sue mani e buttarlo per terra», racconta Marcello Dell’Utri: «Questo non va qui, va lì». Per far acquistare due palazzi di Milano 2 all’inavvicinabile dirigente di un ente romano sommerge di rose rosse la segretaria, che lo avvertirà del viaggio del dirigente al Nord e gli prenoterà sul treno il posto di fronte a quello del suo capo. Nella cittadina satellite si installa la tv via cavo e quando l’etere viene liberalizzata, l’immobiliarista Berlusconi «vede» un’emittente locale, TeleMilano 58, con ambizioni nazionali. Sintetizza Vittorio Dotti: «La televisione è tutto ciò che c’è intorno alla pubblicità». Ad Adriano Galliani, invitato a cena ad Arcore, chiede a bruciapelo: «Ma lei, con la sua azienda (Elettronica industriale ndr), sarebbe in grado di costruire tre televisioni nazionali?». L’idea rivoluzionaria è il pizzone, cassette da 24 ore pre-registrate con programmi e pubblicità spedite nelle tv locali collegate. Nasce Publitalia 80. Qualche anno dopo, a Carlo Freccero, allora direttore di Canale 5, dice: «Devi fare un palinsesto che imprigioni il pubblico alla televisione». La Rai propone telefilm singoli, Dallas fidelizza. «La cosa interessante», prosegue Freccero, «è che J. R. era la controfigura di Berlusconi». La controprogrammazione sono i Puffi opposti al telegiornale. La Fininvest acquisisce Italia 1 da Rusconi, ma l’osso duro è Rete 4 di Mondadori. Nel weekend che precede l’accordo che abolisce gli sconti, li usa per rastrellare più investitori possibile. Quando Luca Formenton rientra dal fine settimana si arrende.
«Berlusconi vuol essere americano», spiega Freccero. «La differenza dall’Europa è nel verbo ausiliare. In America è to do, in Europa è essere: Berlusconi è l’uomo del fare, vincente». Tuttavia, un privato con tre televisioni spaventa. Il pretore di Pescara decide di oscurarle perché non possono trasmettere in diretta. «Noi non trasmettiamo in diretta, ma in contemporanea», precisa Bongiorno. Pino Corrias: «Berlusconi forza le leggi». Inizia la rivolta dei Puffi. Bettino Craxi fa riaccendere le tv. E prepara la strada per sbarcare a La Cinq convincendo Francois Mitterand («Fu l’unico scontro che ebbi con lui», rivela Jack Lang, ex ministro della Cultura). Berlusconi la inaugura nel febbraio 1986 con Charles Aznavour, Michele Platini e Serge Gainsbourg, qualche giorno dopo aver firmato l’acquisto del Milan. Anche nel calcio punta al traguardo più alto. Il «Berlusconi sei una bella figa» che gli urla un fan in quel periodo  di successi «è la sublimazione della sua vanità» (Gigi Moncalvo). Non tutto però va bene. La Standa che avrebbe dovuto diventare «la casa degli italiani» fallisce. Scoppia Tangentopoli. Due istituti bancari che avevano sostenuto l’espansione del gruppo chiedono il rientro dei crediti. Incalzano le inchieste giudiziarie. Confalonieri è indagato, Dell’Utri a rischio arresto. Si arriva alla sera delle monetine all’Hotel Raphael contro Craxi. Nel crollo generale dei partiti solo il Pci rimane in piedi. Avrebbe sicuramente vinto le elezioni del 1994. Senza il suo referente politico, Berlusconi capisce che ha solo una strada davanti. Creare un partito. Confalonieri azzarda: «Dell’Utri sta a Berlusconi come San Paolo sta a Gesù Cristo. È uno splendido esecutore». Per creare Forza Italia ricicla da Publitalia la struttura, da Canale 5 lo stile, dal calcio l’appartenenza. Poche settimane prima del voto Giovanni Minoli lo intervista per Mixer: «Le piacerebbe fare il presidente del Consiglio?». E Berlusconi corregge la risposta di quattro anni prima a Mike Bongiorno: «Quando ho sentito che una cosa dev’essere fatta non mi sono mai tirato indietro». Al duello in tv con Enrico Mentana, «Berlusconi era luminescente, con la spilla che emanava bagliori. Occhetto era opaco, con il vestito color nocciola» (Corrias). «Noi facevamo ancora la politica dei comizi, invece era già cominciata la politica della percezione», ammette Achille Occhetto.
«Il tema è questo», premette Minoli. «Tu puoi fare il presidente del Consiglio essendo proprietario di tre televisioni private?». Si chiude con il giuramento da presidente del Consiglio. Anche per raccontare il successivo trentennio politico, con le debolezze e le difficoltà note, servirebbero occhi di testimoni e linguaggio da documentario senza pregiudizi.

 

La Verità, 12 aprile 2024