Il diario un filo troppo apocalittico di Verdelli

Detta in modo brutale, la questione sollevata dal libro di Carlo Verdelli Roma non perdona – Come la politica si è ripresa la Rai (Feltrinelli) è la seguente: il cambiamento della Rai può essere realizzato solo da dirigenti e manager esterni o potrebbero farcela anche capi allevati nella pancia del pachiderma? Lo scaravoltamento, come lo chiamava entusiasticamente la presidente Monica Maggioni, può essere opera solo di alieni, qualcuno catapultato da fuori, o possono riuscire nell’impresa anche coloro che ci sono nati dentro e conoscono corridoi e sottoscala come le loro tasche? Scremata dal risentimento, da una certa dose d’incazzatura che pervade il racconto di Verdelli, ridotta al nocciolo, la questione è, in fondo, questa. Messa così, d’istinto, vien da dire che probabilmente è più libero, svincolato da legami pregressi e debiti di riconoscenza chi viene da lontano. Gli «interni» difettano inevitabilmente della distanza indispensabile per possedere una visione disincantata e operare senza cedimenti e partigianerie. È un fatto oggettivo, strutturale, verrebbe da dire. Chi viene da dentro è troppo dentro: per ragioni fisiologiche e filosofiche.

Carlo Verdelli è stato direttore editoriale per l’Offerta informativa della Rai dal 26 novembre 2015 al 3 gennaio 2017, quando si è dimesso dopo la bocciatura, senza voto, del Consiglio d’amministrazione del suo Piano di riforma dell’informazione realizzato in cinque mesi (quello di Luigi Gubitosi, altrettanto abortito, aveva richiesto due anni). Niente Tg2 a Milano, creazione delle macro aree al posto dei tg regionali, TgSud, fusione di RaiNews24 e TgR, redattore multisuo e mobile journalism. Niente di niente. Solo promesse e dimissioni. Come Verdelli, con motivazioni diverse e diverse modalità, uno dopo l’altro si sono dimessi quasi tutti i dirigenti di quella stagione: Antonio Campo Dall’Orto, sei mesi dopo, Daria Bignardi che era direttrice di Rai 3, Ilaria Dallatana di Rai 2, per ultimo Gabriele Romagnoli, capo di Rai Sport.

A Roma li chiamavano «i milanesi», anche se Campo Dall’Orto è veneto e Romagnoli bolognese. Il corpaccione li ha rigettati, come tanti pezzettini sputati da Polifemo, racconta l’autore. Verdelli è finora l’unico che si è espresso pubblicamente su quell’esperienza, probabilmente perché il suo divorzio è stato il più brutale ed è arrivato dopo una nomina a sorpresa che aveva suscitato non poche aspettative. Io stesso ne nutrivo alcune. Va detto che, aldilà della sua vicenda personale, la stagione di Campo Dall’Orto era parsa inaugurare effettivamente un nuovo corso. La media company, l’ingresso nell’era digitale, la razionalizzazione delle testate giornalistiche, il gioco di squadra, un diverso dinamismo nell’intrattenimento e nella fiction. In sintesi, il trasloco del servizio pubblico televisivo dal Novecento al Terzo millennio.

Tuttavia, personalmente, avendo seguito numerosi tentativi poi abortiti, sono molto scettico sulla possibilità di rinnovarsi della Rai. Ci sarà un motivo se, come scrive Verdelli, nella morìa delle tante madri italiche, la lira, la Fiat, la naia, la Dc, Mamma Rai, insieme a mamma Roma, è l’unica sopravvissuta.

A farla breve, sempre in quel modo brutale, il motivo è che la politica non taglia il ramo su cui sta seduta. «La Rai è la torta nuziale di chi vince le elezioni». È un bottino, la prateria nella quale i partiti piazzano amici, parenti, amanti, politici trombati. Sebbene, puntualmente, contestualmente al suo insediamento, ogni nuovo governo dispieghi come un manifesto la volontà di tenere la politica fuori dalla Rai.

Anche la mission consegnata da Matteo Renzi al nuovo amministratore delegato suonava allo stesso modo. Vai, cambia la Rai e fregatene dei partiti. Poco alla volta però le cose sono cambiate. E la marcatura dei suoi uomini si è fatta soffocante. Prima sono scesi in campo gli «organismi dissuasori», l’Usigrai, la Commissione di Vigilanza, il Cda. Dopo breve monitoraggio degli innovatori, è toccato ai ventriloqui del capo. È «“la peggiore gestione nella storia della Rai” (copyright di Maurizio Gasparri, pasdaran della destra che fu berlusconiana?», si chiede Verdelli. «Macché, di Michele Anzaldi, diversamente allegro deputato Pd e portavoce dell’ultimo Renzi)». «Questi non hanno capito chi ha vinto», ribadì sempre Anzaldi per coloro che non avevano afferrato il concetto. I tre consiglieri di minoranza, Giancarlo Mazzuca, Carlo Freccero e Arturo Diaconale «hanno fatto meno danni alla Rai di Campo Dall’Orto di quelli inviati per sostenerla», annota l’attuale direttore di Repubblica. Insomma, il delitto del fuoco amico è il dato più evidente di quella stagione.

Risulta perciò piuttosto pretestuosa la scelta di Verdelli di apporre come post-scriptum di ogni capitolo dei flash «dal paese dei balocchi», mostrando incongruenze e volgarità dei nuovi politici e del governo gialloverde, smanioso di occupare l’azienda radiotelevisiva. Milena Gabanelli, Massimo Giannini, Massimo Giletti e Nicola Porro sono stati accompagnati alla porta in epoca renziana. Mentre il simpatico Fabio Fazio è ancora al suo posto a quasi un anno dalle nomine di Fabrizio Salini e Marcello Foa. Quel post scriptum è un attacco a un post nemico che arriva dopo il the end sulla stagione di Campo Dall’Orto e Verdelli. In mezzo c’è stato anche il film di Mario Orfeo, con Monica Maggioni sempre presidente. Il che dà a tutto il diario – privo di ammissioni di colpe, tipo una certa sindrome da bunker della struttura creata ad hoc – un tono da dopo di noi il diluvio. Quella stagione è stata, sì, un’occasione persa per la Rai, l’ennesima, triste dimostrazione della sua irriformabilità. Ma non sarà un filo troppo apocalittico far intendere che, con il successivo arrivo dei barbari, sia stata anche l’ultima spiaggia della politica, del Paese e dell’Italia tutta?

 

Anche a Tempo di libri può sfuggire l’attimo

Son due giorni che mi arrovello. Cosa vuol dire mancare l’attimo… Per lentezza di riflessi, braccino corto, titubanze varie. Ben mi sta. È successo a Tempo di libri, FieraMilanoCity, domenica mattina. Càpito davanti allo stand di Henry Beyle, minuscola editrice artigianale milanese nata nel 2009, intitolata al vero nome di Stendhal e m’incanto a leggere i titoli di quei libriccini (Prontuario d’italiese, di Ennio Flaiano; Storia di una libreria, di Umberto Saba; Sul tennis, di Mario Soldati; L’antiquario, di Dino Buzzati; Troppi fiori! di Jules Verne), l’elenco sarebbe sterminato. Ho già acquistato un paio di titoli, regalato un terzo a un’amica e ora l’occhio cade su Lettori, sulla cui copertina riconosco l’immagine di una seducente donna in lettura, già vista sul profilo Twitter di Eva Cruciani, professoressa d’inglese a Pavia, anima sensibile e profonda, che ci ha lasciato troppo presto qualche settimana fa.

La copertina di «Lettori» con la foto di Scianna

«Lettori» con la foto di Scianna

«Non sopporto conversazioni prive di significato, che durino più di tre frasi e che non contengano almeno un sorriso» è l’ultimo tweet del suo account (quasi 15.000 followers), fitto di aforismi e di splendide fotografie. Quella è un’immagine di Ferdinando Scianna, grande fotografo di Bagheria. Il libro di Henry Beyle ne contiene 28. Come tutte le pubblicazioni dell’etichetta milanese è in edizione limitata, ancor più preziosa perché realizzata per festeggiare i 100 libri pubblicati. Sono piccoli gioielli per feticisti, stampati «su carta Zerkall-Bütten carattere Garamond Monotype corpo 12», come specifica il colophon in una delle ultime pagine, da staccare una dall’altra con il tagliacarte, con uno di quei gesti che mi riportano all’epoca delle elementari. La ragazza dello stand spiega che la pubblicazione di Scianna, non casualmente appena passato di lì, è praticamente esaurita e quindi il prezzo è ancora più elevato.

Non l’ho acquistata. Ho perso l’attimo. Mi arrovello. Non finisce qui.

Il (primo) regalo postumo di Nino Sgarbi

Poteva succedere solo nella famiglia Cavallini Sgarbi la rivelazione a 93 anni del miglior talento letterario della casa. Ma le vie della grazia sono infinite. Perciò, dobbiamo essere grati a quella dinastia di farmacisti, in realtà artisti, critici ed editori, per l’imminente pubblicazione (l’8 febbraio) di Il canale dei cuori di Giuseppe «Nino» Sgarbi, morto novantasettenne pochi giorni fa. Roberta Mazzoni e Susanna Tamaro, che mi segnalarono il precedente Lei mi parla ancora, sostengono che questi libri andrebbero letti nelle scuole «per far capire ai ragazzi chi sono le persone sagge». Hanno ragione. Dovrebbero esser letti e studiati anche per la qualità letteraria, oltre che per la loro singolare gestazione. Quando, cedendo alle insistenze della figlia Elisabetta, papà Nino decise di provarci, essendo debole di vista, si rese necessario l’aiuto di qualcuno che mettesse sulla pagina scritta i ricordi. Dobbiamo dunque esser grati anche a Giuseppe Cesaro che ha saputo trasferire quelle narrazioni nei preziosi memoir pubblicati da Skira. Dopo Lungo l’argine del tempo, Non chiedere cosa sarà il futuro e Lei mi parla ancora nel quale si rivolgeva alla moglie Rina, in Il canale dei cuori, Nino Sgarbi dialoga con il fratello di lei, Bruno Cavallini, compagno di pesca sul Po e il Livenza, professore di liceo, maestro di lettere e arti di Vittorio, soprattutto amico con cui ha condiviso l’amore per la poesia e il sentimento del vivere. «C’è una strada certa per la solitudine, Bruno: essere intelligenti, intellettualmente onesti e liberi. E tu eri tutte e tre le cose insieme… A un certo punto la solitudine ti aveva teso la mano e tu l’avevi presa: sapevi che avreste camminato l’uno di fianco all’altra per tutta la vita. E così ho capito di non esserti mai stato davvero vicino. Non nel modo del quale avresti avuto bisogno tu, comunque. Ed è questo il mio cruccio. Insieme al fatto di sapere che ormai non ho più modo di rimediare. Forse per questo ho deciso di dedicarti queste pagine, anche se mi rendo conto che arrivano tardi e sono più utili a me che a te. Perdonami».

La copertina di «Il canale dei cuori», in uscita l'8 febbraio da Skira

«Il canale dei cuori»usicrà l’8 febbraio da Skira

La memoria di Sgarbi riporta in vita un mondo terso e rarefatto con tocco mite, capace di rendere attuali sentimenti rimossi. Così la scrittura diventa balsamo e consolazione che lenisce la mancanza di persone care, conforto che aiuta a rimettere ordine negli affetti e nelle vicende di un secolo: il padre cacciatore e gran seduttore, il mulino di Stienta, la Seconda guerra mondiale, la campagna di Grecia, l’alluvione del 1951, la morte del migliore amico, l’incontro all’università di Ferrara con «la spaccatutto», futura moglie, il matrimonio in intimità, i figli Vittorio ed Elisabetta, la farmacia nella casa di Ro, ritrovo di artisti e scrittori che per lunghi anni Nino ha ascoltato, avendo sempre preferito il silenzio alla parola, per lasciare alla Rina e Vittorio i ruoli da protagonisti.

Finché… «Se ho aspettato così tanto a pubblicare è solo perché credo che la condizione ideale per raccontare sia stare fermi. E non solo perché, da fermo, si vedono molte più cose di quante non se ne riescano a vedere quando ci si muove. E si vedono molto meglio, tra l’altro. Ma anche perché mi sono accorto che, appena ti fermi, succede un fenomeno strano: all’improvviso ti rendi conto che, al contrario di quello che hai sempre creduto, la realtà non ti corre dietro, non ti insegue, non ti viene a cercare. Era tutta un’illusione ottica. Lei non si muove, non si muove affatto: siamo noi a farlo. Ed è il nostro muoverci a muovere lei. È come quando, da bambino guardavo partire la littorina del binario accanto, e avevo l’impressione che fosse lei a muoversi. Con la realtà è la stessa cosa: se corriamo, corre, se rallentiamo, rallenta, se ci fermiamo, si ferma. E quando si ferma, finalmente s’invertono i ruoli: da prede diventiamo cacciatori». E siccome, alla scuola del padre, anche Nino è stato cacciatore, le sue nuove prede – da cercare, rincorrere, acciuffare e immortalare per condividerle – sono diventate le parole, incise in una prosa tenue come certi acquerelli che restano impressi per le loro tinte insolite e personalissime.

Una breve poesia fa da incipit a ogni capitolo, sciogliendo il gomitolo dei ricordi che scorrono come le acque del Po, testimoni di tanti avvenimenti. Come la morte in un incidente stradale dell’amico Pierino Roveroni che gli fece conoscere la tristezza, «primogenita del dolore», diversa dalla depressione, all’epoca ignota. «Per soffrire il mal di vivere, bisognava aver conosciuto il bene di vivere», che in campagna, prima della guerra, era piuttosto raro. Nino e la tristezza siedono dunque sull’argine di quella fatale curva a gomito, nel silenzio che «odorava d’infelicità» e che favorisce l’insolito dialogo. «Che senso ha?», urla, la morte di un amico? «Per lui nessuno, per te invece…», risponde la tristezza; «assurdo non significa inutile… Sai cosa direbbe il tuo amico se fosse qui?… Sii i miei occhi, Nino. Occhi, mani, voce, gambe: tutto! E vivi la vita che non avrò. Questo direbbe». «Rientrammo a casa in bici», ricorda Sgarbi, «che l’alba cominciava a restituire i colori alla pianura. Io pedalavo, la tristezza sedeva sulla canna, il fiume ci correva accanto. Nessuno fiatava. Né le ruote, né i cipressi, né il canneto… “Pensaci” sussurrò, prima di congedarsi, “credi che il tuo Leopardi avrebbe scritto tutto quello che ha scritto, se non mi avesse conosciuta?”; “Preferivo Pierino”, dissi. “E lui, Silvia, credimi”, replicò. Non dissi più nulla».

È la gratitudine il sentimento dominante nel lettore di questi racconti. Una gratitudine lieta. Tanto più se, come ha anticipato Vittorio durante la cerimonia di congedo, il futuro ci riserverà altri due libri postumi.

La Verità, 2 febbraio 2017

Marghera, Venezia e le periferie esistenziali di Raffaelli

Chissà se per la riqualificazione dell’area di Marghera Renzo Piano assumerebbe Il maestro vetraio, l’intraprendente e fantasioso artigiano che dà il titolo al secondo romanzo di Alberto Raffaelli, appena pubblicato da Itaca (il primo era L’Osteria senza oste, anche quello intrecciato agli eventi della cronaca). Il protagonista è figlio dell’ultimo artista del vetro di Murano che riceve l’incarico di restaurare la chiesetta della Madonna del mare all’imbocco della Laguna, ornandola con un’opera che sia visibile a chi attraversa il Ponte della Libertà, diretto a Venezia. Il mandato passa dalla curia, commissionato dal vice-sindaco che vuole fare di quel restauro il punto di forza della campagna elettorale per eliminare dal biglietto da visita quel prefisso che sa d’incompiuto. Così Benedetto Zaccaria, dotato di spirito tenace oltre che di buona mano alla fornace, si accinge all’opera in dodici quadri, sorta di scomodo Giudizio universale del presente, ispirato da quello della Basilica di Torcello. Mentre attorno al suo lavoro si muove un’umanità ripiegata sui propri giochi, più o meno sporchi, il progetto incontra diffidenze e ostruzionismi. A complicare ulteriormente la situazione c’è anche l’omicidio di una donna, proprio dalle parti della chiesetta, tra i capannoni e una tabaccheria, meta di camionisti che pendolano con l’est europeo. Le indagini sono affidate al vice-ispettore Giovanni Zanca, trasferito a Venezia dopo l’ultima complicata vicenda dell’Osteria senza oste. Sembrano roba da poco rispetto alla vera bomba che di lì a poco esplode tra calli e stampa locale, coinvolgendo il vice-sindaco e la sua segretaria, per una storia di appalti e mazzette che ricorda lo scandalo del Mose. Così, il buon Zanca è costretto alla spola tra Marghera e l’ufficio dell’ambiguo magistrato che lo controlla da distante.

Una scena del Giudizio universale, nella Basilica di Torcello a Venezia

Una scena del Giudizio universale, nella Basilica di Torcello a Venezia

La spina dorsale della storia è, dunque, un giallo con tutti gli ingredienti del genere: ritmo, colpi di scena, intercettazioni telefoniche e doppiezze varie. Ma in realtà, Il maestro vetraio è molto di più. Perché attorno alle inchieste di Zanca e alla vetrata di Benedetto, Raffaelli tratteggia le storie di un’umanità dimessa, prostitute dell’est, il trovatello Nick, ospitato dal prete, il Barba, padrone della tabaccheria, Orges, “che lavora nella burocrazia”. E poi i protagonisti di tanti quadri solo apparentemente estemporanei, come i barboni Martino e Franco, o il padre che mendica il perdono dell’unica figlia e le suona tutte le sere il campanello… Anche le parabole del vice-ispettore, del vice-sindaco e del figlio del vetraio, tutti un gradino sotto qualcuno, sono significative. Pare quasi che Raffaelli voglia parlare di una generazione non definitivamente affermata, fatta di outsider che si devono sbattere e compromettere per togliere le castagne dal fuoco, mentre i numeri uno rimangono coperti, dietro le quinte. Così, Il maestro vetraio si propone come un romanzo del margine. Bergogliano, verrebbe da dire. Un viaggio intriso di domande e conti in sospeso, alla ricerca di un’umanità autentica e da rivalutare, al contrario dei vertici della politica, della Chiesa e della magistratura, avviluppati nell’ambiguità e nell’ipocrisia del potere. La grandezza di Venezia è osservata da Marghera. San Marco, Rialto e i campielli, che l’autore mostra di conoscere come le sue tasche, son visti con gli occhi dei mendicanti, di un geniale handicappato, di una prostituta, di certi malavitosi insoddisfatti. Nella tela di Raffaelli domina una “visione periferica”. Anzi, proprio la periferia, urbanistica ed esistenziale, è il cuore di tutta la storia, più che mai bergogliana. E chissà, forse ancor più interessante per Renzo Piano, l’archistar deciso al recupero delle periferie.

La copertina del libro di Alberto Raffaelli (Itaca edizioni)

La copertina del libro di Alberto Raffaelli (Itaca edizioni)

Rimangono, certo, alcune ingenuità nella scrittura, qualche eccesso o approssimazione che un editor attento avrebbe potuto sfrondare (“Anche a Marghera, al primo chiarore dell’alba, il buio stava svanendo”; “Un misto di angoscia e di speranza si accavallavano dentro di lui”), suggerendo una prosa più asciutta e rarefatta. Ma ci sono anche guizzi felici e buone intuizioni (“Il resto del pomeriggio lo aveva speso per rimettere a posto le carte e i pensieri”). E tuttavia, al netto di quelle ingenuità, Raffaelli ci regala alcune perle. Come quella del prete che prova a sedare l’irrequietezza di Benedetto, quando la donna che l’ha colpito, all’improvviso svanisce: “Vedi, c’è una paura cattiva che nasce da un piccolo errore di partenza – premette don Giuseppe – come quando ci alziamo al mattino e ci illudiamo che le cose siano nostre: la vita, la salute, la carriera, i capelli, il naso, le mani… Si può costruire una vita, un intero mondo, su questa illusione. Fino a quando, a un tratto, per qualche caso della vita, ci accorgiamo che la verità è un’altra…”.

La fabbrica delle serie americane è ancora nuova?

E se “la nuova fabbrica dei sogni” stesse cominciando a invecchiare? Non dico che sia già vecchia. No. Dico che forse è una fabbrica un po’ matura, che inizia a mostrare qualche segno di cedimento, qualche principio di ruga. La superficie del piccolo schermo – e dei pc, dei tablet, persino degli smartphone, dove i millenials più spesso le guardano – non è più così levigata. La nuova fabbrica dei sogni – Miti e riti delle serie tv americane è il saggio pubblicato da Aldo Grasso e Cecilia Penati (Il Saggiatore), frutto di ricerche e analisi approfondite del genere più in voga nella televisione mondiale, dalla metà del secolo scorso fino a oggi. La conclusione è che la serialità americana è divenuta un genere in piena regola, e che oggi “si fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm”. La tesi è sviluppata da Grasso nel primo capitolo, l’unico da lui firmato (il secondo, di excursus storico, è di Cecilia Penati, mentre gli altri tre – farciti di inglesismi che farebbero impazzire Camillo Langone – non sono firmati). “La serialità televisiva è forse la vera espressione del nostro tempo, al centro di infiniti raggi di vincolante degnità, la via di transito dei molti significati che ci circondano e che spesso ci appaiono illeggibili”. Le serie sono il genere più contemporaneo della tv del terzo millennio. Per linguaggio, innovazione, costruzione dell’immaginario. La loro consacrazione è un fatto conclamato e indiscutibile.

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Don Draper in Mad Men

È sull’americanità del fenomeno che forse si può rivedere l’assunto. Negli ultimi cinque anni si è passati progressivamente dal monopolio pressoché esclusivo di Hollywood alla sua centralità, fino ad un primato che, se pur resta solido, comincia afare i conti con la produzione europea. Ci sono state serie scandinave come The Bridge e The Killing delle quali gli americani hanno realizzato dei remake. C’è stata Gomorra, che è andata in onda in italiano, sottotitolata, nei network d’oltreoceano. Per contro, mentre la produzione a stelle e strisce aumenta, incentivata anche dall’avvento di Netflix, Amazon e Apple, la qualità delle storie, sempre più industrializzate, inizia ad attenuarsi. È soprattutto in termini d’innovazione che le serie americane sembrano perdere penetrazione. Dagli anni zero di Mad Men, LostThe Wire, I Soprano, West WingBreaking Bad, Six Feet Under, Glee, solo per citarne alcuni, negli anni dieci, pur in presenza di una crescita quantitativa, si è passati a House of Cards, True Detective (prima stagione), Mr Robot. Certamente, il primato americano persiste, soprattutto grazie a una produzione che mantiene un livello di sofisticazione medio più elevato. Ma la forbice tra America e Europa si riduce. “Il telefilm – prosegue Grasso – è un misto tra autorialità pura e design, fra idea e fabbrica, una miscela meravigliosa e impossibile di creatività e ripetizione, di ricalco e riscrittura”. La figura cardine di questo sistema è lo showrunner, colui che “fa correre” lo show, mediazione tra creativo-ideatore e produttore esecutivo, che in Europa è comparsa solo di recente. Il libro tratteggia storia e sensibilità di alcuni dei più interessanti tra loro, da J.J. Abrams (Alias, Lost) a Matthew Weiner (Mad Men, I Soprano), da Aaron Sorkin (West Wing, The Newsroom) fino a David Simon (The Wire), mettendone in luce ossessioni e predilezioni, stili narrativi e formule linguistiche. Poi, negli States esiste un canale come HBO, che ha fatto scuola svezzando e formando generazioni di autori e sceneggiatori. E già questo, da solo, basta a tenere ben solide le basi del primato…

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Elliot Anderson, protagonista di Mr. Robot

Il secondo spunto offerto dal volume è che anche i telefilm sono stati vittima della critica alla tv cattiva maestra, ritenuti causa dell’abbassamento della cultura di massa costruita sul minimo comun denominatore. Ci sono voluti decenni per riconoscer loro un adeguato livello di “artisticità”. In verità, non credo che anche per le serie sia valsa la famosa Curva del Dormiglione (Steven Johnson in Tutto quello che fa male ti fa bene, Mondadori). Ovvero che, secondo l’esperienza de Il Dormiglione di Woody Allen, dopo la sveglia fra 150 anni, ci accorgeremo che le merendine e le torte alla crema facevano bene. Nuocciono sempre al colesterolo e alla glicemia e nuoceranno anche fra due secoli. Merendine e salsicce sono reality e cronaca nera raccontata in modo morboso. Non i telefilm, mai stati trigliceridi in eccesso o grassi saturi della dieta. Semmai, da un territorio di esclusiva evasione, hanno conquistato lo status di opera letteraria, in grado di rappresentare la nostra civiltà e, ad un tempo, di psicanalizzarla.

Anche i telefilm si sono evoluti. Da Bonanza a True Detective, da Happy Days a Mr Robot. Rispetto a 40/50 anni fa, ora Hollywood esibisce ossessioni e perversioni, effetti collaterali del sogno americano. Ma a ben guardare, si tratta di sogni comuni anche di qua dell’oceano. Pure in Europa, attraverso le serie si realizza una grande seduta psicanalitica, un processo catartico, un tentativo di esorcizzare e sgravare la coscienza, metabolizzando attraverso la scrittura e lo storytelling, le nostre paure e le nostre deviazioni. “È tutta una questione di personaggi, personaggi, personaggi… Ogni cosa dev’essere al servizio delle persone. È questo l’ingrediente segreto dello show”, ha osservato Damon Lindelof, uno degli autori di Lost. In fondo, tutta la serialità racconta l’ambizione dell’uomo di essere artefice incontrastato delle proprie fortune, di affermarsi attraverso la conquista del potere, del successo, cercando di gratificare il proprio ego in tutti i modi. Spingendo il limite sempre più in là, come si vede anche in Mad Men, in HoC, in Vinyl, in Breaking Bad. Con il rischio che i nostri sogni si tramutino in incubi.