Dagospia on the road, outlet del villaggio globale

Vent’anni on the road, auguri Dagospia. Auguri e grazie per il divertimento e il lavoro, lo sberleffo e il servizio, lo spirito sulfureo e l’archivio. Il sito diretto da Roberto D’Agostino compie due decenni di vita e stappa lo champagne di una giovinezza sempre promettente. Un ventennio vissuto pericolosamente, ma con un grande avvenire davanti. Man mano che passano gli anni si fortifica e si allarga, irrobustisce la corteccia e ramifica su nuovi territori, lo sport, il food, tutto lo scibile. Vitale e vitalista, collettore senza tabù, preclusioni e pregiudizi, se non appena quella sacrosanta diffidenza verso i piedistalli dei moralisti e le cattedre dei pedagoghi. Assemblatore, catalizzatore, girone infernale di vizi e stravizi, devozione e pornosoft, sociologia e tifo ultrà, rock babilonia e diatribe teologiche, Rocco Siffredi e risiko di nomine. Da qualche tempo meno cafonal e più pensiero sottile. Soprattutto, più anticipazioni, quasi sempre confermate, «come Dago anticipato…». Sulle nomine alla Rai e nelle altre aziende partecipate, sui voti di sfiducia annunciati e non confermati, sulle richieste di prestiti dei colossi industriali controllati all’estero. Anche senza la gola profonda Francesco Cossiga, D’Agostino e la sua redazione (Giorgio Rutelli, Francesco Persili, Federica Macagnone, Riccardo Panzetta, Alessandro Berrettoni) se la cavano alla grande. Notizie e opinioni insieme. Come La versione di Mughini e L’America fatta a Maglie by Maria Giovanna. Gossip meno di un tempo, e sagaci rubriche di servizio (La quarantena dei Giusti: Guida tv per reclusi).

Fu Barbara Palombelli a fine anni Novanta a suggerire a D’Agostino in cerca dell’idea la strada del Web. Negli anni il portale è divenuto sismografo del palazzo, cannocchiale di scenari, sonda sociale, vetrina estetica, portineria del villaggio globale. Formule e linguaggi confluiti nello spin off televisivo Dago in the Sky. Se ne sono accorti anche all’estero se, giusto un anno fa, la University Italia Society ha chiamato il mefistofelico fondatore a sdottoreggiare a Oxford, e il prestigioso Politico.eu, la testata online più letta a Washington e a Bruxelles, ha dedicato un servizio a questo «disgraziato sito» definendolo «una lettura obbligata per le élite».

Blog ruspante con refusi incorporati e senza le leccature da new web design, se D’Agostino sbaglia qualcosa lo fa per eccesso mai per difetto. Come nel caso dell’estenuante tormentone sul matrimonio di Pamela Prati. Ma in politica niente innamoramenti: né per Matteo Renzi, né per Matteo Salvini e nemmeno per lo statista Giuseppe Conte che solo sei mesi fa qualcuno pronosticava a vele spiegate sul Quirinale. Ne ha viste troppe Dago dalla terrazza dell’attico con vista su Castel sant’Angelo da una parte e su Piazza Navona dall’altra. Laboratorio, atelier, museo d’arte, factory postmoderna: chi ci è stato e ha visto il trionfo del kitsch e il bazar del trash, le bambole gonfiabili vicino ai simboli religiosi, capisce questo calderone dove si rifinisce l’opinione degli opinionisti che lo usano come cassetta degli attrezzi, bussola nel palazzo, concentrato di fluidi e umori, retrobottega del potere, bettola postribolare dove pescare il calembour illuminante. Insomma, Dagospia è insieme outlet delle firme, centro commerciale e mercato per intenditori. Ci puoi trovare l’analisi sofisticata, lo spiffero vaticano, il tweet malandrino. Avanguardia dello spirito italiano: più vicino al cinismo antimoralista di Alberto Sordi e al gusto del paradosso di Alberto Arbasino che al bontonismo ideologizzato di Fabio Fazio e Roberto Saviano.

Cento di questi giorni, Dago.

 

La Verità, 23 maggio 2020

Lo strano caso dell’on. Walter e mister(o) Veltroni

E poi c’è Veltroni. Walter Veltroni, con la W. Il sindaco di Roma, l’antagonista di Massimo D’Alema, la pietra angolare dell’Ulivo, il vice di Romano Prodi, il fondatore del Pd. Ex di tutto. Ma sempre presentissimo e protagonista. Creativo, poliedrico, instancabile. Ogni mese un’idea nuova, un libro, un documentario, un film. Per non parlare delle fluviali articolesse, ponderosi amarcord e ritrattoni con gli occhi al Novecento sul Corriere della Sera, o le intervistone e i commenti sulla Gazzetta dello Sport… L’ultima creazione, Fabrizio De André & Pfm. Il concerto ritrovato, sarà nelle sale cinematografiche il 17, il 18 (De André compirebbe ottant’anni) e il 19 febbraio: i fan si preparano ad assaltare le biglietterie. Walter Veltroni è un caso unico nel panorama politico-mediatico-cultural-intellettual-social… Campione mainstream, sempre neo qualcosa – regista, autore, giallista – ma anche post, pop e pure flop.

Con l’eccezione di Prodi, che ha messo la prua sul Quirinale, gli altri big della politica dell’epoca si sono defilati, hanno scelto un buen ritiro, una terrazza, una fondazione appartata. Massimo D’Alema ufficialmente lavoricchia con tutta la sua antipatica intelligenza a «Italianieuropei», salvo interessarsi di nomine di Stato dando qualche consiglio al premier. Piero Fassino dopo la sconfitta alle elezioni per la poltrona di sindaco di Torino si dedica alla Fondazione Italia Usa. Francesco Rutelli, predecessore di Uolter come primo cittadino di Roma, è presidente dell’Anica (Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali). Altri storici sindaci ex comunisti come Antonio Bassolino e Sergio Cofferati si sono ritirati a vita privata. Come pure Nichi Vendola, altro astro del firmamento de sinistra, ora testimonial delle adozioni gay e dell’utero in affitto sul settimanale Chi? Poi ci sono Achille Occhetto, Rosy Bindi e Fausto Bertinotti che ha qualche anno in più e tiene conferenze in giro per l’Italia. Oliviero Diliberto, invece, coetaneo di WV, è tornato alla facoltà di Legge della Sapienza di Roma e, alla Giorgio Gaber, dice che, siccome «la mia generazione ha fallito, l’unico dovere morale è scomparire».

Chi conosce bene Veltroni dice che ce n’è un altro, meno noto e più gigione. Collezionista di figurine, tifoso sfegatato (della mainstreamica Juventus), goliarda, esperto, espertissimo di cinepanettoni. Purtroppo lui espone alla telecamera sempre il lato ispirato e buonista.

Più che un caso, il suo sembra un mistero. I suoi cimenti, le prove cinematografiche, autoriali e letterarie non si possono rubricare come successi, eppure… Il programma su Rai 1 Dieci cose, autunno 2016, annunciato da un’intervista su Repubblica umilmente intitolata «Così cambierò il sabato sera in tv», si arrampicò all’11% di share medio, puntualmente doppiato dallo show di Maria De Filippi su Canale 5. I film e documentari, uno all’anno dal 2014 in poi, prevalentemente trasmessi da Sky, non hanno certo sbancato il botteghino: Quando c’era Berlinguer (prodotto da Sky e Palomar, 620.000 euro al cinema), I bambini sanno (Sky, Wildside e Paolomar), Gli occhi cambiano (Rai), Indizi di felicità (Sky e Palomar, 60.000 euro), Tutto davanti a questi occhi (ancora Sky e Palomar), fino al vero e proprio film per il cinema, C’è tempo, con Stefano Fresi, che nel 2019 ha incassato 320.000 euro. Opere del Veltroni ispirato, immancabilmente accompagnate da benevole candidature ai Nastri d’argento o ai David di Donatello. Si sa come gira il fumo a Cinecittà. Nel frattempo, l’inesausto Uolter non ha trascurato la produzione letteraria sfornando, a ritmo annuale, accorati romanzi. Sconfinando infine nella narrativa noir con Assassinio a Villa Borghese (Marsilio), sempre in bella vista sui banconi cruciali delle librerie di catena.

Quindi: se le creazioni veltroniane non sono propriamente boom cinematografici o letterari come se ne spiega l’indefessa proliferazione? Lo strano caso dell’onorevole Walter e del mistero Veltroni è presto risolto: chi può dirgli di no? Realizzato da Except, puntuale come il carnevale, in questi giorni esce il documentario in cui l’ex vice di Prodi confeziona con prologo ed epilogo il filmato di Piero Frattari, un altro regista che il 3 gennaio 1979 riuscì a infilarsi al concerto di Genova con la Premiata Forneria Marconi. Alle preziose immagini, rispolverate dalla soffitta, Veltroni ha aggiunto la cornice narrativa e una serie di testimonianze di chi c’era, i musicisti della Pfm, Franz Di Cioccio, Patrick Djivas, Franco Mussida e Flavio Premoli, il fotografo Guido Harari, oltre, ovviamente, a Dori Ghezzi.

I giornaloni – chi può dirgli di no? – lo hanno annunciato come la scoperta del Sacro Graal. L’altro giorno SkySport24 ha allestito persino un salottino con Di Cioccio e Djivas per parlare di calcio da tifosi, ma anche del ritrovamento del concertone che ha segnato «l’incontro tra due diversità che sarebbero rimaste parallele se, a un certo punto, non fosse venuta la voglia di eliminare un recinto», ha buonisteggiato WV alla conferenza stampa. Dove, a chi gli chiedeva quanto pensa incasserà il nuovo documentario, ha replicato, piccato: «Non è detto che ciò che vende di più sia di per sé più bello». Quantità e qualità non sempre vanno a braccetto; giusto. Però, chissà cosa ne pensano i suoi produttori…

 

La Verità, 15 febbraio 2020

 

Elly, Mattia e Greta a caccia del riflettore giusto

E tre. Dopo Greta e Mattia, ecco Elly. C’è una nuova icona dell’establishment di sinistra. Un nuovo astro. Un altro leader destinato a stregare la parte sana dell’opinione pubblica. La società civile, le piazze dei migliori e l’ecologismo mainstream ne sfornano uno ogni tre-sei mesi, secondo il bisogno. Elly Schlein arriva dopo Greta Thunberg e Mattia Santori ed è l’anello di congiunzione tra le sardine e il Pd, oltre che la più votata alle recenti consultazioni emiliano romagnole. Non ha fatto quasi in tempo a essere eletta con 22.000 preferenze per aver chiesto conto a Matteo Salvini dell’assenza della Lega ai tavoli europei sull’immigrazione, che è già vicepresidente regionale e in tutti i talk show radiotelevisivi. La sera del 28 gennaio, due giorni dopo il successo di Stefano Bonaccini, Lilli Gruber le ha tempestivamente regalato la ribalta di Otto e mezzo. Da lì non si è più fermata, rimbalzando, come un Santori qualunque, dall’Aria che tira a Omnibus e dovunque si parli di politica, in particolare su La7 che è sempre più l’organo ufficiale dell’ortodossia giallorossa. Del resto, la televisione, anzi, la visibilità, è la vera terra promessa dei nuovi puledri della sinistra di piazza e di palazzo (la medesima). Greta, Mattia ed Elly sono attratti dai riflettori dei media come dirigenti Rai dalla platea del teatro Ariston. E a loro volta sono un boccone prelibato dei conduttori all’ansiosa ricerca di testimonial e contenuti antisalviniani. L’attrazione è reciproca.

L’altra sera la capolista di «Emilia Romagna coraggiosa» ha sconfinato su Nove, ospite dell’Assedio di Daria Bignardi che l’ha accolta più garrula che mai. 34 anni (il doppio di Greta), nata a Lugano e trasferita a Bologna dove si è laureata con il massimo dei voti in giurisprudenza («Sono insicura e curiosa più che secchiona»), bisex («Ho amato molti uomini e molte donne, adesso sto con una ragazza e sono felice, finché mi sopporta», ha rivelato tra gli applausi del pubblico assediato), una militanza più a sinistra che a destra del Pd, la dolce Elly non gradisce la definizione di «miss preferenze» e infarcisce la parlata di «innovazione», «complessità», «transizione», «sessismo», accompagnando il suo argomentare con una mimica manuale piuttosto assertiva. Qualche sera fa, guarda caso chez Gruber, tra una lamentela e l’altra per il maschilismo dell’ultimo Sanremo, Massimo Giannini ha detto che vorrebbe vedere Elly Schlein più protagonista nei media. Non ha fatto in tempo a finire la frase che il giorno dopo la vice di Bonaccini era già ospite del suo Circo Massimo, il programma che Giannini conduce su Radio Capital, l’emittente da lui diretta (non male come testata per un giornalista di sinistra). Anche lì Schlein ha ribadito il suo mantra – «Coniugare la lotta alle disuguaglianze con la transizione ecologica» – nel linguaggio prediletto dalle élite Ztl, sempre intercalato da un virile richiamo al «coraggio». Qualche giorno fa, Marianna Madia, altra ex enfant prodige della sinistra chic, l’aveva candidata alla presidenza del Pd, sarà contento Paolo Gentiloni.

Presidenza piddina a parte, prepariamoci a vederla e rivederla in tutte le posture possibili e immaginabili. Come insegnano le altre creature dell’establishment, la politica narcisistica dei millennials, partorita e incubata nei social media e nella cultura dei selfie, confina e sconfina ripetutamente nella società dello spettacolo come in un gioco di specchi che si autoalimenta continuamente. Ospite di Fabio Fazio che l’aveva invitato appena due mesi prima, Santori aveva appena finito di dire «abbiamo cercato di scomparire, ma non ci siamo riusciti», che è stato subito convocato da Myrta Merlino all’Aria che tira. Il titolo che ne esaltava la radiosa presenza era «Parla Mattia Santori». Quando mai ha taciuto?

Sembra una forma di teledipendenza. La politica coincide con la comunicazione, a prescindere dal fatto che si abbia qualcosa da comunicare. Il giorno prima, non si era capito a quale titolo, il capo sardina aveva incontrato il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano, suggerendo di creare un Erasmus tra Nord e Sud. È così: la gente non arriva a fine mese, perde il lavoro e non mette al mondo figli perché teme di non farcela a mantenerli, ma le sardine propongono l’Erasmus verticale. Santa pazienza. Del resto, non è neanche tutta colpa loro. Finché il mondo adulto li accredita come nuovi oracoli del cambiamento e di un armonico futuro è difficile tenerli con i piedi per terra. Mettici poi l’attrazione dei riflettori e il disastro è completo.

È di questi giorni la notizia che la Thunberg, la ragazza che Time ha eletto personaggio dell’anno 2019 e che è già stata ricandidata al Nobel per il 2020, dedicherà la parte rimanente del suo anno sabbatico alla realizzazione di una serie tv. La simpatica Greta interpreterà sé stessa in una via di mezzo tra un documentario e un reality, nel quale la si vedrà mentre prepara discorsi da pronunciare nei consessi internazionali, incontra leader mondiali, verifica dati climatici. Lo ha annunciato il produttore esecutivo della Bbc, Rob Liddell, esultante per il «privilegio straordinario» di approfondire l’emergenza climatica potendo «avere una visione interna di come sia un’icona globale e una delle facce più famose del pianeta».

Bingo. Il passo successivo è l’approdo nel cinema, ma diamole tempo. Non si è «un’icona globale» per niente. La narrazione ha le sue leggi e le sue esigenze. E l’attrazione tra i nuovi astri del pensiero unico e i media mainstream è reciproca e totale. Speriamo solo che, vista la dipendenza, non sia un’attrazione fatale.

 

La Verità, 14 febbraio 2020

 

 

 

 

 

 

Carlo Delle Piane, il cinema come zona franca

Una pallonata in pieno volto a dieci anni e un incidente automobilistico a 37. Sono stati gli infortuni, i casi della vita, si potrebbe dire, a regalarci Carlo Delle Piane così come lo ricordiamo, ora che ci ha lasciati a causa dei postumi dell’emorragia cerebrale che lo colpì nel 2015. Aveva 83 anni. L’attore più timido e riservato del cinema italiano era anche il più professionalmente longevo, avendo festeggiato all’ultima Mostra del cinema di Pesaro i settant’anni di una carriera ricca di 110 film. Iniziata quando, dodicenne, gli assistenti di Duilio Coletti lo reclutarono alla scuola media Pio XI di Roma, per affidargli il ruolo di Garoffi in Cuore. Era il 1948 e il suo volto era già inconfondibile per il naso scalinato a causa di quella violenta pallonata.

Un ragazzino dalla faccia strana. Brutto o bruttissimo, per dirla tutta. Perfetto per il cinema. Al quale si avviò più che altro «perché era un modo per non andare a scuola e per mettermi qualche soldo in tasca». Figlio di un sarto istrione, che inventava strani infortuni per giustificare i ritardi delle consegne, e di una madre casalinga, allergica a qualsiasi contatto fisico, con una faccia così Carletto non poteva che avviarsi a una luminosa carriera di caratterista. Nel 1951 è già al fianco di Totò in Guardie e ladri, regia di Mario Monicelli e Stefano Vanzina (Steno), nella memorabile scena in cui declama al padre il tema che lo riguarda: «Mio padre non è quello che si può dire un bell’uomo…». Soprattutto è uno che per sfangarla rubacchia «stoffe, orologi, ombrelli e pure copertoni». «Ma perbacco…». Nello stesso anno veste i calzoni corti di Pecorino, figlio di Aldo Fabrizi e Ave Ninchi in La famiglia Passaguai, Fabrizi anche in regia. E la sua interpretazione è così convincente che il nomignolo gli resta a lungo appiccicato. Fin quando, cioè, non sterza in generi e ruoli diversi, al fianco di Alberto Sordi, Vittorio De Sica («mio padre inconsapevole»), ancora Totò e Fabrizi, suo primo vero amico nel mondo del cinema, come lui stesso raccontava nelle poche interviste che concedeva: schivo, fobico, prigioniero di un reticolo di manie igieniste che gli impedivano una vita normale. Gli esplosero nel 1973 dopo quell’incidente d’auto che lo lasciò un mese in coma. Al risveglio dal quale trovò il solo Aldo a rimbrottarlo ai piedi del letto: «A Carlè, ma quanto cazzo dormi?».

Le commedie del dopoguerra, i musicarelli, il neorealismo e l’epoca delle pochade con Edwige Fenech e Renzo Montagnani, Delle Piane attraversò tutte le stagioni cinematografiche da perdente che fa risaltare le doti del protagonista. Fu Pupi Avati in una delle sue più felici intuizioni a trasformare poco alla volta il grande caratterista in attore protagonista. L’outsider diventa vincente. Sempre senza eccessi, recitando per sottrazione, come piaceva a lui, alla maniera di Buster Keaton, il suo modello di riferimento.

La prova generale avvenne in Tutti defunti…tranne i morti, dove Delle Piane fu ancora comprimario. Ma da allora il sodalizio tra il misantropo attore romano e il regista bolognese divenne uno dei più fecondi degli ultimi decenni, consacrato dalla conquista della Coppa Volpi alla Mostra di Venezia del 1986 – superato il favoritissimo Walter Chiari – per l’interpretazione dell’avvocato Santelia, l’enigmatico pokerista di Regalo di Natale. Fu quella la parte più riuscita di tutta la sua filmografia, in gara con il timido professore di Una gita scolastica, di tre anni prima, innamorato di una collega che lo illude senza ricambiarlo. Avati aveva scovato la vena profonda e malinconica di un grande attore che, dopo i musicarelli, si stava rassegnando alle commedie scollacciate con Carmen Villani.

Al risveglio dal coma di quell’incidente l’indole di Carletto s’era fatta più crepuscolare. Non porgeva la mano, non toccava le maniglie delle porte, si sedeva solo su un fazzoletto strategico. Sceglieva i ristoranti in base al bagno pulito e spazioso, «tanto mangio solo patate lesse». Una schiavitù. «Le fobie sono il rovescio della depressione», mi disse una volta Anna Crispino, la cantante napoletana e donna straordinaria che da fan era divenuta sua moglie dopo averlo incontrato alle prove di uno spettacolo. Solo sul set le paranoie lo abbandonavano. Il cinema lo riscattava. Era una zona catartica. Una terapia: «Tutta la mia vita l’ho vissuta diviso tra finzione e realtà. Quando recito divento il personaggio che interpreto. Allora tocco, abbraccio, sono libero».

«Anche se fingeva di averlo superato, in realtà il cruccio per il suo aspetto aveva scavato in lui», riflette Avati. «E certo non lo aiutavano i ruoli in cui gli si chiedeva di far ridere accentuando gli occhi stralunati. Quello con Carlo è stato uno dei rapporti più belli e profondi di tutta la mia vita. Quando presentammo Una gita scolastica a Venezia non ci aspettavamo quell’accoglienza. Poi arrivò il successo di Regalo di Natale. Era stato mio fratello Antonio a impormelo dopo averlo conosciuto in un cinema d’essai, ma io non ero per nulla convinto. Poi ne scoprii l’animo. Un mondo ricchissimo, dietro quei suoi complessi e quel senso di inadeguatezza nel quale mi riconoscevo anch’io. Con lui non servivano tante parole, eppure era il più efficace nel restituire i personaggi che avevo in mente. Dopo un trentennio di film insieme ero sicuro che potesse camminare con le sue gambe: stento a perdonare i miei colleghi che non lo hanno considerato come meritava».

 

La Verità, 25 agosto 2019

Il candore di Vincino, genio «di facili costumi»

Se n’è andato il «vignettista di facili costumi». Se n’è andato, con il suo tratto tagliente, lo sguardo sulfureo, il disegno sguincio. Di colpo. Senza preavviso. «Era malato da tempo», si legge nei notiziari della scomparsa. Ma il tempo, per Vincino, era un accidente, un complice, lo scherzo di un perenne presente che lo faceva saltare avanti e indietro nei racconti, le memorie, le anticipazioni visionarie più ardite. Era un alleato che gli permetteva di essere ovunque e da nessuna parte, pur standosene sempre lì, sulle tribune di Montecitorio, a scrutare mosse e contromosse di mostri e mostriciattoli del Palazzo. Vincenzo Gallo all’anagrafe, palermitano di nascita (il 30 maggio 1946) e romano d’adozione, anzi «romano del Colosseo», architetto di laurea con il minimo dei voti, Vincino era sognatore dissimulato, cialtrone sottile e sublime, dall’andatura dinoccolata di barbone aristocratico: l’autore di satira più poetico e irriverente dell’ultimo mezzo secolo.

«Vignettista di facili costumi» l’avevano etichettato a metà degli anni Ottanta allorché era stato chiamato a collaborare con il settimanale Il Sabato, vicino a Comunione e Liberazione. Targa rilucidata dieci anni dopo, quando Giuliano Ferrara l’aveva coinvolto alla nascita del Foglio che ieri ne ha annunciato la morte con un tweet mutuato da un ritratto del fondatore: «È stato la nostra speranza, il nostro specchio, la nostra risorsa d’acqua e di alcol e di fumo».

Cresciuto nella Palermo di Vito Ciancimino dominata dalle cosche, chiamato a Roma da Lotta continua, fu fondatore, direttore e firma nobile di testate iconoclaste della sinistra non comunista e radicaleggiante, da Il Male a Cuore, da Zut a Il clandestino, da Linus a Tango fino a Radio radicale, in compagnia di giornalisti, disegnatori e penne sulfuree come Sergio Saviane, Vauro Senesi, Andrea Pazienza, Pino Zac, Sergio Staino. Una cricca di dissacratori, idealisti esagerati, autori di fulminanti copertine con finte prime pagine dei quotidiani e titoli-beffa: «Arrestato Ugo Tognazzi: è il capo delle Brigate rosse»; «Anche Panatta ha i servizi deviati». Dotato del candore malizioso dei siciliani di alto lignaggio, di quell’etichetta s’era fatto un vanto, un pennacchio di libertà, irriverenza, irriducibilità, anticonformismo indomito. «Mi chiamavano dalla destra e dalla sinistra e non sapevano come etichettarmi», mi raccontò in un’intervista per questo giornale del 18 marzo scorso (qui). Quella targa era la patente di libertà anche dalle sue stesse convinzioni, grazie a quel candore che gli permetteva di cambiare idea e ricominciare, sempre irridente e affettuoso, come testimonia il recentissimo Mi chiamavano Togliatti. Autobiografia disegnata a dispense (Utet). E come non accade mai ai politici per i quali nutriva profonda diffidenza: «Li vedi nei talk show? Ripetono le solite cose, mai nessuno che si convinca di quello che dice l’altro».

La sua libertà lo era anche dalle militanze e dalla mitizzazione degli anni d’oro, i Settanta di Lotta continua, e gli permetteva di collaborare al Corriere della Sera dove, come a Vanity Fair, l’aveva chiamato Carlo Verdelli: un autore di satira che collabora con le testate dell’establishment? «Io nasco nell’establishment», mi aveva risposto senza fare una piega, «mio padre dirigeva i cantieri navali di Palermo».

Se n’è andato, con il suo candore acuminato e la sua burla malinconica.

La Verità, 22 agosto 2018

Ritratto di famiglia in un castello

Condividere la bellezza. Esiste esperienza più coinvolgente? Spartire la grazia, partecipare di una sensibilità, di un sentimento del vivere. Visitare la collezione Cavallini Sgarbi (fino al 3 giugno) allestita dall’omonima Fondazione nelle sale del cinquecentesco Castello Estense di Ferrara è fare questa esperienza. Si scrutano le opere, 140 capolavori da Niccolò dell’Arca a Gaetano Previati, dal 1300 al secolo scorso, «scelti con assoluto rigore, sopportando gli strali di mio fratello», confida Elisabetta, «tra le cinquemila opere della casa di Ro Ferrarese», e si vedono loro. Vittorio, con la sua fame erudita e frenetica di vita e arte. Mamma Rina, socia complice in questa avventura di accumulo e valorizzazione del bello. Elisabetta, motore e mente razionale, lucida e fattiva, curatrice di ogni dettaglio. Papà Nino, custode di questa bramosia, che ha saputo riflettere nei tramonti sull’acqua filmati in Il mio fiume (2010). Protagonisti nell’ombra. E protagonisti reali di una storia irripetibile che comincia là dove la mostra finisce, nella «Stanza dei giochi» dei bambini, davanti a una Madonna (1550-60), bambola in legno con le calze rosse di Nero di Sansepolcro, con le foto di Vittorio che guida una macchinina da corsa, e di Elisabetta con il binocolo regalatole da papà Nino per osservare meglio la realtà: una storia che fa da punteggiatura ai capolavori, resa dall’album di famiglia in bianco e nero, come attori di ieri e di oggi, per dire che, in fondo, il vero capolavoro siamo noi, con la nostra sete e il nostro desiderio inestinguibile.

L’ingresso nella prima sala, vicino a una porta che riproduce quella della casa di Ro, è preceduto dalle dediche ai genitori: «A mia madre, Rina Cavallini, che ha risposto a ogni mia richiesta. Ed è qui, in Paradiso, fra queste stanze», scrive Vittorio. «A Nino, mio padre, che ho scoperto scrittore. E questo resterà per sempre», gli fa eco Elisabetta. Ci si inoltra, dunque, nelle sale ornate di rosso, accompagnati dalle immagini di mamma Rina che fa gli onori di casa. Vediamo i cofanetti di fine Trecento della Bottega degli Embriachi, prima di entrare nella stanza degli «Antichi maestri», con il busto di un imponente e assorto San Domenico (1474), opera di Niccolò dell’Arca, scovato a sorpresa da Vittorio «nella bottega di un antiquario colto a Roma». Subito dopo ci accolgono il magnetico Cristo benedicente (1486-87) di Jacopo da Valenza e la cinematografica Madonna del latte tra sant’Agnese e santa Caterina d’Alessandria (1490) di Antonio Cicognara. Si fa «Ritorno a Ferrara» con Boccaccio Boccaccino, Giovanni Battista Benvenuti, detto l’Ortolano, il Garofalo, il Bastianino, lo Scarsellino, la trionfante Sibilla (1600-06) e la tenerissima Sacra famiglia (1615-18) al desco di Carlo Bononi, con il bimbo che imbocca un san Giuseppe anziano.

Il «San Domenico» di Niccolò dell'Arca

Il «San Domenico» (1474) di Niccolò dell’Arca trovato da Vittorio nella bottega di un antiquario

Tesori ritrovati grazie a una ricerca «senza dogmi», scrive Vittorio nello splendido catalogo (La nave di Teseo), dispersi e inconsapevoli nella nostra «Italia della meraviglia», linfa vitale e arca di una ricchezza inesauribile, dovunque invidiata, che pure non gode più del giusto stupore in grado di farsi impresa e cultura. Comprendente pregiatissime opere di pittori ferraresi, la collezione Cavallini Sgarbi ha, dunque, il sapore di una restituzione alla città estense che gli meriterebbe uno spazio storico per una Permanente. Ma è anche un dono al pubblico italiano tutto, cultori, amanti d’arte, collezionisti, semplici visitatori e turisti. La condivisione del bello di cui si diceva chiama il riconoscimento istituzionale, soprattutto se ministro dei Beni culturali dovesse restare il ferrarese Dario Franceschini. E ancor più in considerazione delle profonde radici cittadine della famiglia, testimoniate dal restauro a cura della Fondazione Elisabetta Sgarbi della casa di Via Giuoco del Pallone, dove Ludovico Ariosto compose la prima edizione dell’Orlando Furioso.

La ceramica di Andrea Parini con l'iscrizione: «Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice»

La ceramica di Andrea Parini (1941) con l’iscrizione: «Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice»

Procedendo nella visita, si entra nella sala delle «Belle donne», la carnalissima Cleopatra (1620) di Artemisia Gentileschi di cui, scrive Sgarbi, «sentiamo gli odori, il sudore, la puzza», opposta alla femmina rappresentante l’Allegoria del tempo (1650) di Guido Cagnacci, che «persegue una sensualità intellettuale, sofisticata». Si avanza e ci si inoltra nella ritrattistica, da Lorenzo Lotto a Francesco Hayez, dove spicca il Ritratto del legale Francesco Righetti (1626-28) del Guercino, raffigurato davanti alla libreria di volumi di diritto, «capolavoro di natura morta» secondo Pietro Di Natale, curatore della mostra. Si passa per una Santa Caterina da Siena con Gesù Bambino (1650) di Giovanni Battista Salvi, detto il Sassoferrato, «un equilibrista del pennello», che mamma Rina volle fortissimamente acquistare contro la volontà del figlio. Si continua nella stanza degli «Amati scultori» con il Ritratto della figlia (1941) di Andrea Parini, una ceramica nella quale il pudico desiderio dell’autore – «Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice» – ricorda l’auspicio di papà Nino per Elisabetta. Si giunge, infine, al potente, e amatissimo da Rina, Cristo crocifisso (1881) di Gaetano Previati, che Vittorio non avrebbe voluto acquisire «per quanto era impegnativo», ma alla fine se ne convinse, «vedendolo nella posizione ideale nell’abside» della chiesa di San Gottardo in Corte a Milano. Arrivò il 31 ottobre 2015, appena tre giorni prima che Rina morisse senza vederlo. «Cristo, forse, l’ha attesa in Paradiso», spera Vittorio.

Del resto, come si legge nello stralcio di Lungo l’argine del tempo di papà «Nino», scomparso a pochi giorni dall’inaugurazione, e proposto come congedo al visitatore, «non è vero che tutto finisce e precipita nell’oblio. Dopo di noi le cose continuano e qualcosa di noi sopravvive in ciò che abbiamo fatto (…) E nei figli, naturalmente. Ci consola sapere che il nostro sangue e i nostri pensieri vivranno in loro e che loro continueranno nell’impresa di realizzare il desiderio più grande dell’uomo: mantenere in vita la vita. E continueranno a cercare, a coltivare e a raccontare la bellezza, come fanno Vittorio ed Elisabetta».

Capaci di trasformare la collezione Cavallini Sgarbi in un’eredità culturale che profuma di gratuità.

La Verità, 17 febbraio 2018

Perché Bibi Ballandi mancherà a tutti

Mancherà. Mancherà ai suoi artisti, ai collaboratori, ai suoi cari. Mancherà agli amici e anche a quelli che l’hanno conosciuto per lavoro e magari frequentato poco. Mancherà ugualmente, perché Bibi Ballandi, morto a 71 anni dopo aver a lungo combattuto il tumore, era così speciale che gli bastava poco per farsi amare. E per lasciare un segno con la sua umanità nobile e profonda. Un segno incancellabile. Hanno questo significato i tanti messaggi che tutti i cantanti e gli uomini e le donne di spettacolo hanno diffuso sui social o con brevi dichiarazioni. Fiorello ha sospeso per due giorni il suo programma su Radio Deejay. Milly Carlucci, quando ha bruscamente appreso la notizia in diretta a Unomattina, è rimasta addolorata e senza parole. Lo ricordano tutti con gratitudine e afflizione, da Gianni Morandi ad Antonella Clerici, da Laura Pausini a Paola Cortellesi, da Giorgio Panariello ad Adriano Celentano.

Ballandi era un pezzo di storia dello spettacolo e della televisione italiana. Aveva iniziato giovanissimo subito dopo la terza media, affiancandosi al padre Iso, tassista che accompagnava cantanti e orchestre per concerti in Emilia Romagna. Poco alla volta aveva iniziato a produrre gli spettacoli di Caterina Caselli, Mina, Orietta Berti, Little Tony, Rita Pavone. Negli anni Settanta si era avvicinato ai cantautori, lavorando con Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Pierangelo Bertoli, Roberto Vecchioni, e con Fabrizio De André per la tournée dopo il rapimento in Sardegna. Fondò lo storico «Bandiera gialla» di Rimini. Nel 1997 organizzò il concerto-evento per Giovanni Paolo II a Bologna dove si esibì Bob Dylan. Conobbe e istruì il giovane Beppe Caschetto, futuro agente di molte star, uno tra i più provati dalla morte di Bibi. Da fine anni Novanta aveva prodotto gli one man show di Fiorello («Per lui sono stato il padre che ha perso presto, per me è stato il figlio che non ho mai avuto»), Celentano, Panariello, Roberto Bolle, le tournée di Mariangela Melato e Renato Zero, i varietà di Antonella Clerici e Ballando con le stelle di Milly Carlucci. Era una persona preziosa, stabilizzatrice, ironica, insostituibile. Con la sua bonomia, la sua umiltà mista alla sagacia popolare che si condensava nei fulminanti proverbi («Volare bassi per schivare i sassi»; «Riunione di volpi, strage di galline»; «Predica corta, tagliatelle lunghe»), manteneva il buonumore e il controllo della situazione anche nei momenti di massima tensione che, nella produzione di grandi eventi capitano sempre, soprattutto quando ci sono di mezzo personalità eccentriche, pressioni politiche e interessi con tanti zeri.

Lo conobbi nel 2005, dietro le quinte di un grande show televisivo, e dopo pochi mesi di collaborazione dovette assentarsi per le prime cure. Mancherà moltissimo a tutti. Perché, in un ambiente così materiale e calcolatore come quello della televisione, un altro con la sua fede e la sua umanità non c’è.

Fenomenologia di FF, totem della tv della nazione

Chissà come sarà in autunno veder spuntare Fabio Fazio sul primo canale della Rai radiotelevisione italiana. I modi confezionati, l’aria perbene, la barba pepe e sale. Come reagirà il pubblico abituato ad Amadeus e Carlo Conti? Come lo guarderanno i pensionati, le casalinghe e le famiglie tradizionali, i ceti medi nazionalpopolari in fase d’impoverimento e un po’ meno «riflessivi», della rete ammiraglia?

C’è una lettura pragmatica e minimalista della promozione di Fazio su Rai 1. Questione di agenti e trattative parallele (vere? presunte?). Questione di contratti in scadenza da rinnovare in extremis. Il tutto preparato dalla denuncia delle «ingerenze politiche» e della mancanza di libertà editoriale nella tv di Stato. E poi c’è una lettura più articolata di quella che è una vera ascensione professionale: era il conduttore di un talk show di tendenza su Rai 3, sarà il campione di tutta la Rai, il più pagato e coccolato dall’azienda. Si sono scatenati i politici dell’opposizione. Si sono adombrati i colleghi di rete, causa il suo cachet multimilionario, che hanno disertato a sorpresa la presentazione dei palinsesti aziendali. Una vicenda emblematica. Una parabola esemplare. Lo storytelling rivelatore del momento. Si sa com’è la faccenda: lo spirito del tempo, lo zeitgeist per dirla con quelli che hanno studiato, agisce tramite persone e personaggi in carne e ossa. Un presentatore di moda, FF. Un manager circospetto, Beppe Caschetto. Un politico ambizioso, Matteo Renzi. Un dirigente tv tendente all’enfasi, Monica Maggioni. Cos’è accaduto – che cosa ci siamo persi? – perché il conduttore di Che tempo che fa sia repentinamente diventato imprescindibile, il deus ex machina della tv di Stato per la quale tutti paghiamo una tassa annuale? «Fazio fa parte della storia della Rai», ha premesso qualche giorno fa la presidente Maggioni ai commissari riuniti della Vigilanza. «Vedere passare quel volto e quel format, su cui abbiamo investito, su un’altra emittente avrebbe comportato un forte scossone. Non so se la Rai avrebbe retto in termini di sistema», ha concluso la sua iperbole davanti ai parlamentari più che mai sbigottiti. C’è da capirli. Fazio, ribattezzato Fabio Sazio, terrebbe in vita la Rai «in termini di sistema». Non i suoi tredicimila dipendenti. Non gli uffici di corrispondenza nelle capitali del pianeta. Non le 67 edizioni del Festival di Sanremo. Se FF fosse la pietra angolare della tv pubblica ci sarebbe di che preoccuparsi. Saremmo oltre l’ultima spiaggia, sul bagnasciuga della rottamazione. Non è da escludere.

Monica Maggioni considera Fazio imprescindibile per la Rai

Monica Maggioni considera Fazio imprescindibile per la Rai

Nel marzo 1987 quando Pippo Baudo, Raffaella Carrà ed Enrica Bonaccorti traslocarono in blocco a Mediaset, allora Fininvest, nessuno gridò al rischio di sopravvivenza della tv di Stato. La dirigeva un signore che si chiamava Biagio Agnes e che si rimboccò le maniche, chiamando Adriano Celentano a produrre il Fantastico dei record (di ascolti, polemiche e centralità mediatica della Rai). Poi convocò Renzo Arbore, che s’inventò Indietro tutta, altro gioiello ricordato in tutte le classifiche di qualità televisiva. Nell’autunno del 1996 toccò a Michele Santoro migrare nella tv commerciale. E anche allora nessuno si stracciò la grisaglia, anzi. L’allora presidente della Rai, Enzo Siciliano, aveva pronunciato il fatidico «Michele chi?» che aveva causato lo strappo. Ma il servizio pubblico non vacillò.

Per quanto centrali e strategici, i divi passano la Rai resta. Negli anni Ottanta di Baudo e Carrà si era in piena epoca nazionalpopolare, Berlusconi era Sua Emittenza e la discesa in campo di là da venire. Dieci anni dopo, immersi nel bipolarismo, Santoro era il campione della tv detonatore. Inaugurando il suo tempo, Matteo Renzi aveva promesso di cambiare la Rai e di farne la Bbc italiana, lontana dai partiti. Oggi, dopo la raffica di dimissioni dei dirigenti che avevano creduto a quelle promesse, con un’azienda lacerata e priva di visione, Fazio passa da Rai 3 a Rai 1. La campagna elettorale si profila apocalittica. Chi meglio di lui può incarnare la televisione della nazione? Lo show da pensiero unico? Lo spettacolo del politicamente corretto? Viviamo nell’era della società liquida e Fazio è il testimonial perfetto della sinistra light che guarda più alla finanza che al popolo. Della militanza stemperata in buon senso modaiolo. Dell’ipocrisia buonista però griffata. Vuoi vedere che in questa stagione, in cui Renzi si gioca tutto, era proprio il renzismo faziano (o il fazismo renziano) che si voleva far dominare alla Rai? Come testimoniano anche il suo nome e cognome che differiscono per il cambio di una consonante, in lui hanno sempre convissuto un’anima morbida e una tagliente. Una sensibilità goliardica e una tendenza ideologico-moralistica. Un gusto arboriano, in ascesa, e una simpatia savianesca, in ribasso. Un registro popolare e una preferenza elitaria. Un’ambizione intellettuale con ambizioni giornalistiche e un realismo pragmatico, che gli suggerì di cancellarsi dall’Ordine della Liguria davanti alla lucrosa campagna pubblicitaria di un’importante compagnia telefonica. Nel suo salotto sfilano attori e registi di moda, scrittori di tendenza, cantanti emergenti, comici da copertina. Nelle ultime stagioni, segnate da un certo ricambio tra gli autori (non ci sono più gli storici Michele Serra, Pietro Galeotti e Duccio Forzano, mentre hanno un ruolo crescente Veronica Oliva e Francesco Piccolo) tutto è ancor più patinato, carezzato, sussurrato. Mai che si veda uno strappo, qualcosa di ruvido che strida e scardini gli equilibri. La tv della nazione è un pensiero suadente e graduale, un dialogo condiscendente anche se orientato, una recita ruffiana e autocompiaciuta. Un selfie di classe, un’autoreferenza intellettuale, un bon ton esibito, la sopravvalutazione dell’etica.

L'ex premier Matteo Renzi a Che tempo che fa (LaPresse)

L’ex premier Matteo Renzi a Che tempo che fa (LaPresse)

Fazio ha già più volte e con successo frequentato le platee di Rai 1, dal Festival di Sanremo alle serate commemorative di Falcone e Borsellino. Ora ne diventa il top player e la consacrazione sembra a portata di mano. Dietro di lui c’è tutta la sua squadra. E anche Luciana Littizzetto. Che, forse, dovrà limitare gli ammiccamenti e le allusioni genitali che abitualmente infarciscono i suoi monologhi. Eppure, stavolta qualcosa l’ha proiettato troppo in alto. Le interviste, i lamenti, il piedistallo della Maggioni, il supercontratto con troppi zeri. Tutte cose che lo espongono alla rabbia di chi suda, si sbatte e non arriva a fine mese. Gente di cui la sinistra una volta si occupava. Prima che arrivasse Renzi.

 

Panorama, 6 luglio 2017

 

Boncompagni, il meglio in coppia con Arbore

«Dopo scuola venivamo a casa tua ad ascoltare Alto gradimento». Me l’ha ricordato di recente un vecchio amico, ritrovato dopo tanti anni, almeno 45. Ascoltavamo la radio sgangherata di Arbore e Boncompagni. Insieme avevano fatto anche Bandiera gialla, altro cult dell’epoca, quando la radio aveva una vitalità incredibile, a pensarci oggi (Hit Parade, Gran Varietà, Per voi giovani). Ma Alto gradimento era un’altra storia, un laboratorio, uno stage formativo, un helzapoppin che sconfinava nel costume, diventava tormentone, linguaggio, stile di vita per gli ascoltatori. Schiere di comici e intrattenitori sono debitori di quel vulcano creativo, alimentato con Arbore, Bracardi e Marenco. Gianni Boncompagni se n’è andato a 84 anni e ora vien da chiedersi se ci sarebbe stato Fiorello con la sua Edicola senza Alto gradimento? E Chiambretti? E Giorgio Faletti e il Drive in di Antonio Ricci? Una fucina di maschere, caricature, folli geniali e teneri come Scarpantibus, il colonnello Buttiglione, la Sgarambona, Max Vinella, il professor Aristogitone, il comandante Raimundo Navarro perso nello spazio. Ognuno aveva il suo prediletto e la gag, lo scherzo, lo sberleffo finiva nelle feste, in classe, per le strade, con gli adulti ignari. La forza di Boncompagni era nella capacità di sconfinare, contagiare, divenire gergale. Non solo con la goliardia intelligente e la dissacrazione del benpensantismo di quel primo exploit (all’esordio pronunciò tutte le parole allora proibite: sudore, inguine, membro, divorzio). Le sue pensate erano roba immediata, semplice, italianissima.

In tv, senza Arbore (che proseguì il filone di Alto gradimento con L’altra domenica, Indietro tutta e Quelli della notte), la goliardia e i tormentoni lasciarono il campo al cinismo. «La tv trasmette solo robaccia. Robaccia con ascolti alti e robaccia con ascolti bassi», diceva. Il cinismo gli faceva anticipare la tendenza. Gli faceva anticipare quello che il pubblico cercava. E cavalcare formule e linguaggi. A cominciare da quello delle casalinghe e del pubblico della provincia. La tv di mezzogiorno non esisteva e con Pronto, Raffaella? arrivò a 14 milioni di telespettatori. Non è la Rai, con decine di ragazzine sgambettanti in uno studio vuoto con la sola Ambra a dialogare col pubblico, diffuse il lolitismo spensierato del boom pubblicitario. Ci sarebbero state le veline e Striscia la notizia senza quel gineceo innocente e ammiccante? E le ragazze di Chiambretti c’è (dove peraltro il Bonco muoveva i fili con l’inseparabile Irene Ghergo)? E i reality nei quali la conditio era saper fare nulla? Nessuno snobismo nemmeno verso il nazionalpopolare. Da Casa Castagna a tutta la produzione di Raffaella Carrà, dal Tuca Tuca a Far l’amore, finito persino nella Grande Bellezza, a Carramba che fortuna. Una tv da «vuoto pneumatico», si vantava. Plastica ben confezionata, forse inutile. Ma spiattellata senza intellettualismi e sovrastrutture. Geniale e fulminea. Schiettamente nichilista.

Vita e miracoli di Caschetto, regista occulto della tv

Chissà che cosa avrà detto Beppe Caschetto a Maurizio Crozza dopo l’esordio non proprio fulminante della prima serata al Festival. Si sa, per il comico genovese l’Ariston è un palco che scotta e così ha scelto di affacciarsi da Milano per la copertina, alla maniera di quella che faceva per Giovanni Floris. Ma Sanremo non è DiMartedì. Alle spalle non c’è il cartonato del talk show sinistreggiante di La7, ma uno sfondo nelle sfumature dell’azzurro. Mica facile essere abrasivi dentro una cornice floreale. Bisogna alternare la battuta pungente a quella nazionalpopolare, che non è esattamente lo spartito crozziano. Chissà cosa gli avrà detto Caschetto, suo ascoltatissimo agente. Quando i suoi protetti gli chiedono qualche consiglio, ha raccontato una volta, lui vuole dare una risposta «più giusta di quella che loro si sono già dati. Altrimenti a cosa servo?».

Maurizio Crozza nei panni del presidente Sergio Mattarella

Maurizio Crozza nei panni di Sergio Mattarella

In questi giorni di Festival della canzone italiana, i più caldi dell’anno, Caschetto non si vede da nessuna parte. Ma a Sanremo è presentissimo con le sue star (come sempre, del resto). Di Crozza s’è detto. Poi Virginia Raffaele, Geppi Cucciari, Luca e Paolo. Federico Russo, invece, altro volto della mitica Itc2000, la società dell’agente siculo-bolognese, lancia la serata su Rai 1 con PrimaFestival, cinque minuti in onda tutte le sere dopo il Tg1 delle 20,30. Orario pazzesco per uno come Federico Russo che qualche settimana fa ha anche presentato in coppia con Flavio Insinna Dieci cose, la sfortunata creazione televisiva di Walter Veltroni. Ecco, la potenza di Caschetto si misura nella capacità di dare spazi e vetrine di primissimo piano ad artisti e personaggi che non diresti.

È il nuovo Lucio Presta, dicono alcuni, il nuovo Lele Mora. Attenzione a non esporsi e a volere troppo, però… Tasto sensibile per uno scoperto da una vecchia volpe del mondo dello spettacolo come Bibi Ballandi, lui pure bolognese. Erano gli anni in cui la mucillaggine assediava le spiagge della riviera romagnola. Il supermanager stava lavorando a Stasera mi butto, uno show dal Bandiera gialla di Rimini finanziato anche dalla Regione per sostenere il turismo in calo. Caschetto rappresentava l’assessore e Ballandi si accorse della sua passione per il mondo dello spettacolo. «Così gli consigliai di trasformare quella passione in una professione, rendendomi disponibile a introdurlo nell’ambiente». La frequentazione servì a Caschetto per memorizzare uno dei dogmi ballandiani: «Volare bassi per schivare i sassi». Silente e circospetto al limite dell’omertà, Caschetto lavora sotto traccia, non compare, non fa vita mondana, non ha hobby modaioli, esce poco e parla ancora meno con i giornalisti, la sera se ne torna nella sua Bologna, fino a qualche anno fa in treno, ora a bordo di un duemila con vetri oscurati guidata dall’autista mentre lui lavora e telefona. «Credo nel teorema Cuccia: stare nascosto ed essere considerato autorevole», ha detto una volta sintetizzando la sua filosofia professionale. Ma per quanto faccia, qualche pranzo di lavoro e qualche visita importante la deve fare.

Virginia Raffaele, scuderia Caschetto, sarà all'Ariston

Virginia Raffaele, scuderia Caschetto, sarà all’Ariston

Pochi giorni dopo l’insediamento dei nuovi direttori nominati da Antonio Campo Dall’Orto fu visto uscire dall’ufficio in Viale Mazzini di Ilaria Dallatana in compagnia di Giorgio Gori, renziano sindaco di Bergamo nonché capo della neodirettora di Rai 2 ai tempi di Magnolia. Dopo qualche tempo si scoprì che la sua Virginia Raffaele, fino a quel momento in forza a Mediaset, avrebbe avuto quattro serate nel palinsesto di primavera 2017 di Rai 2. Nell’ultimo telemercato estivo si sono registrati sette passaggi di «caschettiani» da un editore all’altro. Oltre alla Raffaele e a Crozza, approdato con Andrea Zalone al canale Nove di Discovery con prestigiosa sosta al Festivalone, Fabio Volo ha ottenuto la sua serie tv sempre sul Nove, Pif si è accasato a Rai 1 con La mafia uccide solo d’estate e prossimamente lo vedremo su Rai 3, mentre Nicola Porro, espulso da Virus dalla Dallatana, ha preso il timone di Matrix a Canale 5, dal quale  si è trasferito a La7. Una bella centrifuga di cambiamenti, nuovi contratti e collaborazioni. E buone provvigioni, ovviamente. Del resto Caschetto ha ponti solidi in tutte le sponde, reti Mediaset comprese. Dove, oltre a Luca e Paolo, Alessia Marcuzzi non cede un millimetro al timone dell’Isola dei famosi e del Grande Fratello. Se uno riesce a gestire in contemporanea tutte queste situazioni traendo vantaggi anche da circostanze sfavorevoli qualche dote bisognerà pure riconoscergliela. Ma lui si schermisce, fedele al basso profilo ballandiano: «Io non ho talenti particolari, non eccello in niente… Metto insieme tante piccole cose. Pazienza, sacrificio, capacità di ascoltare, capire le ragioni delle parti, sapere quando accelerare e quando frenare, stare sul pezzo…», mi disse quando lo vidi qualche tempo fa.

Giovanni Floris, scuderia Caschetto, ospite di Fazio e Gramellini

Giovanni Floris, scuderia Caschetto, ospite di Fazio e Gramellini

Qualche volta però capita anche a lui di affiorare sopra il pelo dell’acqua. Per esempio, la recente doppia ospitata di Floris (anche lui Itc2000) sulla Rai 3 diretta dalla sua ex protetta Daria Bignardi, ha aizzato i sospetti di Michele Anzaldi, segretario della Commissione di Vigilanza in quota Pd, che ha presentato un esposto al presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone. A intervistarlo per promuovere il nuovo romanzo del conduttore di DiMartedì è stato prima il caschettiano doc Fabio Fazio a Che tempo che fa, poi, solo tre settimane dopo, Massimo Gramellini nel suo Le parole della settimana. In fin dei conti Floris è pur sempre un volto di una rete concorrente di Rai 3, da quando, pilotato ovviamente da Caschetto in un’altra delle sue estati d’oro, passò a La7. Inoltre, chiede Anzaldi, «sarebbe curioso sapere se Caschetto non sia anche l’agente di Gramellini», visto che un anno fa acquistò i diritti del suo bestseller Fai bei sogni dal quale Marco Bellocchio ha tratto il film co-prodotto dalla IbcMovie, altra società di Caschetto, con Rai Cinema. Insomma tanti interrogativi. E, sempre più incombente, un problema di misura per il superagente delle star. Sempre quella volta rispose alla mia curiosità sui suoi rapporti con l’amico Campo Dall’Orto con una sinuosa parabola che attingeva al suo passato di operatore nelle mense universitarie: «Mi ricordo che era impossibile non avanzare un po’ di pane. Allora», raccontò, «chiesi a un amico panettiere: “Tu cosa fai del pane che avanza? Il giorno dopo lo dai a un cliente abituale o a uno occasionale?”. “Al cliente abituale”, mi rispose, “perché lui so che tornerà comunque, mentre se dessi pane raffermo a quello occasionale non lo rivedrei più”. Ecco, io potrei essere il cliente abituale di Campo Dall’Orto. Perciò non mi aspetto nulla. Se gli amici ti danno il pane del giorno prima l’amicizia resta la stessa», trasse la morale Caschetto. Già, bella parabola. Ma guardando il Festivalone di Crozza e soci non pare che l’agente più potente dell’etere stia masticando molto pane duro.

La Verità, 9 febbraio 2017