Camon, lo straniero della globalizzazione

L’estate scorsa, quando andai a salutare Ferdinando Camon in un paesino della Val Zoldana dove ha una casa che guarda il Pelmo, lo trovai contrariato. Era il primo anno che non se la sentiva di guidare e, per andare a comprare i giornali, ricorreva all’autostop. Si metteva sul ciglio della strada e agitava la mano, gesto che i più scambiavano per un saluto, ma prima o poi qualcuno si fermava. Solo dopo qualche giorno di questa trafila si era rassegnato ai tempi della corriera. In questo buttarsi di slancio, quasi con la semplicità di un bambino anche a 87 anni, si origina molta della sua produzione letteraria. Per Camon il rapporto con la realtà è corpo a corpo, confronto senza mediazioni, non di rado conflittuale. Sempre, comunque, significativo. In quella casa di montagna l’autore padovano ritrova le condizioni propizie alla scrittura di cui il caldo della sua città lo priva. Poi c’è la sagoma del Pelmo: «Lei adesso mi vede vecchio e malandato», raccontò, «ma ho fatto il militare da ufficiale degli alpini su quella montagna. Per salire in vetta bisogna superare una cengia larga 35 centimetri, esposta su uno strapiombo. Si deve strisciare sulla pancia, perciò si chiama Passo del gatto. Si guarda la roccia che, fino a un paio d’anni fa, era tempestata di foto di ragazzini che non guardavano la parete ma l’abisso, e sono caduti. Passavi la cengia con il naso su quei volti…».

Da questo sguardo ravvicinato scaturisce il realismo di Camon, la sua tempra. Sia che si esprima in prosa, nella saggistica, sui giornali o in poesia. Come nell’ultimo Son tornate le volpi. Come muore la nostra civiltà, pubblicato dalla Apogeo di Paolo Spinello e Sandro Marchioro. È una raccolta di una cinquantina di liriche, altrettante visioni scabrose, spigoli della quotidianità, lacerazioni del vivere al tempo della globalizzazione. Lontano dalla poesia ombelicale, tuffata nelle grotte della psiche, come pure da quella civile che si auto-investe della riparazione del mondo, i versi di Camon guardano fuori, si misurano con le pareti scoscese senza risparmiarsi il rovello del dubbio. Anzi, accettando tutta la complessità di questa verifica, foriera di moti di ribellione all’indifferenza, alla rassegnazione… Autore pasoliniano, quale si definisce – Pasolini scrisse la prefazione a La vita eterna, il suo primo romanzo, scritto per vendicare il destino dei partigiani contadini delle sue terre, fatti uccidere dal capo delle SS, scoperto in Germania proprio grazie a quel libro, appena tradotto in tedesco – Camon ama intervenire sui fatti di cronaca, soprattutto là dove si palesa la contraddizione. Sempre con quel marchio dell’incontro-scontro, impresso nel carattere fin da bambino: «Sono figlio di contadini poveri. In casa, io e i miei tre fratelli, mio padre e mia madre camminavamo a piedi nudi sulla nuda terra». Questo universo di povertà e carne viva, di asperità e attriti, Camon l’ha raccontato in Un altare per la madre, la sua opera più famosa (premio Strega 1978), tradotta in venticinque Paesi. Era, quello stesso libro, un monumento alla famiglia, alla madre e al padre che, lottando contro la morte, le eresse quell’altare. Invece, per causa di quel racconto, suo padre decise di diseredarlo. Si presentò con suo fratello, il notaio e due testimoni. E Camon firmò l’atto: «Li ho capiti, li capisco. Per loro, scrivendo della nostra povertà ho disonorato la famiglia, il nostro sangue. C’è la famiglia e c’è il resto del mondo. La famiglia è più importante di un libro».

Oggi che cambia tutto, il capitalismo, il cristianesimo, la società, come si fa a non essere tormentati? Camon è orfano della civiltà contadina, la cui scomparsa, per Charles Péguy, «è il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo». L’altro lutto che si porta dentro è la morte del vecchio cattolicesimo. Perciò, come osserva Emilio Manco nella prefazione di Son tornate le volpi, «qualunque cosa giudichi… sotto-sotto si vendica sempre del suo lutto», di questa doppia condizione di orfano, facendola pagare ai lettori. «Prima di tutti la pago io», ribatte. «Sono stato formato da piccolo per vivere tutta la vita dentro una verità, ma così non è. Patisco molto la metamorfosi del sacro». In quel sistema di giornate e stagioni scandite dalla fede si componeva anche la povertà: sublimata, trasfigurata. Per uno così sarebbe finzione credere alle chimere del pensiero corrente. Dunque, svelarne vuoti e tradimenti non è vendicarsi di una doppia privazione, ma un desiderare schietto, senza infingimenti. «Sono un narratore della crisi», dice di sé. «Racconto il prezzo del progresso». Del capitalismo darwiniano, della globalizzazione selettiva, del mercatismo finanziario. Che vagheggiano integrazioni, sempre incompiute. Sostenibilità inseguite, quasi sempre a vantaggio delle élite. Democrazie digitali stratificate. Il risultato sono scarti, frange di sconfitti, escrescenze criminali, metastasi di scorie…

In Son tornate le volpi le stazioni ferroviarie diventano ricoveri di un’umanità perduta. Fuori da Roma Termini o da Torino Porta Nuova ci s’imbatte nei barboni a terra. Camon se li porta nei pensieri. «Di sera i barboni/ s’addormentano di botto/ tra due cartoni,/ uno sopra e uno sotto./ Li leccano i cani/ con la lingua rosetta,/ li scansano i cristiani/ che vanno di fretta…». I drogati finiscono la giornata dentro vagoni-ospedale. «Di notte sui binari/ morti vanno i treni fuori servizio:/ senza il permesso dei funzionari/ vi salgono giovani perduti nel vizio:/ Bevono intrugli/ di lattine,/ birra,/ coca,/ rimasugli/ lasciati dai viaggiatori…».

È poesia sociale e dell’irrisolto, del non sentirsi a posto. Solcando i margini della globalizzazione e scontornandone le contraddizioni, più che proporli, Camon allerta modi differenti di guardarle. E ci mostra scafisti albanesi che solcano il Mediterraneo con motori da 6.000 di cilindrata, suore arrestate per favoreggiamento della prostituzione, immigrate che spengono la cicca sul piede di un bimbo per farlo piangere quando si avvicina «un borghese dalla faccia cortese» che «ci casca e mette la mano in tasca». Accettare il cinismo, le derive e i soprusi per la sopravvivenza vuol dire razionalizzarli e perpetrarli? Ammettere la resa dei poveri e l’assenza di soluzioni dei ricchi vuol dire arrendersi alla sconfitta? Ci si dibatte tra pietà e giudizio, tra consolazione e accusa. Su tutto domina la paura: dell’estraneo, del diverso, dell’ignoto. Perché, finora, tra i bersagli mancati dal progresso c’è l’integrazione. La «città multietnica» di giorno «è italiana,/ operai, impiegati, studenti, donne./ Di sera diventa nigeriana,/ presidiata dai racket della prostituzione./ A mezzanotte si fa marocchina…». Alla lunga, osserva lo scrittore padovano, «questa integrazione sarà obbligata dal contatto e dalla convivenza». Ma non si dà pace che avvenga penalizzando la cultura di chi ospita: «Ormai negli ospedali/ ci son più mussulmani che cristiani,/ e l’associazione dei diritti umani/ alza la voce:/ via dalle stanze la croce». Così il paziente arabo s’inginocchia rivolto alla Mecca e invoca il suo Allah, mentre il paziente cristiano si volge alla parete vuota e vede la vernice più bianca dove manca il crocifisso: «Questo lo rende muto:/ è la prova che il suo Dio ha perduto».

Questa terza raccolta poetica, dopo Liberare l’animale (Premio Viareggio) e Dal silenzio delle campagne, entrambi con Garzanti, è stata presentata senza troppe illusioni alla prima edizione del Premio Strega Poesia. «Sono sempre andato allo sbaraglio, per di più non sono romano», dice. «E poi lo Strega l’ho già vinto. Quella volta con me c’era Piero Gelli, il direttore editoriale della Garzanti dell’epoca. Sapevo che Livio, che per me era quasi un fratello, era a Roma… Terminato lo spoglio, Gelli sparì cinque minuti e tornò con lui che se n’era rimasto nascosto in un bar poco distante. A mia moglie mostrò la prenotazione di due posti per una crociera ai Caraibi. Era il suo modo di compensare la probabile sconfitta. Invece… Indovini che cosa disse mia moglie, ridendo».

 

Poesia nuova serie n. 19, maggio/giugno 2023

Amadeus, il finto buono pronto a tutto per lo share

In realtà, i finti buoni sono tremendi. Furbetti, maliziosi, determinatissimi. Per un punto di share metterebbero il proprio figlio adolescente in prima fila all’Ariston a godersi la pomiciata tra un rapper che viene dai centri sociali e gira in Lamborghini e un ex graffitaro e modello di Gucci che canta vestito da donna. E se al ragazzo cresce la disforia di genere, pazienza. Quello che conta è il risultato. Bisogna sempre migliorare. Superarsi. Ama(poco)deus ex-machina lo sa bene. Un Festival dopo l’altro. Il terzo più del secondo e il quarto più del terzo. Purtroppo arriverà anche il quinto. E poi chissà.

«Nella vita, al di là dei festival, dipende tutto dal risultato», ha teorizzato nella conferenza stampa di chiusura. «Se si ottengono questi risultati hai una forza. Se avessi fatto il 15-20% in meno sarei un allenatore esonerabile. Qualsiasi allenatore è forte finché la squadra vince, se la squadra perde anche i più grandi sono a rischio esonero. Ecco perché devo portare quello che sento, bisogna sbagliare con le proprie idee». Il pluridirettore artistico di Sanremo, con moglie perennemente al seguito, non si pone limiti. Colpa anche dei vertici Rai. Se dai troppo potere a un solo artista facile che si pensi un supereroe. Sembra preistoria la perculata di Checco Zalone: «Grazie a nome di tutti gli italiani, tu Amadeus ci fai sentire dei geni». Dopo che nel terzo è riuscito a emanciparsi da Fiorello, il quarto Festival di fila ha completato la metamorfosi. Da conduttore a condottiero. Quest’anno Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna, gavetta nelle radio locali e a DeeJay prima di sfiancarsi nella spola Mediaset-Rai, ha replicato senza giri di parole al vicepremier Matteo Salvini, al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, ai politici di Fratelli d’Italia, autoinvestendosi di un compito che sarebbe toccato a qualche dirigente. Un cambio di ruolo. Un’autopromozione.

Sul palco, invece, nello spasmodico inseguimento dello share, ha confezionato un Sanremo grondante politica. Infarcito di messaggi obliqui. Come quello ordito la prima sera da Roberto Benigni alla presenza di Sergio Mattarella e indirizzato alla premier: cara Giorgia Meloni, se vuoi fare il presidenzialismo devi passare sul nostro corpo. E di altri più espliciti. Come quello che si è inverato nella soave slinguazzata di cui sopra. «Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo, una donna che ama una donna: è normale, l’amore non ha etichette. E questo va portato ovunque, anche nello spettacolo», aveva argomentato nei panni di guru del Festival di Zan Remo. C’è la fascia protetta per proteggere i minori? Quella vale per impedire ai bambini dell’innocente coro di Mr. Rain di esibirsi dopo la mezzanotte. Non al pubblico infantile di assistere alla twerkata del rapper in abiti femminili sul pacco del marito di Chiara Ferragni.

In realtà, i finti buoni sanno andare al sodo. Le regole sono fatte per essere piegate a proprio piacimento. Se c’è da invitare il capo dello Stato all’Ariston la trattativa la conducono il pluridirettore artistico e il suo agente Lucio Presta (lo è anche di Benigni e Morandi, il prossimo è Mattarella?), scavalcando l’amministratore delegato Carlo Fuortes, la presidente Marinella Soldi, il direttore dell’Intrattenimento prime time Stefano Coletta e il cda al completo. Se c’è da lasciare Fedez prendere a pesci in faccia mezzo governo ci si trincera dietro il rispetto della libertà artistica. Infine, a forza di mitragliare Festival, Ama(poco)deus ex-machina ha disimparato anche a fare la scaletta, confinando dopo l’una di notte il monologo di Chiara Francini, il migliore e il più originale tra tutti quelli che, invece, hanno incantato il demi-monde di riferimento.

Più che mai quest’anno, il segreto del successo è stata la quantità. L’espansione. L’occupazione sistematica di tutti gli spazi. Dai telegiornali ridotti a newsletter ai megaschermi di Urban vision nelle grandi città che trasmettevano la diretta delle serate. Orizzonte ingombrato. Un Leviatano mediatico capace di triturare qualsiasi ostacolo, con la compiacenza dell’informazione mainstream al completo. Peccato che, a forza di fare lo «swiffer delle polemiche» come dice Fiorello, non abbia ancora imparato a gestirle. Prendete la faccenda delle foibe. Amadeus/1 ha risposto che «ci sono tante ricorrenze, non possiamo commemorare tutto». Poi, pur di non dare l’impressione di piegarsi ai politici di destra, Amadeus/2 ha detto che il ricordo «era già previsto».

Adesso per lui qualcuno ipotizza un cambio di passo. Nella disperata ricerca di figure carismatiche, c’è chi lo vede in politica. Che poi, carisma… Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna è un medio man, un normal one. Però «la sinistra riparta da Sanremo», ha twittato qualche sagace commentatore. «Ora che avevamo trovato come fare opposizione il Festival è finito».

In realtà, i buonisti sono spietati. Con gli altri, s’intende. Quelli che non li elogiano, non li lisciano. Avete presente Fabio Fazio? Più che Baudo, è lui il suo modello. Dietro la patina un po’ untuosa da bravi ragazzi, c’è gelido zinco. Intoccabili. Se si dissente, cliccano sulla consolle e parte la recita da martire. «Se mi mandano via me ne vado», ha detto sperando nella sollevazione popolare. Se se ne va, magari l’opposizione trova un leader, i telespettatori ridono, la moglie sempre al seguito piange e in Rai si devono mettere a lavorare. Perché in questi anni gli hanno appaltato mezzo palinsesto.

 

La Verità, 14 febbraio 2023

La più bella del mondo che ci fece fare il boom

Cinema, arte e piedi per terra. Parafrasando la triade del titolo del suo maggior successo, ci si approssima alla vera indole di Luigia Lollobrigida, ribattezzata Gina per motivi artistici e nata a Subiaco nel luglio del 1927. «La Bersagliera ci ha lasciato», hanno annunciato il figlio Milko Skofic e il nipote Dimitri. Una delle più grandi attrici del cinema italiano è morta ieri nella sua casa sull’Appia antica a Roma dopo che nel settembre scorso era stata operata per la frattura del femore.

A tutti nota come la Lollo, la «maggiorata fisica» che da sex symbol, strizzata in bustini che ne pronunciavano le forme, è divenuta una star internazionale, si è imposta nell’immaginario mondiale dopo una gavetta ben diversa da quelle della nostra èra digitale. Particine nei fotoromanzi con lo pseudonimo di Diana Loris, fumetti disegnati a carboncino e comparsate nella Cinecittà del dopoguerra sono state il viatico di una carriera nella quale ha recitato al fianco dei più grandi attori del Novecento, diretta dai migliori registi del cinema mondiale. Ha incarnato ragazze italiane come La romana di Luigi Zampa e La provinciale di Mario Soldati, e giovani di enorme fascino come l’Esmeralda del Gobbo di Notre Dame, fino alla Fata Turchina nel Pinocchio di Luigi Comencini, collezionando un Golden Globe, sette David di Donatello e due Nastri d’argento. Nel 1999 diventa Ambasciatrice di buona volontà dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura e nel 2018 conquista la stella sulla prestigiosa Walk of Fame di Hollywood. Eclettica, disincantata, mai prigioniera del proprio status, è meno ingombrante, non solo fisicamente, della rivale Sophia Loren che ieri, appresa la notizia della morte, si è detta «profondamente scossa e addolorata». Una carriera tumultuosa, la sua, ma gestita con misura, capacità di distanziarsi dal cinema e la sagacia di reinventarsi, dedicandosi alla scultura, alla fotografia e ai documentari. Volando a Cuba per intervistare Fidel Castro: «L’ho conosciuta bene. Siamo stati anche innamorati, però era un amore platonico», disse lui.

Con i piedi per terra, ma versatile e popolana. Come la bersagliera di Pane, amore e fantasia che teneva testa al maresciallo donnaiolo (Vittorio De Sica), e che la impose definitivamente. Erano gli anni della ricostruzione, dell’Italia che medicava le ferite della guerra, dei primi frigoriferi nelle case, mentre per le televisioni si sarebbe dovuto aspettare ancora. Lei, di anni ne aveva 26, ma nel suo album c’erano già lavori con Zampa, Carlo Lizzani (Achtung! Banditi!) e soprattutto Christian-Jaque che con Fanfan la Tulipe l’aveva consacrata diva in Francia. Nel 1950, prima dell’exploit di Pane amore e… era stata anche in America, alla corte del miliardario Howard Hughes, produttore e regista per hobby nonché scopritore di dive come Jane Russell. E si era anche già sposata con Milko Skofic, medico sloveno che curava i profughi alloggiati a Cinecittà. Matrimonio precoce, appena ventitreenne, che solo nel 2018 si scoprì esser seguito allo stupro subito a 18 anni, quand’era ancora vergine. Una circostanza che non aveva mai voluto rivelare – e nemmeno allora rivelò l’identità del violentatore. E che, tuttavia, non ne aveva frenato la volontà di affermarsi. Due anni dopo, infatti, s’era presentata a Miss Italia, giungendo terza dietro Lucia Bosè e Gianna Maria Canale, future attrici come lei. Nella scheda d’iscrizione al concorso alla voce «aspirazioni» aveva scritto: «Fare qualcosa di serio con le mia capacità». Una frase-manifesto: di modestia personale e dello spirito del tempo. Si avanza con le proprie forze, niente aiuti, niente divani del produttore. Nemmeno quello di Hughes, appunto, considerato che una volta scoperto che avrebbe dovuto starsene buona dedicandosi ad allietarne le serate, se ne tornò in Italia. E pazienza se il contratto di esclusiva che ormai aveva firmato le impedì di lavorare in America fino al 1959.

Le gabbie dorate non le sono mai piaciute. Neanche quella della sua stessa immagine e della fama di star internazionale. Lei che aveva recitato in grandi produzioni mondiali al fianco di attori come Vittorio Gassman (in La donna più bella del mondo, biopic della cantante lirica Lina Cavalieri), Humphrey Bogart, David Niven, Yul Brinner, Anthony Quinn, Rock Hudson, Tony Curtis, Sean Connery, Burt Lancaster e Frank Sinatra. Il quale sul set de Il sacro e il profano la irritava parecchio perché il primo ciak si batteva solo dopo che aveva smaltito la sbronza della sera prima. Neanche nel ruolo della bersagliera verace ma seducente che l’aveva consacrata si era adagiata. Tanto che, dopo il successo di Pane amore e gelosia, sempre con De Sica e Comencini alla regia, aveva rifiutato il terzo episodio della serie, rimpiazzata proprio da Sophia Loren.

Intanto, nel 1957, era nato il primo figlio Milko jr., ma nel 1971 era arrivato anche il divorzio da Skofic, dal quale ormai viveva separata. Nel 2006 annuncia a sorpresa alla rivista Hola! l’intenzione di sposare l’imprenditore spagnolo Javier Rigau, di 34 anni più giovane, dopo una relazione tenuta nascosta per più di vent’anni. Il matrimonio viene effettivamente celebrato, ma successivamente l’attrice denuncia di essere stata vittima di un raggiro, ottenendo l’annullamento dalla Sacra Rota.

Al cinema torna a lavorare per Comencini, dando voce e volto alla Fata dei sogni di Pinocchio. È quella l’ultima grande interpretazione per cui anche i meno giovani ancora la ricordano. Siamo nel 1972. Dopo di allora ha recitato molto meno per il grande schermo, trovando più soddisfazione in alcune serie televisive come Falcon crest e il remake della Romana, diretta da Giuseppe Patroni Griffi, nel ruolo della madre della protagonista, interpretata da Francesca Dellera, con la quale, però, i rapporti furono sempre tesissimi. Al cinema, fa sapere, potrebbe tornare solo se chiamasse Steven Spielberg. Ma le sue passioni ora sono altre. Anche Life e Time magazine ne scoprono il talento di fotografa. Gira l’Italia e il mondo camuffata da eccentrica turista per ritrarre indisturbata gli angoli del Belpaese, i volti dei bambini e dei vecchi dei nostri borghi. Poi arrivano l’amore per la scultura e l’impegno per i poveri che ha incontrato viaggiando come fotografa. Nel 2013 mette all’asta i suoi gioielli personali per raccogliere fondi. Nel 2016 Sergio Mattarella le consegna il David speciale alla carriera.

«Chi non fa niente invecchia prima», dice. E nel settembre scorso annuncia l’estemporanea candidatura nella lista Italia sovrana e popolare che riunisce varie sigle di sinistra tra cui Azione civile, guidata da Antonio Ingroia, suo avvocato. Il mancato raggiungimento della soglia di sbarramento della lista le nega l’elezione. Noi pensiamo che quello che l’ha capita meglio sia Luigi Comencini e preferiamo ricordarla nei panni della bersagliera bella e impertinente o, forse, in quelli della Fata dei sogni di Pinocchio.

 

Per il Celeste meglio il processo in tv che in aula

Ho avuto una vita ricchissima e interessantissima, piena di successi e anche di qualche sconfitta. Ho accettato tutto, perché un uomo maturo deve saperlo fare», dice un Roberto Formigoni riflessivo ma fiero, al termine del documentario a lui dedicato, in onda sul Nove la sera di giovedì 5 gennaio (e disponibile su Discovery+). È un bilancio in chiaroscuro quello che lui stesso fa in coda alla raffica di critiche anche aspre, valutazioni indulgenti e osservazioni problematiche, contenute negli 80 minuti di Il Celeste. Roberto Formigoni. Le tonalità del giudizio ci sono tutte, ma alla fine anche le accuse più dure non cancellano un residuo rispetto dovuto alla percezione di essere davanti a un protagonista della vita pubblica dal carisma non comune. Non era scontato perché, considerato il parterre di oppositori convocati dagli autori (Giulia Cerulli, produttrice e regista, per Videa Next Station, Carmen Vogani, Danilo Chirico, Marco Carta e Lorenzo Avola), si temeva che un’altra requisitoria mediatica si aggiungesse alla già discussa sentenza con la quale la Cassazione ha condannato l’ex governatore della Lombardia per corruzione a 5 anni e dieci mesi e alla confisca dei beni. Dopo i cinque mesi scontati nel carcere di Bollate (a causa della «Spazzacorrotti» voluta dal primo governo Conte, poi dichiarata incostituzionale), dove nel febbraio 2019 si era presentato spontaneamente, Formigoni sta terminando la pena agli arresti domiciliari in una casa di Corso Sempione a Milano, dov’è stato a lungo intervistato e dove lo si vede mangiare da solo, leggere, pregare.

«C’era di mezzo Dio, non so se mi spiego», premette Giuseppe Civati, suo avversario in Regione: «Forse qualcuno pensava anche di esserlo». Parlando del sistema sanitario lombardo, Marco Cappato, radicale e anticlericale scomodo, dice invece che «il conflitto d’interessi era incastrato in ogni ganglio di potere». Completa il reparto dell’accusa Ferruccio Pinotti, giornalista del Corriere della Sera, «esperto di lobby cattoliche e politica», argomento su cui ha prodotto alcuni libri, casualmente ben in vista sulla scrivania. Infatti, la sua acrimonia si concentra più su Comunione e Liberazione, definita «una lobby interessata al potere e al denaro», che applica «un metodo massonico» ed è pronta «a occupare manu militari tutti i posti della dirigenza». Eppure anche «il ficcanaso», com’è presentato, ammette che l’ex governatore «ha accettato una condanna di una certa importanza per gli standard italiani. E ha taciuto, mentre avrebbe potuto far cadere molte teste».

E lui, il Celeste, come si difende? «Negli ultimi tempi ho dovuto subire pesanti ingiustizie… Reati mi sembra di non averne commessi… Ho avuto la fortuna di avere un amico ricco e generoso»». Nel documentario lo vediamo inginocchiato in preghiera con la barba di tre giorni nella basilica di Sant’Ambrogio deserta. Subito dopo sorride compiaciuto mentre accusa le cronache, alcune serie altre che «fanno scappare da ridere». Eccolo nella famosa foto del tuffo dallo yacht del faccendiere Pierangelo Daccò. Quando, ai tempi del Movimento popolare, dice in poche parole cos’è il cristianesimo. Poi ballare con Simona Ventura e Massimo Boldi a Quelli che il calcio. Indossare giacche arancioni e camicie hawaiane («Nelson Mandela ne aveva di bellissime»). In compagnia di Emanuela Talenti, di cui si era invaghito («Gesù dice che il giusto pecca 70 volte al giorno, figuriamoci io che non lo sono»). Situazioni eterogenee e insolite per un appartenente ai Memores domini di Cl che promettono castità, povertà e obbedienza. Situazioni che descrivono una personalità sfaccettata, un mattatore controverso. Lui parla spesso in terza persona e non lesina autostima: «Mi sono candidato in tredici elezioni e in dodici sono arrivato primo, ho strabattuto chi si contrapponeva. Sono stato presidente della Lombardia per vent’anni…», riassume la bacheca dei successi. Don Luigi Giussani, che gli ha cambiato la vita, lo incontra in Cattolica: «Io comincio a notare lui e lui comincia a notare me», dice inavvertitamente.

Dopo la crisi del Sessantotto, Gioventù studentesca diventa Comunione e Liberazione e dopo i referendum persi, si rilancia attraverso il Meeting di Rimini che Formigoni apre e chiude regolarmente («quindi», assicura, «il personaggio più importante del Meeting era Roberto Formigoni»). Nel 1984 viene eletto al Parlamento europeo nelle file della Dc. È ribattezzato Mister preferenze. Ma gli avversari, ricorda David Parenzo, che lo intervistò più volte a Telelombardia, lo definiscono «lo Stalin dei boy scout». Dieci anni dopo, decapitata la Dc da Mani pulite e nato il Ppi, Ignazio La Russa, inviato da Silvio Berlusconi, gli prospetta la presidenza della Regione Lombardia. Inizia la stagione più entusiasmante e controversa del Celeste. Simona Ventura, «governatrice della tv e sua talent-scout televisiva», lo aiuta a darsi un’immagine nazionalpopolare. La sanità diventa il banco di prova della sua rivoluzione. Formigoni si ricandida nel 2000 e nel 2005 e vince con «più del 50% dei consensi. Aveva il controllo totale della Regione Lombardia… Su cento dirigenti, solo due o tre non sono sotto l’influenza della maggioranza» (Civati). «Io ho fissato una regola», ribatte lui, «quando dovete scegliere un dirigente tra un ciellino e un non ciellino scegliete il non ciellino. Non voglio che l’appartenenza a Cl sia un motivo di favore, anzi».

Il 2008 «è l’anno dello sfregio» (Parenzo). Per molti osservatori e per molti esponenti del Polo delle libertà,   è il successore designato del Cavaliere. Il quale, tuttavia, lo stima ma anche lo teme. Il piano comune è che si trasferisca a Roma per puntare alla presidenza del Senato. Dopo che il Pdl stravince le elezioni, sarà invece Renato Schifani a conquistare Palazzo Madama. Nel 2010 Formigoni diventa per la quarta volta presidente della Lombardia. Forse una di troppo. Infatti, il mandato si apre con il caso della consigliera Nicole Minetti, condannata per favoreggiamento della prostituzione. A causa di un’altra inchiesta vengono arrestati due assessori della giunta vicini al governatore. Per il Celeste è tutta una macchinazione. Finché l’indagine sulla clinica Maugeri incentrata su Daccò stringe il cerchio anche attorno a lui. La condanna è per aver «ricevuto 6,6 milioni in vacanze, barche, ville di lusso, finanziamento di elezioni e contanti». La Ventura non molla «chi finisce nella polvere». Per Giancarlo Cesana, ideologo ciellino, «ha pagato le camicie sgargianti, i tuffi dallo yacht, il fatto che gli piacesse un po’ la vita. L’hanno preso e messo nel mirino». Per Parenzo «Formigoni avrà probabilmente una terza vita, un po’ come i gatti che ne hanno sette».

Lui non esclude un ritorno in politica al termine della pena, nella prossima estate. «Intanto aiuto le suore di un istituto nello studio delle lingue», dice. E rovescia sul tavolo lo scatolone delle tante lettere di stima e solidarietà che ha ricevuto in questi anni.

 

La Verità, 3 gennaio 2022

Fiorello fuoriclasse, Zoro e Damilano cartellino rosso

Il peggio e il meglio di un anno vissuto televisivamente. Senza troppe fisime e sicuramente con tante lacune.

 Fiorello 10 (Rai 2)

Fuoriclasse. Animale da show. Direttore che fa orchestra. Vedi l’invenzione di Ruggero «pancia del Paese», la reinvenzione di Fabrizio Biggio, ex solito idiota, il coinvolgimento di Manuela Moreno del Tg2 Post. Gli altri, tutti pronti a passare dal Glass di Via Asiago (con qualche disagio dei residenti). Il capolavoro è la viralità: cura ricostituente per l’intera Rai, partendo da Raiplay e Rai 2 (portata dall’1 al 14%) e sconfinando nei tg, su Rai 1, su Radio Rai. Benefattore.

Alberto Angela 9 (Rai 1)

Master in divulgazione. Si tratti dei tesori di Milano o delle meraviglie di Mont Saint-Michel e di Lisbona, il figlio d’arte incarna lo spirito della tv generalista. La bellezza è attorno a noi, ci circonda e ci precede. Per accorgersene basta lo stupore, la dote dei bambini, e non ci sono target che tengano. Narratore rigenerante, saliscendi sulle scale del racconto alto e basso. Antistress.

Tutto chiede salvezza 8 (Netflix)

Può una serie ambientata nel reparto psichiatrico di un ospedale avvincere come un thriller? Sì, se al centro ci sono le nostre domande fondamentali e le nostre fragilità. E se ci sono buona scrittura e ottima regia, Qualcuno volò sul nido del cuculo insegna. La base è l’autobiografico diario della settimana di Trattamento sanitario obbligatorio di Daniele Mencarelli, la resa cinematografica di Francesco Bruni, uno che ha sempre lavorato con i giovani. Profonda.

Una squadra 8 (Sky)

Docu-serie rivelazione dell’anno, 46 anni dopo la vittoria della Coppa Davis a Santiago del Cile, squaderna aneddoti e retroscena in quantità industriale, alternati a curiosi brani d’archivio. Protagonisti Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti, Tonino Zugarelli: attori naturali loro e sceneggiatura naturale la loro storia. Gli anni Settanta non erano solo di piombo ma anche di terra: rossa come la famosa maglietta dei doppisti. Epica.

Amadeus a Sanremo 7 (Rai 1)

Premio alla professionalità, nell’ultimo Festival ha saputo emanciparsi da Fiorello senza pagare in ascolti e qualità. Il Sanremo tuttifrutti con Achille Lauro, Roberto Saviano e Checco Zalone era perfetto per il governo di quasi unità nazionale. Quando si ha un ventaglio così largo il successo di ascolti è garantito. Da rivedere l’orchestra affidata a «direttori» come Francesca Michielin e il feeling con qualche donna fiera, come Sabrina Ferilli. Medioman.

Fuori dal coro 7 (Rete 4)

Il mio giudizio è sicuramente viziato, ma credo che negli Stati Uniti un conduttore eccentrico come Mario Giordano sarebbe studiato dagli altri media. Invece il perbenismo ci fa alzare il sopracciglio. Meglio il giochino di Bianca Berlinguer con Mauro Corona? O la passerella gauchiste chez Giovanni Floris? Basterebbe l’inchiesta sulle case occupate dagli abusivi per conferirgli uno dei tanti premi di giornalismo che vanno sempre ai soliti. Spettinato.

L’Ora 7 (Canale 5)

Lenta ma seducente, era una serie diversa e forse per questo meritava più coraggio nella promozione. Ispirata da Nostra signora della Necessità (Einaudi) di Giuseppe Sottile, racconta, tra atmosfere dark e cadenze jazz, la lotta senza retorica dei giornalisti del quotidiano palermitano contro le cosche, prima che venisse scritta la parola mafia. Sarà il direttore di quel foglio a stamparla la prima volta. Notturna.

Playlist 7 (Netflix)

La storia di Spotify diventa un gioco di ruolo. Ogni episodio zooma su un protagonista dell’avventura che ha sconvolto il mondo della musica. Quello centrale è il nerd informatico e ultra intransigente che ha l’idea geniale e l’intuizione di contornarsi delle persone giuste. Compreso il tecnico ancora più bravo di lui e l’imprenditore visionario con lieve disturbo della personalità. Un’ascesa entusiasmante, fino a svelare anche tradimenti e cinismi, rovescio della medaglia del successo. Appassionante.

Quarta Repubblica 7 (Canale 5)

Nicola Porro ha il passo della riflessione a lunga gittata. Le interviste one to one (Paolo Scaroni, monsignor Massimo Camisasca…) sono vero approfondimento. La parte di talk non contempla risse e litigi sebbene coinvolga interlocutori molto bipartisan. Qualche volta si apprezzerebbe un pizzico di velocità in più. Comunque, avercene. Equilibrato.

Marco Cattaneo 6 (Dazn)

Uno dei pochi giornalisti sportivi che non se la tira nonostante la competenza. Il suo Sunday night square dopo il posticipo domenicale è un talk senza la gigioneria e l’autoreferenzialità che inquinano alcuni programmi gemelli. Con Massimo Ambrosini e Marco Parolo equilibrio e autorevolezza sono garantiti. Un po’ dimesso lo studio, si potrebbe osare di più. Asciutto.

Amadeus dovunque 5 (Rai 1)

Più di Pippo Baudo e di Carlo Conti nei loro momenti di massimo splendore. Entra nelle nostre case tutte le sere all’ora di cena con I soliti ignoti. Conduce lo show dell’ultimo dell’anno, le serate di revival all’Arena di Verona oltre, inevitabilmente, Sanremo Giovani. Talmente presente da rischiare di diventare un oggetto di arredamento. Ubiquo.

 Lilli Gruber 5 (La7)

Il voto è la media tra l’autorevolezza di ospiti come Massimo Cacciari e Lucio Caracciolo e la faziosità monocorde della conduttrice. Che spesso sconfina in una sorta di punteggiatura, di balbuzie parossistica: ma Salvini… e Salvini… oggi Salvini… ha sentito Salvini… intercalata da: e la Meloni… oggi la Meloni… Il resto, a eccezione della partnership con i colleghi del Fatto quotidiano, è contorno. Rosicante.

Lotta continua 4 (Raiplay e Rai 3)

Tratta da I ragazzi che volevano fare la rivoluzione (Mondadori) di Aldo Cazzullo, la docu-serie è una ricostruzione molto indulgente del periodo che precedette gli anni di piombo e che Erri De Luca chiama «anni di rame». In realtà, l’assassinio del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972) inaugurò la stagione del terrorismo. Tra le tante voci interpellate solo quella di Giampiero Mughini è ragionevolmente critica. La meglio gioventù siamo noi. Autoassolutoria.

Servitore del popolo 4 (La7)

La serie sulla biografia di Volodymyr Zelensky doveva essere l’evento dell’anno… Sembrava interessante il gioco di specchi tra fiction, realtà e politica tanto che il suo partito si chiama come la serie, ignorata a lungo su Netflix prima di essere proposta dalla rete di Urbano Cairo. Forse si poteva prevedere che, essendo la realtà più cruda della finzione, sarebbe presto scivolata nel dimenticatoio. Pleonastica.

Alessandro Cattelan 4 (Rai 2)

Dopo il flop di Da grande su Rai 1 è arrivato il mezzo flop di Stasera c’è Cattelan su Rai 2. Il programma è uguale a Epcc, visto su Sky: interviste a molti amici, giochini, giovanilismo a cascata. Il punto è proprio questo: non aver capito la differenza tra una pay tv digitale e la tv generalista. Doveva essere il David Letterman italiano. Doveva… Un po’ meglio la serie Netflix Una semplice domanda. Eterna promessa.

Il Circolo dei mondiali 4 (Rai 1)

Salottino arcobaleno à côté dei Mondiali di calcio qatarioti. Ci sono la direttrice di Rai Sport specializzata in ciclismo, le vecchie glorie olimpioniche di salto in alto e ginnastica artistica, un giornalista che compulsa i social e una band per gli stacchetti. In collegamento un inviato e un ex calciatore con la barba dovrebbero parlare della partita appena finita tra una gag e l’altra. Braccialetti dei diritti in bella vista. Che noia.

Cristiano Malgioglio 3 (Rai 2)

Difficilmente un titolo è stato più smentito di Mi casa es tu casa. Primo perché Malgioglio parla soprattutto di sé. Poi perché, come certificano gli ascolti, non c’è casa più lontana della sua da quelle degli italiani. Momento cult: Leonardo Pieraccioni che lo bacchetta: «Me l’avevano detto: guarda che lui fa il programma per sé… Ma io ti metto le mani addosso se nun me fai parla’…». Dopo Heather Parisi e Ilona Staller, lo scoop è l’intervista a Mara Venier in una pausa di Domenica in: almeno è costata poco. Carnevalesco.

Marco Damilano e Diego Bianchi senza voto (Rai 3 e La7)

Esempio da manuale di cosa succede quando l’ideologia entra nel giornalismo e l’informazione diventa militante. La nostra tv è piena di conduttori, anchorman e intrattenitori auto-investiti della missione di riparare il mondo e insegnare agli altri a starci. Ma più Propaganda live di così… Inqualificabili dopo l’invenzione di Soumahoro salvatore della sinistra. Anzi, squalificabili (dal video).

 

La Verità, 30 dicembre 2022

 

Fiorello, patrimonio del divertimento italiano

Leggerezza, giocosità, buona musica, invenzione, spensieratezza: dove si trova tutto questo? Nel nuovo show di Rosario Fiorello, intitolato Fiorello presenta, con l’aggiunta del nome della città nella quale va in scena il recital. Venerdì sera è toccato a Padova. Oltre due ore di puro divertimento, concluse con l’intera platea in piedi, prima a ballare e cantare insieme allo showman, poi ad applaudirlo per i saluti finali e richiamarlo al bis. Il Teatro Geox era sold out nei suoi 2500 posti a sedere, tanto che sono state aggiunte nuove date a fine marzo, dopo che la tournée avrà toccato altre città. Sarebbe facile raccontare lo spettacolo citando le battute e i tormentoni, ma vorrebbe dire togliere il piacere della sorpresa ai prossimi spettatori. Gli show saranno sempre diversi, da una città all’altra e la contestualizzazione accentuerà la differenza. Padova, com’è noto, è la città dei «tre senza». Prato della Valle, la piazza senza il prato, il caffè Pedrocchi, senza le porte, il Santo, senza il nome. «Ma ha un con che compensa tutto: lo spritz». Fiorello usa il dialetto alla perfezione nell’intercalare del turpiloquio e di quella grinta un po’ rabbiosa dei veneti, punteggiatura della serata opposta ai Brividi lamentosi di Mahmood.

Tutto, però, è universalmente italiano. Musica, gag, brevi squarci di vita quotidiana, imitazioni volanti, karaoke in giacca color zucca e coda di cavallo, amarcord d’infanzia e di gioventù, improvvisazioni con il pubblico nel quale erano confusi il sindaco Sergio Giordani e Adriano Panatta, infilzato per tutta la sera come una bambolina. Un varietà assoluto, nel senso della versatilità dei linguaggi e delle espressioni. Ma anche nel senso delle varie età cui si rivolge e di cui, con rapido appello, Rosario ha voluto conoscere la diversa rappresentanza in sala. Se ci fosse un organismo deputato a tutelare il patrimonio dell’italico divertimento come l’Unesco sancisce la protezione dei patrimoni dell’umanità, lo showman siciliano andrebbe iscritto per primo in questa speciale categoria. Fiorello è un artista completo, compiuto, perfettamente risolto. Regalare uno spazio di piacere collettivo come ha fatto l’altra sera è qualcosa di unico. Non si tratta solo di evasione, di distrazione di massa. Le problematiche della quotidianità, soprattutto quelle connesse al rapporto tra le generazioni, non sono dimenticate, ma riproposte in chiave comica, paradossale o sull’onda di felici iperboli, con l’esito di sdrammatizzarle. Uno show in cui si parla con delicatezza del tempo che fugge veloce e della morte.

A ben guardare, c’è un’avvertenza sottesa all’intero canovaccio: la giusta distanza dalla politica. Proprio questo, in fondo, dà ariosità e freschezza a tutto lo spettacolo. Siamo persone, molto prima e molto più che militanti di qualcosa, espressione di qualche schieramento. La politica è divisiva e un filo tossica. Fiorello se ne sta alla larga, sfiorandola appena con una rapida citazione della padovana presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati e con la gag innocua dei cloni di cui si servirebbero il presidente Sergio Mattarella, la regina Elisabetta d’Inghilterra e qualche altro vip. Non ci sono manierismi, gne gne salottieri, correttismi dei migliori. Ma joie de vivre, voglia di cantare e ballare, attraversando i decenni e connettendo le generazioni attraverso i generi musicali. Una delle eredità lasciate dall’ultimo Festival di Sanremo è proprio il confronto a distanza tra le diverse età e la difficoltà a intrecciarne i linguaggi. In La musica è cambiata?! (Baldini+Castoldi) lo sostiene anche Mimma Gaspari, storica promoter di Paolo Conte, Gianni Morandi e Renato Zero: i rapper e i trapper di oggi non conoscono e forse nemmeno vogliono conoscere la musica di ieri, la tradizione melodica e il mondo dei cantautori. Fiorello prova a creare questa comunicazione proponendosi come ponte tra universi paralleli, per evitare di rapportarci al rap come i nostri genitori facevano con i Bee Gees. Così I giardini di marzo surfano su una metrica sincopata e Figli di puttana di Blanco prova a trasformarsi in una ballata di Domenico Modugno. Gli Ottanta e i Novanta sono stati decenni fortunati per la fusion, il jazz rock interpretato da musicisti particolarmente talentuosi. Ma Fiorello non compie un’operazione virtuosistica, la sua comunicazione non ha niente di etico e viaggia sulle ali del divertimento, suo e nostro. Se i brani dei rapper contemporanei usano senza sfumature il turpiloquio, Gino Paoli e Tony Renis si divertivano con le metafore e i sottotesti del Cielo in una stanza e di Grande grande grande. Sul sesso non si poteva essere espliciti, eppure il linguaggio era più fresco perché non incombeva il politicamente corretto. Edoardo Vianello poteva cantare I Watussi («Nel continente nero/ Alle falde del Kilimangiaro/ Ci sta un popolo di negri…») che oggi Ghali riproporrebbe in versione urban liofilizzata. Fiorello contamina, divaga, sconfina nella musica classica citando l’Ave Maria di Schubert cantata in latino da chierichetto, fino a proporre un’ispirata versione del Padre nostro sulle note di un brano di Tiziano Ferro. Narra Elvis Presley in vacanza in Italia che si affaccia dalla Torre degli Anziani roteando il bacino e s’imbatte in Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni… Plana sull’adolescenza e la psicologia moderna che raccomanda ai genitori di dialogare senza giudicare per «non minare l’autostima dei figli» anche quando prendono tre nel compito di greco. Seguono gli omaggi senza pose ruffiane a Raffaella Carrà e Franco Battiato, il medley di karaoke, la disco anni Novanta… Tutti in piedi con Ciuri.

 

La Verità, 20 febbraio 2022

Le domande irrisolte di Vitaliano Trevisan

La morte di Vitaliano Trevisan, avvenuta venerdì nella casa di Campodalbero, frazione di Crespadoro (Vicenza), il paesino alle pendici delle Prealpi dove viveva in totale solitudine, è una di quelle situazioni di fronte alle quali bisogna mettere da parte mediazioni, formule e risposte di maniera. Lo richiedono l’inesausta ricerca e la profondità del dolore che hanno impregnato l’esistenza di questo grande autore e drammaturgo, dotato di scrittura e lineamenti spigolosi, smorzati solo dagli occhi color ghiaccio. La penso così: se una persona, che vive in modo radicale il bisogno di un senso, non incontra qualcosa o qualcuno che la sappia abbracciare nella sua totalità, difficilmente scampa alla sofferenza e all’incomprensione. Quando una volta gli chiesi che cosa lo teneva lontano dal suicidio mi rispose: «I farmaci, nel senso ampio del termine».

Considerato uno dei maggiori scrittori italiani dell’ultimo ventennio, Trevisan fu scoperto a fine anni Novanta da Giulio Mozzi che trovò negli scaffali di una libreria il suo Trio senza pianoforte – Oscillazioni, antologia di racconti pubblicata da un piccolo editore vicentino. Fu Mozzi a far uscire da Theoria Un mondo meraviglioso e poi a spedire il manoscritto dei Quindicimila passi – Un resoconto a Einaudi che offrì il primo contratto a quell’autore semisconosciuto. Nella storia di Thomas, omaggio a Bernhard, con la quale Trevisan vinse il premio Lo Straniero e il Campiello Francia, si dispiega la ribellione all’educazione cattolica e al perbenismo della provincia italiana. Sono temi che ritorneranno in Tristissimi giardini (Laterza) e soprattutto nel bellissimo e torrenziale Works, (Einaudi), 660 pagine concluse da una frase con la quale si prende gioco delle formule vigenti: «Tutto ciò che può incriminarmi è frutto d’invenzione». Più che un’autobiografia, Works «è un mémoire centrato sul tema del lavoro» che squaderna i tanti mestieri provati – geometra, cameriere, lattoniere, gelataio in Germania, costruttore di barche a vela, spacciatore di fumo, portiere di notte – prima di consacrarsi interamente alla scrittura per la narrativa, il cinema e il teatro.

Anarchico e allergico a tutte le chiese, Trevisan è stato una smentita vivente delle favole consolatorie che ci raccontiamo quotidianamente sui media. Il Nordest florido e ottimista. La letteratura come impegno civile per riparare gli umani e il mondo. La comunità intellettuale elevata a guida dei ceti medi riflessivi dai salotti tele-editoriali. Sceneggiatore e attore di Primo amore, diretto da Matteo Garrone, autore di Il lavoro rende liberi e Oscillazioni, interpretati a teatro da Toni Servillo, non si lascia bene con entrambi: «Avevano degli ego troppo grandi per me». Meglio va con Andrée Ruth Shammah e Alessandro Haber, che portano in tournée il suo Una notte in Tunisia, e con Roberto Herlitzka e Anna Paiato. Un fatto è certo, Trevisan non opera ipocrite separazioni tra vita e letteratura, tra esistenza e arte.

Gli faranno l’autopsia e si potrebbero avere conferme, come molti temiamo, che la sua fine sia dovuta a un gesto estremo, contraddizione lacerante del nome che portava: «È un nome che deriva dal greco <colui che dà la vita>», mi rivelò, «e mia madre me lo diede perché si era appassionata a un personaggio di un film sull’antica Roma che si chiamava così». Parlando di lui, Ferdinando Camon disse: Trevisan è uno che ha domande troppo acute, troppo alte, per restare in piedi, in equilibrio, su una base piccola e stretta. Nell’incipit di Black Tulips, il romanzo che uscirà postumo da Einaudi, scrive: «… Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un’arte – arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere – è trattenere un frammento per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio. No, non sempre; comunque». Equilibrio faticoso, precario, instabile. Equilibrio come sopravvivenza, come non soccombenza. Non certo equilibrio perbenista e conformista, il più lontano da lui.

Sbandate, deragliamenti, ricoveri in psichiatria, rapporti affettivi torbidi e tormentati. Come quello con l’ultima compagna che, non si è capito bene perché, nell’ottobre scorso lo aveva fatto internare con un Aso (Accertamento sanitario obbligatorio) nel reparto psichiatrico di Montecchio Maggiore (Vicenza). Dov’ero andato a trovarlo per poi raccontare su questo giornale il forte disagio e lo stato di prostrazione in cui versava. Fortunatamente, quella reclusione non si era prolungata. Una volta tornato a Crespadoro l’aveva condivisa in un drammatico reportage su Repubblica. E aveva poi ripreso a postare su Facebook malinconici frammenti della sua quotidianità. Non si hanno notizie di lettere o messaggi di addio ritrovati vicino al suo corpo senza vita. Qualcuno però ha ricordato un passaggio del suo Una notte in Tunisia: «Docili, su un fianco come gli animali, è così che si dovrebbe morire, senza lamentarsi, senza darsi troppo pensiero».

 

La Verità, 9 gennaio 2022

 

A parziale integrazione di questo articolo va aggiunto che nella casa di Campodalbero i carabinieri hanno trovato un biglietto d’addio di Vitaliano Trevisan che conferma il gesto volontario: «Sono stanco e non ne posso più. Nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla».

Addio alla Carrà, Grande Sorella Televisione

Raffaella Carrà, che ieri a 78 anni ci ha lasciati a causa di un male di cui pochi sapevano, trasferendosi «in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre» (Sergio Japino, annunciandone la morte), è stata una di quelle persone, rare anche nel mondo dello spettacolo, nelle quali, per una felice congiunzione degli astri, si combinano armonicamente virtù e doti che solitamente confliggono tra loro. È il tocco lieve della natura, l’impronta della grazia. Se si riflette sui doni di tanti artisti, si scopre che gran parte di loro esprimono un carattere originale, favorito da sensibilità e doni particolari e perciò rivolti a platee più raffinate o, al contrario, a pubblici più popolari. Raffaella Carrà, vero nome Raffaella Maria Roberta Pelloni, era invece l’artista di tutti. Una star globale, si potrebbe dire. Una figura universale, in grado di abbracciare l’audience più larga e composita. Nazionalpopolare e raffinata. Showgirl intelligente. Energia travolgente ma equilibrata. Ballerina, cantante, presentatrice, attrice, perfetta per i musical, mosse i primi passi con Lelio Luttazzi e con Domenico Modugno. È passata da Hollywood respingendo Frank Sinatra («Non volevo essere la pupa del gangster»). Icona pop, amata dai gay. La risata larga e contagiosa. Il caschetto biondo che si rovescia all’indietro. Il body glitterato. Il ballo trascinante, spesso su motivi orecchiabili. Ma che musica, maestro, Rumore, Com’è bello far l’amore da Trieste in giù, Ballo, ballo. Una presenza entrata nell’immaginario italiano, e non solo, senza mai diventare eccessiva. «Ho più paura che la gente dica: “Ancora lei!”, piuttosto che: “Dov’è andata a finire?”». All’opposto di Pippo Baudo pensava che dalla televisione bisognava saper stare lontano. Bisognava anche solo guardarla. E guardare la gente per strada, per capire meglio chi sono quelli che schiacciano i tasti del telecomando e alla fine devono scegliere te, tra tante opzioni. E così, dosandosi, sapendo sparire per anni, anche aiutata dall’ansia di prestazione (come Fiorello) e dal timore di non riuscire a mantenere i suoi standard di successo, ma poi ritornando senza però mai invadere stucchevolmente i media, riservata e persino timida, lontana dalla mondanità sebbene protagonista di storie d’amore importanti con Gianni Boncompagni e Japino, Raffa è entrata nell’album di famiglia. Compagna divertente ma sobria. Presenza affidabile. Donna che non tradisce. Una garanzia per decenni. Grande sorella della televisione: Canzonissima, Milleluci, Fantastico, Carràmba, Sanremo

Aveva vent’anni quando si presentò a un provino davanti a un compiaciuto dirigente: «Lei è fortunata. La vede quella scalinata? La scenderà ogni settimana con un abito meraviglioso e una benda sugli occhi. Nell’ultima puntata se la toglierà per annunciare i premi della Lotteria Italia». Lei lo guardò e replicò: «Grazie, ma odio le scale, in giro ci sono almeno ottomila ragazze più belle di me e questa cosa può farla chiunque. Lei forse non lo sa, ma io sono bravissima». Era questo il piglio molto emiliano di una ragazza cresciuta tra Bologna e Bellaria, nella gelateria della nonna, con una madre energica e precocemente separata. «La vita è una partita a carte e a me piace avere il mazzo in mano», rivelò in una delle ultime interviste a Malcom Pagani di Vanity Fair. Ma lei era tutto meno che la fiera delle vanità. Piuttosto: lavoro, applicazione, volontà. Da coreografa che voleva diventare s’impose come ballerina. Nel 1971, una delle prime edizioni di Canzonissima, dopo un paio di puntate il Tuca tuca con Enzo Paolo Turchi fu censurato dalla Rai. Ci volle Alberto Sordi per sdoganarlo e far ricredere anche l’Osservatore romano che aveva puntato il dito. E l’immagine dell’Albertone nazionale che le sfiora giocosamente l’ombelico è tra i fotogrammi della memoria di chi non è più giovanissimo. In un Fantastico di vent’anni dopo toccò a Roberto Benigni violare un altro tabù con la celebre scena della «patonza». Raffa stava al gioco borderline sempre con autoironia e senza mai essere volgare. Era stata confidente delle casalinghe, complice delle donne e delle massaie con quel Pronto, Raffaella? che, inventato da Boncompagni, all’inizio degli anni Ottanta aveva inaugurato la tv di mezzogiorno. Prima c’era il telescopio, adesso milioni di telespettatori erano catalizzati nel tentativo d’indovinare quanti fagioli conteneva quel vaso trasparente. Una telesagra paesana, forse. Ma anche qui, la Carrà stava al gioco senza darsi importanza, un’italiana come noi. Continuò a esserlo anche dopo la parentesi in Mediaset (allora Fininvest), un paio d’anni prima di tornare in Rai. Ma soprattutto, prima di ricominciare in Spagna. Dove scoprì il format di Carràmba!, i ricongiungimenti familiari che la fecero sciogliere in lacrime e, con lei, milioni di telespettatori che la seguivano il sabato sera. Era stato Japino a segnalarglielo, ma fu Brando Giordani, allora direttore di Rai 1, a toccare le corde giuste e convincerla, facendo incazzare il suo compagno. Ebbe grandi ospiti e grandi ascolti, nonostante un certo snobismo della critica, che la adombrò: si ricorda molto di più una critica cattiva e gratuita che un bel complimento. E ancor più si ricordano certi attacchi feroci. Come quando, a proposito della storia con Japino, di dieci anni più giovane, ci fu chi scrisse: «La bella incontra la bestia». «Furono cattivi, anzi mostruosi». Però, niente: volontà, applicazione e lavoro. Non era tipo da farsi troppi problemi nemmeno di fronte alle avance di dirigenti e produttori: la cura Carrà ara «lo smataflone, detto in bolognese. Un sonoro ceffone capace di smontare ogni ardore di sopraffazione sessuale». Quando Paolo Sorrentino le chiese il permesso di usare A far l’amore comincia tu per La grande bellezza era scettica. «Pensavo ai soliti 20 secondi in un film commerciale, non avevo capito si trattasse di Sorrentino». Ma poi quando il film vinse l’Oscar «ero gonfia come un pavone».

Quando una volta chiesero a Fruttero e Lucentini se Gabriele D’Annunzio sarebbe andato ospite della Carrà risposero: «Sarebbe lui la Carrà!».

 

La Verità, 6 luglio 2021

Anziani, cisgender, virologi Parolario del 2020

Il 2020, il più tragico bisestile dell’ultimo secolo, sarà ricordato come l’anno della pandemia, della nascita del movimento Black Lives Matter, delle morti di Diego Armando Maradona e di Paolo Rossi. Difficile che il parolario che lo riassume possa essere molto spensierato. Anche perché, alle tragedie vere, si aggiunge quella artificiale del politicamente corretto, nemico del buon senso.

 Anziani. Non è un paese per… Vecchi è troppo dispregiativo. Come ha scritto Ferdinando Camon in A ottant’anni se non muori t’ammazzano, nelle terapie intensive i medici sono indotti a scegliere morti più accettabili di altre. In generale, i vecchi sono messi al margine e accompagnati soavemente all’uscita. Ora a fare il lavoro sporco c’è il virus: l’età media dei decessi è 81 anni. Chiamati anziani, trattati da vecchi. Neolingua di George Orwell.

 App. Abbreviazione di applicazione che, a sua volta deriva da Apple… Anzi no, ma quasi. Apple, infatti, significa mela e avendone scelta per logo una morsicata, il marchio di Cupertino sbandiera il peccato originale. Quello mortale delle app «Immuni» e «Io», volute dal governo ancora in carica, è che t’infilano in un ginepraio districabile solo con l’ausilio di un tecnico della Nasa. Cashback o Crashback?

Balconi. Luogo di resistenza collettiva o solitaria durante il primo confinamento. Misto di folclore e conformismo colorito di bandiere arcobaleno, Andràtuttobene, Fratelli d’Italia e altri inni, non sempre nazionali. Desolatamente vuoti nella seconda ondata.

Bancoscontri. Ovvero i famigerati banchi a rotelle voluti dal ministro Lucia Azzolina. Plastico esempio del distacco dalla realtà del governo tuttora in carica. Dovrebbero servire al distanziamento tra gli alunni, ma arrivano fuori tempo massimo. Normali banchi monoposto pronti all’uso sono meno coreografici.

Black Lives Matter. Movimento nato in America dopo la morte di George Perry Floyd procurata da un poliziotto di Minneapolis. Il fatto suscita giusta indignazione in tutto il mondo. Negli Stati uniti il Black Lives Matter origina un secondo movimento, denominato Cancel culture, la cancellazione anche retroattiva di persone e realtà ritenute ostili alle minoranze di razza e di genere. Tra i suoi esiti l’abbattimento delle statue di Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt, l’eliminazione dagli archivi delle piattaforme streaming di Via col vento e l’epurazione dalle testate liberal dei giornalisti non allineati. In Svizzera l’azienda dolciaria Dobler cessa la vendita degli storici Moretti. Tragicomica senza riparo.

Cisgender. Neologismo inserito nell’aggiornamento del dizionario Devoto Oli. Indica quegli stravaganti esseri umani che, crescendo, confermano il sesso della nascita. Uomini che si sentono maschi e donne che si sentono femmine. Grazie alla cultura gender e alla narrazione arcobaleno, il mantenimento del sesso originale diventa una delle infinite varianti. In questi casi l’inglese viene sempre in soccorso.

 Crisi. Di governo. Ciclicamente evocata, minacciata, infine posticipata. Raramente paventata in modo meno credibile. Con l’epidemia in corso e la vaccinazione in arrivo non si può certo andare a votare. Per i partner di governo incollati alle poltrone dal terror panico della non rielezione e del successo del centrodestra l’alibi è perfetto. Vedi rimpasto.

Decrescita. Fiaba narrata da qualche pifferaio magico in disarmo che, tuttavia, ammalia frotte di politici dotati d’istruzione in modica quantità. Abbinata all’aggettivo «felice» forma l’ossimoro meno componibile del Terzo millennio. Lingua delle favole.

Discoteche. Luoghi del male. Focolai della seconda ondata. Quelle della Costa Smeralda, in particolare. Il Billionaire e i suoi gemelli. Per dire, nelle discoteche del Salento è filato tutto liscio. Ma in Puglia non c’è Flavio Briatore. E soprattutto a settembre ci sono le regionali.

Dpcm. Decreto del presidente del consiglio dei ministri. Uno dei tanti acronimi di cui consiste la comunicazione del governo in carica. Che di solito si estrinseca nel «Casalino show», format ordito dal portavoce di Palazzo Chigi nel quale il premier dovrebbe annunciare le prescrizioni per i cittadini, ma poi risponde alle domande sulle cene con la sua fidanzata. La decodifica delle norme è il sinistro rompicapo delle festività. Lingua della supercazzola.

Ecosostenibile. Parola magica che apre ogni porta. Secondo il verbo, condiviso anche da papa Bergoglio, del premio Nobel mancato Greta Thunberg, qualsiasi creazione, da una linea dell’Alta velocità a una pagnotta casalinga, dev’essere tassativamente ecosostenibile o almeno «bio». Ecologia nuova religione universale.

Ferragnez. Un tempo si sarebbe scritto Ferragni & Fedez. Ditta di influencer, fuoriclasse del marketing. La legge del privato che è pubblico non risparmia il di loro pargoletto. Versando 100.000 euro, avviano una raccolta fondi a sostegno del reparto di terapia intensiva del San Raffaele di Milano. Premiati con l’Ambrogino d’oro. Lui scivola nella beneficenza esibita filmandosi in Lamborghini mentre distribuisce 5.000 euro a 5 sconosciuti. Crasi milionaria e furbetta.

Giganti. Del web. Trionfatori della lotteria della pandemia. Chiusi in casa, siamo perennemente connessi. Tutto avviene online. Mentre il Pil mondiale crolla del 10% le 90 maggiori aziende dell’informatica aumentano il profitto di 800 miliardi. Pagando le tasse nei paradisi fiscali.

Inglaliano. O italiese. Lingua della quotidianità, misto di italiano e inglese. Ma non c’è integrazione perché, mentre la popolazione continua a usare l’italiano, il Palazzo comunica british. Sembra che dette così – Task force, Green New Deal, Recovery fund, Cashback, Next Generation Eu – siano realtà di simultanea realizzazione. Ma l’inglese non è la bacchetta magica di Harry Potter. Infatti lentezze, cavilli, conflitti interpretativi, burocrazie, ponti che crollano e vaffa sono sempre in italiano.

Involtini. Primavera. Addentati in favor di telecamera da alcuni conduttori di La7. Il nemico da sconfiggere è il razzismo anticinese, non il virus. Prelibatezza esotica per paladini della correttezza politica.

Mascherina. Dispositivo salvavita. Ora. All’inizio dell’epidemia è ritenuto inutile anche da certi soloni dell’Oms. Nel febbraio scorso ne abbiamo spedite gratuitamente parecchie tonnellate in Cina. Salvo poi cercarle invano quando sono divenute imprescindibili.

Negazionisti. Fino al 2019 erano coloro che negavano l’Olocausto. Con la comparsa del Covid sono anche le frange di complottardi no-mask e teorici da «è tutta una montatura». In ritirata dopo la seconda ondata. L’anatema viene riciclato contro chi eccepisce sulla gestione dell’emergenza.

Paura. Da emozione infantile e da film horror a sentimento planetario. Se non si trasforma in panico può essere salutare, suggerendo prudenza. A volte produce effetti collaterali positivi, come per il governo tuttora bizzarramente in carica, non a caso ribattezzato il governo delle tre paure: del Covid, di perdere la cadrega, dell’uomo nero Salvini. Fumetto dark.

Primula. È la forma dei gazebi dove sarà somministrato il vaccino. Un fiore di color ciclamino(?) ornerà i presidi per l’immunizzazione. Come nel caso dei banchi a rotelle, dei monopattini e delle app, il governo giallorosso tiene molto all’estetica. Si spera che sotto le primule si trovino anche le siringhe e le celle frigorifere.

Rimpasto. Rimpastino. Riassetto. Verifica. Tagliando. Adeguamento. Cambio di passo. Allargamento della squadra. Con il ritorno del teatrino della politica e del governo di palazzo si è rispolverato l’intero vocabolario della Prima repubblica. Tornano anche i pontieri, i tessitori, gli sherpa, i consigliori e i sussurratori come Goffredo Bettini e Gianni Letta. Rimpasti, rimpastini, rimpastati. Lessi, bolliti e ribolliti.

Sardine. Assembramento antisalviniano. Movimento detentore del record mondiale di anacronismo. Desaparecido.

Sessismo. Anatema intermittente a seconda dei soggetti coinvolti. Confronta il trattamento subito da Mauro Corona dopo il «taci gallina!» rivolto a Bianca Berlinguer nella concitazione di #cartabianca con quello avuto da Luciana Littizzetto per il pezzo su Wanda Nara nuda a cavallo che ha suscitato la domanda «il pomello della sella dov’è finito?». I buoni fanno satira e hanno sempre carta bianca.

Stati generali. Nel clima da Rivoluzione francese in cui ci ha catapultato il governo curiosamente in carica, politici, banchieri ed eurocrati sono stati convocati a Villa Pamphilj per «progettare il rilancio» del Paese. Per le indagini sulla scomparsa del piano redatto da Vittorio Colao è stata creata una task force che include Indiana Jones, Ultimo e Federica Sciarelli.

Task force. Organismo affiancato ai vari ministeri per velocizzare l’applicazione dei rispettivi programmi. In realtà, generatore di burocrazie parallele e nuove clientele. Teoricamente significa unità operativa, in pratica è causa d’inestricabili conflitti amministrativi. Ne servirà una nuova per coordinarle tutte?

Virologi. Neosacerdoti del Comitato di salute pubblica. Brancolano nel buio come gli investigatori, ma pontificano come oracoli. C’è il talebano della chiusura totale, il profeta delle ondate, il pasdaran dei tamponi, l’oltranzista del virus sconfitto. La pandemia trascolora in commedia dell’arte. E adotta la lingua di Totò quando il ministro degli Esteri, possibile futuro premier, parla di «vairus». La farsa continua.

 

Panorama, 20 dicembre 2020 (versione integrale)

Il cinema metallico e democratico di Eastwood

C’è del metallo nel cinema di Clint Eastwood. Non la colt nascosta sotto il poncho del cacciatore di taglie di Per un pungo di dollari. Un altro genere di metallo: un’anima misteriosa, una rettitudine solida. C’era in quello Straniero senza nome. C’era poi nel ruvido ispettore Callaghan. E c’è nel suo cinema di oggi, da regista con la cifra dell’identità e di una certa gerarchia. La cifra dell’America profonda ma non solo, in cui il senso di giustizia e il rispetto dei deboli hanno il ruolo da protagonista.

Per capire chi è veramente Clint Eastwood che il 31 maggio compirà novant’anni, bisogna ripartire dal divorzio da Sergio Leone, l’autore della Trilogia del dollaro alla quale deve l’improvvisa fama mondiale dopo un nugolo di ruoli irrilevanti. Leone non parlava bene dell’attore Eastwood e Eastwood non esaltava il cineasta Leone. «È un blocco di marmo», scrisse il regista in una rivista specializzata, un attore che aveva due espressioni, con e senza sigaro. Eastwood invece, che non era soddisfatto della valorizzazione delle sue interpretazioni, voleva contare nella confezione dei film. Suggeriva spunti, abbozzava inquadrature. Da subito, recitava pensandosi dietro la cinepresa, dirigendosi e dirigendo. Ma Leone, confidò l’attore allo scrittore Stuart Kaminsky, «non mi ha mai riconosciuto alcun contributo stilistico ai film realizzati insieme». Clint non capiva l’italiano, Sergio non sapeva l’inglese. Ma, seppure in quella situazione, il cow boy col poncho divenne subito un archetipo, un’icona flemmatica di giusto vincente e taciturno. Merito anche del doppiaggio di Enrico Maria Salerno che gli regalò quella parlata lenta e monocorde. Un modello di recitazione per sottrazione, si dice oggi. A metà degli anni Sessanta, tra la fine del boom economico dominato dalla leggerezza del beat, e i prodromi del Sessantotto, già intrisi di verbosità ideologica tutti volevamo essere quello Straniero senza nome. Controcorrente da subito, Eastwood non rideva mai e parlava poco.

Con quelle premesse il cineasta e il suo attore feticcio non potevano che separarsi. Clint rifiutò di recitare in C’era una volta il west la parte che divenne di Charles Bronson e declinò anche l’offerta di un ruolo minore in C’era una volta in America. Leone adoperava la sintassi dell’epica, della grande allegoria, sottolineata dalle colonne sonore di Ennio Morricone. Eastwood voleva raccontare piccole storie, uomini di tutti i giorni. Le strade biforcarono e la stagione dell’ispettore Callaghan, in qualche modo prosecuzione del bounty killer col sigaro, ne consolidò il tratto controcorrente in anni di ribellione incondizionata a qualsiasi accenno d’ordine.

Alla scuola di Don Siegel, che invece i crediti glieli concesse, il lungo apprendistato dell’Eastwood regista era però finito. Nella sua testa aveva germogliato un cinema trattenuto come la sua recitazione e asciutto come il metallo anche a causa dei budget per scelta contenuti. Un cinema che ha nello spettatore il suo principe e che sa stare alla larga da tentazioni esegetiche. Un cinema nel quale i vuoti del non detto sono riempiti dall’immaginazione di un pubblico adulto e rispettato. Un cinema poco amato da gran parte della critica intellettuale al di qua e al di là dell’Atlantico. Ma un cinema democratico e anticonformista, libero dai manierismi e dalle mode hollywoodiane o dal sussiego autoriale. Proprio «autore» è una definizione che non ha mai convinto Eastwood, preferendo egli considerarsi «forza trainante» della squadra. Al punto che in testa ai suoi film non compare mai il suo nome, ma quello della casa di produzione: «Un film della Malpaso company», «Una produzione Malpaso».

«A me piacciono le storie», ebbe a dire una volta conversando con il critico Christopher Frayling. E con quella sottolineatura aveva spiegato tutto. Se si eccettuano Bird, omaggio a Charlie Parker, leggendario jazzista che ha segnato la sua formazione, J. Edgar, sulla figura del controverso capo dell’Fbi Hoover, e Invictus su Nelson Mandela, una pellicola più di Morgan Freeman che di Eastwood, nella cinematografia post Callaghan c’è sempre l’uomo comune al centro. I tre ragazzi di Mystic River, la cameriera boxeur e lo scorbutico allenatore di Million Dollar Baby, il misantropo reduce di guerra di Gran Torino, il cecchino infallibile e tormentato di American sniper, il coscienzioso pilota di Sully che salvò miracolosamente i passeggeri ma fu processato perché distrusse l’aereo, l’anziano corriere della droga di The Mule: tutte storie di persone ordinarie, spesso tratte dalla cronaca. Come nel caso dell’ultimo, bellissimo, Richard Jewell, la storia del vigilante imbranato che, zelantissimo al punto da essere sempre snobbato dai colleghi, sventò un attentato alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, salvando un centinaio di persone. Un eroe presto tramutato in colpevole perché rispondente agli stereotipi degli inquirenti. Una storia reale, esemplare, significativa. Narrata senza sbavature, con quel metallo dentro, la materia semplice di un’etica non enfatica. Forse appena di una certa dirittura umana. Dove il quotidiano diventa eroico e l’eroico quotidiano.

 

La Verità, 28 maggio 2020